Autore: Sergio Pelaia

  • Dema fa il rivoluzionario e poi flirta con la “Buona destra”

    Dema fa il rivoluzionario e poi flirta con la “Buona destra”

    «Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra». La frase è dello scrittore francese Serge Quadruppani ed è citata in un datato ma interessante articolo scritto da Wu Ming 1 sul blog del collettivo di scrittura diventato un punto di riferimento per la sinistra radicale italiana. Per indagare a quale dei due modi appartenga il non essere né di destra né di sinistra dell’ex pm Luigi de Magistris non vale la pena scomodare Norberto Bobbio e nemmeno Giorgio Gaber.

    Può però essere interessante mettere insieme un po’ di fatti e dichiarazioni. E misurare, ognuno col proprio metro di giudizio, quanto sia ascrivibile alla categoria della paraculata politica ammiccare un po’ di qua e un po’ di là. O se, invece, sia giusto superare le categorie tradizionali per parlare alle persone al di là delle appartenenze.

    Liste rosse

    Il dato di fatto è uno: le liste che sostengono la corsa di de Magistris alla Regione sono piene di gente di sinistra. Ma di sinistra sinistra, che rivendica orgogliosamente non solo l’appartenenza ma anche una militanza vera che – va dato atto a molti di loro – sui territori si fa, proprio fisicamente, sempre più difficile. Non solo la lista di Mimì Lucano – così lo chiama, e non Mimmo, chi lo conosce da prima che diventasse una star e che venisse travolto dall’inchiesta della Procura di Locri – ne è piena. Lo è anche il movimento “Calabria resistente e solidale” che raccoglie molta Rifondazione comunista e buona parte di Potere al popolo. E pure quelle direttamente riferibili all’aspirante presidente sono zeppe di chi non ha timore a dichiararsi di sinistra.

    Uno di questi, per esempio, è il reggino Saverio Pazzano, apprezzato esponente di quella società civile impegnata in politica che qualche tempo fa, in riferimento alle elezioni comunali della sua città, scriveva: «Se fossi di destra – e non lo sono –, vorrei capire che significa dire “né di destra né di sinistra”. Perché, se è giusto e comprensibile che lo pensi un cittadino, sarei preoccupato se lo dicesse un amministratore. Un conto è il dialogo con tutte e tutti, un conto è non avere un’identità politica e stare esposto al vento degli accordi e delle convenienze».

    Una nuova declinazione

    Lo stesso de Magistris, intervistato dall’agenzia Dire il 23 gennaio 2018, espresse – erano prossime le elezioni politiche – pubblico apprezzamento per la lista di Potere al Popolo. Per essere più aggiornati, e andare proprio all’oggi (in senso letterale), è di questa mattina l’annunciata partecipazione all’incontro pubblico “Problemi territoriali, malapolitica, sanità” organizzato dal circolo “Antonio Gramsci” di Carolei. L’appartenenza di de Magistris al campo della sinistra ha però assunto una nuova declinazione proprio con l’avvio della sua campagna elettorale calabrese.

    Voti da destra

    A febbraio di quest’anno, in diretta a Tagadà su La 7, se ne sono scorti i primi segnali: «Io sono un uomo di sinistra che parla alle calabresi e ai calabresi. La nostra è una candidatura di alternativa al consociativismo che finora ha governato nei decenni la Calabria. Ci rivolgiamo a tutti, con una coalizione civica che ora si sta allargando sempre di più, c’è grande entusiasmo. Ci rivolgiamo a elettrici e a elettori che stanno tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra».

    Gli interventi di questi mesi hanno confermato l’andazzo. Intervista al Manifesto, 29 gennaio 2021: «La mia è una candidatura alternativa a quel ceto di destra e di sinistra che ha depredato una regione». E ancora: «Il mio è un discorso indirizzato a tutti i calabresi, senza recinti o gabbie».

    Intervista alla Gazzetta del Sud, 2 settembre: «Noi non abbiamo residenza nel campo del centrosinistra, abbiamo fondato un Polo civico e popolare». E giù a polarizzare: «Mi pare che in campo ci siano due schieramenti: da una parte Occhiuto-Bruni e i loro trasversalismi, dall’altra parte noi».

    Da una Napoli all’altra

    Di pari passo sono andati gli ammiccamenti anche a una “certa” destra. È noto l’appoggio di Angela Napoli, cinque legislature in Parlamento e un percorso politico all’insegna dell’intransigenza legalitaria iniziato con l’Msi. In un’intervista al Quotidiano del Sud il 7 agosto Napoli spiega: «Lo conosco da quand’era magistrato a Catanzaro e fin da allora ho sposato le sue inchieste. Eravamo amici e lo siamo ancora oggi. So che è di sinistra, le mie idee sono differenti, ma ci sono valori comuni che vanno al di là».

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    Luigi de Magistris e Angela Napoli posano insieme a un candidato durante un’iniziativa elettorale

    Il 9 settembre arriva l’appoggio ufficiale del movimento “Buona destra”: «Bisogna operare scelte decisive e schierarsi con quelle forze sane, che presentino Uomini e Progetti che militino dalla parte della Legalità, della Competenza, del Merito. Formulare Patti Civici che siano fondati sulla Professionalità e non sull’interesse, che provengano dal “basso”, dalla Società Civile e non dalle ville lombarde o, ancora peggio, dai salotti romani. Per questi motivi, senza ombra di dubbio, ci schieriamo ‘Apertis Verbis’ con Luigi De Magistris, a cui riconosciamo: Coerenza, Impegno, e Capacità di Governo».

    Contro il populismo a elezioni alterne

    “Buona destra” è un partito, già centro studi, fondato da Filippo Rossi, giornalista e ideologo di Gianfranco Fini ai tempi di Futuro e Libertà. Le sue idee si rifanno a una destra repubblicana, antisovranista, contro gli estremismi, europeista, liberale ma che non nasconde il suo sguardo conservatore. «Autorevole ma non autoritaria, in grado di dare risposte concrete senza semplificare la realtà in italiani e stranieri, “onesti” e corrotti», si legge nella descrizione del libro di Rossi “Dalla parte di Jekyll: Manifesto per una buona destra”).

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    Filippo Rossi, ex ideologo di Gianfranco Fini

    Il suo manifesto prevede, tra le altre cose, di «contrastare il “Partito Unico della Spesa” che da destra a sinistra insegue demagogicamente gli elettori», di «difendere e servire sempre i diritti e mai i privilegi e rifuggire la demagogia, il populismo e il sovranismo ingannevoli e strumentali», di «chiarire che il sacro dovere di salvare vite umane in mare non coincide con il dovere dell’accoglienza sempre e comunque». Alle Comunali di Roma è stato reso noto il sostegno di “Buona destra” a Carlo Calenda.

    I dubbi da sinistra

    Ora, può essere utile magari interrogarsi su cosa pensino Lucano o i tanti rifondaroli dell’approccio “oltre” la destra e la sinistra di de Magistris. Ma visto che nel discorso sulla contestata doppiezza politico-morale dell’ex pm ricorre spesso anche la contrapposizione giustizialismo/garantismo, aggiunge certamente un valido elemento di riflessione l’opinione che un altro magistrato non certo di destra – è esponente di Magistratura democratica – ha espresso circa la campagna calabrese del sindaco di Napoli.

    Emilio Sirianni, in passato incolpato dal Ministero della giustizia (e poi assolto dalla sezione disciplinare del Csm) per aver dato consigli proprio all’ex sindaco di Riace mentre questi era sottoposto a indagini, nei mesi scorsi ha scritto di de Magistris: «Che un simile campione possa essere acclamato da politici di destra, più o meno camuffati, non stupisce. Ma la possibilità che possa esserlo anche a sinistra, atterrisce».

  • Pd pulp, colpi bassi e intrecci nella Calabria di mezzo

    Pd pulp, colpi bassi e intrecci nella Calabria di mezzo

    Dalle narrazioni non ufficiali della notte dei lunghi coltelli vissuta dal Pd catanzarese tra venerdì e sabato emerge uno spaccato inquietante. L’introduzione delle quote rosa ha fatto sì che tre posti, sugli 8 disponibili nel collegio Centro (Catanzaro-Crotone-Vibo), fossero blindati: Aquila Villella, Annagiulia Caiazza, Giusy Iemma.

    Posto sicuro anche per un consigliere uscente (Luigi Tassone) e per due che si erano candidati ma non ce l’avevano fatta a gennaio 2020 (Fabio Guerriero e Raffaele Mammoliti). Restavano due posti, ma se li contendevano tre maschietti: il sindaco di Soverato Ernesto Alecci (in realtà a garanzia del suo posto c’era l’appartenenza a “Base riformista”, la corrente di Luca Lotti), l’ex presidente della Provincia Enzo Bruno, l’uscente Francesco Pitaro.

    Ernesto Alecci, sindaco di Soverato

    Quest’ultimo è entrato in Consiglio regionale con Pippo Callipo, ha fatto quasi tutto lo scorcio di legislatura col Misto e qualche settimana fa si era avvicinato al Pd, forte di un accordo con i vertici provinciali. Apriti cielo. Guerriero ha minacciato di ritirare la candidatura, Alecci pure, Bruno di uscire dal partito. Alla fine sono cadute le teste di Bruno e Pitaro, il posto conteso per uscire dall’impasse lo ha occupato il segretario provinciale Gianluca Cuda e le due “vittime” hanno subito dato sfogo a reazioni al vetriolo.

     

    Lo sfogo di Bruno

    L’ex presidente della Provincia ha parlato di «logiche poco trasparenti, perverse e poco rispettose della comunità democratica». Poi con un certo sprezzo del ridicolo ha fatto anche sapere di aver accettato la candidatura a sindaco di Vallefiorita per il «cambiamento e la rinascita» del suo paese, dove era assessore già nel 1988 e vicesindaco nel 1993.

    Francesco Pitaro ha descritto un partito di belve feroci che non sarebbe diventato certo una comitiva di educande se avesse accettato la sua candidatura. Pino Pitaro, ex sindaco di Torre di Ruggiero coinvolto nell’inchiesta antimafia “Orthrus” per il quale però la richiesta d’arresto è stata più volte negata, ci ha messo il carico scrivendo sul profilo Facebook del fratello: «La cosca politica si è organizzata contro di te». Secondo i bene informati la regia della loro esclusione sarebbe, almeno in parte, ascrivibile al deputato Antonio Viscomi. Che, così, nel suo collegio di appartenenza ha provato a evitare di farsi fare le scarpe proprio dall’ultimo arrivato.

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    Francesco Pitaro, consigliere regionale del gruppo Misto

     

    Pd, il mentore e il discepolo

    La vicenda (molto pulp) del Pd catanzarese è emblematica dello stato di un partito a cui sembra interessare solo il mantenimento di postazioni da cui dividersi le macerie di ciò che resterà dopo le Regionali. In questo senso dice molto anche un’altra storia di queste ore che viene dall’entroterra, dalle Serre: quella del ricandidato Tassone. Eletto a gennaio 2020 dopo essere entrato in lista all’ultimo minuto grazie alla scure calata da Pippo Callipo sulle candidature proposte dal duo Graziano-Oddati, e del suo mentore di sempre, Bruno Censore, che invece è nella lista di Mario Oliverio.

    L’uno era l’ombra dell’altro, diciamo quasi zio e nipote, oggi invece non si parlano nemmeno e puntano al reciproco scalpo da postazioni distanti. Tassone ha dalla sua un piazzamento decisamente migliore. Censore invece è dovuto ricorrere anche a candidature di servizio per riempire le caselle, ma i voti in provincia sono sempre stati del mentore e il delfino sa in cuor suo che gli venderà (politicamente) cara la pelle.

     

    Il garantismo di FI non vale per Vito Pitaro

    Altra vicenda vibonese interessante è quella di un altro Pitaro, Vito, estromesso dalla sera alla mattina dal centrodestra senza tante spiegazioni. Consigliere regionale uscente, è parecchio chiacchierato per delle intercettazioni molto sconvenienti con un sanguinario, presunto capo di una cosca emergente e per dichiarazioni di pentiti non esattamente da curriculum, ma per quel che se ne sa non è nemmeno indagato.

    L’ex comunista Vito Pitaro

    Stupisce dunque che il garantismo storico dei berlusconiani stavolta non sia stato adoperato per un politico che è ritenuto utile al Comune di Vibo. Lì (almeno finora) il suo gruppo sostiene l’amministrazione di centrodestra guidata da Maria Limardo ed è risultato “buono” anche per vincere le elezioni regionali del 2020. Invece ora, all’improvviso e senza motivazioni ufficiali, finisce fuori dalle liste. Per di più proprio quando il coordinatore regionale del partito che esprime il candidato alla Presidenza è lo stesso Giuseppe Mangialavori con cui si era alleato per vincere le Comunali.

     

    Il notaio vibonese con De Magistris

    Nel collegio centrale ha puntato forte anche un altro aspirante governatore, Luigi de Magistris, che tra Crotone, Lamezia e Vibo ha scelto candidati ben radicati sul territorio come Filippo Sestito, Rosario Piccioni e Antonio Lo Schiavo. Quest’ultimo, notaio vibonese, ci aveva già provato con Callipo alle passate elezioni ma non ce l’ha fatta per una manciata di voti. All’epoca e anche oggi ha il sostegno dell’ex presidente della Commissione regionale antimafia Arturo Bova, ma stavolta gli mancherà proprio l’appoggio lametino dell’area di Gianni Speranza di cui Piccioni è un punto di riferimento. Fra i tre, alla fine, potrebbe trarne vantaggio solo l’ex pm, forse.

     

    Lamezia rischia di non sedere in consiglio regionale

    A Lamezia, come previsto, è partita una nuova carica di candidature – una quindicina solo dalla città, senza contare l’hinterland – che rischiano solo di frammentare i rispettivi campi riducendo le possibilità di avere rappresentanti in consiglio regionale per la quarta città della Calabria, com’è già avvenuto nelle ultime due legislature.

    È da segnalare il ritorno in campo di Pasqualino Scaramuzzino, ex sindaco ai tempi del secondo commissariamento per mafia di Lamezia ed ex presidente della Fondazione Terina; di recente si è attirato parecchie polemiche social per un video (sponsorizzato) su Facebook in cui, affiancato da da Mangialavori e Occhiuto, esaltava il “sacrificio” di quest’ultimo per aver deciso, dalla postazione di rilievo della Camera, di venire a “sporcarsi le mani” in Calabria.

    Gioca la sua personale partita anche il deputato leghista Domenico Furgiuele, spesso citato per gli imbarazzi giudiziari in cui si è trovato il suocero, che ricandida l’uscente Pietro Raso in “accoppiata” con Antonietta D’Amico, provando così dal suo “feudo” di Sambiase ad allargarsi sia nell’hinterland che nel centro di Nicastro.

    Flora e Baldo nella campagna acquisti Udc

    Sull’asse Crotone-Catanzaro sembra potenzialmente forte, dal punto di vista dei consensi, la doppia new entry nell’Udc rappresentata da Baldo Esposito, già in area Gentile, e di Flora Sculco, altra figlia d’arte che scalpita come Silvia Parente il padre Claudio ha rinsaldato l’asse con Mimmo Tallini – e Katya Gentile, forte dell’accordo bifamiliare con gli Occhiuto tra la Regione e il Comune di Cosenza. Nell’Udc ha militato anche Sabatino Falduto, ex assessore comunale vibonese che oggi è candidato nella lista di Fratelli d’Italia e che “vanta” anche un passaggio nel Pd.

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    Flora Sculco, consigliera regionale del gruppo DP, si candida con l’Udc
    Cambi di casacca

    Trasversalismi e cambi di casacca sono d’altronde pratiche diffuse e nel collegio si segnalano a questo proposito le seguenti curiosità: Giovanni Matacera, candidato di Forza Italia, è fratello di Pietro, già vicesindaco di Soverato, cittadina jonica il cui sindaco è Alecci (candidato nel Pd); Innocenza Giannuzzi, già Agricoop, Confapi e ora Confartigianato, era candidata a gennaio 2020 con “Io resto in Calabria” di Callipo mentre ora è in lista con Oliverio; Tiziana De Nardo, alle precedenti elezioni candidata con i Democratici e progressisti (centrosinistra), nel giro di un anno e mezzo è passata, via Italia del meridione, a conquistare un posto nella lista “Forza azzurri”.

  • Guerra dell’acqua: l’accordo a perdere della Regione con A2A

    Guerra dell’acqua: l’accordo a perdere della Regione con A2A

    L’estate della grande sete si chiude con un accordo «storico». L’aggettivo campeggia sul sito istituzionale del Comune di Isola Capo Rizzuto e, in effetti, è innegabile che, se si modifica una Convenzione che risale al 1968 e stabilisce quanta acqua debba essere presa dai bacini silani per irrigare i campi del Crotonese, il passaggio sia rilevante. Il problema è che paga sempre Pantalone, ovvero la Regione, anche per avere a valle ciò che a monte gli apparterrebbe.

    Il vecchio accordo

    Ma andiamo con ordine. La sigla dell’accordo risale al 25 agosto: da una parte la Regione Calabria, dall’altra A2A (la più grande multiutility italiana dell’energia, 13.500 dipendenti). Sono il corrispondente odierno di ciò che nel ’68 rappresentavano Cassa del Mezzogiorno ed Enel. I bacini da cui viene l’acqua di cui si parla sono l’Arvo, l’Ampollino e il Passante. I destinatari sono i versanti jonici catanzarese e crotonese. Gli utilizzi previsti sono potabile, irriguo, industriale e idroelettrico.

    Il lago Arvo

    L’accordo di mezzo secolo fa prevede che ogni anno, tra maggio e settembre, vengano resi disponibili nel torrente Migliarite e quindi nel fiume Tacina 24,3 milioni di mc di acqua, che con i fluenti arrivano a 33,13 milioni. C’è anche la possibilità di una deroga, ma in «situazioni di ridotta idraulicità» i quantitativi estivi non devono mai essere inferiori al’80% di quanto pattuito.

    I tempi cambiano

    Negli anni la Regione subentra a Casmez e A2A diventa titolare delle concessioni. Il Consorzio di bonifica crotonese, che distribuisce agli agricoltori l’acqua rilasciata nel torrente Migliarite, chiede quantità «maggiori – concordano la Regione e la multiutility – rispetto ai quantitativi spettanti». Ci sono delle ragioni: le «mutate pratiche agricole», la rete consortile colabrodo che ha perdite «anche oltre il 50%», i prelievi abusivi localizzati dalle due parti nell’Altopiano silano. E poi i cambiamenti climatici, non proprio un dettaglio. La Regione concorda con A2A rilasci ulteriori «prevedendo le necessarie forme di indennizzo del danno»: se serve più acqua per irrigare la risorsa mancherà alle centrali di Timpagrande e Calusia e quindi ci sarà un mancato guadagno.

    Agricoltori in ginocchio

    Con queste premesse si arriva alla crisi di queste settimane, con un centinaio di agricoltori di Isola Capo Rizzuto e Cutro costretti a protestare a bordo dei trattori perché, dicono, A2A avrebbe ridotto i rilasci nonostante gli impegni presi con la Regione. «Rivendichiamo il diritto – è la dichiarazione di un loro portavoce, Tonio Tambaro, riportata dall’Ansa – di portare a conclusione le colture in atto. Una società come A2A, che si occupa di sociale anche a livello nazionale, si è completamente disinteressata ai bisogni della comunità, chiudendo in maniera repentina l’acqua il 18 agosto. Abbiamo perso tutte le colture».

    Gli agricoltori sanno bene quanto costi anche un solo giorno in più senz’acqua con le temperature di agosto 2021, dunque ribadiscono la necessità di rimodulare la vecchia Convenzione. «L’acqua appartiene alla Regione Calabria – aggiungono – che avrebbe potuto trovare un accordo con A2A non mettendo in ginocchio gli agricoltori. Noi stiamo continuando ad elemosinare pochi metri cubi di acqua per le colture quando sul versante Neto l’acqua va a finire in mare come ha dimostrato il Consorzio di bonifica».

    Vengono accontentati, l’accordo arriva. Con grande soddisfazione dell’assessore all’Ambiente, il “Capitano Ultimo” Sergio de Caprio, che esalta «il dialogo leale» che «ha prodotto un risultato importante a garanzia delle famiglie che vivono di agricoltura, delle comunità che contribuiscono al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e dello sviluppo del turismo».

    Il nuovo atto disciplina la possibilità del rilascio, a favore del fondovalle del Tacina, di volumi idrici annui aggiuntivi. «Eravamo certi – rilancia il Comune di Isola – che con l’impegno del capitano Ultimo, e con la nostra determinazione giornaliera, avremmo raggiunto risultati importanti». Viene messa in risalto anche la «sensibilità» della multiutility che nelle premesse dell’accordo si dice orientata a «soddisfare al meglio le esigenze del territorio».

    Bene pubblico ma non troppo

    Come? Innanzitutto portando al tavolo con la Regione uno studio agronomico «redatto da professionisti del settore» e «contenente una valutazione dei reali fabbisogni irrigui del territorio». Proprio così: quanta acqua serva agli agricoltori crotonesi non lo dice la Regione Calabria, che dovrebbe essere l’istituzione deputata a rappresentare i bisogni dei suoi cittadini, specie in relazione all’utilizzo di un bene (in teoria) collettivo come l’acqua per scopi che hanno a che vedere con il sostentamento primario come l’agricoltura. No: la trattativa parte con uno studio commissionato dall’altra parte, cioè il privato, che come tale deve pensare prima al profitto e poi al resto.

    Ecco cosa prevede la nuova Convenzione. Se ci sono «comprovate esigenze irrigue» i rilasci di acqua possono essere «eccezionalmente» anticipati ad aprile e proseguire fino al 15 ottobre, su richiesta del Consorzio «avallata per iscritto dalla Regione» con almeno 30 giorni di anticipo. L’acqua rilasciata potrà arrivare a ulteriori 10 milioni di mc. Potrà, appunto. Perché normalmente si arriverà ai 33,13 milioni originariamente previsti e gli altri 10 arriveranno «solo a seguito di motivata richiesta scritta in tal senso della Regione».

    Solo «eccezionalmente» saranno rilasciati quantitativi ulteriori oltre ai 10 milioni e «in nessun caso» supereranno i 13 milioni annui. Ovviamente, però, ogni goccia d’acqua oltre i 33,13 milioni di mc originari sarà «oggetto di indennizzo in favore di A2A in ragione del danno per mancata produzione subìto». Un indennizzo che verrà calcolato «considerando la mancata produzione delle centrali di Timpagrande e Calusia, ed il fatto che gli impianti coinvolti sono a serbatoio e, come tali, in grado di produrre energia rinnovabile nelle ore più remunerative».

    Gli indennizzi ad A2A

    Viste le condizioni delle reti consortili, la Regione da parte sua «si impegna ad approvare un programma di investimenti pluriennali sulle reti irrigue». Solo quando sarà pubblicata la delibera regionale con gli investimenti (e la loro copertura finanziaria), che devono necessariamente prevedere anche l’installazione di contatori «sui punti di consegna agli utenti finali», A2A «eccezionalmente» metterà a disposizione acqua fino a 4,5 milioni di mc annui senza applicare il primo scaglione di indennizzo «unicamente per spirito di cooperazione con le comunità territoriali e le istituzioni».

    Ma come «ristoro di tutti i costi sostenuti» la Regione dovrà comunque corrispondere un indennizzo forfettario di 180mila euro all’anno, rispetto a questi 4,5 milioni di mc, fino al 31 dicembre 2024. In via del tutto «eccezionale e irripetibile», per il 2021, A2A si dice disponibile a rilasciare fino 10 milioni di mc in più a fronte di un indennizzo equivalente alla sola somma di ogni importo, tributo, canone demaniale e sovraccanone richiesto alla multiutility per la derivazione dell’acqua eccedente.

    Tutto «senza che ciò possa costituire né un precedente né il presupposto per ulteriori rinunce o concessioni rispetto ai propri diritti acquisiti». Ovviamente non c’è pericolo che la Regione non paghi: tutti gli indennizzi previsti nell’accordo avverranno mediante compensazione sugli importi dovuti da A2A per i canoni relativi alla concessione dell’acqua a uso idroelettrico.

  • Lamezia, la maledizione del consigliere regionale

    Lamezia, la maledizione del consigliere regionale

    Oltre al “titolo” di terza città della Calabria, perso con la fusione di Corigliano Rossano, c’è una mancanza che pesa ancora di più a Lamezia Terme: la rappresentanza. Con un Comune da anni in predissesto finanziario e di nuovo commissariato – stavolta non per mafia ma per irregolarità in 4 sezioni (su 78) dove si rivoterà ad ottobre per far tornare sindaco Paolo Mascaro – è evidente che la caccia grossa è quella che punta alla Regione. Ma c’è un dato storico che fa pensare quasi a un sortilegio: in consiglio regionale da quasi un decennio i lametini non riescono a mettere piede.

    La maledizione di Palazzo Campanella

    L’unico – e ultimo – è stato Franco Talarico, che lo ha fatto da assessore al Bilancio prima di finire impigliato nell’inchiesta “Basso profilo”. Nessun consigliere regionale nelle ultime due legislature. Alle elezioni di gennaio 2020 si è schierata una truppa di una decina di candidati ma nessuno ha staccato il biglietto per Reggio. In Consiglio è entrato solo Pietro Raso, che è di Gizzeria e ci riproverà anche stavolta con il sostegno pesante del deputato leghista Domenico Furgiuele.

    Andando a ritroso, nell’era Oliverio (2014) non è stato eletto nessuno. In quella Scopelliti (2010), invece, sono entrati lo stesso Talarico, poi “salito” alla Presidenza del Consiglio regionale, e Mario Magno, poi subentrato solo per qualche mese del 2017 a Nazzareno Salerno. È stato eletto e rieletto Tonino Scalzo, che è di Conflenti, mentre nel 2014 non ce la fece Gianni Speranza.

    Profilo ingombrante

    Oltre a Furgiuele, leghista della prima ora che porta l’orgoglio sambiasino (Sambiase è uno dei tre ex Comuni, con Nicastro e Sant’Eufemia, accorpati nel 1968) in Parlamento, meritano certamente menzione altri “registi” che da dietro le quinte provano a dirigere aspiranti attori e inconsapevoli comparse nella tragicommedia delle Regionali.

    Uno, il più ingombrante, è senza dubbio lo stesso Talarico, già leader dell’Udc calabrese finito prima ai domiciliari e poi tornato in Giunta ma con l’obbligo di dimora. Agli atti di “Basso profilo” figurano diverse intercettazioni captate tra dicembre 2020 e gennaio 2021, quando le elezioni regionali erano state fissate per il 14 febbraio. Talarico era alle prese con le strategie per la composizione delle liste del suo partito e ne parlava spesso con un ex assessore comunale lametino non indagato ma considerato «vicino al clan Iannazzo».

    Nella fase monitorata l’interlocutore di Talarico si rivelava «determinante per la scelta dei candidati dell’Udc», dimostrando inoltre di essere «in stretta sintonia» con il leader nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa «al quale non solo manda i saluti ma anche rassicurazioni sull’attività di ricerca e coordinamento in Calabria».

    Galati e il cavalluccio

    Il ruolo di regista spetta anche a un altro big più volte nel mirino degli inquirenti ma uscito pulito da tutto: Pino Galati. Deputato per cinque legislature, sottosegretario in due governi Berlusconi, coinvolto in “Poseidone” (finita per lui con l’archiviazione), “WhyNot” (assolto), “Alchemia” (archiviato), “Quinta bolgia” (arresto e poi archiviazione), restano in piedi le accuse ipotizzate nell’inchiesta sulla Fondazione Calabresi nel mondo di cui è stato presidente.

    Ida d’Ippolito con l’ex ministro Claudio Scajola e Pino Galati (foto lameziaweb.biz)

    Ha iniziato con la Dc, poi Ccd/Udc, quindi Forza Italia e Pdl, “Ala” di Denis Verdini e a marzo 2018 elezione mancata con “Noi con l’Italia”. Nella convention con cui a giugno è partita la campagna elettorale del centrodestra era presente e ha anche salutato Matteo Salvini. Nelle intercettazioni di “Basso profilo” spunta più volte il suo nome: «Lui (Galati, ndr) sta cercando candidati a Lamezia – dice Talarico – però ancora non ha detto con chi». L’ex assessore «vicino al clan Iannazzo» risponde ridendo: «Lo ha detto anche a me… dice che va cercando un cavalluccio».

    Peppino e Pasqualino

    Una delle candidature che Talarico voleva chiudere per l’Udc è quella di Peppino Zaffina. Ex esponente del Pd, già assessore nella giunta Speranza, successivamente è diventato uomo forte della coalizione di centrodestra guidata da Mascaro. In una conversazione Talarico racconta al suo interlocutore di aver sentito Zaffina: «Mi ha detto “Frà io sono orientato naturalmente a quello che decidiamo insieme a Tonino Scalzo…stiamo ragionando… volevo capire tu a chi candidavi”… gli ho detto – prosegue Talarico – Pino se ci sei tu puntiamo… tutti no».

    Zaffina ha infatti uno storico legame con Scalzo ma il suo percorso politico è lungo. Era già assessore comunale alla fine degli anni ’80 e oggi pare sia uno degli uomini su cui il centrodestra di Roberto Occhiuto vorrebbe puntare per il Lametino. Ma non è l’unico. È infatti tornato in ballo un altro volto noto: Pasqualino Scaramuzzino.

    La veste social della videorubrica quotidiana di Pasqualino Scaramuzzino

    Giovane sindaco di Lamezia nei primi anni 2000, all’epoca del secondo scioglimento per mafia, ai tempi della giunta Scopelliti-Stasi è stato messo a capo della Fondazione Terina. Avvocato, si dedica ogni mattina a una sorta di videorubrica sul suo profilo Facebook (“Secondo me, naturalmente”). Talarico lo menziona probabilmente per ingolosire Zaffina, a cui dice che ci sarebbe anche «l’alternativa di Pasqualino» ma lui (Zaffina) avrebbe «più consenso». Anche perché, ammette l’assessore regionale, «a me serve un candidato di Lamezia forte oh… per dire… i voti ce li abbiamo».

    Centrosinistra diviso tra lobby e parenti

    Il Pd lametino ha una storia tutta a sé. Dagli anni in cui teneva costantemente sulla graticola “Giannetto” Speranza, che è riuscito a portare a casa due sindacature senza mai avere una maggioranza numerica in consiglio comunale, alle tribolazioni degli ultimi mesi, i tormenti dei dem locali sono stati sempre legati alle elezioni regionali.

    Il caso più recente riguarda le dimissioni prima annunciate e poi ritirate dal segretario provinciale Gianluca Cuda. Anche lui ha le radici nell’hinterland lametino (Pianopoli) e anche lui ha provato invano ad agguantare un seggio in consiglio regionale un anno e mezzo fa. Non è chiaro se sia in procinto di ritentarci – gli spazi sono stretti – ma di certo ha il suo peso nelle dinamiche interne al Pd di Lamezia in cui nei mesi scorsi si è consumata una nuova rottura. L’ex segretario cittadino Antonio Sirianni si è, infatti, dimesso parlando di «gruppi di pressione interni» e dicendodi non avere interesse a «costruire una carriera» tramite la politica, men che meno ad «appartenere a delle lobby».

    Aquila Villella (dietro di lei Antonio Viscomi ed Enzo Bruno) ai tempi delle Politiche del 2018

    Poco prima di lui si era dimessa con motivazioni più stringate – «la mia permanenza nell’organismo cittadino non si concilia più con altri impegni di partito» – Annita Vitale, che milita nel Pd ormai da anni e la cui madre (Ida d’Ippolito, nel 1997 perse al ballottaggio contro Doris Lo Moro e nel 2010 contro Speranza) è stata in Parlamento per cinque legislature con il centrodestra. Vitale, componente della segreteria Cuda, per un certo momento è stata data tra le papabili per un posto “rosa” nella prossima lista Pd, magari in “accoppiata” con lo stesso segretario provinciale.

    L’ipotesi di una sua candidatura è poi sfumata a vantaggio di quella di un’altra pasionaria del Pd lametino: Aquila Villella. In consiglio comunale siede tra i banchi dell’opposizione, ma si era già candidata al Senato nel 2018 e, ora, potrebbe provare con il consiglio regionale. Di certo non le difettano il curriculum (è docente universitaria) e la verve. Ma i maligni fanno notare che la sua candidatura potrebbe trarre vantaggio anche dal fatto che Villella è la cognata di Amalia Bruni.

    L’eterno delfino

    Villella condivide il ruolo di opposizione allo strapotere di Mascaro con un altro (stavolta sicuro) candidato al consiglio regionale: Rosario Piccioni, da anni frontman del movimento “Lamezia Bene Comune” nato sulla scia dell’esperienza amministrativa di Speranza, di cui è l’eterno delfino. Avvocato, classe 1974, dal 2007 al 2011 è stato segretario cittadino di Sinistra Ecologia e Libertà.

    Rosario Piccioni con Pippo Callipo: correrà nelle file di Luigi De Magistris

    Poi, per cinque anni, assessore proprio nella seconda amministrazione guidata da “Giannetto”. Quindi ha cercato la via della successione alla poltrona di primo cittadino: prima, nel 2015, ha avanzato la sua candidatura ma l’ha poi ritirata per appoggiare l’allora vincitore delle primarie, Tommaso Sonni, sconfitto alle elezioni “vere” da Mascaro, la cui prima amministrazione è stata sciolta per mafia nel 2017.

    Le oltre 500 preferenze dell’epoca lo hanno portato a riprovarci nel 2019, sempre contro Mascaro: Piccioni è arrivato quarto (su sei candidati), davanti a lui l’allora aspirante sindaco sostenuto dal Pd Eugenio Guarascio. Un anno e mezzo fa ha mostrato pubblico apprezzamento per Pippo Callipo ma non si è candidato in prima persona. Stavolta, dopo qualche tentennamento dovuto alla discesa in campo della concittadina Amalia Bruni, ha deciso di esserci: sarà nella lista “De Magistris presidente”.

  • Catanzaro e politica, l’eterno ritorno dei soliti noti

    Catanzaro e politica, l’eterno ritorno dei soliti noti

    Se a Vibo i trasversalismi potrebbero essere oggetto di studi antropologici, Catanzaro è certamente la capitale dell’eterno ritorno. Il passato che non passa, nel capoluogo di regione, lo incarna uno come Sergio Abramo che sembra sia sindaco, oltre che presidente della Provincia, da sempre e per sempre. È però convinzione comune che il bottino grosso sia alla Regione. Dunque, in vista delle elezioni del 3-4 ottobre, sono in tanti, tutti arcinoti, a sgomitare per piazzare la propria bandierina nell’Astronave di Palazzo Campanella. Ecco alcuni profili di chi fuori dai giochi non riesce proprio a stare ed è già a caccia di una riconferma o (appunto) di un ritorno nella politica che conta.

    Sergio Abramo, sindaco di Catanzaro
    Due big ingombranti

    Tra i più ingombranti, nel centrodestra, ci sono due big che già nel 2020 hanno giocato un ruolo di primo piano. E che anche a distanza di un anno e mezzo, magari a ruoli invertiti, sono pronti a dare spettacolo. Si tratta di Mimmo Tallini e Claudio Parente, eminenze azzurre del capoluogo che hanno attraversato alterne fortune mantenendo, sempre e comunque, ampi pacchetti di voti. Di Tallini si sa: è stato “incandidabile” secondo l’Antimafia e, nonostante l’Antimafia, è stato candidato, eletto e pure incoronato – con un aiutino dal centrosinistra – presidente del consiglio regionale.

    Poi la bufera giudiziaria lo ha investito con “Farmabusiness”, ma il Riesame e la Cassazione hanno detto che non doveva andare ai domiciliari. È tornato a Palazzo Campanella da consigliere semplice, ha battagliato spesso col facente funzioni Nino Spirlì ma, nel frattempo, si è indebolito sul fronte interno. Politicamente è certo che venderà cara la pelle. Ma se vorrà essere candidato oppure puntare su qualcun altro o su un patto di ferro proprio con Parente è difficile dirlo. Perché a Catanzaro ognuno si impegna a far apparire sempre il contrario di quello che realmente è.

    Un Parente alla Regione

    In molti danno lo stesso Parente come già dentro la lista ufficiale di Forza Italia. «Nel 1997 – si legge in una sua biografia sul sito del consiglio regionale – ha rinunciato alla carriera universitaria per intraprendere la libera professione di medico specialista ed avviare e dirigere diverse iniziative imprenditoriali di successo nel settore sanitario. Dall’anno 2016 presiede il Movimento Politico Sociale “Officine del Sud”».

    Claudio Parente, presidente Officine del Sud

    Dei suoi interessi diretti o indiretti nella sanità privata si è parlato molto a proposito del boom di contagi a Villa Torano, ma anche il suo movimento gli dà un po’ da pensare: il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri vuole mandarlo a processo per peculato assieme a due “suoi” consiglieri comunali. Al centro dell’inchiesta c’è una convenzione firmata tra l’amministrazione comunale e la “Vivere Insieme”, società che ha fondato proprio Parente e di cui il politico, nonostante le dimissioni, avrebbe mantenuto secondo l’accusa la gestione e il controllo.

    L’Udc piglia tutti

    Il sito istituzionale del Comune di Catanzaro lo dà ancora come capogruppo di «minoranza» ma per le Regionali è già ufficialmente passato dall’altra parte. Se mai si dovesse indicare un corrispondente politico maschile di Flora Sculco (ancora all’opposizione in consiglio regionale ma già candidata col centrodestra) si chiamerebbe Sergio Costanzo. Con lei condivide la caratteristica di stare sia da una parte che dall’altra ma anche l’essere una new entry di un partito che dei “due forni” ha fatto un tratto identitario: l’Udc.

    Sergio Costanzo, new entry nelle file dell’Udc

    Nel 2014 si presentò a sostegno di Mario Oliverio con “Calabria in rete” e proprio la Sculco, nonostante le sue 6687 preferenze, gli soffiò il posto in Consiglio. Nel 2020 provò a bazzicare ancora dalle parti del centrosinistra ma non trovò sponda nella coalizione guidata allora da Pippo Callipo. Gli fu preferito Libero Notarangelo (Pd) che lo ha poi nominato suo segretario particolare.

    C’è anche un’ombra che lo insegue da tempo, ma va detto che non è indagato per niente che abbia a che fare con reati di mafia: è cugino di Girolamo Costanzo, noto come “compare Gino”, storico capoclan dei Gaglianesi. In alcune intercettazioni contenute in “Farmabusiness” si parla di una presunta “ambasciata” partita dal carcere di Opera, ancora tutta da verificare in sede di indagine, per farlo votare.

    Bruno, un delfino tra le correnti

    Si riaffaccia sul fronte del centrosinistra un volto non proprio nuovo come quello di Enzo Bruno. Partito da Vallefiorita, bazzicava la Provincia di Catanzaro già alla fine degli anni ’90, quando guidava anche la Comunità montana “Fossa del lupo”. È stato poi eletto presidente dell’ente intermedio per il Pd nel 2014 e saltella tra le correnti dem con la naturalezza di un delfino che attraversa lo Stretto: è passato da Nicola Adamo ad Agazio Loiero, è stato con e contro Oliverio, quindi vicino a Ernesto Magorno quando era segretario regionale del Pd e, ora, è pronto per la candidatura al consiglio regionale.

    Enzo Bruno, presidente della Provincia di Catanzaro

    Nel suo curriculum la parola «funzionario» ricorre continuamente in riferimento all’Asp di Catanzaro e alla Regione Calabria, ma altrettanto frequentemente vi è affiancato anche il termine «comando», ovvero il distacco di un dipendente pubblico della stessa amministrazione nella struttura di qualche componente della Giunta o del Consiglio. Adesso proverà ad essere lui quello che “comanda”. Sotto i vessilli della nuova/vecchia corrente zingarettiana “Prossima”, si appresta a lottare per un posto al sole di Reggio.

    L’iperattivo Pitaro

    Nel collegio di Enzo Bruno potrebbe creare un certo fastidio elettorale Francesco Pitaro, eletto per il rotto della cuffia con la creatura callipiana “Io resto in Calabria” nel 2020. Non ci ha pensato un attimo, quando gli hanno negato la nomina nell’Ufficio di Presidenza del Consiglio, a “tradire” l’imprenditore del tonno e a mettersi in proprio nel gruppo Misto.

    Francesco Pitaro, consigliere regionale del Gruppo misto. I retroscena politici lo danno vicino al Pd

    Ora pare sia entrato, accolto da parecchi mugugni, nel Pd, e il suo attivismo – non solo nel capoluogo e nell’hinterland, ma da Crotone fino a Lamezia e Vibo – potrebbe tradursi in una crescita di consenso. Un lavorio incessante, il suo, che poi, magari, potrebbe tornare utile anche al fratello Pino, avvocato amministrativista ed ex sindaco di Torre di Ruggiero coinvolto nell’inchiesta “Orthrus“ – rispetto alla quale professa da tempo la sua «assoluta estraneità» –, per un’eventuale corsa a primo cittadino di Catanzaro.

  • Così fan tutti (a Vibo): i politici ingombranti tornati in ballo per le Regionali

    Così fan tutti (a Vibo): i politici ingombranti tornati in ballo per le Regionali

    In comune hanno molte cose, soprattutto quella di essere ingombranti per i loro stessi schieramenti. Poi c’è l’umana tendenza all’autoconservazione che li spinge a svolazzare di fiore in fiore nel tentativo di carpirne il profumo e succhiarne la linfa. Le metafore finiscono qui, perché le gesta dei personaggi in questione non sono esattamente ancorate all’idealismo ma a quel realismo che in politica, specie nella periferia della periferia calabrese, si traduce in sfrontato cinismo.

    Non sono certo i soli, ma i loro profili sono paradigmatici di come vadano le cose in quel di Vibo Valentia, dove su trasversalismo e consociativismo si potrebbe istituire dei corsi di laurea. Sono quattro, due vengono dalla “città” e gli altri due dall’entroterra. Hanno cambiato casacca più volte, certo più per necessità che per propensione concettuale, e sono pure chiacchierati. Ma, direttamente o indirettamente, si preparano a giocare un ruolo di primo piano in vista delle prossime elezioni regionali.

    Hasta la victoria a volte

    Partiamo dal più giovane, Vito Pitaro. Avvocato, 45 anni, a gennaio 2020 è stato eletto nella lista “Jole Santelli presidente” con 5.024 preferenze. È alla sua prima legislatura regionale, ma a Palazzo Campanella ci era già stato prima, vedremo come e con chi. Dal 2005 al 2007 è stato consigliere comunale nella sua città, Vibo, nonché assessore alle politiche sociali, della famiglia, del volontariato, dell’associazionismo e sanitarie. Deleghe eterogenee, proprio come il suo percorso politico. Oggi Pitaro è un irrinunciabile portatore di voti del centrodestra – in molti scommettono in un suo boom di consensi esteso fino ai confini crotonesi del collegio – ma fino a qualche anno fa era addirittura un compagno: è stato in Rifondazione comunista e nei Comunisti italiani, quindi socialista e anche dirigente del Pd.

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    L’ex comunista Vito Pitaro

    In una delle poco esaltanti sedute di questi mesi del consiglio regionale, vestito come se stesse festeggiando un matrimonio a Little Italy, ha dato il meglio della sua arte oratoria per sbeffeggiare l’opposizione di centrosinistra rispetto ai danni fatti nel recente passato. Nessuno dei dirimpettai, però, gli ha ricordato che proprio nella vituperata legislatura precedente è stato tra i ben remunerati collaboratori di uno dei consiglieri del Pd più vicini a Mario Oliverio, Michele Mirabello.

    Intercettazioni che scottano

    Magari, regolamento alla mano, la Commissione Antimafia non potrà fare il “favore” a Roberto Occhiuto di segnalare il suo nome, che però compare, non da indagato, in un paio delle più rivelanti inchieste antimafia che hanno riguardato il Vibonese negli ultimi anni. In una, “Rimpiazzo”, ci sono intercettazioni parecchio sconvenienti dei suoi colloqui con un presunto killer ed elemento di vertice, descritto come piuttosto sanguinario, del clan dei “Piscopisani”.

    L’altra è Rinascita-Scott: nell’aula bunker del maxiprocesso il suo nome, anche qui non da indagato né da imputato, è riecheggiato più volte. E nelle carte, per esempio, c’è una telefonata tra un indagato e uno dei principali imputati, Giovanni Giamborino, in cui quest’ultimo dice: «’Sto Vito è uno spregiudicato… di nessuna cosa si guarda… fa compari, comparaggi con tutto».

    Il rinnegato

    Per anni Pitaro è stato il plenipotenziario su Vibo di Brunello Censore, ex uomo forte del Pd ora rinnegato dal suo stesso partito e riparato tra le fila di Mario Oliverio, con cui pare voglia candidare il figlio. Nato a Serra San Bruno 63 anni fa, cuoco, commercialista, docente di scuola superiore, è stato consigliere comunale e poi sindaco del suo paese dal 2002 al 2005. Quindi il grande salto: eletto consigliere regionale nell’era Loiero si conferma, passando all’opposizione, anche quando vince Peppe Scopelliti.

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    Da sinistra verso destra, Vito Pitaro, Stefano Luciano (capogruppo del Pd al Comune di Vibo) e Brunello Censore

    La carriera non si ferma e nel 2013 arriva addirittura alla Camera. Un figlio del popolo, di famiglia umile e cresciuto nella sezione del Pci di un paese di montagna, fa ingresso a Montecitorio e ci resta per 5 anni. Bersaniano quando vince Bersani, renziano quando si afferma Renzi, poi ovviamente anche Zingarettiano, alle primarie per il fratello di Montalbano incassa grandi numeri e diventa un personaggio social per un’espressione che riassume il suo credo politico – «a mia mi piacia mu ‘ndi vidimu allu bar, mu parramu , mu facimu…» – e per l’imitazione con tanto di video spopolante sul web che ne fece un giovane studente durante un incontro pubblico.

    Né con te né senza di te

    A maggio del 2018 il consiglio regionale della Calabria gli ha riconosciuto il vitalizio per i due mandati a Palazzo Campanella: 8 anni e 29 giorni per un assegno mensile di 4.113,58 euro. Alle primarie nazionali di cui si diceva (marzo 2019) fece una lista, “Calabria con Zingaretti”, assieme a Carletto Guccione e contro Oliverio. A giugno del 2019 dichiarava convinto: «Il Pd vada oltre Oliverio o la sconfitta è certa. Il progetto di cambiamento è diventato continuismo. Ripartiamo dal civismo».

    Probabilmente poi avrà cambiato idea sul civismo quando Pippo Callipo mise una x sul suo nome alle Regionali del 2020 facendolo ripiegare su Luigi Tassone, oggi ricandidato dal Pd che, come tanti altri nel percorso politico di Censore, gli ha voltato le spalle dopo aver beneficiato del suo appoggio. Oggi è tornato con Oliverio.

    Per Brunello la discesa è iniziata con la batosta presa alle Politiche del 2018, quando non è riuscito a farsi rieleggere alla Camera venendo superato dalla meloniana Wanda Ferro e dalla grillina Dalila Nesci. Lui all’epoca deteneva ancora le redini del Pd a Vibo e la sua prima vendetta fu l’espulsione dai dem dell’ex presidente della Provincia Francesco De Nisi.

    L’espulso già senza tessera

    Nato a Filadelfia nel ’68, ingegnere, eletto più volte sindaco del suo paese con percentuali bulgare, De Nisi viene dai cattolici di centrosinistra confluiti nella Margherita, ma quando Censore lo ha fatto espellere lui non aveva la tessera del Pd da due anni. Hanno fatto scalpore le foto che lo ritraevano all’epoca in un conciliabolo romano con il senatore di Forza Italia Giuseppe Mangialavori, ma oggi nessuno si stupisce più nel vederlo mani e piedi nel centrodestra.
    A gennaio 2020 si è candidato con Jole Santelli nella “Casa della libertà” ma, nonostante i 7mila voti presi, non è riuscito a diventare consigliere regionale. Stavolta ci riproverà con la creatura politica di Giovanni Toti, “Cambiamo”.

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    Francesco De Nisi
    La poltrona al fratello

    Nella sua Filadelfia ha lasciato la poltrona da primo cittadino ben salda sotto le terga del fratello minore, Maurizio, mentre alla Provincia ha condiviso con il suo predecessore, Gaetano Bruni, la sorte di dimettersi prima della scadenza naturale del mandato da presidente per inseguire uno scranno parlamentare mai raggiunto. La storia di quell’ente, finito in dissesto finanziario e al centro di inchieste e polemiche, è tristemente nota.

    Ancora tutta da scrivere, almeno in sede giudiziaria, è invece quella che potrebbe scaturire dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Giovanni Angotti, che nel corso di diversi interrogatori, parlando del clan Anello-Fruci, ha riferito «che la cosca in occasione di alcune competizioni elettorali aveva appoggiato Francesco De Nisi procacciandogli dei voti». De Nisi non è indagato e ha respinto le accuse del pentito: «Sono rimasto basito dalla diffusione di tali notizie del tutto prive di qualsiasi possibile indizio di fondamento e che contrastano con il mio impegno pubblico».

    Il pianista

    La sua strada si è recentemente incrociata con quella di un ex senatore di lungo corso tornato al centro del dibattito politico e anche delle schermaglie mediatico-giudiziarie. De Nisi, di scuola Dc, è infatti vicecoordinatore del movimento di Toti che, a livello regionale, è guidato da Franco Bevilacqua. Tutt’altra scuola: nato a Vibo nel ’44, insegnante, Bevilacqua viene dal Msi ed è entrato in Senato nel 1994 con Alleanza nazionale.

    A Palazzo Madama ha fatto quattro legislature: da An-Msi è passato nel Popolo della Libertà e ci è rimasto dal 2008 al 2013. Poi è transitato in Fratelli d’Italia ed è approdato alla corte dei sovranisti di Gianni Alemanno. Nel frattempo ha maturato il diritto a un vitalizio che oggi dovrebbe aggirarsi attorno ai 5mila euro al mese e, negli anni, le cronache parlamentari lo segnalano per un paio di episodi non proprio da curriculum.

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    Franco Bevilacqua in versione pianista

    Una volta fu beccato a fare il “pianista”: si votava (ottobre 2002) la “legge Cirami” (legittimo sospetto e rimessione del processo) e Bevilacqua fu ripreso mentre assieme ad altri schiacciava il pulsante anche per un collega assente. Un’altra volta risultò tra i cofirmatari di un disegno di riforma costituzionale per abolire la XII norma della Costituzione italiana, quella che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito fascista».

    Votato da tutti

    Oggi le sue posizioni devono essere diventate più moderate visto che è il coordinatore regionale di un partito/persona che guarda al centro e che parla, per la Calabria, di «modello Genova». Il suo rinnovato impegno è stato però “sporcato” dalle dichiarazioni di un altro pentito, Bartolomeo Arena, secondo cui i Pardea, storica famiglia mafiosa di Vibo, avrebbero sostenuto Bevilacqua.

    «È stato votato praticamente da tutti – ha detto Arena deponendo in Rinascita-Scott – perché ce lo disse Enzo Barba. È fratello di uno ’ndranghetista, Ferruccio (deceduto nel 2018, ndr), affiliato ai Pardea fin dagli anni ’70, avendo attivato la Locale insieme a mio padre, per poi avvicinarsi al ramo di Giuseppe Mancuso detto ’Mbrogghjia».

    «Ma era anche un massone perché Salvatore Tulosai, negli anni ’90 stava cercando di entrare in quegli ambienti proprio per il tramite di Ferruccio, legato a Carmelo Lo Bianco alias “Piccinni” ed Enzo Barba detto “Il musichiere”. Ma già il padre di Franco Bevilacqua aveva rapporti strettissimi con i Lo Bianco perché abitava nello stesso quartiere. Quando vinse le elezioni entrando in Senato ci ritrovammo tutti nella sua sede che era al centro della città».

    Così fan tutti

    Ovviamente le dichiarazioni dei pentiti sono ancora tutte da riscontrare e i politici tirati in ballo sono innocenti fino a prova contraria. Fanno però riflettere i vizi privati e le pubbliche virtù di una politica che a Vibo sembra sempre uguale a se stessa e sempre pronta a riciclarsi alleandosi e scambiando favori con chiunque, in barba a ideologie, partiti e schieramenti. Per dire: è emblematica un’intercettazione – sempre Rinascita-Scott – in cui uno dei Nostri, Censore, chiama Giancarlo Pittelli, avvocato-politico oggi ai domiciliari perché coinvolto nello stesso maxiprocesso, per dirgli che lo aveva sostenuto in passato, anche se i due appartenevano a partiti “nemici”, e che era venuto il momento di ricambiare il favore.

    Quella telefonata avveniva alla presenza di un imprenditore che secondo gli inquirenti sarebbe colluso proprio con la cosca di Filadelfia, il paese di De Nisi. Ed è capitato pure in un determinato momento storico non troppo lontano (febbraio 2019) che l’ex missino Bevilacqua e l’ex comunista Censore appoggiassero lo stesso candidato a sindaco (Stefano Luciano, oggi capogruppo del Pd in consiglio comunale). Così fan tutti, a Vibo.

  • Girifalco, la “città dei pazzi” che ci tiene ad esserlo

    Girifalco, la “città dei pazzi” che ci tiene ad esserlo

    Lulù suona le foglie e aspetta, aspetta che sua madre ritorni per farle ascoltare le sinfonie tristi che ha composto nel manicomio di Girifalco. Lo hanno internato perché soffre di crisi epilettiche ma lui è uno di quelli che possono uscire dalla struttura e andarsene in giro. Il paese del Catanzarese è infatti uno dei primi luoghi in cui è stata sperimentata l’apertura delle porte dell’ospedale psichiatrico: i malati meno gravi, quelli sicuramente non pericolosi, hanno la libertà di interagire con i paesani e così diventano parte della comunità. Tutti conoscono Lulù il pazzo e tutti, tranne lui, sanno che sua madre non tornerà. Lui no, è ignaro del suo destino e non sa che un bambino del suo paese, diventato da grande uno scrittore, ha trasformato il ricordo della sua quotidiana, mesta attesa in una storia che resterà per sempre.

    Elogio della follia

    Quel bambino si chiama Domenico Dara e della sua Girifalco scrive che «era delimitata a nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano tutte tra la follia e la morte». Della morte sappiamo tutto e niente, mentre la follia Dara la paragona a un polline «che quando soffiava il vento si spargeva sulle teste ignare delle genti e le inseminava». È proprio per questo che «anche quando il manicomio non ci sarebbe più stato i pollini avrebbero continuato a volteggiare nell’aria per azziccàrsi di tanto in tanto in qualche padiglione auricolare a modificare gli ingranaggi della meccanica umana e celeste».

    Lulù il pazzo, esistito davvero, è il primo di sette personaggi di cui Dara intreccia i destini nel suo secondo romanzo, Appunti di meccanica celeste, che segue le tracce narrative lasciate dal fortunato esordio con il Breve trattato sulle coincidenze, entrambi editi da Nutrimenti. La malattia mentale in realtà serpeggia anche tra le righe del suo terzo lavoro, Malinverno, arrivato con Feltrinelli alla quarta ristampa, ma Dara tra presentazioni e reading estivi si è ora messo in testa – giusto per restare in tema – un altro pallino: lui e l’assessore comunale alla Cultura Elisa Sestito vogliono che Girifalco sia ufficialmente riconosciuta come “Città dei pazzi”.

    Un riconoscimento diverso da tutti gli altri

    Sì, mentre orde di sindaci in ogni angolo d’Italia battagliano armati di gonfaloni e delibere per avere questo o quel riconoscimento pomposo, Dara vuole consegnare dignità solenne a una reputazione che di fatto il suo paese si ritrova appicicata addosso fin dagli ultimi anni dell’800. Che sia per esorcizzarne i fantasmi, per ammantarlo di esotismo o anche solo per una disinteressata strategia di marketing, la sua – moccivò – folle missione sta trovando il sostegno non solo di alcuni amministratori ma anche di associazioni locali che sembrano assecondarne gli obiettivi.

    Dal manicomio al palco

    Come? Riempiendo quel luogo di storie perdute con iniziative come il Premio “Città di Girifalco”, in corso in questi giorni e che proprio stasera propone un momento che si preannuncia di grande intensità. A Girifalco, nel paese dei pazzi, nel Complesso monumentale in cui dal 1881 al 1978 sono passati 15.794 pazienti, arriva il Teatro patologico di Dario D’Ambrosi. Se avete visto L’Odissea raccontata da Domenico Iannacone su Rai Tre sapete di cosa si parla. Se non l’avete vista fatelo prima o dopo essere andati a Girifalco a vedere quanta poesia e bellezza sanno portare sul palco le persone con disabilità fisica e psichica cui D’Ambrosi dedica la sua vita e la sua arte.

    Il manicomio di Girifalco è stato raccontato in molti modi. Lo hanno fatto, tra gli altri, Barbara Rosanò e Valentina Pellegrino con il docufilm Uscirai sano e Oscar Greco con il libro I demoni del Mezzogiorno. Il cantante Simone Cristicchi ne è stato ispirato per la sua “Ti regalerò una rosa” e il Fai lo ha inserito nel censimento dei luoghi italiani da non dimenticare.

    Per molti dei ricoverati la diagnosi di una malattia mentale, o di quella che all’epoca veniva a torto a ragione identificata come tale, si è tradotta in tanti anni di solitudine, di povertà, di abbandono. Ci sono anche storie assurde come quella di Giuseppe Astuto (internato a soli 9 anni pur essendo sano – hanno raccontato Le Iene – per un gesto innocente che ha segnato l’infanzia e la sua intera vita. È successo questo e molto altro nella città dei pazzi. Non lasciare che le microstorie di chi ci ha vissuto si disperdano come il polline nel vento può essere un piccolo, appena giusto risarcimento per tanta sofferenza.

  • Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Forse, chissà, tra mille anni i reperti archeologici da cui si ricostruirà la storia della nostra epoca saranno pilastri grigi da cui fuoriescono barre di ferro tendenti al cielo. I tour virtuali tra i resti del cemento antico, magari, sostituiranno l’attuale feticismo fotografico dei tramonti e dei panorami. Le nuove rovine, gli edifici non finiti, sono ormai parte del paesaggio. Sono i segni lasciati da partenze e non ritorni. Sempre lì, fermi, come a narrare la necessità di rimandare all’infinito ciò che si voleva fare e che è rimasto incompiuto, una speranza che si rinnova e mai si realizza.

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    Tramonto con piloni a Taurianova (foto Angelo Maggio)
    L’anormalità diventa invisibile

    Se dovesse nascere davvero un giorno il culto del cemento la Calabria potrebbe divenirne la capitale e Angelo Maggio, fotografo di Catanzaro che da anni segue e immortala le tracce del «non finito calabrese», sarebbe una star. Ma quelli che fotografa, spiega lui stesso, sono dei «monumenti alle aspettative deluse» e non certo opere d’arte. Per capirne la dimensione sociale bisognerebbe parlare con quei padri che hanno alzato muri mai intonacati e piani interi rimasti vuoti. E con i figli che, per scelta, necessità o entrambe le cose, non li abiteranno mai.

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    Miss Italia sfila per le vie di Sinopoli (foto Angelo Maggio)

    Le foto del non finito restituiscono una realtà più cruda della realtà stessa. Non si sforzano di determinare il contesto fino a renderlo rispondente a un’idea precostituita ma, al contrario, ne illuminano le contraddizioni. Quegli edifici sono per noi così normali da risultare ormai quasi invisibili. Eppure raccontano, più di tante narrazioni stereotipate, più della retorica delle eccellenze e delle negatività, la storia della Calabria contemporanea, fatta di crepe che non si ricompongono mai. Di cemento e di vuoto.

    Annunci e stereotipi elettorali

    Ecco, cemento e vuoto non sono (solo) delle tracce antropologiche, ma elementi con cui misurare come e quanto sia lontana dalla realtà l’idea di paradiso naturale tracciata da molti attuali e aspiranti decisori politici che, statene certi, con la campagna elettorale già in corso rinverdiranno presto il filone con nuove e più immaginifiche dichiarazioni sulle «potenzialità inespresse» e sugli intramontabili «volani di sviluppo».

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    Belvedere Marittimo, un manifesto dell’ex assessore regionale ai Lavori pubblici Pino Gentile (foto Angelo Maggio)

    C’è un posto che è l’emblema di questa incompiutezza, un mausoleo di occasioni mancate: l’area industriale di Lamezia Terme, oggi nota per l’aula bunker del maxiprocesso Rinascita-Scott – prima ospitava un call center – e per la sede della Fondazione Terina. Era nata negli anni ’70 come sogno industriale della Calabria centrale – l’ex Sir in cui lo Stato mise bei miliardi ma che non partì mai – e oggi in mezzo a capannoni abbandonati e pecore che pascolano tra l’immondizia si promette di realizzare una specie di piccola Hollywood.

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    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ma l’emblema, a pensarci bene, sono quasi tutti gli abusati «800 km di costa» soffocati dalla cementificazione, costellati di villaggi, residence, resort, lidi, lungomari e parcheggi. Come lo sono le (poche) città in cui i palazzi si mangiano i marciapiedi e le persone vanno in terapia per un parcheggio. E come lo è anche l’entroterra dei «borghi», dei piccoli centri storici fatti di pietra dove interi vicoli scompaiono perché piano piano, negli anni, allunga un muro di là e chiudi una tettoia di qua, qualcuno se ne appropria gli spazi. Li chiude, magari per farne dei nuovi vuoti.

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    Propaganda elettorale per Francesco Antonio Stillitani, ex assessore al Lavoro e alle Politiche sociali nella Giunta Scopelliti
    Un report che fa riflettere

    Si chiama consumo di suolo, un logoramento continuo che trasforma il territorio e causa la perdita di importanti servizi ecosistemici. Un rapporto ogni anno ne documenta lo stato di avanzamento e anche quello del 2021, che analizza cosa sia successo nell’anno della pandemia, non porta buone notizie. Lo realizza il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) grazie al monitoraggio congiunto di Ispra e delle Agenzie regionali come l’Arpacal.

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    Un ufficio della Provincia di Reggio Calabria in un edificio non finito (foto Angelo Maggio)

    Il Rapporto dice questo: «Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 kmq, ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno. Un incremento che rimane in linea con quelli rilevati nel recente passato, e fa perdere al nostro Paese quasi 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, causando la perdita di aree naturali e agricole. Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti. Una crescita delle superfici artificiali solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali».

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    Mongrassano, religione e cemento (foto Angelo Maggio)

    Va detto che la Calabria è al di sotto della media nazionale ed è tra le 8 regioni che, quest’anno, hanno avuto incrementi di consumo di suolo inferiori ai 100 ettari. Nella nostra regione il cemento non è comunque andato in lockdown: il suolo consumato è oggi il 5%, ovvero 76.116 ettari, con un aumento di 86 ettari nel 2020 rispetto al 2019. Ma bisogna analizzare anche il contesto – la Calabria ha molte aree non edificabili – e il grado di urbanizzazione. Nel 2018 il nostro territorio rurale era di 13.155 kmq, nel 2019 è sceso a 13.150 e nel 2020 a 13.148. Crescono invece, di poco ma costantemente, le zone suburbane e quelle urbane.

    I primati della Calabria

    Altri dati interessanti. Da un’analisi effettuata attraverso il confronto con il Pil regionale emerge la distribuzione del consumo di suolo in relazione alla dimensione dell’economia: Calabria, Sardegna e Basilicata registrano i valori più alti di suolo consumato rispetto al numero di addetti impiegati nell’industria. L’agricoltura: nel periodo 2006-2012 la perdita di superfici a oliveto ha visto proprio in Calabria il valore più alto con circa 12mila quintali di prodotti in meno, mentre tra il 2012 e il 2020 si sono persi frutteti in grado di produrre potenzialmente quasi 40.000 quintali. Un altro primato poco desiderabile è quello della regione con la percentuale più alta di suolo consumato (13,4%) nelle aree vincolate per la tutela paesaggistica. Infine, la Calabria ha una delle percentuali più elevate (5,8%) di suolo consumato tra le aree a pericolosità sismica molto alta.

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    Caulonia (foto Angelo Maggio)

    Il Report dell’Ispra restituisce un altro paradosso che non ha bisogno di grandi interpretazioni: due «perle» del turismo calabrese, Tropea e Soverato, sono tra i Comuni che al 2020 hanno le percentuali più alte di suolo consumato (il 35% la cittadina tirrenica e il 27% quella jonica). Dopo gli interventi legislativi approvati nell’ultimo ventennio (la legge urbanistica 19/2002, le “norme sull’abitare” 41/2011, il “contrasto dell’abbandono e del consumo di suoli agricoli” 31/2017) sarebbe forse il caso di chiedersi cosa non abbia funzionato, a partire dalla mancanza di sistemi di monitoraggio, di abbandonare gli slogan e provare a capire come, perché e per responsabilità di chi succeda che un territorio storicamente violentato venga ancora sacrificato sull’altare di un finto progresso: il dato sul suolo consumato pro capite dice che, ad oggi, per ogni calabrese sono andati persi 402 mq.

  • Sacal e Sorical, debiti pubblici e profitti privati

    Sacal e Sorical, debiti pubblici e profitti privati

    Gli interessi della politica e dell’imprenditoria si incontrano nel mondo delle società miste. La partecipazione del pubblico in quota maggioritaria rispetto al privato ne è una caratteristica distintiva. Ma spesso, per esempio in Calabria, queste Spa se ne ricordano solo quando c’è bisogno di appianare debiti e disastri vari. Se le cose vanno bene privatizziamo i profitti, se vanno male pubblicizziamo le perdite.

    Prendere in esame due casi distinti e distanti come quelli di Sorical e di Sacal può aiutare a capire le cause e gli effetti di certi paradossi sui nostri territori. Anche perché, nonostante vi si investano parecchi soldi pubblici, i cittadini sanno spesso poco delle vicissitudini societarie, finanziarie e talvolta anche giudiziarie che attraversano queste società.

    La Regione salva la Sacal

    La Società aeroportuale calabrese sta patendo parecchio, com’era prevedibile, gli effetti del crollo del traffico aereo nell’anno della pandemia. Ne è derivata una crisi di liquidità che ha allarmato a tal punto la Regione. Che è intervenuta per evitare la messa in liquidazione, con una ricapitalizzazione da 10 milioni di euro. C’è stato un primo step legislativo in consiglio regionale con un impegno di spesa di 927mila euro per il 2021 (proporzionato al 9,27% delle azioni della Cittadella). Il facente funzioni Nino Spirlì ha garantito a un’Aula non del tutto convinta che bisogna affrontare questo passaggio per «mantenere la maggioranza pubblica». La linea è sottile: attualmente sono 13.666 le azioni in mano a enti pubblici e 13.259 quelle dei privati.

    Cantieri per 60 milioni di euro

    Poi, solo «successivamente si valuteranno – continua Spirlì – ulteriori investimenti» e arriveranno «cantieri per 60 milioni di euro» sui tre aeroporti calabresi. Sacal infatti gestisce non solo lo scalo più attivo, quello di Lamezia, ma dal 2017 anche quelli di Reggio e Crotone. Gli ultimi due reduci dai fallimenti delle rispettive società di gestione e accorpati a Sacal sotto la presidenza del prefetto/poliziotto Arturo De Felice. Era arrivato un mese dopo la bufera dell’inchiesta “Eumenidi”.

    Il supermanager in quota Lega

    Spirlì ha poi garantito che «il presidente della Sacal (il supermanager in quota Lega Giulio de Metrio, ndr) ha già affrontato il piano strategico. Tra qualche giorno saranno coinvolti nella discussione i soggetti interessati perché nessuna parte del territorio abbia a patire le dimenticanze registrate in passato». Qui si fermano le notizie sul Piano industriale.

    Gli enti pubblici stanno mettendo i soldi per la ricapitalizzazione. Compreso il Comune di Lamezia, che detiene il 19,2% delle azioni, con una variazione di bilancio da 150mila euro. Non si sa ancora nulla di come e con quali investimenti si dovrebbero rilanciare i tre aeroporti della Calabria. Intanto la Metrocity di Reggio vuole entrare e non ci riesce. Catanzaro (Comune e Provincia, per un totale di circa il 16% delle azioni) vuole uscire suscitando polemiche dentro e fuori dal capoluogo.

    E i lametini pagano

    I lametini si sentono quasi defraudati perché sono gli unici, a parte la Regione, a metterci i soldi pur avendo l’aeroporto che fa più numeri, mentre crotonesi e reggini lamentano i mancati investimenti di Sacal sui loro scali e qualcuno, sommessamente, ripropone i dubbi di sempre sulla capacità della Calabria di reggere la presenza di tre aeroporti.
    A Lamezia oltre al Piano industriale aspettano anche la nuova aerostazione: bocciato dalla Commissione europea un progetto da 50 milioni di euro, rimasto solo sulla carta, si è parlato di un altro più contenuto – dovrebbe costare la metà – di cui De Metrio aveva anche tratteggiato i contorni.

    Nella principale porta d’ingresso di treni e aerei nella regione si aspetta da anni anche un collegamento «multimodale» tra stazione ferroviaria e aeroporto, un ultimo miglio di cui c’è bisogno come il pane ma che ormai sta assumendo i contorni della leggenda. Tutto bloccato, specie con la mazzata del Covid: i dati di giugno di Assaeroporti fanno registrare, su Lamezia, un calo del 50,2% di passeggeri rispetto al 2019.

    La Sorical in liquidazione con le consulenze a go-go

    Per Sorical, società che dal 26 febbraio 2003 gestisce le risorse idriche calabresi (53,5% della Regione, 46,5% di una società controllata dalla multinazionale Veolia), la bestia nera sono invece i Comuni. Molti sono in dissesto e pre-dissesto: tanti cittadini non pagano l’acqua, tante reti sono vetuste e hanno perdite, tanti allacci sono abusivi. E il risultato è che i crediti vantati dalle amministrazioni locali ammonterebbero a circa 200 milioni di euro. La società, che paga un canone di solo 500mila euro all’anno per la gestione degli acquedotti calabresi, è in liquidazione volontaria dal 13 luglio 2012 ma oltre a continuare a garantire il servizio – e ci mancherebbe – in questi anni ha visto aumentare anche la spesa per il personale (a cui va aggiunta quella per i consulenti esterni): 13,9 milioni nel 2017, 14 milioni nel 2018, 15,6 milioni nel 2019 (fonte: Piano di razionalizzazione periodica delle partecipazioni societarie della Regione, dicembre 2020).

    E rimetti a noi i vostri debiti Sorical

    L’esposizione debitoria di Sorical quantificata in un iniziale Accordo di ristrutturazione partiva da 386 milioni di euro, oggi è scesa di parecchio – secondo la società del 68% – ma resta comunque un bel problema. Specie perché, ora che si vorrebbe revocare la liquidazione e rendere il capitale interamente pubblico, c’è da fare i conti con una banca tedesco-irlandese, la Depfa Bank, che è assieme a Enel il principale creditore di Sorical, con cui anni fa ha sottoscritto degli strumenti finanziari derivati e a cui ha dovuto evidentemente cedere delle garanzie.

    Pronti al Recovery

    Ma fermi tutti, ora c’è il Recovery fund. Il Pnrr assegna un gruzzolo molto sostanzioso alle risorse idriche, ma per metterci le mani sopra bisogna rilevare le quote dei privati e convincere la banca, cosa che non riuscì alla Giunta guidata da Mario Oliverio. Vedremo se ce la farà la governance leghista che accomuna Spirlì e il commissario Sorical Cataldo Calabretta. Quel che è certo è che la Regione dovrà metterci dei soldi perché è l’unica, anche stavolta, a poterlo fare.

    Per ora di concreto c’è solo un atto di indirizzo per verificare le condizioni e la fattibilità dell’operazione, intanto va chiarito che una Spa, anche se sarà interamente a capitale pubblico, resta un soggetto di diritto privato. La disciplina a cui è sottoposta è quella dettata dal codice civile in materia di impresa. Poi ci sono i ritardi dell’Autorità idrica calabrese, l’ente di governo d’ambito diventato operativo dopo anni di inerzia. Non ha ancora individuato il soggetto gestore che, a questo punto, non potrà che essere la “nuova” Sorical.

    I timori dei comitati per l’acqua pubblica

    Le perplessità dei comitati per l’acqua pubblica, che continuano a chiedere che venga rispettata la volontà popolare espressa con il referendum tradito di 10 anni fa, riguarda quello che potrebbe succedere dopo. Dopo che eventualmente la Regione avrà messo i soldi per revocare la liquidazione e dopo che gli investimenti sulle reti saranno realizzati con i soldi del Recovery. Non è che una volta sanata la società e ammodernati gli acquedotti – si chiedono gli attivisti – si spalancheranno di nuovo le porte ai privati? Non è che l’obiettivo è far tornare la gestione dell’acqua calabrese appetibile per chi cerca il profitto e per chi non vede l’ora di svendere i beni comuni in cambio di nuove clientele?

    Il rapporto dell’Arera

    Intanto l’Arera (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) proprio qualche giorno fa ha segnalato a Governo e Parlamento che «permane nel nostro Paese un Water Service Divide» e che «persistono situazioni, principalmente nel Sud e nelle Isole, in cui si perpetuano inefficienze». La segnalazione si basa sui risultati del monitoraggio semestrale sugli assetti locali del servizio idrico integrato svolto dalla stessa Autorità attraverso l’analisi delle informazioni trasmesse dagli enti di governo d’ambito e da altri soggetti territorialmente competenti secondo la legislazione regionale.

    Se non si cambia rotta addio soldi del Pnrr

    Un quadro di criticità che evidenzia «la necessità di un’azione di riforma per il rafforzamento della governance della gestione del servizio idrico integrato, soprattutto in considerazione del permanere di situazioni di mancato affidamento del servizio in alcune aree del Paese». Quali? «Molise e Calabria, nonché la parte maggioritaria degli ambiti territoriali di Campania e Sicilia». Senza questi adempimenti, insomma, i soldi del Pnrr – che indica la strada della gestione «industriale» delle risorse idriche – rischiano di restare un sogno. Forse anche per questo c’è tanta fretta dopo anni di ritardi e di gestione evidentemente fallimentare dei manager indicati dalla politica. Chissà poi chi eventualmente sarà, tra il Pollino e lo Stretto, a governare questi flussi di denaro e questa gestione «industriale» dell’acqua dei cittadini.

  • Sanità: dai morti nelle Rsa agli affari, il partito trasversale sotto inchiesta

    Sanità: dai morti nelle Rsa agli affari, il partito trasversale sotto inchiesta

    «Sono stati molto solerti quando dovevano segnalarmi che avevo dimenticato di pagare la retta. Invece mi hanno inviato solo un messaggio WhatsApp per comunicarmi che mia madre aveva contratto il Covid. Lei poi è morta nel giro di un mese. E io non ho potuto neanche vederla, salutarla, far celebrare un funerale o anche solo una messa».

    Quella di Giuseppe, avvocato di Soverato, è una delle storie della “Domus Aurea”, ma non è l’unica. «Ad altri è andata peggio», racconta, «una persona che conosco ha scoperto che suo fratello era morto, dopo essere stato contagiato nella stessa struttura, solo da una telefonata di cordoglio che gli è arrivata da altri. Avevano appreso prima di lui la notizia».

    Uno stillicidio di morti

    Mettono i brividi i racconti dei familiari di chi ha vissuto i giorni terribili della Rsa di Chiaravalle Centrale, entroterra catanzarese, diventata un focolaio di Covid costato la vita a 28 persone. È successo poco più di un anno fa, ma il tema della sanità e del rapporto coi privati, nonostante una campagna elettorale già in corso, non sembra centrale nel dibattito di oggi.

    Il primo caso accertato a Chiaravalle risale al 25 marzo 2020. Poi, per la lunghissima settimana successiva, sono rimasti tutti lì, mentre morivano i primi sette pazienti.
    La narrazione social li chiama “nonnini”, ma tra quelle 28 vittime c’era anche chi aveva poco più di 60 anni. Dopo un tira e molla tra la Regione e la proprietà della struttura i pazienti sono stati trasferiti a Catanzaro, ma lo stillicidio di morti non si è fermato fino a maggio inoltrato. Il rimpallo di responsabilità e il contenzioso legale invece prosegue tuttora, a distanza di oltre un anno da quella tragedia umanitaria.

    Tengo… Parente

    Sembra lontanissima e altrettanto dimenticata la vicenda di un’altra Rsa-focolaio, quella di Villa Torano, nel paese cosentino di Torano Castello. Lì i contagi, a cavallo di Pasqua 2020, hanno abbondantemente superato quota 100. Ha fatto discutere perché è emerso un atteggiamento diverso da parte della Regione nei confronti della struttura, con la Cittadella che ha aggirato perfino i suoi stessi provvedimenti.

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    Uno stralcio dell’ordinanza di Jole Santelli che stabiliva le procedure da seguire in casi cone quello di Villa Torano

    Per esempio: il titolare ha confermato di aver avuto direttamente dalla Protezione civile regionale circa 200 tamponi per gli ospiti della sua clinica privata. Ma ciò è avvenuto in una fase delicatissima in cui i test per il Covid venivano ancora distribuiti col contagocce. Erano poche centinaia quelli che in quei giorni venivano effettuati in tutta la Calabria.

    La proprietà della struttura fa riferimento al gruppo guidato da Massimo Poggi, ex socio di Claudio Parente – big del centrodestra calabrese, esponente di Forza Italia e coordinatore di una delle liste (“Casa delle libertà”) che ha contribuito alla vittoria elettorale del 2020 – le cui quote nella società che gestisce questa e altre cliniche private sono state rilevate anni fa dalla moglie.

    La magistratura indaga

    Su questi due casi, lontani e distinti non solo geograficamente, la magistratura ha aperto altrettante inchieste di cui ancora non si conosce l’esito. Per Villa Torano la Procura di Cosenza ha acceso i riflettori su alcune morti sospette e sul boom di contagi. Ipotizza i reati di epidemia colposa e omicidio colposo. Per la Rsa di Chiaravalle la Procura di Catanzaro punta ad accertare le cause del contagio di massa e se ci siano state eventuali omissioni da parte degli enti competenti nella gestione dell’emergenza e nel trasferimento di pazienti e operatori quasi tutti infettati nella struttura.

    Profitto vs Bene collettivo

    Ciò che resta, al di là dei risvolti giudiziari di una tristissima strage di anziani, è il nodo dei rapporti tra la politica, ad ogni livello e in ogni schieramento, e l’imprenditoria di settore. Non è in discussione la possibilità di fare affari perfettamente leciti in questo settore. Ma è un fatto che ci siano joint venture più o meno ostentate tra i decisori politici – che anche in regime di commissariamento non si astengono dal far sentire il loro peso – e i portatori di interessi che rispondono alle logiche del profitto e non a quelle del bene collettivo.

    Le cointeressenze, così come le guerre di burocrazia e gli intrecci politici, non riguardano solo la Calabria. Spesso, mentre sul territorio la sanità pubblica annaspa tra tagli ed emergenze, del business calabrese dei privati si discute nei palazzi romani. I due mondi non sono così distinti e quello della sanità privata è senza dubbio un partito trasversale.

    Il sindaco del settore Sanità

    Per esempio, nella Cariati in cui i cittadini occupano per lungo tempo l’ospedale per chiederne la riapertura, il sindaco si chiama Filomena Greco. La sua è una famiglia di imprenditori i cui interessi dall’olio e dal vino si sono estesi alle cliniche private. La loro area di riferimento è il Pd, con amicizie che a quanto si racconta vanno da Renzi a D’Alema.

    Sono proprietari degli “Ospedali Riuniti iGreco”, gruppo che nasce nel 2013 con l’acquisizione della Casa di Cura “Madonna della Catena” e nel 2014 si amplia con l’acquisizione delle strutture “La Madonnina” e “Sacro Cuore”. E, a proposito di trasversalismi, acquista pochi mesi fa ulteriori cliniche. Quelle dei Morrone, big del centrodestra e presenza fissa o quasi da anni in Consiglio regionale, col figlio Luca a prendere il posto che fu del padre Ennio.

    A una loro cerimonia di presentazione del gennaio del 2018 c’erano – riferiscono le cronache locali – oltre tremila persone. Tra di loro anche due deputati del Pd dell’epoca, Brunello Censore e Ferdinando Aiello. Quest’ultimo oggi è indagato assieme all’ex procuratore aggiunto antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, trasferito per ragioni disciplinari a Potenza come giudice civile. La Procura di Salerno lo accusa di aver sostanzialmente asservito la propria funzione proprio all’ex parlamentare dem.

    Ancora un’inchiesta

    Altro caso recentissimo è quello dell’inchiesta che coinvolge l’ex sindaco di Amantea Mario Pizzino e l’imprenditore Alfredo Citrigno, indagati per corruzione dalla Procura di Paola in relazione all’apertura di un centro diagnostico. I locali sarebbero stati ceduti dai familiari del politico al noto gruppo imprenditoriale cosentino.

    Fino a prova contraria non significa che i Greco, Parente, Citrigno o altri siano penalmente colpevoli di qualcosa, ci mancherebbe. Si tratta però di casi che forse qualcosa raccontano sui rapporti tra la politica calabrese (e non solo) e molti gruppi della sanità privata.

    I dubbi dei sindacati

    A chiedere chiarezza sono anche i sindacati. Angelo Sposato, segretario generale della Cgil, a margine di un’audizione con la Commissione parlamentare antimafia, ha ribadito pubblicamente la richiesta di «verificare gli accreditamenti nella sanità privata, gli appalti e le forniture». Una proposta poi rafforzata anche dall’intera assemblea del sindacato calabrese, che si è riunita alla presenza del leader nazionale Maurizio Landini.

    Spesso a rimanere schiacciati in situazioni drammatiche sono i lavoratori. È il caso del Sant’Anna Hospital di Catanzaro, una clinica privata d’eccellenza per la cura delle patologie cardiovascolari. Un contenzioso tra Asp e proprietà – con in mezzo un’inchiesta su presunti ricoveri fantasma in Terapia intensiva – ha portato per settimane al congelamento di un contratto da 24 milioni di euro relativo al 2020.

    Antonio Jiritano, dirigente dell’Usb in prima linea in questa e altre vertenze della sanità, conosce bene la situazione. «Per Catanzaro il Sant’Anna è come la Fiat per Torino. La nostra battaglia – spiega – non è certo per favorire i privati, che anzi abbiamo spinto a metterci dei soldi dopo che hanno guadagnato per vent’anni, bensì per i lavoratori. Non si possono tenere alla corda centinaia di persone».

    Sempre più soldi ai privati

    Intanto, anche per avere un’idea dei soldi pubblici che si investono annualmente nel settore, basta leggere l’ultimo decreto del commissario ad acta della sanità calabrese. Guido Longo ha fissato il tetto massimo per l’acquisto di prestazioni di assistenza territoriale sociosanitaria e sanitaria da privato accreditato. Il documento prevede, per il 2021, uno stanziamento complessivo di 186,8 milioni di euro. La somma è in aumento di oltre 12 milioni rispetto all’anno precedente e di 14 milioni rispetto al 2019.
    Il decreto suddivide così il budget: all’Asp di Cosenza 75 milioni, a Catanzaro 38,4 milioni, a Crotone 32,675 milioni, a Reggio Calabria 36,487 milioni e a Vibo Valentia 4,2 milioni.