Autore: Sergio Pelaia

  • Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    La reale consistenza dell’élite culturale e politica di Vibo è nitidamente rappresentata da una recentissima polemica, ma anche da due distinti episodi del passato. La vicenda non riguarda una delle solite storie di sciatteria istituzionale a cui è abituato chi vive nella provincia più marginale della periferia d’Italia. Di mezzo c’è, invece, una realtà che è considerata un’eccellenza: il Sistema bibliotecario vibonese. Un’istituzione che rende un servizio essenziale ed è protagonista, tra le altre cose, dell’organizzazione del Festival Leggere&Scrivere, rassegna che ogni anno attira quaggiù i nomi più importanti del panorama culturale italiano.

    Di padre in figlio

    La polemica l’ha sollevata il Pd locale, che al Comune è all’opposizione e ha chiesto pubblicamente chiarezza sulla nomina a direttore del Sistema bibliotecario di Emilio Floriani, figlio del direttore storico, Gilberto. Il capogruppo del Pd, Stefano Luciano, ha sostanzialmente domandato delucidazioni sul passaggio del timone da padre in figlio, sull’eventuale pagamento del canone per i locali comunali occupati dal Sistema (un palazzo monumentale nel centro storico) e su quale tipo di rapporti ci siano con il Comune, anche in relazione alle iniziative di Vibo Capitale italiana del libro 2021.

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    Gilberto Floriani, direttore del Sistema bibliotecario vibonese, ha nominato come suo successore il figlio Emilio – I Calabresi

    All’interrogazione, presentata due mesi e mezzo fa, non ha ancora risposto né il sindaco né l’assessore competente. Lo ha fatto invece Floriani (padre) su Facebook lanciando un «appello in favore del Sistema bibliotecario vibonese». Floriani senior ha parlato del «tentativo» di «danneggiare una grande realtà culturale che solo bene ha portato alla città nel corso degli anni». E annunciato che per «reagire democraticamente a queste strumentalizzazioni gli operatori e i volontari del Sistema intendono essere presenti ai lavori del Consiglio comunale».

    Oggi gli attacchi, domani gli accordi

    Per approfondire la controversia basta consultare pagine e profili social dei protagonisti e chi abbia torto o ragione, forse, non è poi così interessante. È significativa invece la dinamica e l’atteggiamento di chi l’ha innescata. Luciano, oltre che un affermato avvocato, è un giovane ma esperto politico che studia da sindaco da un pezzo. Ed è già passato da una parte all’altra dell’arco costituzionale con la stessa destrezza con cui Floriani da anni domina la scena culturale locale, dimostrandosi abile a coltivare rapporti con le amministrazioni pubbliche che spesso ne sovvenzionano, legittimamente, le attività.

    La polemica non è direttamente collegata con i due episodi del passato – uno sull’élite politica e l’altro su quella culturale – che riportiamo di seguito. I protagonisti sono però in qualche modo il sottoprodotto di due mondi, o forse di un’unica aristocrazia, che da anni fa il bello e il cattivo tempo a Vibo. E tutto, la diatriba recente come le ombre del passato, c’entra molto con l’assuefazione alle pratiche del familismo, del consociativismo e con la consuetudine per cui tutto, a queste latitudini, debba muoversi attraverso guerre per bande e oscure alleanze. Oggi magari ci si attacca, ma domani probabilmente ci si accorderà. Il risultato è sempre lo stesso, fermentato in un unico brodo di coltura in cui germogliano solo corrispondenze inconfessabili mirate alla conservazione del potere.

    «L’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia»

    Il primo episodio riguarda un articolo, seguito da un processo per diffamazione a mezzo stampa. Uscì a dicembre del 1966 sui Quaderni calabresi, mensile politico-culturale del circolo Salvemini. Il pezzo denunciava ciò che gli autori definirono «l’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia».

    Il fatto era questo: un uomo aveva avuto la concessione per installare un distributore di benzina in un luogo in cui il Piano regolatore prevedeva altro, cioè una strada pubblica. Il sindaco, solitamente rigido sulle concessioni, in quel caso non si era dimostrato tale. La maggioranza dei consiglieri comunali aveva poi ratificato la concessione. E quell’uomo aveva impiantato le sue colonnine «dove nessuno avrebbe osato neppure immaginare».

    La decisione aveva destato scalpore. Il beneficiario aveva diverse grane giudiziarie e c’entrava con «una lunga e cruenta guerra mafiosa ingaggiata attorno ad alcune società petrolifere in Calabria e nel Lazio». Vibo era l’«epicentro» di quegli affari. E nelle paventate collusioni con l’alta borghesia politica della città gli autori dell’articolo individuavano il debutto palese del vero potere mafioso, il prodotto della presunta intesa segreta tra il crimine e l’élite.

    Il sindaco e lo ‘ndranghetista

    Il sindaco dell’epoca era Antonino Murmura, divenuto poi senatore Dc e rimasto per decenni assessore ai Lavori pubblici o all’Urbanistica. Artefice istituzionale della Provincia e politico vibonese più influente dai tempi del ministro fascista Luigi Razza, aveva portato in Tribunale i redattori della rivista. Che furono assolti 4 anni dopo con sentenza poi confermata in Appello.

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    L’ex sindaco e senatore Antonino Murmura – I Calabresi

    L’uomo che, 60 anni prima dell’inchiesta “Petrolmafie”, aveva piazzato quelle colonnine era un Pardea. Detti “Ranisi”, fin dal Dopoguerra sono stati i custodi della tradizione ‘ndranghetista a Vibo. Poi altre famiglie si sono affacciate sul panorama criminale e ad avere il sopravvento sono stati i Lo Bianco-Barba, federati ai Mancuso. Dal gruppo Lo Bianco a un certo punto si è distaccato Andrea Mantella, killer ragazzino divenuto boss emergente che non sottostava allo strapotere dei Mancuso. Oggi è uno dei principali pentiti del maxiprocesso “Rinascita-Scott”. E in uno dei suoi verbali ha raccontato una vicenda vissuta al fianco di Franco Barba, un imprenditore edile che «ha costruito mezza Vibo».

    Il killer e l’intellettuale

    È il secondo episodio, quello sull’élite culturale. Nei primi anni 2000 Barba e Mantella sarebbero andati da «una persona importantissima» (non indagata in Rinascita-Scott, ndr), in una «grandissima casa antica, vecchio stile tipo castello, con mobili antichissimi e piena di libri», per parlare della compravendita di un terreno da un milione di euro. La persona che li aveva ricevuti subito, pur senza preavviso, secondo Mantella «sapeva benissimo che aveva a che fare con mafiosi e che i soldi venivano dai Mancuso».

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    Il pentito Andrea Mantella – I Calabresi

    Lo stesso costruttore avrebbe raccontato di avergli portato uno «zainetto pieno di soldi con il quale lo ha “stordito” per cui l’affare è stato concluso». Mantella lo identifica in Luigi Lombardi Satriani, antropologo entrato a buon diritto nel gotha della cultura calabrese, eletto al Senato alla fine degli anni ’90 con il centrosinistra e all’epoca componente della Commissione Antimafia. Negli anni non ha fatto mancare il suo autorevole contributo di studioso ai Quaderni calabresi.

    Epilogo. Il 28 ottobre 2021 il procuratore di Vibo Camillo Falvo, già pm nel pool antimafia dell’agguerrito Nicola Gratteri, è stato premiato, nel corso della seconda giornata del Festival Leggere&Scrivere, dall’associazione “Antonino Murmura”. Le motivazioni enunciate alla consegna della targa fanno riferimento al «suo fondamentale contributo alla giustizia», al «corretto e puntuale esercizio dell’azione penale», alla capacità di dimostrare che «non può essere veramente onesto ciò che non è anche giusto».

     

  • L’assalto agli aeroporti calabresi, la Lega e il fuggi fuggi

    L’assalto agli aeroporti calabresi, la Lega e il fuggi fuggi

    Quando la politica si è svegliata l’assalto era già bell’e consumato. Qualcuno ci aveva già provato nel 2014 senza riuscirci, oggi invece la privatizzazione della società che gestisce la principale porta d’ingresso della Calabria si è concretizzata nell’indifferenza degli enti pubblici coinvolti. Solo a cose fatte Roberto Occhiuto, «un po’ arrabbiato», si è reso conto che proprio appena prima che lui diventasse presidente «il privato ha messo in atto strane procedure per trasformare l’assetto proprietario ed avere così la maggioranza delle quote» della Sacal, che gestisce i tre aeroporti calabresi.

    L’ira di Roberto Occhiuto

    Secondo il neo governatore la scalata sarebbe «contro la legge», secondo i privati che l’hanno condotta – i Caruso, famiglia di imprenditori lametini che possiede la società Lamezia Sviluppo –tutto sarebbe invece avvenuto nel rispetto della legge e dello statuto di Sacal «nell’interesse di salvaguardare i dipendenti e la continuità dell’azienda». Al di là delle rispettive convinzioni giuridiche e degli asseriti intenti filantropici, in questa storia il privato ha fatto il privato acquisendo le quote che gli enti pubblici hanno lasciato scoperte. Se lo abbia fatto legittimamente lo verificheranno, eventualmente, la Procura di Catanzaro, l’Antitrust e l’Autorità nazionale anticorruzione a cui l’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) si è rivolta avviando il procedimento di revoca della concessione per l’aeroporto di Lamezia e proponendo la nomina di un commissario per la gestione operativa dello scalo.

    Il centrodestra gioca a scaricabarile

    Scoppiata la bomba è subito partito lo scaricabarile tra, per esempio, Comune/Provincia di Catanzaro – entrambi guidati da Sergio Abramo, approdato prima delle elezioni a “Coraggio Italia” – e la stessa Regione, guidata fino ad appena due settimane fa da Nino Spirlì, uomo di punta della Lega a cui Matteo Salvini fa spesso sapere di essere molto grato «per quello che ha fatto per la sua gente».

    Un tutti contro tutti che ha visto anche Mimmo Tallini criticare il sindaco di Catanzaro, a cui ha risposto anche lo stesso Spirlì sostanzialmente scaricando le responsabilità sul presidente Sacal Giulio de Metrio che però è stato voluto proprio dalla Lega. Insomma i vari Abramo, Spirlì, lo stesso Occhiuto che era già in piena campagna elettorale, erano distratti mentre i privati si prendevano Sacal e solo ora sono diventati loquaci.

    L’allarme inascoltato della Cgil

    Nessuno però può dire che non si sapesse quanto il rischio della privatizzazione fosse concreto. I Calabresi ne ha scritto a inizio agosto  quando Spirlì aveva assicurato il consiglio regionale che la maggioranza sarebbe rimasta pubblica. La Filt Cgil lanciava allarmi da mesi. E se non bastasse tutto ciò ci sono anche atti ufficiali come la delibera con cui il Comune di Lamezia, retto in quel momento da un commissario prefettizio, approvava per le quote una variazione di bilancio da 150mila euro, comunque non sufficienti a confermare il 19,2% dell’ente (maggior azionista) che oggi è sceso all’11%.

    Aeroporti in crisi di liquidità

    La S.P.A. che gestisce i tre aeroporti calabresi si è trovata quest’anno in una crisi liquidità – secondo la stessa società e la Regione esclusivamente riconducibile al crollo del traffico aereo durante la pandemia – che ne ha messo a rischio la tenuta. Si è così arrivati a una ricapitalizzazione da circa 10 milioni di euro ed erano state anche fissate delle scadenze precise per i soci. Le riporta nero su bianco la stessa delibera del Comune di Lamezia, che risale ai primi di agosto: per la sottoscrizione dell’aumento di capitale il termine fissato era il 30 luglio; per l’esercizio del diritto di opzione sulle azioni non sottoscritte dagli aventi diritto il termine era al 30 settembre; per esercitare il diritto di prelazione sulle azioni rimaste inoptate la deadline era quella del 4 novembre.

    Cronaca di un assalto annunciato

    È la cronaca di un assalto annunciato. E mentre gli alleati di Occhiuto guardavano altrove i privati sono riusciti a fare ciò che non era stato possibile nel 2014. All’epoca era appena stato eletto Mario Oliverio ma non era ancora stato indicato per la guida della Sacal il superprefetto/poliziotto Arturo De Felice, chiamato a spendere il suo prestigio legalitario dopo la bufera dell’inchiesta “Eumenidi”.

    La Spa che ha accorpato gli aeroporti

    Sotto la sua presidenza, nel 2017, la Spa ha accorpato a sé anche agli aeroporti di Reggio e Crotone reduci dai fallimenti delle rispettive società di gestione. Da lì sono cominciati anche i problemi finanziari, sfociati nell’anno del Covid in una crisi di liquidità senza precedenti.
    La Regione ci ha dunque messo i soldi approvando in Consiglio la sottoscrizione da 927mila euro che doveva servire a confermare il 9,27% delle azioni, misteriosamente però oggi Occhiuto parla di una quota minore in capo alla Cittadella, ovvero il 7%.

    ll supermanager in quota Lega

    Spirlì aveva addirittura annunciato cantieri «per 60 milioni di euro» sui tre scali, forte dell’asse con il supermanager di area leghista chiamato alla guida di Sacal nell’era Santelli. De Metrio ha tenuto nascosto il Piano industriale e ingaggiato una lotta durissima con i sindacati che, indignati per il suo super stipendio da 240mila euro l’anno, in estate hanno chiesto certezze occupazionali per lavoratori stagionali e part time.

    A Lamezia, inoltre, ancora aspettano che sia de Metrio che la Regione trasformino in fatti le parole sulla nuova aerostazione: bocciato dalla Commissione europea un progetto da 50 milioni di euro, si è parlato di un altro che dovrebbe costare la metà. Il finanziamento da 25 milioni di euro però doveva arrivare dall’Europa passando proprio dalla Cittadella, ora invece non lo si potrà certamente destinare a un privato. Per non parlare del mitologico collegamento «multimodale» tra stazione ferroviaria e aeroporto, un ultimo miglio di cui si parla da anni e che ancora è solo sulla carta.

    La scalata agli aeroporti calabresi 

    Alla luce di questo quadro non proprio edificante, il rimpallo di responsabilità della classe dirigente che guida la Calabria da due anni risulta un’ulteriore beffa. La scalata dei privati è avvenuta nel momento in cui la governance della Sacal e quella della Regione erano appannaggio della Lega, che a quanto se ne sa è ancora oggi un’alleata di ferro di Occhiuto (con tanto di rappresentanza in Giunta e Presidenza del consiglio regionale già aggiudicata) e addirittura ora, con un certo sprezzo del ridicolo, «plaude» alla sua «azione di chiarezza» parlando di «malaffare» e di «lobby di potere» su una Sacal che sostanzialmente ha finora governato tramite i suoi uomini.

    Un fuggi fuggi indecoroso di fronte a uno scandalo enorme. Nessuno può dire di essersi accorto solo adesso degli «strani accordi» che hanno fatto finire in mano privata un settore di enorme interesse strategico per l’intera regione. E nessuno può negare che nel recente passato siano scattate inchieste e misure cautelari per molto meno.

  • Dieci giorni con Virginia nella terapia intensiva dei neonati

    Dieci giorni con Virginia nella terapia intensiva dei neonati

    Il limbo dei bimbi esiste ed è al terzo piano di un edificio enorme che domina Catanzaro. Mi ci ha portato mia figlia, Virginia Sara, quando aveva appena 7 ore di vita, facendomi scoprire un microcosmo che non avevo idea esistesse fino a quel momento. Le ansie, i dolori e le gioie di un evento primitivo e sublime come il parto sono stati spazzati via in un attimo. Una puericultrice esperta, con sguardo e nome da madre, si è accorta che qualcosa non andava, che la piccola non respirava bene. Quindi i primi controlli, gli esami approfonditi, la diagnosi di una brutta infezione e il ricovero in Terapia intensiva neonatale. Colpo tremendo: dalla meraviglia di scoprirsi genitori all’angoscia più buia in poche ore.

    L’ingresso del reparto di Patologia Neonatale all’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Dieci giorni in terapia intensiva

    Quello che ho conosciuto in quei giorni, dieci interminabili giorni, è un luogo sospeso, in cui la vita e la morte quasi si toccano mentre galleggiano nell’indeterminatezza. All’ingresso della Tin dell’ospedale “Pugliese” c’è un bottone rosso che fa aprire, silenziosa e lenta, una porta blu. Al di là c’è uno stanzone pieno di luci e di suoni che non sono quelli che dovrebbero accompagnare un bambino nelle prime ore in cui si affaccia sul mondo. Dentro ci sono, affiancate una all’altra, tante incubatrici. In ognuna c’è un neonato che piange e scalcia e lotta aggrappandosi istintivamente alla vita. A fianco o in sala d’attesa o a casa ci sono dei padri e delle madri che si sentono genitori a metà, catapultati dentro un tunnel di cui forse avranno piena contezza solo se e quando ne usciranno. E poi c’è il personale sanitario che in quel limbo ci lavora, quasi tutte donne, la cui sensibilità umana e professionale è tanto grande quanto la corazza che deve indossare ogni giorno chi si muove tra la vita e la morte di un neonato.

    Un messaggio di speranza e bellezza nel reparto di Patologia neonatale all’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Sono pochi ma tutti preparatissimi

    Sono preparatissimi ma numericamente non abbastanza, non per quello che fanno lì dentro, loro comunque non si fermano un attimo. Macinano km curando e coccolando i bimbi, provando a contenere le preoccupazioni e l’impazienza dei genitori, non nascondendo né edulcorando né ingigantendo nulla, ma proprio nulla di quello che succede ai loro piccoli. Sanno che hanno di fronte gente che telefona alle 2 di notte in reparto o che rimane in sala d’attesa per delle ore, magari passando in rassegna cento volte le card con i personaggi del dr. House che qualcuno ha appiccicato sull’attaccapanni, o interrogandosi sull’umanissima Madonna di Benois di Leonardo raffigurata nel quadro all’ingresso.

    L’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Mia figlia promossa in sub intensiva

    Quando ogni giorno devi percorrere le strade calabresi per andare a vedere tua figlia attaccata a un tubicino e con degli aghi infilati dappertutto tutto il resto perde dimensione e colore, tutto diventa grigio e piatto. Quando ogni giorno fai andata e ritorno su quelle statali, magari singhiozzando mentre Jannacci dalla pennetta usb sghignazza «…se me lo dicevi prima…», l’intera esistenza si comprime in quelle ore in cui hai lei davanti, anche se è dentro una scatola trasparente in mezzo a tanti altri bimbi lontani dal calore che a tutti loro e a tutti i bimbi del mondo non dovrebbe mai mancare. Quando esulti perché un medico ti dice che «Virginia è stata promossa» in sub intensiva e quando, dopo qualche giorno, ti ritrovi a casa con lei a fianco che ti respira addosso e ride mentre dorme, allora capisci quanto sei fortunato, mentre tanti altri passano ancora più giorni e settimane e mesi in quella sofferenza rituale che intorpidisce l’anima. E hai la pelle d’oca, e non ci credi ancora.

    E ti risuona in mente quella canzone di Enzo Iannacci: E allora è bello. Quando tace il water. Quando ride un figlio. Quando parla Gaber (…) E sarà ancora bello. Quando guardi il tunnel. Che è ancora lì vicino e non ci credi ancora. E sei venuto fuori. E non ci credi ancora. E c’hai la pelle d’oca. E non ci credi ancora”.

    Sergio Pelaia

     

  • Dalle Serre alle stelle, se al Cern si parla calabrese

    Dalle Serre alle stelle, se al Cern si parla calabrese

    C’è una scuola, in un paese dell’entroterra calabrese, in cui un preside custodisce gelosamente un tubo fotomoltiplicatore e un piccolo, ma raro, prototipo di calorimetro elettromagnetico formato da strati di piombo ed elettrodi in rame con forma a fisarmonica, il tutto immerso in argon liquido. Quei pezzi provengono dall’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra e a portarli all’istituto “Einaudi” di Serra San Bruno è stata Teresa Barillari, scienziata di caratura internazionale che proprio da quel paese di 7mila abitanti sulle montagne del Vibonese, e proprio da quel liceo, è partita per approdare prima all’Unical, entrando nel team di Antonino Zichichi ai tempi della tesi di laurea, per poi diventare Group Leader al Max-Planck Institute for Physics di Monaco e Deputy Team Leader nell’esperimento ATLAS dell’acceleratore di particelle più grande e potente del mondo.

    Fa la spola tra Ginevra e Monaco di Baviera ma torna spesso in Calabria. Le abbiamo rivolto qualche domanda per provare a capire qualcosa in più del suo lavoro, della ricerca scientifica, dei risvolti che lo studio della fisica può avere nella vita di tutti i giorni. Partendo dal Nobel assegnato di recente al fisico Giorgio Parisi, premiato, tra gli altri, assieme a Klaus Hasselmann che proviene proprio dal Max-Planck, istituto che ha oggi in “bacheca” 36 dei prestigiosi premi assegnati a Stoccolma.

    Parisi ha detto di essersi occupato del caos, la scoperta per cui è stato premiato riguarda i sistemi complessi. Di cosa si tratta, in termini comprensibili anche ai non addetti ai lavori?

    «Rispondo citando l’esempio fatto da lui stesso: “La prima volta che proviamo a mettere i bagagli dentro la macchina non c’entrano tutti. Poi proviamo ad ottimizzarne la disposizione, tolgo questo qui, metto quello lì… facendo un po’ di manovre alla fine c’entrano tutti. Il giorno dopo riprovo e non mi ricordo come avevo fatto, poi magari viene un’altra persona e trova una soluzione diversa su come disporre le valigie in macchina. Ecco, le due soluzioni sono differenti” ma hanno lo stesso risultato.

    I sistemi complessi e le loro soluzioni hanno lo stesso comportamento e diversità di soluzioni da caso a caso. La complessità di un sistema deriva da quello che viene chiamato disordine. Si può pensare a un tavolo da biliardo. Quando si tira la prima palla, si può ipotizzare dove potrebbe andare, ma tutti i tiri successivi al primo saranno difficili da intuire. Parisi ha scritto una formula matematica che riusciva a prevedere in qualche modo il comportamento dei sistemi complessi. Ci sono voluti circa 20 anni prima che i matematici riuscissero a provare che quella formula fosse corretta. Io ammiro Parisi per la personalità semplice, per la sua passione e per la capacità di spiegare in parole semplici cose difficili».

    Cosa succede in quell’enorme cilindro costruito sul confine franco-svizzero a cento metri sottoterra?

    «In generale due “pacchetti” di particelle (ogni pacchetto è composto da circa 100 miliardi di protoni) sono accelerati in versi opposti nel Large Hadron Collider (LHC). I due pacchetti di protoni sono fatti scontrare l’uno contro l’altro nel punto centrale di grossi rivelatori del LHC, come per esempio il rivelatore ATLAS, dove lavoro io, o come l’altro rivelatore, CMS. I prodotti delle collisioni protone-protone vengono osservati da ATLAS/CMS e si spera che da queste interazioni si possano scoprire nuove particelle o altre scoperte. Nel 2012 con i rivelatori ATLAS e CMS abbiamo scoperto il bosone di Higgs».

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    L’esperimento ATLAS del Cern di Ginevra
    Quali possono essere le conseguenze pratiche dello studio della fisica? Quanto ha a che fare, per esempio, con la salute o con la scienza climatica?

    «Parisi a una domanda analoga ha risposto che la scienza pura da sempre, in un modo o in un altro, porta risultati pratici alla società. Al Cern di Ginevra e in Italia noi abbiamo avuto colleghi durante la pandemia che hanno usato la loro esperienza e la loro conoscenza scientifica per costruire respiratori che poi sono stati usati negli ospedali. Il Cern ha fatto usare il proprio centro di calcolo e i propri computer ai medici che a livello mondiale volevano analizzare in modo veloce i dati raccolti in questi mesi di per capire come i loro studi procedessero.

    La ricerca di Parisi sui sistemi complessi viene applicata anche alla scienza climatica. Come si può leggere qui “il legame delle ricerche di Parisi con quelle sul clima riguardano la natura stessa di quest’ultimo, ossia quella di sistema complesso. Il suo studio infatti prevede una caratterizzazione di diversi sottosistemi climatici, come ad esempio l’atmosfera, l’oceano, la biosfera, su molte scale temporali”».

    Meno di 60 donne hanno vinto il Nobel, nella fisica 4 donne e 212 uomini. In Germania le presenze femminili nelle facoltà scientifiche sono sotto il 15%, peggio che in Italia dove sono al 37% (da segnalare che Catanzaro è tra le 12 università italiane in cui ci sono più studentesse che studenti).
    C’è un problema di genere, una questione femminile, nel mondo della scienza? È stato difficile da un paesino dell’entroterra del Sud arrivare dov’è ora?

    «Sì, c’è un problema di uguaglianza. Credo che in Italia la situazione delle scienziate sia migliore che in Germania. Credo che la discriminazione di genere anche a livello scientifico sia ancorata a una cultura chiusa, che rinchiude le persone in ruoli sociali imprigionando le menti. In tutto il mondo adesso si cerca di sopperire a questo gap di genere. Ci vorranno anni per cambiare questo stato di cose, ma cambierà.

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    Marie Curie, una delle sole quattro donne ad ottenere il Premio Nobel per la Fisica. Se ne aggiudicò anche uno per la Chimica

    Io sono cresciuta con due fratelli che mi hanno sempre spinta a cercare la mia indipendenza. I miei genitori non hanno mai ostacolato i miei sogni e la mia passione per lo studio e la fisica. Loro non si sono opposti quando decisi di trasferirmi da giovane e da sola fuori dall’Italia. Il mio unico e solo interesse, la mia grande passione è stato studiare fisica, la fisica delle particelle elementari, il resto devo dire non l’ho proprio visto, il resto era ed è per me solo bla bla bla. Devo dire che in Germania per la prima volta in vita mia ho sentito forte la discriminazione per essere una donna e una madre che si occupa di scienza. Ma ho camminato per la mia strada seguendo le mie idee e la mia passione, lasciandomi tutto il resto alle spalle».

    Molti scienziati italiani protestano contro i tagli alla ricerca, Parisi stesso ha detto che l’Italia non è un Paese per ricercatori.

    «Io credo che un Paese che non investe nella ricerca pura in generale è, o diventerà, un Paese povero. Il covid ci ha insegnato che gli scienziati esperti del settore, in Italia e nel resto del mondo, hanno aiutato i governanti e l’umanità intera a uscire da una situazione drammatica. Cosa avrebbe fatto l’Italia senza questi scienziati? Secondo me se una nazione dà fondi alla ricerca alla fine questo investimento porta benessere e prestigio alla nazione stessa. Investire nella ricerca rispecchia il benessere del Paese stesso».

    Grazie alla scienza usciremo dalla pandemia? Cosa direbbe agli scettici?

    «Sì, la scienza ci aiuterà a uscirne. Si basa su numeri, fatti, evidenze. Bisogna guardare ai numeri, per esempio ai dati sui contagi che avevamo un anno fa in Italia e a quelli di oggi. Il vaccino ha fatto quello che doveva fare. Meno persone hanno il covid in Italia e nel resto del mondo rispetto a un anno fa. Tutto questo grazie alle persone che per anni hanno passato le loro notti a studiare e testare questo vaccino e i vaccini in generale. Attualmente in Italia c’è più gente vaccinata che in Germania. Il numero di contagiati e morti in Germania attualmente è circa almeno tre volte in più che in Italia. Bisogna credere nella scienza».

  • Catanzaro, le mille ombre e la “profezia” di Ilda la rossa

    Catanzaro, le mille ombre e la “profezia” di Ilda la rossa

    Catanzaro, la città del vento, è difficile da descrivere con la retorica del mondo di mezzo. Di sicuro a quello di sotto non si dedicano mai grossi sforzi interpretativi: l’area Sud, i ghetti di viale Isonzo e dell’Aranceto, i “fortini” rom tutti droga e cavalli di ritorno. In mezzo, al massimo, ci si potrebbe collocare l’oceano umano che ogni giorno entra ed esce dai palazzi della burocrazia, dagli ospedali, dalla Prefettura, dalla Provincia e ovviamente dalla Cittadella della Regione.

    È l’esercito degli uffici e del disbrigo pratiche, il terreno su cui prospera la coltivazione intensiva di amicizie e clientele. Ciò che sta sopra, invece, sfugge alle definizioni. L’area grigia, il sistema, i salotti. Tutto già detto, tutto poco efficace per chi conosce quella parte di città che un tempo esprimeva un’oligarchia di cui, oggi, è rimasto ben poco, se non il blasone di certi licei come il “Galluppi” e il “Siciliani”.

    La lettera profetica

    La città del velluto la racconta in poche righe una lettera che oggi suona come una profezia. L’ha ricevuta, da qualcuno che ha preferito non firmarsi, la magistrata più famosa d’Italia. Di Ilda Boccassini oggi fanno discutere i giudizi più o meno edificanti sugli ex colleghi e le rivelazioni più o meno opportune sul suo passato. Ma tra le pagine della sua biografia c’è pure un capitolo dedicato alla Calabria che si intreccia con i tormenti che hanno attraversato e attraversano la giustizia italiana.

    È verso la fine del libro La stanza numero 30 – Cronache di una vita che la Rossa parla di ‘ndrangheta e di borghesia mafiosa. Ricorda la telecamera nascosta che per prima ha rivelato i riti di iniziazione in Lombardia e definisce la “zona grigia” non come entità unitaria ma realtà complessa. È il mafioso a cambiare volto e parole a seconda che abbia davanti il politico, l’imprenditore, il commercialista, l’avvocato, il medico, il poliziotto. E infiltrazione è un termine «fuorviante», spesso è il borghese a cercare il mafioso, al Nord più che in Calabria.

    Nessuno spiraglio di legalità

    Poi c’è la giustizia, con la g minuscola, e i casi finiti male di magistrati come Vincenzo Giglio e Giancarlo Giusti. Il primo fu coinvolto e condannato in una sua inchiesta milanese sul clan Lampada, il secondo si è suicidato nel marzo del 2015 mentre scontava ai domiciliari la condanna per concorso esterno divenuta da poco definitiva. Boccassini si chiede che aria si respiri oggi in Calabria e ammette quanto la risposta sia «difficile», specie provando a darla «a mille chilometri di distanza». È a questo punto che pubblica la lettera anonima ricevuta a gennaio del 2012. Un catanzarese la ringrazia per lo squarcio aperto dalla sua inchiesta – all’epoca ne fu coinvolto un consigliere regionale, Franco Morelli – ma pensa che lei «non può fare tutto». Che nella sua città «i bagliori di luce non arrivano» perché è «priva di spiragli di legalità».

    I salotti

    Si tratta di poche righe che restituiscono in maniera disarmante l’amarezza e il senso di impotenza di un cittadino non certo sprovveduto. Uno che non abita il mondo di sotto, ma anzi mostra di avere dimestichezza con l’alta borghesia. «Questa è la storia di una città che rappresenta uno spazio vuoto», scrive. Una città in cui «l’illegalità è un’istituzione», in cui «non si capisce cosa sia la mafia, semplicemente perché la mafia è tutto». Parla, l’anonimo catanzarese, di intercettazioni che un colonnello dei carabinieri rivelerebbe a un noto avvocato e che vengono usate «per ricatti o per affari».

    Catanzaro
    Il viadotto Bisantis illuminato nell’oscurità a Catanzaro

    Non solo: menziona anche un notaio che «traffica opere d’arte false e poi a lui stesso viene chiesto di autenticarle», nel cui studio «gravitano i “cutresi”». Immancabile anche il politico che «si accompagna con galeotti» che «fanno la campagna elettorale», anzi «la impongono». I salotti di questi personaggi sono «riempiti dalla città “bene”, imprenditori e giudici compresi». E quanti non sono invitati, osserva, «aspirerebbero a esserlo».

    Ombre a tutti i livelli

    Da questo j’accuse premonitore sono trascorsi dieci anni e nel frattempo qualcosa è cambiato. Diverse cose si sono rivelate per come venivano descritte e qualche spiraglio si è aperto anche in santuari degli affari prima ritenuti impenetrabili. Nicola Gratteri può piacere o meno – Boccassini cita anche il caso di Vincenzo Luberto, suo ex procuratore aggiunto accusato di aver asservito la propria funzione a un ex parlamentare – ma dalle inchieste della sua Procura, al di là dei risvolti che ne determinano la solidità nelle aule giudiziarie, emerge uno spaccato inquietante di entrambi i mondi. In qualche modo, insomma, si sono accesi i riflettori anche sulle fenditure più ombrose degli ambienti altolocati e delle periferie degradate.

    Ghetti, Chiesa e cultura

    Una donna ha raccontato, dal di dentro, che all’Aranceto lo spaccio è h24, che si fanno anche i turni di notte e che i clienti sanno che al terzo piano si vende la cocaina mentre per il kobret bisogna citofonare al quarto. Ecco: questa è la stessa città di chi i ghetti li ha creati con una mano mentre con l’altra curava gli interessi di certe dinastie imprenditoriali.

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    Un’immagine dell’operazione Drug Family che ha condotto a 31 arresti nel quartiere Aranceto di Catanzaro

    È la stessa città in cui l’Arcidiocesi è finita al centro di un caso senza precedenti e la Chiesa non si mostra certo lontana da tentazioni e proiezioni affaristiche. Ed è la stessa città del teatro Politeama e del Comunale, delle mille rassegne culturali e del policlinico universitario. La città da cui tanti giovani e brillanti “cervelli” sono quasi costretti a scappare e in cui, però, ci sono eccezioni come la carriera lampo di Fulvio Gigliotti, lo «sconosciuto professore – il copyright è di Luca Palamara – uscito per magia» dal voto online del M5S grazie al quale è arrivato a sedere nel Csm.

    Giudici e clan

    È la città dei Gaglianesi e degli zingari, clan considerati minori, se non vere e proprie propaggini delle ‘ndrine di Cutro e Isola Capo Rizzuto, ma che votano e fanno votare. È la città in cui sono esplosi i casi dei giudici Marco Petrini e Giuseppe Valea, ben visti e stimati prima che uno fosse condannato in primo grado per il giro di «soldi, vino, champagne, prestiti, favori e corruzione, regali, gamberoni, casse di vino, assegni in bianco e ancora denaro» negli uffici della Corte d’Appello in cui era presidente di sezione.

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    Il giudice Marco Petrini

    O che l’altro subisse l’interdizione per un anno perché accusato di aver avuto «un approccio infedele alla funzione pubblica esercitata» tanto da autoassegnarsi alcuni fascicoli, da presidente del Tribunale del Riesame, e decretare l’esito di ricorsi e scarcerazioni senza neanche consultare – ha segnalato la Procura guidata da Gratteri e hanno confermato alcuni suoi stessi colleghi – gli altri membri del collegio.

    La città che cambia

    È la città dei tre colli e delle tre V (la terza, dopo vento e velluto, è appannaggio di San Vitaliano), la cui ormai mitologica funicolare veniva percorsa a piedi nel 1913 da Filippo Tommaso Marinetti. Cento anni dopo Catanzaro non sembra più tanto futurista. E non è più nemmeno quella mirabilmente raccontata nel 1967 da Gianni Amelio nel corto tv “Undici immigrati”, non a caso criticatissimo dall’élite che fu, ma ritrova oggi rari momenti comunitari forse solo nell’ironia di spettacoli come quelli di Ivan ed Enzo Colacino.

    È la città in cui il mondo di sopra è ormai riempito, più che dalle massosuggestioni di «nobili istituzioni» e «architettonici lavori», dall’ossessione dei soldi. Ed è il luogo in cui sorge la Cittadella, che potrebbe rappresentare il simbolo della Regione del futuro oppure diventare l’ennesima cattedrale del (e nel) nulla, un enorme non-luogo che assurge a simbolo di quello «spazio vuoto» e grigio che è il cuore stesso della Calabria.

  • Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Al “sogno” industriale degli anni ’70, prospettato dopo i fatti di Reggio in concomitanza con la Liquichimica di Saline Joniche e il Centro siderurgico di Gioia Tauro, oggi si è sostituita la Hollywood calabrese, gli “studios” della Film Commission guidata da Giovanni Minoli. Ma non solo. Nell’area industriale di Lamezia Terme sulle ceneri di un call center hanno realizzato la mega aula bunker di “Rinascita-Scott”. E sempre lì, grazie a ingenti capitali privati, dovrebbe sorgere, ma per ora è tutto solo sulla carta, un waterfront da 2.300 posti barca e da oltre 500 milioni di euro, da intitolare a uno sceicco della famiglia reale del Bahrain, Mohamed Bin Abdulla Bin Hamad Al-Khalifa.

    Disastri a terra e in mare

    Il vero simbolo di quest’area, però, resta il pontile, lungo 600 metri e in parte crollato in mezzo al mare. Doveva servire da attracco per le navi (mai arrivate) dell’impianto chimico della Società italiana resine, nel 2012 si è sbriciolato facendo finire nelle acque del Tirreno miscele di Pcb (policlorobifenili) e diossine. L’area è tuttora interdetta alla balneazione e rappresenta lo sbocco a mare di questi 1000 ettari di pianura al centro della Calabria. Potevano essere votati all’agricoltura e al turismo sostenibile e, invece, da anni sono famigerati solo per veleni e disastri ambientali che puntualmente emergono dalle inchieste della magistratura.

    Quasi 10mila tonnellate di rifiuti

    Ci lavora, in coordinamento col procuratore Salvatore Curcio, una giovane pm, Marica Brucci, che viene dalla “Terra dei fuochi”. Una battuta sulle sue origini campane ha generato mesi fa un equivoco durante un Forum sui rifiuti: in realtà non ha mai detto che la Calabria e Lamezia sono la «nuova Terra dei fuochi». Ma ha comunque tratteggiato alcune dinamiche inquietanti emerse dalle sue indagini calabresi che le hanno fatto tornare alla mente le cronache della sua regione.

    “Waste Water” è una di queste: secondo il perito Giovanni Balestri – anche lui si è occupato di casi come le ecoballe di Giugliano e la discarica dell’ex Cava Monti di Maddaloni – nell’area industriale lametina, in uno stabilimento finito sotto sequestro, sarebbe avvenuto l’abbandono incontrollato di 9700 tonnellate di rifiuti e da lì sarebbe partito uno sversamento di reflui industriali sui terreni e nei canaloni che sfociano a mare.

    Anni e anni di sequestri

    La Procura lametina, che ha difficoltà anche a trovare in Comune la mappatura del sistema fognario di quell’area, sta passando al setaccio tutte le attività produttive e ne sta venendo fuori, operazione dopo operazione, uno stillicidio di accuse per crimini ambientali a cui la comunità locale è pressoché assuefatta. Giusto per restare agli ultimi mesi, a giugno c’è stato un sequestro da 24 milioni di euro e a maggio un altro da 2. Entrambi riguardano aziende che secondo gli inquirenti sversano e scaricano illecitamente rifiuti industriali.

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    Una delle immagini diffuse dagli inquirenti in occasione dell’operazione Waste Water

    A Ferragosto sequestro anche per il depuratore a cui si collegano diversi Comuni, compreso quello di Lamezia. Nello stesso stabilimento di “Waste Water”, nel settembre del 2013, si è verificata l’esplosione di un silos costata la vita a tre operai. Ancora prima, a novembre del 2010, sono state sequestrate cinque aziende per una discarica non autorizzata di 15mila mq di fanghi di depurazione e cumuli di lana di vetro.

    Tonnellate di rifiuti tra gli ulivi

    La stessa Brucci ha condotto “Quarta copia”. L’inchiesta ha rivelato un traffico di rifiuti che passava per Campania e Lombardia e aveva il suo terminale proprio tra la città delle terme e Gizzeria. Partita da Lamezia e poi passata per competenza alla Procura distrettuale di Catanzaro, questa indagine ha già portato alla condanna in primo grado (pene da uno a quattro anni) di cinque persone.

    Sono considerate responsabili di un traffico di rifiuti sfociato nell’interramento di tonnellate di materiale inquinante anche in terreni vicini a coltivazioni di ulivo. Uno dei siti lametini utilizzati per questo scopo è stato letteralmente “tombato” di rifiuti ad appena 500 metri da un’altra ex discarica realizzata vicino all’alveo di un fiume e tuttora non bonificata. Su alcune delle persone ritenute al centro del traffico sono emersi collegamenti con potenti clan della Locride.

    Scatole vuote

    La pratica sempre in voga di mettere la polvere sotto il tappeto si intreccia con scatole societarie vuote – ma inserite all’Albo dei gestori ambientali – utilizzate per traffici loschi, misteriosi incendi negli impianti, falle nei controlli, aziende che fatturano milioni di euro con attività di grande impatto e che risparmiano proprio sulla prevenzione ambientale. Anche questo hanno rivelato le indagini partite dai roghi di rifiuti avvenuti nel Nord Italia. È emerso come alcune società regolari venissero utilizzate come schermo per nascondere traffici di rifiuti stoccati abusivamente e abbandonati in capannoni ufficialmente dismessi.

    Il giro bolla

    I metodi più usati sono quelli dei trasbordi da camion a camion e del “giro bolla”, un passaggio fittizio di documenti. Le società in regola acquisiscono formalmente i rifiuti senza però mai scaricarli dai camion. Il contenuto dei cassoni viene poi classificato come «non rifiuto». E con un nuovo documento di trasporto arriva nei luoghi di abbanco abusivo. Sul business incombe l’interesse della ‘ndrangheta e spesso nelle pieghe degli strumenti normativi si inseriscono imprenditori organici ai (o teste di legno dei) clan con ditte che, magari anche spostando la loro sede legale, riescono a ottenere un appalto dopo l’altro.

    Un «collaudato sistema»

    La relazione semestrale della Dia cita “Quarta copia” e parla di un «collaudato sistema che si occupava di riempire di rifiuti provenienti anche dalla Campania in capannoni abbandonati nel Nord Italia, interrandone altri in una cava dismessa nell’area di Lamezia Terme su terreni di proprietà di soggetti risultati contigui alla cosca Iannazzo». La stessa cosca a cui una donna lametina «ricorre per l’apertura di un conto corrente presso un istituto bancario locale».

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    Capitava, infatti, che ci fossero da superare delle resistenze che il rappresentante di una delle aziende coinvolte aveva trovato in una banca di Lamezia. Ma dopo alcuni contatti telefonici con la figlia di un esponente di rilievo del clan il conto corrente che non si riusciva ad aprire viene subito aperto. La stessa intestataria ne è quasi sorpresa e dice al compagno: «Hanno fatto una forzatura».

    Candido come la candeggina

    Proprio grazie alla connivenza dell’area grigia dei professionisti i trafficanti di rifiuti legati alla ‘ndrangheta entrano nelle aziende del Nord e finiscono per appropriarsene. «L’azienda è nostra – è una frase rivolta a un imprenditore brianzolo e intercettata – metteremo a capo un nome candido come la candeggina». Quando serve vengono evocati «i cristiani di Platì e San Luca», ma poi si è capaci di guardare ben oltre il Pollino.

    «Abbiamo sequestrato – ha spiegato la pm milanese Silvia Bonardi, che ha condotto un’indagine sugli stessi trafficanti denominata “Feudo” – alcuni documenti che attestano come uno degli arrestati per suo conto stesse esportando senza autorizzazioni materiale plastico in Turchia». Un altro dei trafficanti coinvolti, originario della Locride, «detiene quote di un cementificio in Tunisia, ha grossi interessi in Germania e in alcune intercettazioni ammette di avere un canale pressoché illimitato per conferire spazzatura nell’inceneritore di Düsseldorf».

  • Nero di Calabria: Forza Nuova e vecchi fantasmi

    Nero di Calabria: Forza Nuova e vecchi fantasmi

    A Roma hanno fatto notizia, in Calabria ci riescono molto meno. Anche perché i numeri, al di là di tatuaggi e pose, sono quelli che sono. Il microcosmo delle formazioni di estrema destra ha comunque i suoi sparuti rappresentanti anche tra Praia a Mare e Melito Porto Salvo. Dopo i disordini della manifestazione no Green pass e l’assalto alla Cgil si fa un gran parlare di Forza Nuova. E, forse, a queste latitudini non è noto a tutti che nella Capitale, in alcuni casi con ruoli di primo piano, ci fosse in piazza anche qualche seguace calabrese di Roberto Fiore.

    I leader calabresi

    Fondato nel 1997, votato all’integralismo cattolico e ispirato alla Guardia di ferro rumena, il movimento di cui ora da più parti si invoca lo scioglimento è guidato in Calabria da un catanzarese dal nome evocativo e dal cognome ancor di più: Jack Di Maio. È il successore di Davide Pirillo, crotonese che è salito di grado come coordinatore Fn del Sud e che figura tra i firmatari del comunicato emanato dopo gli arresti dei leader nazionali e nel quale si avverte che «nemmeno lo scioglimento di Fn potrebbe invertire la rotta di quanto sta avvenendo e avverrà nelle prossime settimane».

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    Davide Pirillo, tatuatore crotonese e coordinatore per il Sud Italia di Forza Nuova

    Di Maio il 9 ottobre scorso ha fatto sapere, davanti a un furgoncino in un anonimo autogrill, di essere pronto all’«ennesimo giorno di lotta» con i suoi «fratelli». Qualche ora dopo Pirillo ha postato un video da Piazza del Popolo commentando con un «NO GREEN PASS… DRAGHI BOIA!». Nei giorni immediatamente successivi alle Regionali ha esultato per il 62% di astensionismo crotonese dicendo che «ha vinto il popolo» e provando magari a intestarsi pure il (non) voto dei residenti all’estero.

    Contro i vaccini, covid o non covid

    Ad agosto di quest’anno, invece, l’attuale coordinatore regionale di Fn si era fatto già sentire sulla stampa locale, con non eccessivo clamore ma parlando addirittura di «resistenza», quando alcuni sanitari no vax furono sospesi dall’ospedale Pugliese-Ciaccio: «Nel caso di operatori della sanità, la resistenza al vaccino ogm obbligatorio dovrebbe quanto meno far riflettere tutti. Avviene, invece, che medici e infermieri siano considerati come i primi untori irresponsabili, quando, come è logico, si tratta invece di lavoratori consapevoli – e certamente non infetti – a cui si nega il diritto al lavoro per un particolare vaccino, il meno conosciuto in assoluto, cosa che non avviene, ad esempio, per altri sieri obbligatori».

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    Jack Di Maio, terzo da sinistra, con altri militanti di Forza Nuova

    Nell’estate del 2020, quando ancora non circolava il vaccino anticovid e lui non aveva ancora raccolto il testimone passatogli da Pirillo alla luce delle «sue qualità umane e di organizzatore», Di Maio se l’era però presa con l’allora governatrice Jole Santelli – si può immaginare con quali effetti – per un’ordinanza sul vaccino antinfluenzale rivolta a operatori sanitari e over 65. «Cavalcando l’ormai esigua psicosi generale da coronavirus – ammoniva – e sulla scia del capogruppo alla Camera di Forza Italia Maria Stella Gelmini, la destra calabrese, capitanata dal presidente di Regione Jole Santelli, persiste nel diramare inutili e allarmistiche ordinanze». Qualche mese dopo i forzanovisti del capoluogo avrebbero regalato un’altra prodezza in una strada nel quartiere Stadio a Catanzaro con lo striscione «Gino (cambia) Strada».

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    Una sfida tra percentuali da prefisso telefonico

    Oltre ai seguaci di Fiore sull’asse Crotone-Catanzaro – e oltre alle varie sezioni territoriali di Casa Pound, con cui marcano spesso reciproche distanze all’ombra dello zero-virgola –  a Lamezia è attivo l’ex portavoce regionale di Fn Igor Colombo che è poi passato alla guida di Azione Identitaria Calabria. In queste ore sferza così l’informazione nazionale: «Dunque per il Tg Uno Roberto Fiore sarebbe un ex terrorista dei Nar. Ma lo sanno da quelle parti che i Nar negli anni che furono volevano uccidere Roberto Fiore? Ma che informazione si fa?».

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    Il reggino Vincenzo Ciro in uno scatto di qualche mese fa insieme a Matteo Salvini

    A Reggio è invece presente il “Fronte Nazionale” di Adriano Tilgher, guidato sul territorio da Vincenzo Ciro, ingegnere-segretario regionale che pur dichiarandosi fascista, ma «laico» e lontano dall’integralismo cattolico, in queste ore condivide le posizioni di Marco Rizzo e parla di «strategia della tensione». E lancia anche diverse frecciate ai camerati di Forza Nuova: «Se non lo avete capito… non sono i fascisti il problema, ma chi paga quelli che vi fanno credere di esserlo per delegittimare e ridurre i diritti». E ancora: «Perché colpire un sindacato morto e finito come la Cgil? Cui prodest? Non era il caso di azioni ed obiettivi più seri? Comunque complimenti, ora la Cgil è diventata vittima ed il popolo carnefice».

    Mappe in nero

    Per chi fosse amante del genere, da una mappa interattiva pubblicata da Patria Indipendente, il periodico online dell’Anpi che ha realizzato un’analisi arrivata a comprendere 2700 pagine Facebook, ci si può fare un’idea di quante e quali altre sigle della galassia dell’estrema destra italiana siano presenti in Calabria. E visitando le rispettive pagine social ci si può fare magari anche un’idea del seguito che hanno. Un’altra mappa interattiva l’ha realizzata il collettivo bolognese Infoantifa ECN che raccoglie e cataloga, dal 2014, tutte le segnalazioni facenti riferimento ad atti di violenza di matrice neofascista.

    Include un solo episodio calabrese risalente al 2016: l’incendio del portone d’ingresso della sede di un circolo Pd a Lamezia che però, almeno secondo la Polizia, sarebbe addebitabile a due ubriachi che all’epoca dissero di non far parte di movimenti politici. Un capitolo a parte, ben più ampio e meno folkloristico, lo meriterebbero gli intrecci più o meno noti tra eversione nera e massomafia che hanno attraversato la storia della Calabria. Ma è davvero un’altra storia.

  • Pnrr e autonomia: Calabria ancora colonia di Roma?

    Pnrr e autonomia: Calabria ancora colonia di Roma?

    La litania va risuonando di nuovo in questi giorni. Canto e controcanto: ci state fregando, anzi scippando, ci toccano più soldi e dovete darceli; no, non credete alle bufale, vi daremo tutto il denaro che vi spetta, anzi se fate i bravi ve ne daremo anche di più, ma dovete saperlo spendere. Da una parte i Robin Hood del vittimismo pseudomeridionalista (che per la causa vendono un sacco di libri), dall’altra i campioni del governismo rassicurante (che offrono il loro prestigio istituzionale a salvaguardia dell’ignoranza del popolino).

    In mezzo ci sono presidenti di Regione, amministratori locali e cittadini a cui lo Stato italiano e l’Unione europea stanno facendo odorare qualcosa come 82 miliardi di euro senza ancora farglieli toccare. Sono queste le posizioni da cui muove l’eterno dibattito sul rapporto (evidentemente e ovviamente non paritario) tra la Calabria e Roma. La diatriba sulla distribuzione dei soldi del Recovery attraverso il Pnrr ne è l’esempio più recente.

    Sette miliardi in ballo

    Le vicende degli ultimi giorni. Repubblica, non esattamente un bollettino neoborbonico, venerdì sbatte in prima pagina un titolone di tre parole e una virgola: Recovery, allarme Sud. In estrema sintesi il quotidiano dice che la quota del 40% del Pnrr al Sud è solo «sulla carta» perché alcune Regioni stanno rifacendo i conti sui primi bandi e si sono accorte che la fatidica percentuale viene calcolata «non sul totale delle risorse» che arrivano dall’Europa «ma solo su una parte di queste».

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    Ballano 7 miliardi perché, alla luce del calcolo sui fondi complessivi (222 miliardi), dovrebbero essercene 89 e invece sono 82. Seguono alcuni calcoli sulle singole missioni – sono 6 in tutto – e «a scavare», dice Rep, «si scopre» che 2 missioni superano il 40% (53% su infrastrutture e 46% per istruzione), una lo «sfiora» (39% per lavoro e inclusione) e le altre 3 (rivoluzione digitale, verde e salute) sono al di sotto. Rispetto al Pnrr «la media delle 6 missioni fa però 40%». Ok.

    Carfagna, Nesci e gi amministratori locali

    Il giorno dopo scatta l’intervista riparatoria alla ministra del Sud Mara Carfagna. Che a domanda risponde quello che tutti si aspettano risponda – «i fondi ci sono, il Mezzogiorno dimostri di saperli spendere» – dicendosi «meravigliata da chi dà credito a una ricostruzione così grossolana senza verificarne la fondatezza». Le fa eco nel giro di poche ore la sua sottosegretaria calabrese, Dalila Nesci, che aggiunge che i nostri 82 miliardi sono «al sicuro» ma «è indispensabile l’apporto progettuale degli enti locali».

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    Sì, gli enti locali, quelle propaggini periferiche dello Stato in cui sindaci che piangono miseria, maneggiando dissesti con la destra e tracciamenti covid con la sinistra, devono sorbire lezioni di buone pratiche da rappresentanti di sottogoverno che non riuscirebbero a mettere insieme neanche una lista per le Comunali in un paesino dell’estremo Sud. Comunque, al di là della retorica dell’«opportunità storica», dell’«ultima spiaggia» e del «treno» che non ripassa, la dialettica Calabria-Roma non si materializza solo sul Pnrr.

    Coloni calabri e palazzi romani

    e Un ex governatore come Mario Oliverio, che durante i suoi 14 anni da deputato non si sognava nemmeno certi slogan, a fine carriera ha rispolverato una crociata contro la «deriva colonialista» che dalla capitale ha commissariato prima la sanità per cui non si è mai incatenato – tutti abbiamo immaginato tremare le colonne di Palazzo Chigi – e poi il suo (ormai ex) partito, il Pd. La crociata è finita alle Regionali con la misera percentuale che sappiamo, ben distante da quella di Roberto Occhiuto che del trovarsi a suo agio tra i palazzi romani ha fatto quello che lui chiamerebbe un brand.

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    Mario Oliverio aveva promesso di incatenarsi a Roma per porre fine al commissariamento della Sanità calabrese

    «Ho avuto a che fare per anni con ministri e leader nazionali, sono il capogruppo di Forza Italia alla Camera, pensate che ora non sappia far valere le ragioni della Calabria con il governo?». Per ora la sua vittoria è servita a Forza Italia a far valere se stessa sul tavolo romano del centrodestra, perché è grazie alla controtendenza calabra che Silvio Berlusconi si può mostrare ringalluzzito a livello 1994 e può ridimensionare Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

    La ricetta sino-americana di Occhiuto

    La vittoria di Occhiuto servirà anche al contrario, avrà un ritorno concreto, da Roma, su quel territorio che lui ora è chiamato a governare? O dobbiamo aspettarci solo altre costosissime perle sul genere video-di-Muccino? Tutto da vedere. Intanto, mentre a Milano Beppe Sala fa la giunta in 5 giorni e si dice «pronto per il Pnrr», il neo governatore ha a che fare – per dire – con le pretese di Nino Spirlì e l’inappagamento di Ciccio Cannizzaro.

    Inoltre Occhiuto per ora dispensa in diretta nazionale certe ricette per l’economia calabrese che sembrano un cocktail di turbocapitalismo cinese e liberismo reaganiano poco poco fuori tempo: «Abbiamo un costo del lavoro che è più basso del resto d’Italia. Abbiamo la possibilità – ha detto a Tg2 Post – di attrarre investitori che possano trovare in Calabria un costo del lavoro basso e anche il capitale cognitivo che serve per le loro imprese». Insomma: venite e sfruttateci tutti, vi aspettiamo.

    Autonomia differenziata

    Non parliamo poi dell’Autonomia differenziata. Se ne discute da anni a seguito delle «iniziative intraprese – riporta il sito della Camera – dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna». Ora il governo l’ha rispolverata inserendola, nottetempo, tra i collegati della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Nel testo Nadef del 29 settembre non c’era, in quello del giorno dopo è comparsa.

    Apriti cielo: parlamentari del Sud giurano di non averla votata, politici del Sud si dicono pronti a una nuova battaglia contro il governo. È su questo disegno, che vuole dare più «autonomia» alle Regioni a statuto ordinario evidentemente a vantaggio di quelle che se la passano meglio, che si dovrebbe misurare – più che nel gioco al pallottoliere sui miliardi del Pnrr – la forza politica di chi rappresenta il Sud e la Calabria nelle istituzioni e nei rapporti tra Regioni e Stato centrale.

    Il caso Lamezia

    E anche su ciò che serve davvero per «spendere bene» i soldi, tutti i soldi che da decenni ormai mette a disposizione l’Ue: i tecnici. Abbiamo bisogno di professionisti che scrivano progetti di qualità e che sappiano gestirne le fasi successive fino alla realizzazione sui territori. Nei nostri enti locali non ce ne sono a sufficienza. Un esempio emblematico arriva da Lamezia Terme: la quarta città della Calabria è riuscita ad essere tra gli 8 progetti pilota in tutta Italia del PinQua (Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare).

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    Un panorama di Lamezia

    C’è in ballo un interessantissimo progetto di rigenerazione urbana (riqualificazione di edifici pubblici e privati, spazi verdi, piste ciclabili) che ha ottenuto un finanziamento di quasi 100 milioni di euro. Dentro ci sono anche soldi del Recovery, però tutto va realizzato e reso fruibile entro il 31 marzo 2026, sennò si rischia di perdere capra e cavoli. Indovinate: sì, c’è il rischio di non farcela, perché il Comune di Lamezia ha una gravissima carenza di personale e ancora oggi, a 7 giorni da un “mini” turno elettorale che ha sanato alcune irregolarità in solo 4 sezioni su 78, non c’è stata ancora la proclamazione degli eletti. A causa di un black out tra istituzioni che parte da e arriva a Roma, nel centro della Calabria la democrazia è sospesa da quasi un anno.

  • Geni, zampogne e fritture: i cv dei candidati alle Regionali

    Geni, zampogne e fritture: i cv dei candidati alle Regionali

    Il dono ce lo ha fatto la legge “Spazzacorrotti” voluta dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Obbliga ogni candidato a qualsiasi elezione, eccetto quelle dei piccoli Comuni, a mettere online, al massimo due settimane prima del voto, il certificato penale e il curriculum vitae. A campione, come fosse un sondaggio, abbiamo dato un’occhiata ai cv dei quasi 500 candidati che si contendono un posto all’interno del consiglio regionale della Calabria. Ne sono venute fuori delle perle che restituiscono un quadro singolare, più antropologico che politico, della varia umanità che si presenta come potenziale protagonista della vita pubblica calabrese. Eccone alcune.

    Baby democristiani

    Molti cv, piuttosto che un riepilogo schematico come da formato europeo, sono brevi scritti spesso coniugati in prima persona. È il caso di due seguaci di Carlo Tansi candidati nella lista “Tesoro Calabria”. Pietro Lirangi (circoscrizione Nord) fa sapere: «La mia attività politica nasce in tenerissima età, avevo nove anni quando frequentavo la DC di Bisignano, l’attività organizzativa, che poi, anche per merito della mia professione, ha fatto sì che mi sono sempre trovato in prima linea con impegno e dedizione con occhio vigile al bene comune e al servizio di tutti, specialmente delle classi più deboli». La prosa di Lucia Quattrocchi (circoscrizione Sud) è più fluida, ma ci permette di sperare che in consiglio regionale arrivi una «liturgista, cantante, direttore, gregorianista, citarista, salmista, suonatrice di tuba, zampognara, insegnante di Religione da circa 22 anni».

    Chi lo ha più lungo

    Lo stesso ex capo della Protezione civile ha ripercorso in 7 pagine tutte le sue skills, comprese le attività di conferenziere, le apparizioni televisive e l’impegno nel Rotary Club di Rende. Ma se Tansi si è spesso vantato di avercelo lungo (il curriculum) c’è chi lo ha superato di brutto: Daniele Nicola, ingegnere di Petilia Policastro candidato con la Lega, ha avuto bisogno di addirittura 40 pagine per elencare tutte le sue esperienze.

    Di tutt’altra pasta, anche se il partito è lo stesso, il mitologico Leo Battaglia. Già agente immobiliare, imprenditore nel settore dell’arredamento e «responsabile per la Calabria» del mensile di annunci gratuiti “Leo Business”, il noto lanciatore di mascherine in mare tiene a far sapere che il nonno è stato «il primo farmacista di Castrovillari» e che, da «cattolico praticante», lui è stato «per anni chierichetto nella Parrocchia della S. S. Trinità». Nel collegio Nord dovrà vedersela con un altro leghista promettente: Santo Capalbo, imprenditore agricolo e della ristorazione, nonché vicepresidente della società sportiva “Tiro a volo”, ha fatto dei corsi di ausiliario del traffico e di «Sefty e Securiti» (testuale).

    Piatti caldi e freddi

    L’Udc ha riversato i cv di tutti candidati in un unico file di 150 pagine, 26 delle quali occupate da Giuseppe Graziano, già generale del Corpo forestale e capogruppo uscente in consiglio regionale. Ma c’è anche Filippo Scalzi, dipendente Arsac, che oltre a dichiarare la militanza nel movimento giovanile Dc si proclama «poeta dialettale ed autore di testi di musica popolare», nonché di 22 poesie diventate «canzoni musicate» depositate presso la Siae.

    Almeno 7 candidati dello scudo crociato, nella sezione dedicata a capacità e competenze varie, riportano la stessa formula copiaincollata. Ma per chiudere degnamente il capitolo centrista va segnalata, nella lista di Coraggio Italia (Centro), la candidata Denise Priolo che tra le «altre capacità e competenze» include «cucina e tavola calda, piatti caldi e freddi, friggitoria».

    Nel Pd c’è il 43enne Gianluca Cuda che tra le esperienze lavorative, oltre all’essere socio di una società di recupero metalli, inserisce per lo più incarichi di partito o istituzionali come segretario provinciale del Pd catanzarese, sindaco di Pianopoli, componente dello staff del presidente della Provincia di Catanzaro e presidente delle sezioni locali di Emergency e dell’Avis (in teoria sarebbe volontariato).

    Cuda ha un diploma da geometra, ma come titolo di studio si fa notare un altro volto noto del centrosinistra che oggi è candidato con Mario Oliverio nella circoscrizione Sud: Francesco D’Agostino, patron dell’azienda “Stocco & Stocco”, è stato consigliere comunale, provinciale, nonché vicepresidente del consiglio regionale, ma ha solo – non è l’unico tra i candidati – la licenza media.

    Neurogenetica e cittadini per antonomasia

    Nel M5S si fanno notare il vibonese Domenico Santoro che da architetto illustra le sue attività professionali con un «curriculum grafico» e l’ufficiale dell’Esercito Nicola Vero che, oltre alle missioni militari in Italia e all’estero, specifica nella sezione hobby di aver viaggiato molto per il mondo in Harley Davidson e in Jeep off-road, nonché di essere istruttore di nuoto e body building.

    Restando nella coalizione di Amalia Bruni emerge come diversi candidati della lista che porta il suo nome pare abbiano avuto rapporti di lavoro o di volontariato con il Centro di neurogenetica da lei diretto. E spicca nella circoscrizione Sud Antonino Liotta, che scrive nella presentazione di essere «cittadino dello Stretto per antonomasia» e, nel cv, include tra le esperienze l’aver vissuto e lavorato per 6 mesi in Irlanda, l’essere stato studente Erasmus a Siviglia per 4 mesi, l’essere ippoterapista, donatore di sangue dal 1988 e volontario Unitalsi.

    Quel gran genio di Talarico

    Il gradino più alto del podio lo guadagna senza dubbio la lista “Dema” (circoscrizione Nord) di Luigi de Magistris. Ugo Vetere, avvocato e sindaco di Santa Maria del Cedro, nella voce «attività e interessi» inserisce solo di essere «tifoso Juventino». Ma il capolavoro situazionista lo ha senza dubbio compiuto un altro volto noto della politica regionale, il rendese Mimmo Talarico. Già nel 2006 «è promotore dei comitati a sostegno di Luigi de Magistris che si oppongono al trasferimento del pm ad opera del Ministro Mastella».

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    La conclusione del curriculum, aggiornato a poche settimane fa, di Mimmo Talarico

    Sempre «su indicazione» del sindaco di Napoli alle Regionali del 2010 viene candidato «come indipendente nell’Italia dei Valori a sostegno dell’imprenditore Pippo Callipo e risulta eletto». Si definisce «tra i più produttivi consiglieri regionali» nella legislatura 2010-2014. Specifica di avere due lauree e altrettanti Master, di lavorare all’Unical come Responsabile amministrativo gestionale della Scuola Superiore di Scienze delle amministrazioni pubbliche». Ma soprattutto Talarico, chiudendo il suo curriculum, si proclama solennemente «uno dei più grandi pensatori del ‘900». E poi c’è chi parla di cervelli in fuga dalla Calabria.

  • Clan, scorie, 007: al nord condanne, qui 30 anni di misteri

    Clan, scorie, 007: al nord condanne, qui 30 anni di misteri

    È una storia che comincia 30 anni fa e che coinvolge i Servizi segreti, le loro fonti confidenziali e alcuni boss della ‘ndrangheta. E che testimonia come vadano certe cose in Italia. La prima parte si intreccia tra la Calabria e Roma e comincia negli anni ’90, quando le notizie e i riscontri raccolti dagli 007 cominciano a rivelare cose che farebbero impallidire il più spregiudicato degli allarmisti. Sono messe nero su bianco nelle carte custodite negli archivi del Parlamento.

    La seconda parte si svolge al Nord ed è invece tutta concentrata tra il 2018 e il 2021. Riguarda un boss passato attraverso diverse inchieste che ha conservato, o forse consolidato, il suo carisma, ma che nonostante la sua esperienza criminale si fa beccare a dirigere un traffico losco e condannato a 20 anni nel giro di pochi mesi. Ogni storia di ‘ndrangheta è storia di “tragedie” e faide. In questo caso i “malandrini” non si tradiscono solo tra di loro, con le scorie tradiscono e avvelenano la terra che sta sotto i loro piedi e quelli che la abitano.

    Affari di famiglie

    Reggio Calabria, agosto 1994. Informatori definiti «di settore» e «non in contatto tra di loro» riferiscono «notizie confidenziali» che, alla luce delle «prime verifiche», risultano «sufficientemente attendibili» e «foriere» di «interessanti sviluppi». Un uomo dei Servizi segreti descrive in questi termini, alla Direzione del Sisde di Roma, quanto ha appreso dai suoi informatori circa un presunto traffico internazionale di scorie radioattive in mano alla ‘ndrangheta.

    Si parla di un summit ad Africo tra il “Tiradritto” Giuseppe Morabito e «altri boss mafiosi del luogo»: in cambio di una partita di armi sarebbe giunta «l’autorizzazione» a scaricare in quella zona «un quantitativo di scorie tossiche e presumibilmente anche radioattive che dovrebbero arrivare dalla Germania, contenute in bidoni metallici trasportati a mezzo di autotreni». Si parla anche di un presunto traffico di «uranio rosso».

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    Reggio Calabria, ottobre 1994. I primi riscontri «info-operativi» sono «incoraggianti». Gli informatori «habent riferito» dell’esistenza di «parecchie» discariche di rifiuti tossici. Oltre che in zone aspromontane, si troverebbero «nella cosiddetta zona delle Serre (Serra S. Bruno, Mongiana ecc.) nonché nel Vibonese». I Servizi scrivono che «in quella zona la “famiglia” Mammoliti, la competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossico-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto.

    Via mare e via terra

    Le scorie «proverrebbero dall’est europeo per mare e per terra con le seguenti modalità: canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni; il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi». In altre informative si parla dei fratelli Cesare e Marcello Cordì che, già nel 1992, avrebbero gestito un traffico di rifiuti tossici finiti nei canali dei metanodotti nel territorio di Serrata.

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    Si conclude, dopo aver sentito anche alcuni magistrati, che «tra la Calabria e il Nord d’Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate» in cui ci sarebbero «circa settemila fusti di sostanze tossiche». Si cita il comune di Borghetto, nel Savonese, e poi i luoghi della Calabria, «per la maggior parte grotte», in cui ci sarebbero le discariche di veleni: «Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (CZ), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (CZ)». Vengono menzionate le famiglie De Stefano, Piromalli e Tegano. Tutte le segnalazioni vengono girate al Ros. Risultano coinvolte ben sei Procure della Repubblica.

    I dossier desecretati

    Roma, maggio 2014. Il governo Renzi desecreta molti atti contenuti nei dossier della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. Al loro interno compaiono riferimenti ai casi delle «navi dei veleni» e agli uomini chiave dei presunti traffici di scorie radioattive tra l’Africa e mezza Europa. È in queste carte che sono contenuti i riferimenti alle discariche radioattive che secondo gli 007 in riva allo Stretto esisterebbero in Calabria.

    I dossier vengono fuori dopo vent’anni, migliaia di cittadini si allarmano e si mobilitano pure gli amministratori locali. Partono gli incontri in Prefettura con comitati civici e sindaci che arrivano a coinvolgere i vertici dell’Arpacal, l’Azienda regionale per la protezione dell’ambiente. Che, in autunno, assieme al Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri avvia il progetto “Miapi”.

    Si tratta di un monitoraggio delle aree potenzialmente inquinate e per l’individuazione di siti contaminati con l’ausilio di dati telerilevati grazie ad un sensore “Airbone” ancorato ad un elicottero geo-radar. Le attività di ricerca vengono completate e viene trasmesso un hard disk contenente il data base, in formato shapefile, aggiornato al 28 febbraio 2015. Quei dati però ancora oggi sono un mistero, non sono mai stati resi di dominio pubblico.

    Lombardia, Italia, A. D. 2021

    Lecco, febbraio 2021. È l’altra parte della storia: più recente, distante geograficamente ma sempre e comunque collegata alla Calabria. Finisce in modo molto diverso. Scatta l’operazione “Cardine – Metal money”: diciotto cittadini italiani (dieci in carcere ed otto agli arresti domiciliari) sono accusati di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, frode fiscale, autoriciclaggio, usura ed estorsione.

    Al centro di tutto c’è un uomo che per gli inquirenti è il boss indiscusso della ‘ndrangheta nel Lecchese. Si chiama Cosimo Damiano Vallelonga e il prossimo 30 settembre compirà 73 anni. Li “festeggerà” in carcere, non è certo la prima volta che gli capita. È già stato coinvolto in diverse inchieste, da “La notte dei fiori di San Vito” di metà degli anni ’90 alla maxioperazione “Infinito” del 2010. È considerato il successore di Franco Coco Trovato, suo coetaneo che già dagli anni ’90 sconta diversi ergastoli al 41 bis.

    Vallelonga è originario di Mongiana, uno dei paesi delle Serre vibonesi indicato nelle carte del Sisde come luogo di presunto deposito di scorie radioattive. Quando i capibastone della sua zona d’origine entrano in conflitto nella sanguinosa “faida dei boschi” viene chiamato in causa per tentare di fare da paciere tra le famiglie in guerra. Nella ‘ndrangheta lombarda chi ha la dote del Vangelo lo chiama «compare Cosimo» e spesso gli chiede di intervenire per dirimere questioni e affari spinosi.

    Vent’anni di carcere

    Milano, settembre 2021. I giudici del Tribunale meneghino, nell’aula bunker di San Vittore, condannano Vallelonga a vent’anni di carcere, più di quanto avessero chiesto nei suoi confronti i pm della Procura antimafia milanese. È l’esito con rito abbreviato dell’inchiesta “Cardine-Metal money” sull’impero del boss originario di Mongiana. Nell’inchiesta gli investigatori della Guardia di finanza di Lecco non ricostruiscono solo estorsioni, società cartiere, truffe e frodi, ma scoprono anche un traffico da 10mila tonnellate di rottami e rifiuti radioattivi.

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    L’aula bunker di San Vittore a Milano

    L’indagine non riguarda solo la Lombardia ma si estende anche a Liguria ed Emilia Romagna. Vallelonga, una volta scontate le condanne precedenti, avrebbe «ripreso i contatti e rivitalizzato il sodalizio mafioso, non solo attraverso autonome condotte criminali ma anche ricevendo presso il suo ufficio all’interno di un negozio sito nella Brianza lecchese altri esponenti della ‘ndrangheta ed imprenditori locali, sia per l’erogazione di prestiti a tassi usurari sia per organizzare il reinvestimento dei proventi delle attività illecite nell’economia legale».

    Vallelonga avrebbe diretto «un’imponente attività di traffico illecito di rifiuti posta in essere attraverso imprese operanti nel settore del commercio di metalli ferrosi e non ferrosi». Ci sarebbe dietro anche un giro di fatture false per circa 7 milioni di euro. E un carico di rifiuti radioattivi: 16 tonnellate di rame trinciato proveniente dalla provincia di Bergamo e sequestrato dalla Polizia Stradale di Brescia nel maggio 2018.