Autore: Sergio Pelaia

  • Vibo a secco: tutti contro tutti nella guerra dell’acqua

    Vibo a secco: tutti contro tutti nella guerra dell’acqua

    Chissà quanti tra qualche anno si ricorderanno della crisi idrica dell’Epifania. Sicuramente rimarrà in mente agli operai di Sorical che lavorano da ormai 7 giorni per ridare l’acqua a migliaia di persone. Però non la dimenticheranno neanche quelle persone che si sono ritrovate in pieno inverno coi rubinetti a secco. Specie chi è in difficoltà, non è autosufficiente o è in quarantena, che a Vibo città e nei paesi dell’entroterra è costretto a chiedere aiuto per lavarsi o cucinare.

    Lavori all'Alaco per riportare l'acqua nelle case
    Lavori all’Alaco

    Il 5 gennaio

    Per bere no, perché quell’acqua non la beve nessuno neanche in tempi normali. Dieci anni fa l’invaso da cui arriva, l’Alaco, è stato sequestrato dalla Procura e non si ha notizia che sia mai stato dissequestrato. Ma nonostante le inquietanti accuse di avvelenamento colposo di acque il processo è finito in prescrizione e l’acqua di questo lago artificiale non ha mai smesso di immettersi nelle case dei vibonesi. Almeno così è stato fino al 5 gennaio scorso, quando il terreno della montagna di Brognaturo, a mille metri sulle Serre, è franato rompendo due condotte. È ancora da capire se una perdita abbia causato la frana o viceversa, perché in quel momento non pioveva. Comunque il risultato è un blackout idrico sulla linea che serve Vibo e su quella che rifornisce sia i paesi dell’entroterra che alcuni Comuni della Piana di Gioia Tauro.

    Il bacino dell'Alaco che rifornisce di acqua il Vibonese
    Il bacino dell’Alaco che rifornisce di acqua il Vibonese

    Nessun piano B

    Così un evento imprevedibile ha fatto scoprire a molti che non esiste un piano B. Il territorio non ha alternative di approvvigionamento e, negli anni, è diventato quasi totalmente dipendente da un invaso controverso. Ancora, per esempio, nessuno ha spiegato cosa sia successo tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, quando nell’acqua proveniente da quel lago di montagna l’Arpacal – che come Sorical fa capo alla Regione – trovò composti «derivati dal benzene» e, soprattutto, un valore fuorilegge di triclorometano, cioè cloroformio. Acqua passata: la maggior parte dei vibonesi non sembra esserselo più chiesto.

    Niente acqua ai forestieri

    Questi giorni li ricorderà senz’altro anche il sindaco di Brognaturo, Rossana Tassone, che all’assalto alle fontanelle pubbliche del suo paese ha reagito emanando un’ordinanza, di dubbia legittimità, per vietare ai non residenti di riempire bottiglie e bidoni. Sommersa da critiche anche feroci, ha spiegato che si erano verificati pericolosi assembramenti. In realtà era stata anche insultata per aver provato a far rispettare le regole e le è scappata la frizione istituzionale. Il giorno dopo ha revocato l’atto disponendo il «prelievo massimo, per ogni utente, di 50 litri». Alcuni ragazzi della vicina Serra San Bruno hanno riscosso sui social un certo successo con un video satirico che riporta la vicenda ai tempi del proibizionismo.

    «Un fatto veramente curioso»

    A Soriano invece, qualche giorno dopo l’amministrazione comunale ha avvisato i cittadini che la mancanza d’acqua non era dovuta al guasto ma «ad un fatto veramente curioso». La Protezione civile aveva «ritenuto opportuno riempire delle cisterne di acqua per portarla ai cittadini di Gerocarne che stanno subendo in questi ultimi giorni una grave carenza idrica» e il soccorso ai vicini ha causato lo svuotamento dell’acquedotto di Soriano. Il sindaco, Vincenzo Bartone, ha fatto sapere di essersi rivolto ai carabinieri.

    In un altro paese della provincia, Arena, si è cercato di alleviare il disagio allacciando al serbatoio comunale la rete di una contrada servita da Sorical. Il sindaco Antonino Schinella dice di voler arrivare, nel giro di qualche mese, «finalmente, dopo decenni e una lunga attesa», ad affrancarsi «definitivamente da Sorical».

    A Serra, centro più popoloso della zona, l’Alaco è da anni un tema caldo non disdegnato dai politici locali. Puntualmente, in campagna elettorale garantiscono ai cittadini indignati di adoperarsi per un’autonomia che nessuno, benché i boschi attorno al paese fossero pieni di sorgenti oggi in gran parte non più fruibili, finora ha dimostrato di poter raggiungere. Compreso l’attuale sindaco, Alfredo Barillari, che ora prova a incalzare Sorical affinché «dia tempi certi sul ritorno alla normalità di decine di comunità che vivono da giorni in condizioni, ormai, divenute insopportabili».

    Acqua in bottiglia

    Il commissario leghista di Sorical, Cataldo Calabretta, con l’esplodere della crisi ha «dato disposizione di attivare una prima fornitura di oltre 2.500 casse di acqua minerale in bottiglie da 2 litri alla Protezione Civile del Comune di Vibo». Nel frattempo sia nel capoluogo che nei paesi le autobotti della Prociv e tanti volontari hanno fornito altre migliaia di litri di acqua ai cittadini che ne avevano bisogno.

    Acqua, Vertice sulla crisi idrica nella Prefettura di Vibo
    Vertice sulla crisi idrica nella Prefettura di Vibo

    Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente) dice che «il tempo massimo per l’attivazione del servizio sostitutivo in caso di sospensione del servizio idropotabile è di 48 ore» e prevede degli standard specifici di continuità del servizio. In caso di mancato rispetto degli standard «l’utente finale ha diritto ad un indennizzo automatico (base) pari a 30 euro – incrementabile del doppio o del triplo in proporzione al ritardo dallo standard».

    Candidature

    Comunque: a dispetto di qualche annuncio troppo precipitoso, gli acquedotti nel capoluogo di provincia hanno ricominciato a riempirsi nel pomeriggio del 10 gennaio, ma in alcuni punti della città l’acqua arriva a singhiozzo e in altri per nulla. Nell’entroterra montano tutti a secco: ancora si stanno effettuando dei lavori delicati – resi nei giorni scorsi difficilissimi dalle condizioni climatiche e dai luoghi impervi – e la gente è all’esasperazione.

    Calabretta sul cantiere di Brognaturo
    Calabretta sul cantiere di Brognaturo

    Lo stesso Calabretta è salito al cantiere al sesto giorno di emergenza e si è «intrattenuto con gli operai», che ha giustamente ringraziato perché hanno profuso sforzi enormi. Nello stesso comunicato, mentre quelli continuavano a lavorare nel fango e gli utenti riversavano rabbia sui social, si è però preoccupato di sottolineare che «Sorical sta ancora una volta dimostrando di poter gestire non solo gli investimenti per gli acquedotti, ma anche affrontare e risolvere gravi emergenze». Aggiungendo che la società da lui guidata «è il candidato naturale per la gestione del servizio idrico integrato della Calabria».

    Milioni e multiutility

    Lo sguardo del commissario Sorical è rivolto ai progetti di ammodernamento delle reti che ha già presentato e per i quali sollecita la Regione. Ma è chiaro che l’obiettivo sono i milioni di euro in arrivo con il Pnrr. In questi mesi si sta giocando una partita che ha portato, sulle ceneri della “Cosenza Acque”, alla costituzione di un’Azienda speciale consortile di cui dovranno far parte tutti gli oltre 400 Comuni calabresi. Questa società, costituita in fretta per non perdere dei fondi destinati alle reti, si occuperà della fornitura al dettaglio, mentre a Sorical per ora resterà l’ingrosso.

    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto ha chiarito che si tratta di una soluzione provvisoria perché vuole arrivare a un’unica «multiutility» che gestisca tutto: fornitura idropotabile, depurazione e riscossione delle bollette. Il governatore sostiene che «il fallimento del sistema idrico integrato» sia dovuto «oltre che alla inadeguata gestione della Sorical, al mancato avvio di un processo di riorganizzazione e di integrazione tra la gestione della grande adduzione e le gestioni delle reti comunali».

    L’enorme percentuale della dispersione (45%) è ricondotta all’«impossibilità da parte dei Comuni di far fronte al costo insostenibile nei confronti della stessa Sorical e di provvedere alla manutenzione straordinaria della rete». E c’è sempre il problema dei cittadini (tanti) che non pagano l’acqua e dei debiti – a volte scanditi da contenziosi – che i Comuni hanno con Sorical.

    Sovranisti dell’acqua

    Quanto avvenuto nel Vibonese dovrebbe però aprire una riflessione ampia, certo non ideologica ma anche sganciata da interessi privati o profitti politici, sulla gestione di un bene (in teoria) collettivo e sempre più prezioso. Su cui – piaccia o no a chi decanta le meraviglie delle gestioni private ma non disdegna i soldi pubblici – i calabresi nel 2011 si sono espressi in massa: in 780mila hanno votato Sì al referendum per escludere i profitti dall’acqua, più o meno quanto l’intero corpo elettorale che si è recato alle urne alle Regionali di tre mesi fa.

    acqua pubblica

    C’è ora da chiedersi se il “sovranismo” idrico di alcuni sindaci e le sempre più frequenti guerre di campanile per l’acqua, tra cui si annovera anche quella estiva tra Cotronei e San Giovanni in Fiore, siano il prologo di un futuro non troppo lontano in cui la mancanza d’acqua genererà conflitti tra poveri. E c’è da domandarsi se davvero la soluzione possa essere l’autonomia attraverso fonti locali e piccoli acquedotti o la dipendenza dai grandi schemi idrici.

    Pioggia di fondi

    È evidente che da tempo, e lo si ribadisce anche nel Pnrr, le classi dirigenti individuano nella «gestione industriale» la soluzione a tutti i mali. Certamente ne sono convinti gli attuali protagonisti della governance dell’acqua calabrese, ovvero Occhiuto, Calabretta e Marcello Manna (sindaco di Rende, presidente di Anci Calabria e dell’Aic, l’Autorità idrica calabrese che è l’ente di governo d’ambito in cui sono rappresentati i Comuni).

    Tutti e tre sono senza dubbio interessati alla gestione della pioggia di fondi europei destinati al settore e non è difficile intuire chi farà la parte del leone. Fa però rumore, in proposito, il silenzio di Occhiuto: pur intervenendo ogni giorno su questioni anche nazionali, il presidente non ha detto una parola sulla crisi che ha messo in ginocchio buona parte della sua regione.

    Ma prima o poi, oltre a cercare di trarre profitto dalle emergenze e pretesti per mettere le mani sui soldi del Recovery, qualcuno dovrà spiegare perché chi ha gestito Sorical in questi anni – senza escludere alcuna parte politica che ha governato la Regione – non abbia fatto gli investimenti che servivano per evitare, o quantomeno alleviare, una crisi di tale portata.

  • La tarantella triste dei posti letto destinati al Covid

    La tarantella triste dei posti letto destinati al Covid

    Mentre la quarta ondata galoppa, e si intravede la zona arancione, i calabresi hanno la sensazione di essere ancora, dopo due anni, «in braccio a Maria». Lo stesso governatore Roberto Occhiuto nelle scorse ore si è detto «preoccupato per la pressione sulla rete ospedaliera». Si può dunque immaginare quanto lo siano i cittadini da lui amministrati che assistono inermi a quella che, in un futuro non troppo lontano, potrebbe essere raccontata come la tarantella dei posti letto.

    È forse allora il caso di mettere insieme un po’ di numeri e di nomi, partendo però dagli ultimi dati. L’incidenza dei nuovi contagi tra il 3 e il 6 gennaio è stata abbondantemente sopra i 400 casi per 100mila abitanti. Molto alta. Come il tasso di occupazione dei reparti di area medica, che è al 34%. Con oltre 370 ricoverati in area medica su 1.055 posti letto attivati. Di questi, circa 200 sono stati creati negli ultimi 4 mesi.

    Le Terapie intensive

    Più complessa è la situazione delle Terapie intensive. I dati Agenas dicono che il tasso di occupazione è al 16%. E oltre 30 persone sono ricoverate in terapia intensiva su 189 posti letto esistenti. In proporzione, abbiamo a disposizione 10 posti letto ogni 100mila abitanti. È il dato più basso in Italia assieme a quello dell’Umbria. Secondo Agenas sono al momento attivabili altri 9 posti in Rianimazione.

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    I dati Agenas sui posti letto in terapia intensiva

    Occhiuto, dopo l’ultima riunione dell’Unità di crisi, ha annunciato che i posti letto in area medica dedicati al Covid verranno incrementati nei prossimi giorni perché è evidente che le ospedalizzazioni aumenteranno. Si sta pensando anche di utilizzare come Covid hospital i presidi sanitari di Rogliano, Cariati e Tropea. E di attivare in «tempi strettissimi» Villa Bianca a Catanzaro.

    Il piano per 400 posti letto Covid mai attivati

    Ora, per capire cosa sia stato fatto in due anni e per riscontrare gli annunci con la realtà, occorre fare un salto a inizio pandemia. Marzo 2020. La compianta Jole Santelli è stata eletta da poco alla presidenza della Regione. E la sanità calabrese è saldamente – si fa per dire – in mano al generale Saverio Cotticelli.

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    Le grafiche social della Regione Calabria guidata dalla Santelli per comunicare l’attivazione (mai arrivata) di 400 posti letto in terapia intensiva

    La pandemia si sta rivelando nella sua gravità e un annuncio viene veicolato con un post su Facebook. La presidente della Regione, in accordo con Cotticelli e con il supporto del Dipartimento Salute, ha «approvato il piano che prevede l’attivazione di 400 posti letto di terapia intensiva e subintensiva per le aree nord, centro e sud della regione».

    Inutile ricordare anche la ripartizione di quei posti letto, perché in realtà non sono mai stati attivati. Giugno 2020. Il documento di riordino della rete ospedaliera certifica l’amara verità. Ma non tralascia l’ottimismo: dopo la prima ondata la Calabria si ritrova ancora con 146 posti letto di Terapia intensiva. Però sono «incrementabili con ulteriori 134». Anche in questo caso segue uno schema con la ripartizione che (non) verrà.

    I fondi Covid non utilizzati

    Ritorniamo all’oggi. Prima di Natale la Regione ha da approvare il Bilancio e per farlo deve passare dal Giudizio di parifica della Corte dei conti. I magistrati contabili di Catanzaro però non si limitano a usare il pallottoliere. Ma indugiano, impietosamente, sulla situazione della sanità. Che con i conti ha in realtà molto a che fare visto che assorbe circa 3,9 miliardi di euro all’anno (il 62,4% del bilancio regionale).

    La presidente della Sezione di controllo della Corte, Rossella Scerbo, concludendo la sua relazione apre un «doveroso» squarcio sulla gestione del Covid in Calabria. Viene fuori che nel 2020 sono stati trasferiti alle Aziende sanitarie calabresi circa 115 milioni di euro di fondi Covid. E che «la gran parte di queste somme, ossia circa 77 milioni di euro, giace accantonata nei bilanci delle Aziende al 31 dicembre 2020 senza che sia stata riorganizzata la rete ospedaliera».

    Non prima del 2022 inoltrato

    Spiega, la relazione, che era stato il ministero della Salute – con circolare del 29 maggio 2020 – a prevedere che ai 146 posti letto di terapia intensiva «già attivi prima dell’emergenza» se ne aggiungessero altri 134, oltre alla riconversione di ulteriori 136 in semi-intensiva. Numeri lontanissimi da quel che poi è stato effettivamente fatto. Pochi nuovi posti letto – pochissimi secondo la Corte dei conti, 43 in due anni secondo Agenas – e interventi tutti ancora da avviare, il cui completamento è previsto «non prima del 2022 inoltrato (in alcuni casi del 2023)».

    Nessun rinforzo per i pronto soccorso, mentre tutte le altre prestazioni sanitarie hanno accumulato ritardi «più significativi rispetto alla media nazionale». Le azioni indicate dal commissario ad acta per recuperare questo gap sono state «pianificate in modo generico». E, di nuovo, i fondi messi a disposizione dallo Stato (circa 15 milioni di euro) «non sono stati spesi dalle Aziende sanitarie, che li hanno ancora una volta accantonati in bilancio».

    La Corte dei conti boccia la Regione

    Le conclusioni della Corte non hanno bisogno di appendici retoriche. «Nel complesso, risulta di tutta evidenza che la Regione Calabria – si legge nel documento – è ben di là da rafforzare effettivamente la propria rete territoriale». Ancora: «Le risorse distribuite dallo Stato non sono state impegnate in modo efficace». E inoltre: «Deve evidenziarsi che il contributo dei privati alla gestione dell’emergenza sanitaria pare essere stato minimo». E la Regione «non ha ancora contezza della rendicontazione delle prestazioni rese».

    Assunzioni? Troppo poche o non pervenute

    In questo lasso di tempo, struttura commissariale e dipartimento regionale hanno garantito al Tavolo interministeriale di verifica del Piano di rientro che nel Programma operativo (che ancora non c’è) sarebbero state inserite le nuove assunzioni di personale. Il commissario ha detto al Tavolo che nell’emergenza sono state assunte 1.080 unità di personale a tempo determinato. Si tratta di 139 dirigenti medici, 30 dirigenti non medici, 771 non dirigenti-comparto sanità, 140 altro personale. Circa la metà (563 unità) è stata impiegata nei 5 Hub regionali.

    Nel 2020, secondo la struttura commissariale, risulterebbero assunte 830 unità e altre 250 circa nel 2021. Roma ha chiesto conferma di questi dati sollecitando ulteriori aggiornamenti e il commissario che ha preceduto Occhiuto si è riservato di trasmettere una relazione. Il Tavolo ha comunque ricordato le autorizzazioni concesse «da anni» per le assunzioni. Quelle che ancora oggi «non risulterebbero effettuate o risulterebbero in grande ritardo attuativo».

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Si tratta di valutazioni che emergono dalla versione integrale, depositata agli atti, della requisitoria del Procuratore regionale della Corte dei conti. Che ha anche raccolto ulteriori dati, concludendo che l’impatto delle spese complessive legate al Covid nelle Asp e nelle Ao calabresi, almeno stando a quanto comunicato alla magistratura contabile a metà del 2021, è stato di circa 14 milioni di euro.

    Il caso Belcastro

    In questo periodo alla guida del dipartimento Salute della Regione si sono avvicendati diversi manager. C’è stato prima Antonio Balcastro, nominato da Mario Oliverio a dicembre del 2018 e rimasto in carica fino ai primi mesi dell’era Santelli. La presidente poi prematuramente scomparsa lo scaricò ai microfoni di Report, dopo il caso dei tamponi preferenziali a Villa Torano, dichiarando: «Se Belcastro ha fatto degli abusi, va verificato. Non l’ho nominato io». Poi però lo ha comunque mantenuto come «soggetto attuatore dell’emergenza Covid».

    Da Bevere alla Fantozzi

    Gli è succeduto Francesco Bevere, oggi di stanza ai piani alti della Regione Sicilia, da settembre consigliere in materia di sanità del Ministro per gli Affari regionali e le autonomie. In carica alla Cittadella dal 29 giugno 2020 al 31 marzo 2021, Bevere era stato dg di Agenas (Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali) e, prima ancora, del Ministero Salute. Oggi Occhiuto – dopo una reggenza di Giacomino Brancati – ha messo al suo posto Iole Fantozzi da Cosenza, che dal 2019 era commissario del Grande ospedale metropolitano di Reggio.

    Longo sostituisce il tragicomico Cotticelli 

    Fantozzi è l’unica manager rimasta in carica nonostante la girandola dei commissari innescata dal decreto Calabria che, con il primo governo Conte, ha dato il via a un supercommissariamento certamente non risolutivo come l’alleanza M5S-Lega dell’epoca preventivava. Basterà, allo scopo, solo accennare alle tragicomiche vicende di Cotticelli, che fu poi affiancato dalla mitologica Maria Crocco – forse proprio la stessa Maria che ci ha tenuti «in braccio» – e a cui, dopo un balletto poco edificante di nomi e rinunce, succedette a novembre 2020 il non indimenticabile Guido Longo.

    Le nomine 

    Era stato proprio quest’ultimo, d’intesa con l’allora facente funzioni Nino Spirlì, a nominare i commissari che attualmente guidano le Aziende calabresi: Vincenzo La Regina (Asp Cosenza), Maria Bernardi (Asp Vibo), Domenico Sperlì (Asp Crotone); Jole Fantozzi (sostituita a marzo da Gianluigi Scaffidi all’Asp di Reggio), Isabella Mastrobuono (Ao Cosenza), Giuseppe Giuliano (passato dall’Asp vibonese al “Mater Domini”), Francesco Procopio (Ao “Pugliese Ciaccio” Catanzaro). Mentre dopo la scadenza del mandato di una terna prefettizia (Luisa Latella, Franca Tancredi e Salvatore Gullì) l’Asp di Catanzaro – che come quella di Reggio era stata commissariata per infiltrazioni mafiose – è retta dal dg facente funzioni Ilario Lazzaro.

  • Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Il paradiso e l’inferno, la giustizia e l’ingiustizia. Figure retoriche e categorie abusate nel linguaggio comune si incrociano in maniera tremendamente concreta nell’omicidio di Matteo Vinci. Il suo paradiso, racconta la madre Sara, erano gli ulivi che lui stesso aveva piantato in un terreno a Limbadi, paese del Vibonese tristemente noto come feudo del clan Mancuso. Ed è proprio lì che ha trovato l’inferno quando, il 9 aprile del 2018, la Fiesta su cui era a bordo assieme al padre Francesco è saltata in aria dilaniandolo ad appena 42 anni.

    Il pestaggio di Francesco Vinci

    La giustizia, Sara Scarpulla e Francesco Vinci, la cercano nei Tribunali e continuano a invocarla dopo che la Corte d’Assise di Catanzaro, poco prima di Natale, ha condannato all’ergastolo coloro che sono ritenuti i mandanti dell’omicidio: Rosaria Mancuso, sorella di alcuni boss della cosca egemone, e il genero Vito Barbara. Per i presunti esecutori materiali è in corso il rito abbreviato mentre, sempre nell’ordinario, sono stati comminati 10 anni (a fronte dei 20 chiesti dall’accusa) a Domenico Di Grillo, 75enne marito di Rosaria Mancuso, accusato di un brutale pestaggio avvenuto nel 2017 contro il papà di Matteo, lasciato quasi esanime e con la mandibola fracassata davanti a quella campagna che i Mancuso/Di Grillo, secondo l’accusa, volevano prendersi a ogni costo.

    Tre ergastoli

    Gli ergastoli, ha commentato la mamma di Matteo affiancata dall’avvocato Giuseppe De Pace, «in realtà non sono due ma tre», perché va considerata anche la condanna inappellabile subita da suo figlio. Le motivazioni della sentenza sono molto attese: dovranno spiegare come sia possibile che un omicidio così efferato, commesso con un’autobomba e seguito a un pestaggio per la volontà ancestrale di dominio su un pezzo di terra, per di più nella roccaforte dei Mancuso e su ordine – stando alla sentenza di primo grado – di qualcuno che porta quel cognome, non sia ascrivibile a motivazioni, atteggiamenti, mentalità mafiose. L’aggravante è infatti caduta, ma ancora più sconcerto desta nei genitori di Matteo il fatto che da qualche giorno Di Grillo sia a casa sua.

    A pochi metri dai Vinci

    A pochi passi, qualche decina di metri, da dove Sara e Francesco Vinci continuano a fare i conti con il loro dolore, davanti a quegli occhi che hanno visto il figlio trovare una morta atroce, Di Grillo potrà ora scontare i domiciliari. La Corte d’Assise ha infatti accolto l’istanza presentata il 17 dicembre dai suoi difensori, Gianfranco Giunta e Francesco Capria, che hanno sostanzialmente posto tre questioni a tutela del loro assistito: l’età, le patologie di cui soffre, l’assoluzione per alcuni reati. Era infatti originariamente accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso e di tentato omicidio, mentre è stato condannato “solo” per armi e lesioni gravi.

    Infermità accertate

    Dei 10 anni che gli sono stati inflitti per il delitto Vinci dalla stessa Corte che lo ha poi scarcerato ne ha trascorso in carcere già quasi 3 e mezzo, dunque un terzo della pena. Le sue «accertate infermità», secondo gli avvocati, sono una valida ragione per farlo tornare a casa, «potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria attuale anche in combinazione letale con il virus covid19 che ancora circola». Nell’istanza vengono elencate 8 patologie e viene descritta una situazione «molto severa e rischiosa anche in virtù dell’età avanzata e della pessima condizione psicofisica».

    Vittime e carnefici

    È dunque contenuta in poche righe la giustizia dei tecnicismi legali e si materializza in poche decine di metri l’ingiustizia della realtà. Ci sono i diritti costituzionalmente garantiti anche al peggiore degli assassini e c’è il dovere dello Stato di rendere almeno la verità a una madre e un padre costretti, per il resto dei loro giorni, a convivere con la condanna peggiore che possa esserci al mondo. È su questo confine labile, sottile e forse impercorribile da chi non conosce certi dolori, che si consuma il dramma di Limbadi. Dove le vittime sono condannate a stare accanto ai carnefici e tutto – la giustizia e l’ingiustizia, il paradiso e l’inferno – sembra destinato a trasformarsi nel suo contrario.

  • La casta a 5 stelle adesso fa il pieno di portaborse

    La casta a 5 stelle adesso fa il pieno di portaborse

    Nelle stesse ore in cui Roberto Fico convoca il Parlamento in seduta comune per eleggere il capo dello Stato i suoi epigoni calabresi dimostrano di essere entrati nella parte allo stesso modo, con le dovute proporzioni, del presidente della Camera. Certo è azzardato il paragone tra il più alto rito di Palazzo e quello, evidentemente più basso, delle nomine di sottobosco nel consiglio regionale calabrese. La stessa è però la cifra politica che i due passaggi restituiscono rispetto a una forza, il Movimento 5 stelle, allattato con il furore anticasta e ormai avvezzo alle liturgie delle stesse istituzioni che si proponeva di ribaltare.

    Nella casta M5S pure Tavernise e Afflitto

    Il loro ingresso nell’Astronave di Palazzo Campanella è stato salutato come storico ma la prassi è altra cosa rispetto alla retorica. Così i due consiglieri regionali M5S mentre con una mano lanciano un messaggio di austerità, con l’altra cominciano a riempire le caselle a disposizione con i vituperati “portaborse”. Si tratta dei co.co.co. che ogni consigliere assume per chiamata diretta e che, va detto, spesso hanno esperienza e cv più che consoni al ruolo. Non di rado però questi incarichi diventano uno strumento per pagare debiti elettorali e certamente tante volte sono finiti nel mirino degli antisistema. Nel sistema però ora ci sono anche Davide Tavernise e Francesco Afflitto.

    I consiglieri regionali del M5s, Davide Tavernise e Francesco Afflitto
    La guerra con la Bausone

    Quest’ultimo, a cui il Pd e il centrodestra hanno concesso la Presidenza della Commissione di Vigilanza, deve fronteggiare in sede giudiziaria (e non solo) la collega di partito Alessia Bausone. Che, dopo aver conquistato il primo posto tra i non eletti in fase di riconteggio, gli contesta l’ineleggibilità puntando al suo seggio e gli muove accuse – a cui lui risponde annunciando querele – non proprio leggere. Come quella di essere «politicamente un Poltergeist» e di muoversi tra «poltronifici, silenzio sulle mafie e mancato rispetto delle regole (anche elettorali)».

    Tavernise è invece il giovane capogruppo e i due ruoli (presidente di gruppo consiliare e di Commissione) consentono a entrambi i 5stelle di assumere il doppio dei componenti dello staff rispetto a un consigliere semplice.

    Così fan tutti

    Sia chiaro: gli altri non sono certo da meno e sono già noti i casi di Leo Battaglia arrivato davvero alla Regione, di un ex fotoreporter di Mario Oliverio nominato autista della leghista Simona Loizzo, dei collaboratori che passano da Carlo Guccione a Franco Iacucci e da Luca Morrone alla moglie, o dello stesso Roberto Occhiuto che ha assunto a Palazzo Campanella una supporter del fratello.

    Ma anche i pentastellati non sembrano avere alcuna intenzione di fare a meno delle assunzioni fiduciarie. Hanno fatto sapere urbi et orbi di aver rinunciato al vitalizio – che oggi è ben poca cosa rispetto al tesoretto da migliaia di euro assicurato ai vecchi ex consiglieri – e all’indennità di fine mandato, ma non sbandierano le nomine che fanno per i loro staff.

    Quattro piccioni M5S per un Tavernise

    Tavernise, per esempio, ne ha portate a casa quattro in un colpo solo. Fabio Gambino, già assistente parlamentare di Alessandro Melicchio, sarà il suo segretario particolare al 50% per poco più di 20mila euro all’anno. Collaboratore esperto (al 50%) del capogruppo è invece Lidia Sciarrotta. Prenderà 16.700 euro all’anno ed è nota agli annali grillini perché, nel 2019, «avrebbe dovuto partecipare alla Parlamentarie per la selezione dei candidati alle europee» – si legge sul sito Informazione & Comunicazione – ma il suo nome sparì dalla lista dei candidati «benché incensurata» perché, «secondo talune fonti», qualcuno avrebbe segnalato che aveva «parenti condannati per usura».

    Duro e puro di Giorno

    C’è poi spazio per un componente interno – il dipendente del consiglio regionale Giovanni Paviglianiti, per la cui indennità di struttura saranno erogati 12.800 euro all’anno – e soprattutto per Giuseppe Giorno. Si tratta di un consigliere comunale di Luzzi che è stato coordinatore della campagna elettorale M5S per le Regionali. A metà luglio diceva peste e corna dell’alleanza con il Pd e Amalia Bruni, accusando i cittadini-portavoce-parlamentari Riccardo Tucci e Massimo Misiti di aver «tramato fin dall’inizio probabilmente solo per interessi personali». Oggi forse avrà cambiato idea sui dem e la loro ex aspirante governatrice, comunque farà il segretario particolare al 50% per circa 20mila euro all’anno.

    L’ex duro e puro Giuseppe Giorno, coordinatore della campagna elettorale del M5S nelle ultime elezioni regionali

    Proprio Giorno nell’estate del 2020, quando il caso dei vitalizi fece arrossire davanti all’Italia sia la maggioranza che l’opposizione dell’epoca, sottoscriveva e spammava il comunicato dei parlamentari grillini che ricordavano come «il Consiglio regionale calabrese costa quasi quanto quello della Regione Lombardia che ha, però, il doppio dei consiglieri, cinque volte la popolazione della Calabria e un reddito pro capite di gran lunga superiore al nostro».

    Quando tuonavano contro gli stipendi troppo alti

    All’epoca erano fuori da Palazzo Campanella e puntavano il dito contro «lo stipendio mensile di 5.100 euro e i rimborsi netti di circa 7mila euro mensili attribuiti a ogni consigliere», oggi invece ci sono dentro e i loro cittadini-portavoce-consiglieri Tavernise e Afflitto incassano puntualmente quei compensi. Viene dunque da chiedersi se proveranno almeno ad approvare la proposta di legge M5S di «taglio ai privilegi» parcheggiata da anni a Palazzo Campanella che produrrebbe «un risparmio di 3 milioni di euro a legislatura». O se, nel caso in cui il centrodestra ne stoppasse gli eventuali buoni propositi, siano pronti a rinunciare almeno a una parte di stipendio o di staff. Produrrebbero un risparmio ben maggiore della loro attuale rinuncia e manderebbero, pur da dentro il Palazzo, un segnale di sobrietà un po’ più concreto.

  • Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Quando Rosina Gullo e Giannino Losardo si sposarono lui era tornato in Calabria da poco. Era la metà degli anni ’50 ed era riuscito farsi trasferire dalla Pretura piemontese a cui era stato assegnato al Tribunale di Paola. Era di Cetraro, dunque era tornato a casa. Ma probabilmente non sapeva cosa lo aspettava. Non solo dentro quegli uffici, ma anche fuori, sulla strada che lo vide cadere vittima, 33 anni dopo, di un agguato mafioso che fu ricondotto al clan del «re del pesce» Franco Muto. Giannino, all’epoca consigliere comunale del Pci e segretario capo della Procura paolana, venne ucciso la sera del 21 giugno 1980, 10 giorni dopo l’omicidio di Peppino Valarioti. Rosina è morta un paio di settimane fa. E non ha mai avuto giustizia per suo marito.

    Sostegno a intermittenza

    Al suo funerale, il 16 dicembre scorso, a Fuscaldo non c’era molta gente. In prima fila il sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo. Quando facciamo il suo nome a Giulia Zanfino, giornalista freelance e autrice del docufilm Chi ha ucciso Giannino Losardo, lei racconta che prima delle elezioni Cennamo era molto disponibile nel metterla in contatto con le amministrazioni locali che avrebbero potuto patrocinare il suo lavoro d’inchiesta. Una volta eletto sindaco, però, è «scomparso». Solo dopo che Zanfino ha parlato di questo in un’intervista alla Tgr Rai lui ha dichiarato «la totale volontà della sua amministrazione di sostenere» il docufilm.

    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Una pista da battere

    Losardo era uno strenuo oppositore della mafia e della malapolitica. Quando morì accorsero a Cetraro anche Enrico Berlinguer e Pio La Torre. La politica, la lotta al malaffare e all’ascesa criminale dei Muto – la cui pescheria al porto di Cetraro era il simbolo del suo potere sul territorio – sono state sempre le piste privilegiate per chi ha indagato sul delitto. Il processo è però finito in una bolla di sapone e, oggi, chi come Zanfino insegue tracce da anni si è convinto che un’altra pista è stata sottovalutata. Quella della corruzione nella Procura di Paola, un luogo in cui la rettitudine di un funzionario come Losardo non poteva che essere un ostacolo alla gestione disinvolta di questioni legate agli affari più redditizi sul Tirreno cosentino.

    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo
    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo

    «Secondo me può essere la vera chiave per arrivare, prima o poi, alla verità», dice la regista, che confessa di aver scovato la trascrizione di un’intercettazione nella cassetta di sicurezza che Losardo aveva in Procura. Riguarda una telefonata «interessante», rispetto a questa pista, tra Muto e un noto avvocato.

    Insieme per la verità

    Il progetto – fotografia di Mauro Nigro, tra gli attori Giacinto Le Pera (Losardo) e Francesco Villari (Muto) – ha vinto un bando della Calabria Film Commission. Nato da un’idea di Francesco Saccomanno e prodotto dall’Associazione Culturale ConimieiOcchi (produzione esecutiva OpenFields), ha il patrocinio della Commissione parlamentare antimafia, oltre che il sostegno dei Comuni di Paola, Acri, Casali del Manco, fondazione Carical, Parco Nazionale della Sila, Proloco di Acri, Colavolpe, BCC Mediocrati.

    Il clima a Cetraro

    Zanfino ha intervistato i compagni di Losardo che hanno subìto, negli anni, minacce e soprusi. «Ancora oggi – racconta – a Cetraro c’è un clima di terrore». Ne ha avuto esperienza diretta assieme a Nigro a settembre del 2020: l’unica volta in cui si è esposta con la telecamera a Cetraro, è andata a un seggio elettorale vicino a casa di Muto. Ha chiesto a chi andava a votare se si ricordasse di Losardo ed è stata presa a male parole da una donna che le urlava contro che «Losardo lo dovevamo lasciare dov’era…».

    In un’altra occasione aveva chiesto a un’associazione locale di intercedere con un gruppo di pescatori, con la scusa di documentare le espressioni dialettali con cui conducevano le trattative per la vendita del pesce, affinché li filmasse. Ma anche in quel caso ha incontrato problemi.

    Il fascino del male

    Tra le interviste del docufilm c’è quella a Tommaso Cesareo, oggi assessore nella giunta Cennamo (il più votato alle elezioni del 2020) che non nasconde di aver frequentato in passato gli esponenti del clan. «Con loro – dice Cesareo – potevi permetterti di entrare ai night, nelle discoteche… rappresentavano il potere. E queste cose più che biasimarle io devo ammettere che mi affascinavano. Un errore madornale – aggiunge mostrandosi pentito – che io mi sono portato dietro per anni». Ma racconta anche che «tutta Cetraro era amica di Muto».

    Colpiscono le parole di Leonardo Rinella, pm nel processo che si celebrò a Bari, per «legittima suspicione», perché quando a Cosenza provavano a interrogare Muto in aula succedeva il finimondo. Nel processo erano coinvolti anche Cesareo, il padre Carlo e il fratello Giuseppe – mentre un altro fratello, Vincenzo, è il direttore sanitario accusato di fare tamponi ad amici, parenti e «pure ai gatti». Nello stesso procedimento pugliese finirono accusati l’allora procuratore capo di Paola Luigi Balsamo (omissione in atti d’ufficio) e il sostituto “anziano” Luigi Belvedere (interesse privato in atti d’ ufficio e falso). Per tutti – magistrati, mafiosi e presunti killer – alla fine arrivò l’assoluzione.

    Un processo da spostare

    «La fase istruttoria – racconta Rinella a Zanfino – la svolgemmo in Calabria. Colpiva l’inframittenza continua che il sostituto Belvedere aveva in tutti i processi, anche quelli che non lo riguardavano. Poi c’era la debolezza del procuratore capo. Una brutta Procura della Repubblica. C’era anche stato un altro caso, fuori dal processo Muto, di un magistrato, Fiordalisi, che era stato sottoposto a inchiesta disciplinare. Non avemmo una buona impressione e capimmo perché il processo difficilmente si sarebbe potuto celebrare con successo a Paola. Direte che neanche a Bari ha avuto successo… avete ragione. Ma, onestamente, non mi sento colpevole».

    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ombre sul tribunale

    Il quadro emerge con chiarezza inquietante da una relazione disposta dal Ministero della Giustizia nel 1991. A scriverla, dopo una lunga inchiesta, fu il «magistrato ispettore» Francantonio Granero. Un lavoro meticoloso che restituisce una realtà giudiziaria in cui i veri «padroni» sarebbero stati l’allora presidente del Tribunale William Scalfari e i due sostituti, Belvedere e Fiordalisi. Del primo vengono ricostruite le attività da «imprenditore di fatto» in società, di cui faceva parte il figlio e in cui non mancavano nomi noti della politica e delle professioni, che costruivano complessi alberghieri con miliardi di finanziamenti pubblici.

    Nel dossier Granero si raccontano dispetti e ripicche tra pm e polizia giudiziaria, ma anche di magistrati con la passione per le auto sportive e gli assegni a vuoto (il figlio di Belvedere ne emise per oltre due miliardi in una vicenda a cui Granero collega il suicidio di un direttore di banca). E di imprenditori amici come Francesco Venturapadre della (per poco) candidata alle passate Regionali Antonietta – che metteva soldi suoi per coprire i debiti del magistrato. Lo stesso magistrato che, per dirne una, pretendeva di avere solo per sé, per andare al bar, un posto auto in piazza riservato alla polizia. Mentre il collega, per dirne un’altra, chiedeva un prestito da 20 milioni di lire a un perito – all’epoca impegnato nel processo sull’omicidio Scopelliti – che era indagato in un’inchiesta di cui lo stesso magistrato era titolare.

    Gli amici

    Per non parlare delle considerazioni sulla gestione delle procedure fallimentari, delle amministrazioni controllate e del giro di commissari giudiziari e consulenti. E per finire con l’avvocato Granata, presidente dell’Ordine e a lungo vicepretore onorario, che era intimo amico di Losardo e che ne raccolse le ultime parole. Quando Giannino era morente, secondo la ricostruzione del pm Rinella, Losardo «chiese solo ed esclusivamente di Granata». Il quale però secondo il magistrato «non lo volle rivelare, chiudendosi in silenzi assurdi» e sostenendo che Losardo avesse solo farfugliato qualcosa di irrilevante.

    Ai suoi soccorritori, mentre lo portavano in ospedale, Giannino disse che erano stati «gli amici» e che «tutta Cetraro» sapeva chi gli aveva sparato. A distanza di oltre 40 anni gli assassini restano impuniti. Qualche magistrato ha fatto carriera e qualche altro è morto tra onori di Stato. E la sorveglianza speciale, misura che per un periodo è stata data a Franco Muto, la si vorrebbe imporre a chi lotta per difendere diritti e beni comuni.

  • Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Per “tagliare” quattro curve e realizzare un tratto di strada di appena un km c’è voluto l’esercito. Negli anni scorsi gli abitanti delle Serre si erano abituati a vedere i ragazzi con il mitra e la mimetica mandati in questo lembo della Calabria centrale a combattere una guerra che di sicuro non era la loro. Quel tratto, oggi completato dopo enormi ritardi e con modalità assimilabili alla diga di Mosul in Iraq, è uno dei simboli della Trasversale delle Serre, una strada di cui si parla da più di mezzo secolo. E che tra le tante incompiute calabresi assume contorni ormai mitologici.

    L'esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre
    L’esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre (Foto Salvatore Federico, 2016)
    Oltre mezzo secolo, meno di 40 km

    Dovrebbe collegare, in circa 56 km, la costa tirrenica e quella jonica, da Tropea a Soverato, passando per l’entroterra serrese. Non è certo un’opera facile, costellata com’è di gallerie e viadotti. Ma pur essendoci stata nell’ultimo decennio una qualche accelerazione, questo termine rappresenta senza dubbio un eufemismo. Le parti completate oggi misurano circa 37 km e questi chilometri non sono nemmeno consecutivi.

    Una mappa dei tratti realizzati finora
    Una mappa dei tratti realizzati finora

    Siamo pur sempre nella periferia di due province della Calabria (Catanzaro e Vibo) dove ogni cosa sembra più difficile che altrove. Comunque qualche giorno fa il presidente della Regione Roberto Occhiuto l’ha menzionata tra i temi affrontati in un incontro con il ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini e anche questa è una notizia. Chissà però se entrambi sanno quanto i loro omologhi in passato abbiano promesso e tagliato nastri vagheggiando uno sviluppo che, nel frattempo, deve aver sbagliato strada.

    Promesse bipartisan

    Non avrebbe potuto perdersi, per esempio, il defunto Altero Matteoli quando, nel febbraio del 2011, per inaugurare due tratti (8 km in tutto) affiancato da Peppe Scopelliti arrivò qui non in auto ma in elicottero. Nell’immaginario locale, poi, più che le parole è rimasta impressa l’improbabile camicia con cui Mario Oliverio si presentò nell’agosto del 2015 accompagnato dall’immancabile stuolo di tecnici e politici che gli illustravano le ben poco progressive sorti dell’infrastruttura.

    In ogni metro della Trasversale delle Serre c’è una quota di retorica e buone intenzioni difficilmente quantificabile. Al di là dell’ironia, ognuno dei politici menzionati e sicuramente molti altri – ci si può inserire anche l’ex parlamentare Giancarlo Pittelli – si è mosso e ha poi messo il cappello sulla “sua” quota di soldi pubblici destinati all’opera. Che in totale potrebbe avere un costo che si aggira attorno ai 600 milioni euro, ma fare una stima compiuta è difficile. Almeno quanto capire se questa, dopo l’incontro Occhiuto-Giovannini, possa essere davvero la volta buona, come l’Anas sostiene da tempo.

    Una storia iniziata nel 1966

    D’altronde si trova traccia della Trasversale delle Serre in atti ufficiali già dal 1966, quando il Comitato regionale per la programmazione economica propose di realizzare una strada «a scorrimento veloce» che collegasse la zona ai due mari. Due anni dopo l’amministrazione provinciale catanzarese inserì l’opera nell’“Asse di riequilibrio territoriale” ma per arrivare al primo appalto si dovette aspettare fino al 1983 (3 km tra Vazzano e Vallelonga). Seguì un altro lungo stop fino a quando, nel 1997, partirono i lavori tra Chiaravalle e Gagliato con grande soddisfazione dell’allora Sottosegretario di Stato ai Trasporti Giuseppe Soriero (governo Prodi), che piazzò se stesso con sfondo di piloni su un memorabile manifesto in cui dichiarava lo sviluppo del territorio ormai inesorabilmente avviato.

    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Cittadini allo scontro

    Tanto avviato che, oggi, la strada realizzata, sul lato vibonese, va da Serra San Bruno a Vallelonga, pochi chilometri per poi fermarsi e ricomparire con un breve tratto tra le campagne di Vazzano e l’imbocco dell’autostrada. Sul versante jonico va invece ininterrottamente dalla cittadina della Certosa fino a Gagliato. Lì finisce: c’è un muro invisibile su cui si scontrano, giusto per non farsi mancare nulla, le rivendicazioni di due gruppi di cittadini. Quelli che abitano proprio le contrade tra Gagliato e Satriano, contrari al progetto – rimodulato da Anas rispetto a uno originario più complesso e costoso – che vedrebbe loro espropriati un bel po’ di terreni, e quelli del Comitato “50 anni di sviluppo negato” che invece spingono perché almeno si completi quest’ultimo, breve tratto che consentirebbe di arrivare dalle Serre a Soverato in circa venti minuti.

    Il malcontento dei cittadini
    Il malcontento dei cittadini
    Costi e tempo aumentano

    Si sono susseguite riunioni di sindaci, dibattiti, interventi sulla stampa e cartelli piantati sul ciglio della strada. Ma ancora è tutto fermo e chi tragga vantaggio da simili lungaggini è difficile stabilirlo. Certo fa specie ciò che la Guardia di finanza qualche tempo fa ha segnalato alla Corte dei conti: un potenziale danno erariale di oltre 56 milioni di euro emerso dopo un monitoraggio durato tre anni sull’appalto che riguarda il tratto vibonese, aggiudicato nel 2005 per un importo di circa 124 milioni di euro e concluso dopo 13 anni spendendone oltre 191. Il risultato è che i tempi contrattuali si sono dilatati del 300% con «un incremento pari al 46% circa dell’importo dei lavori».

    Fiamme e pallottole

    Quella della Trasversale delle Serre non è certo solo una storia di proteste, lungaggini burocratiche e costi lievitati. Nell’aprile del 2015 un capocantiere fu arrestato perché accusato di essere tra i responsabili delle intimidazioni subìte dalla sua stessa azienda. Ne emerse «un solido rapporto fiduciario» tra il capocantiere e alcuni «esponenti di pericolose organizzazioni criminali intenzionate ad affermare il loro potere sul territorio».

    Nella notte tra il 12 e il 13 ottobre 2014 le fiamme distrussero diversi mezzi di quel cantiere e il geometra che aveva denunciato il fatto trovò un bossolo calibro 12 sotto il tergicristallo dell’auto. Poi qualcuno gli telefonò dicendo: «Se non ve ne andate la prossima volta le cartucce saranno piene, per te e i tuoi colleghi». A fare quella telefonata, secondo quanto emerse dall’inchiesta dei carabinieri di Serra San Bruno, sarebbe stato proprio il capocantiere poi arrestato.

    Pentiti e Servizi segreti

    In una relazione consegnata al governo nel 2007 i Servizi segreti segnalavano che tra «le proiezioni imprenditoriali/collusive della ’ndrangheta» c’era il settore dei lavori stradali. E che, in questo ambito, c’erano «soprattutto» quelli di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, della Statale 106 e della Trasversale delle Serre. Che le ‘ndrine della zona abbiano banchettato sui lavori della Trasversale lo ha rivelato l’inchiesta “Showdown 3”. Un pentito, Gianni Cretarola, che ha raccontato molti retroscena della seconda “faida dei boschi” e ha parlato del «grande business della Trasversale».

    Secondo Cretarola «tutto l’ambiente ‘ndrangheta» era coinvolto nelle decisioni sui grandi appalti: agli imprenditori veniva imposto di pagare il 3% che veniva poi diviso tra le ‘ndrine del luogo. Anche il pentito vibonese Andrea Mantella ha raccontato di presunti legami tra la ‘ndrangheta locale e un noto politico della zona per «raddrizzare questi grossi imprenditori, che venivano dal Nord» e piazzare gli escavatori e il calcestruzzo del clan sui cantieri della Trasversale delle Serre.

  • L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    Gli epiteti che Giovanni Giamborino le riserva, parlando con altre persone, non sono riferibili. E guardando a cosa emerge da questa incredibile vicenda – raccontata da I Calabresi in altri due articoli – si capisce anche il perché. Lui è una delle figure chiave dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché è considerato un faccendiere del superboss Luigi Mancuso. Lei è un’archeologa oggi in pensione che, fino a quando e come ha potuto, ha tentato di impedirgli di ricoprire di cemento i resti di una villa e di una strada romana nel centro di Vibo Valentia. Il cemento della ‘ndrangheta, almeno secondo la Dda di Catanzaro, alla fine ha però avuto la meglio sulla gloriosa storia di cui la città che fu Hipponion e Monteleone fa vanto. E che è stata calpestata nell’indifferenza di quasi tutti. Non di Maria Teresa Iannelli, rivelatasi un osso duro anche per chi, grazie ad amici e «fratellini», era abituato a vedersi aprire ogni porta.

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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana
    Il maggiore del Ros Francesco Manzone ha spiegato in Tribunale che lei rappresentava un problema «insormontabile» per Giamborino. Perché? Cosa ha pensato leggendo le cronache di quell’udienza?

    «Non ricordo di avere conosciuto il maggiore Manzone, ma, a giudicare da quello che ha dichiarato, credo che abbia compreso appieno la vicenda dell’edificio realizzato da Giamborino. In effetti, già nel 1987, quando da tempo ero l’archeologo responsabile di Vibo Valentia, la Soprintendenza Archeologica della Calabria era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori.

    Nello stesso anno, alla luce degli importanti resti rinvenuti, è stato emanato un decreto di vincolo archeologico che, per quello che ne so, è tuttora in vigore. Per anni, nonostante il vincolo, Giamborino, e prima di lui la madre, hanno chiesto ripetutamente l’autorizzazione a costruire ottenendo categorici dinieghi. Evidentemente la fermezza e il rigore delle risposte hanno determinato la giusta convinzione dell’impossibilità di ottenere quanto richiesto».

    Avrà letto anche le intercettazioni che testimoniano il tenore dei contatti tra Giamborino e due archeologi, Mariangela Preta e Fabrizio Sudano. Se lo sarebbe aspettato?

    «Conosco da tempo la dottoressa Preta che, per qualche tempo, ha partecipato ad alcune campagne di scavo da me dirette. Come ho fatto con altri giovani colleghi, ho dato anche a lei la possibilità di introdursi all’archeologia. Ma successivamente ho interrotto ogni rapporto perché è venuta meno la stima necessaria. Il dottor Sudano è stato mio collega di Soprintendenza solo per pochi anni a ridosso del mio pensionamento. Con lui ho instaurato pochi rapporti formali. In ogni caso quanto ho appreso dall’articolo mi lascia profondamente sconcertata».

    L’incontro tra Giamborino, Sudano e Famiglietti monitorato dai militari del Ros
    In che modo aveva provato a fermare i lavori che Giamborino stava facendo su quelle antiche vestigia? Perché non ci è riuscita?

    «Fin dall’inizio dei lavori di sbancamento che hanno portato alla luce importanti reperti, la Soprintendenza era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori, che, però, il Comune ha ritardato a notificare, nonostante le mie sollecitazioni, consentendo così il parziale sbancamento dell’area. La presenza del vincolo e i dinieghi a costruire hanno, per molti anni, salvaguardato l’area.

    -Vibo-ruderi-romani-i calabresi-
    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    E poi cosa è successo?

    Nel 2015 il Soprintendente pro tempore mi ha informata della sua intenzione di concedere l’autorizzazione. Più volte le ho illustrato, anche con note interne, la notevole importanza archeologica di quell’area nell’ambito della città greco-romana, tant’è che l’autorizzazione è stata subordinata allo scavo delle pareti non ancora sbancate.

    Infine, il rinvenimento delle monumentali arcate medievali e del tratto di strada romana realizzata con grossi basoli, mi aveva fatto ben sperare in un ulteriore diniego a costruire. So che le attività di scavo sono proseguite anche dopo il mio pensionamento avvenuto il 1 maggio 2015. Quanto al non essere riuscita a fermare la realizzazione del fabbricato, mi sembra evidente che il mio parere di semplice funzionario sia stato superato a livello gerarchico».

    Che valore storico poteva avere quel sito ricoperto dal cemento?

    «Per farne comprendere la valenza storico archeologica basta dire che nella realtà urbana di Vibo, dove lo strato medievale si sovrappone a quello romano e questo a quello greco, dopo anni di ricerche a cominciare dall’Orsi (1921) fino ai nostri giorni, non si era mai trovato un asse viario di età romana che consentisse di conoscere, anche se parzialmente, l’impianto urbano romano».

    In quegli anni sentiva la pressione di Giamborino e degli ambienti (politica, massoneria, burocrazia) da cui secondo gli inquirenti avrebbe tratto vantaggi?

    «Le pressioni dei vari ambienti sono state fortissime e costanti in tutto il periodo in cui sono stata responsabile di Vibo Valentia. Ma la mia personale risposta, sostenuta dal Soprintendente che più a lungo ha diretto l’Ufficio (dottoressa Elena Lattanzi), è stata sempre molto risoluta e convinta. Affermando la prevalenza dell’interesse dello Stato e la priorità della tutela».

    Lei ha passato anni ad eseguire scavi e a dirigere diversi musei calabresi. A Vibo ha trovato un ambiente diverso rispetto alle sue altre esperienze?

    «Purtroppo la situazione descritta per Vibo si riproponeva, talvolta anche con maggiore esasperazione, anche nelle altre località e sedi museali di cui sono stata responsabile (vedi Rosarno)».

    3/fine

  • Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    La grande storia calpestata, ricoperta di cemento e connivenze, passa per i contatti imbarazzanti tra un presunto faccendiere del clan Mancuso, Giovanni Giamborino, e alcuni archeologi con cui avrebbe avuto una certa confidenza e da cui avrebbe ricevuto più di un consiglio per ottenere l’ok ai lavori di un palazzo costruito ricoprendo una strada e una villa di epoca romana [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE]. Succede – è successo – a Vibo, piccolo capoluogo calabrese considerato da molti una capitale di affari e intrecci non proprio trasparenti. Se lo siano o meno quelli al centro di questa vicenda spetta ai giudici stabilirlo, ma ciò che emerge dalle carte di “Rinascita-Scott” è quantomeno sorprendente per tanti cittadini che conoscono per esperienza diretta le lungaggini e le pastoie burocratiche cui si va incontro, magari giustamente, quando si ha a che fare con vincoli e Soprintendenze.

    La firma mancante

    Per Giamborino non era così: il finale della piccola storia di cui è protagonista è noto e non è per niente lieto. È riuscito a ottenere l’autorizzazione che cercava dopo aver messo in moto conoscenze e «amicizie» che vanno anche oltre i rapporti intrattenuti con Fabrizio Sudano, all’epoca funzionario della Soprintendenza e oggi al vertice dello stesso organismo che ha competenza su Reggino e Vibonese, e Mariangela Preta, archeologa che ha collaborato da esterna con la Soprintendenza e che oggi dirige il Polo museale di Soriano. Né Preta né Sudano sono indagati, ma gli inquirenti osservano come si dedichino all’iter che interessa a Giamborino. Che a un certo punto rischia di allungarsi perché serve una firma di Gino Famiglietti, già alto dirigente del Ministero e per un periodo anche alla guida della Soprintendenza calabrese, che però non è sempre nella regione e ha tante cose di cui occuparsi.

    Cambio della guardia, progetto sbloccato

    «Ma cerco di arrivarlo io a questo, a questo pagliaccio … perché io lo arrivo, a Roma lo arrivo non è che non lo arrivo…», dice il presunto faccendiere riferendosi proprio a Famiglietti. Che poi riesce effettivamente a incontrare proprio nel suo cantiere dopo aver contattato, in una triangolazione che ricorre spesso nelle intercettazioni, sia Preta che Sudano. L’alto burocrate non rimane però alla guida della Soprintendenza della Calabria. E dopo la sua sostituzione Giamborino riesce ad ottenere, tramite «interessi nonché interventi criminali e di soggetti appartenenti alla massoneria vibonese – scrive il Rosquanto non potrebbe legalmente avere: lo sblocco del progetto e la prosecuzione dei lavori».

    «Mi hanno detto che è un fratellino»

    Preta gli dice al telefono di essere a conoscenza di tutto: «Io so tutto e so anche una notizia più bella … che Famiglietti si è levato dalle palle …(ride) … te lo dico proprio in francese…». La guida della soprintendenza passa a Salvatore Patamia (anche lui non indagato), la cui nomina viene accolta con una certa soddisfazione. Preta rassicura Giamborino dicendo che «la firma» è questione di giorni e che non c’è più bisogno di mettere in mezzo terze persone. Ma l’impiegato pensa comunque a una sua personale corsia preferenziale: «Io ho il modo perché è intimo amico di un mio carissimo amico Patamia». E per chiarire il concetto dice: «Adesso m’hanno detto che è un fratellino, capito, quindi io già mi ero mosso e non ci sono problemi». Aggiungendo: «Se tu hai bisogno di questo qua, non ci sono problemi hai capito?». Preta risponde ridendo: «Questo è il dato in più che ci serve».

    Il compasso, uno dei più noti simboli massonici
    Il Gran Maestro

    Quando un’altra persona gli chiede chi fosse il «carissimo amico» Giamborino risponde che si tratta di «don Ugo». Secondo gli inquirenti è Ugo Bellantoni, inizialmente indagato ma poi uscito pulito dall’inchiesta con un’archiviazione, già responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Vibo e Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani. Secondo la Dda sarebbe lui a procuragli un appuntamento con Patamia al Parco Scolacium di Roccelletta di Borgia. Mentre ci va, Giamborino scherza con la persona che è con lui in auto: «Lo vedi quanto sono precisi la massoneria? Quanto conta… La massoneria è come la maffia … (ride) …». L’incontro viene in realtà rinviato all’indomani, ma ciò che conta è il risultato: in pochi mesi, da gennaio a maggio 2016, Giamborino risolve i suoi problemi e arriva l’agognata firma sul progetto di variante.

    Cemento sui resti romani

    Se ci fossero dubbi sulle intenzioni dell’impiegato rispetto ai resti di epoca romana è lui stesso a spazzarli via: «Una volta che io vado là… Con mezzi… E sopra mezzi… Che devo vedere di nascondere già quelle muraCon quella cazzo di strada… Buttare il solaio… Per fare i lavori là…». E ancora: «La getto là sotto e apparo con la brecciadi modo che non si veda la strada che siccome deve venire la Soprintendenza… di modo non la vede per niente quella strada (…) Una volta che togliamo la strada poi dieci cm di terra dobbiamo togliere e la gettiamo là dentro stesso e le pietre le buttiamo là dentro … li mettiamo da un lato no? E dall’altro lato riempiamo di terra … poi … e poi gli gettiamo 4 5 6 carrettate di breccia per completarlauna volta che gli metto la breccia glielo copriamo là sotto e non vedono niente poi … vedono tutto paro loro … hai capito?».

    I resti di epoca romana catalogati

    «Ho paura della Sopritendenza»

    Nella stessa proprietà, conferma Giamborino, ha trovato «quella strada del 300una strada del 300… oggi ho buttato un muro… se mi beccano mi fanno rovinato… mi rompeva il cazzo quel cazzo di muro mi stavano sui coglioni… e l’ho buttato… adesso ho paura della soprintendenza». Commentando le tante tracce di storia che emergono in quella parte di Vibo l’impiegato dice che lì «c’è il tesoro più importante del mondo… è documentato e tutto… e infatti questo qua… qua dovevano fare un palazzo è stato fermo… è fermo da cinquant’anni… il mio da trenta… questo da cinquanta… io sono riuscito a svincolarlo… nessuno gl’altri sono riusciti a svincolarlo…».

    L’archeologa scomoda

    Per lui, come raccontato dal maggiore del Ros Francesco Manzone nell’aula bunker, c’era solo un unico, grande ostacolo. Una professionista, Maria Teresa Iannelli, che allora era responsabile della Sovrintendenza. «Per 25 anni non mi ha dato retta, non mi ha neanche ricevuto», dice sdegnato. E lei fino a poco prima di andare in pensione si è sempre messa di traverso, non ha mai dato autorizzazione per consentire che il cemento ricoprisse le tracce della grande storia. Ma il presunto faccendiere dei Mancuso è riuscito lo stesso ad aggirare l’ostacolo risalendo le gerarchie dei Beni culturali. «Io tramite Roma … Tramite il ministero … Tramite tutti … Sono riuscito a parlare con loro …».

    2/continua

  • Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    La piccola storia vibonese che passa velocemente per le cronache locali è piena di episodi su tombaroli che, nascosti di giorno nei garage o nottetempo in qualche giardino, scavano buche e cunicoli in cerca di reperti archeologici da trafugare. Stavolta i resoconti di giudiziaria restituiscono invece una vicenda all’incontrario: un presunto factotum di potenti boss che nasconde, sotto una colata di cemento e collusioni, dei resti di epoca romana di grande valore storico. Per costruire in pieno centro a Vibo, in area vincolata, un palazzone in stile moderno con appartamenti e spaziosi magazzini da piazzare sul mercato.

    cemento-sui-resti-romani-i calabresi
    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    Il cemento tra le pieghe di Rinascita Scott

    L’episodio era quasi passato inosservato a dicembre del 2019 tra le pieghe dell’imponente mole di documenti dell’inchiesta “Rinascita-Scott” ma, di recente, l’ha riportato alla luce un investigatore dei carabinieri già in servizio al Ros di Catanzaro. Deponendo in aula bunker durante il maxiprocesso istruito dal pool di Nicola Gratteri, il maggiore Francesco Manzone – scrive il giornalista Pietro Comito su LaC raccontando l’udienza – dice che il suo reparto aveva allestito «un vero e proprio Grande fratello» attorno agli uomini di fiducia del superboss Luigi Mancuso. Uno di questi è il presunto faccendiere al centro della vicenda: Giovanni Giamborino, considerato uno ‘ndranghetista battezzato nella frazione Piscopio e cugino dell’ex consigliere regionale Pietro. Per la Dda è un elemento chiave dell’intera inchiesta: avrebbe un ruolo di primo piano negli affari e nelle strategie della cosca che da Limbadi domina il Vibonese e non solo.

    La storia sotto quel cemento
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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana

    Il palazzone moderno è suo: ne avrebbe messo insieme la proprietà unendo più particelle, fin dagli anni ‘80, grazie ai soldi di tre fratelli ai vertici della famiglia Mancuso (Antonio, il defunto Pantaleone «Vetrinetta» e, appunto, Luigi, il «supremo»). Sotto quel cemento ci sono i resti di una strada e di una villa romana che Giamborino ha ricoperto, pur essendo un luogo sottoposto a vincolo archeologico, grazie ad una successione impressionante di presunte connivenze che passa per la Soprintendenza, coinvolge massoni di alto rango e, dal Comune di Vibo, arriva fino ai palazzi ministeriali. A raccontarlo, stavolta, non sono i pentiti, ma lo stesso factotum che, pur essendo un semplice impiegato comunale, dimostra di avere conoscenze ben addentrate nel mondo dei colletti bianchi. E non sapendo di essere intercettato, ne parla moltissimo.

    L’incontro con il soprintendente

    A partire da gennaio 2016 Giamborino si muove per ottenere dalla Soprintendenza archeologica l’approvazione di una variante «necessaria» per completare i lavori e poter vendere almeno parte del fabbricato. Il Ros monitora tanti contatti tra Giamborino e Mariangela Preta, archeologa «di fiducia dell’impresa» che effettua i lavori, e con un funzionario all’epoca in servizio alla Soprintendenza di Reggio, Fabrizio Sudano. Sia Preta che Sudano non sono indagati. La prima oggi dirige il Polo museale di Soriano e spesso ha collaborato da esterna con la Soprintendenza, il secondo dal 15 novembre scorso è il nuovo soprintendente per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, mentre nei mesi precedenti era stato alla guida di quella di Cosenza e, ad interim, anche di quella di Catanzaro e Crotone.

    Il rapporto tra Giamborino e Sudano

    Dai brogliacci dell’inchiesta depositati agli atti del processo emerge quello che per gli inquirenti è un «rapporto di confidenza» tra Giamborino e Sudano, in una triangolazione di contatti che coinvolge quasi sempre anche Preta. A un certo punto serve una firma da parte di un alto burocrate del Ministero dei beni culturali che, in quel momento, ricopre anche l’incarico di soprintendente della Calabria. Si tratta di Gino Famiglietti. È Preta a spiegare a Giamborino che ruolo abbia, suggerendogli anche di chiamare Simonetta Bonomi – oggi soprintendente del Friuli Venezia Giulia – che «lo conosce».

    I resti di epoca romana catalogati
    «Vado e trovo Franceschini, il ministro proprio»

    Il passaggio che va fatto con Famiglietti rischia però di comportare un’ulteriore perdita di tempo, allora Giamborino dice alla stessa Preta che «se ci sono problemi vado e chiama a Franceschini…vado e trovo Franceschini». Il presunto fedelissimo di Luigi Mancuso, quindi, non nasconde l’intenzione di rivolgersi «ad amicizie» non meglio specificate «in modo – annotano gli inquirenti – da poter raggiungere gli uffici ministeriali». Lo ribadisce parlando con il titolare dell’impresa di costruzioni: «Io faccio salti mortali, io se questo qua non me la firma giovedì, io in settimana salgo a Roma…ah ah io vado e trovo a Franceschini, il ministro proprio…non è che mi mancano le cose, o mi mancano le amicizie».

    Serve un’autorizzazione per quel cemento

    A un certo punto nei colloqui con Sudano spunta addirittura una relazione redatta da Giamborino, o da chi per lui, che il funzionario, garantisce, avrebbe fatto propria. «Allora ti mando quella carta – dice Giamborino – finta che l’hai fatta tu la relazione». Il funzionario risponde: «Questa mandamela che mi serve…». Aggiungendo: «Quella la faccio mia, che io faccio l’istruttoria come se ho notato la differenza del progetto e le cose positive sono queste…io più di quello…». In seguito Sudano ribadisce: «La relazione che ha fatto, che hai fatto tu, che ha fatto non lo so l’ingegnere, sulle cose positive rispetto al progetto vecchio, l’ho fatta già mia, che gliela spiego io, molte cose non gliele spiegherò neanche, comunque non ti preoccupare che faccio in modo da farti avere un ok».

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  • Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Chissà se l’ostentato approccio “rock” di Roberto Occhiuto sarà applicato anche a un lentissimo ente subregionale: il Parco delle Serre. Istituito nel 1990, c’è voluto un decennio prima che qualcuno stendesse la cartografia su un tavolo e ne tracciasse almeno i confini. Poi, pur esistendo poco più che sulla carta, è finito al centro di una girandola di conflitti politici e contenziosi giudiziari. Ne è scaturito un commissariamento che dura ancora oggi. Commissariamento non per infiltrazioni mafiose, ma per manifesta incapacità della politica.

    La neve ricopre la riserva naturale regionale
    Tante parole, nessun fatto

    Il Parco delle Serre è l’unica riserva naturale a carattere regionale che sorge in continuità geografica, ma non amministrativa, con i Parchi nazionali di Pollino, Sila e Aspromonte.Toccando tre province (Catanzaro, Vibo, Reggio) e 26 Comuni, estende la sua superficie di competenza su un territorio di 17.687 ettari, con al centro una montagna che sale fino a 1500 metri e dista poche decine di km dai due mari. Un paradiso di biodiversità diventato però un simbolo di immobilismo istituzionale, tanto vorticoso negli avvicendamenti e nelle grane giudiziarie quanto improduttivo. Le aspirazioni di salvaguardia del territorio e di sviluppo “sostenibile”, alla fine, si sono concretizzate solo nella retorica delle brochure convegnistiche ed elettorali.

    Le meraviglie del Parco delle Serre

    La legge che disciplina le aree protette in Calabria risale al 2003 e si pone l’obiettivo di «promuovere nel territorio in esse ricompreso l’applicazione di metodi di gestione e valorizzazione naturalistico-ambientali tesi a realizzare l’integrazione tra uomo e ambiente naturale». Nelle Serre ci sono distese di abete bianco e pino laricio, faggete, castagneti, pioppeti e querceti. C’è l’oasi del lago Angitola, una zona umida di valore internazionale. E c’è il bosco Archiforo, un Sito di interesse comunitario che rientra nella cosiddetta zona di riserva integrale. Proprio in questo bosco nei mesi scorsi il Wwf di Vibo ha denunciato, con tanto di documentazione fotografica, uno «scempio» di alberi tagliati in un luogo in cui «non si potrebbe toccare neppure un filo d’erba».

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    Il lago Angitola
    Secoli di rispetto cancellati dalla mafia dei boschi

    Non è certo la prima volta che accade. Pare che ora se ne stia interessando anche la Procura vibonese. Negli anni scorsi altri tagli di imponenti abeti bianchi sono stati talvolta bloccati dalle proteste degli ambientalisti. Va detto che da queste parti i boschi hanno rappresentato per secoli una fonte di sostentamento economico e sono stati gestiti con sapienza. La gente delle Serre ci viveva, nel bosco, tanto da muovercisi dentro attraverso una particolarissima toponomastica che ancora sopravvive nella memoria di boscaioli, bovari, mannesi e carbonai e di cui c’è ancora qualche traccia nell’archivio comunale di Serra San Bruno.

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    La certosa di Serra San Bruno (foto Raffaele Timpano)

    Ma di questa cultura del bosco l’ente Parco non si è mai fatto carico. E , oggi, anche chi non è un “estremista” verde e non è pregiudizialmente contrario a ogni tipo di taglio può accorgersi, andando in quei boschi, della differenza tra un intervento ragionato, una previdente selvicoltura, e quello che si pratica in certi casi nelle foreste comunali che rientrano nel Parco, dove da decenni imperversa la mafia dei boschi.

    Gli interessi dei clan

    Dalla recente inchiesta “Imponimento”, ma anche da altre del passato, sono emersi gli interessi dei clan sulle Serre vibonesi e catanzaresi con la complicità di tecnici e amministratori comunali. Per la Dda di Catanzaro ci sarebbe un collaudato meccanismo di rotazione nell’aggiudicazione degli appalti boschivi «attraverso turbative d’asta e illecita concorrenza sleale». Per i boschi, per esempio, litigarono due mammasantissima che un tempo erano stati fratelli come il boss di Filadelfia Rocco Anello e quello di Serra San Bruno Damiano Vallelunga, che prima di essere ucciso in un agguato a Riace aveva guadagnato potere e carisma tali da tenere testa ai Mancuso.

    E nei boschi – emerge sempre da “Imponimento” – nell’estate del 2017 un paio di imprenditori ritenuti sodali dei clan avrebbero sversato un bel po’ di rifiuti, anche pericolosi, persino eternit, eseguendo senza tanti scrupoli un ordine arrivato proprio dallo stesso Anello. Che, intercettato, parlava di «quaranta camionate di calcinacci, più due con eternit» provenienti dal cantiere di un resort a Pizzo e finiti in alcuni terreni in parte rientranti nel Parco delle Serre.

    Da Murmura al controllato controllore

    L’ente è ancora retto da un commissario: dall’estate del 2020 (epoca Santelli) è Giovanni Aramini, dirigente del Settore Aree protette del dipartimento regionale Ambiente. In teoria, quale vertice del Parco sarebbe il controllato e quale dirigente di quel Settore sarebbe anche il controllore. Ma probabilmente questo è il male minore, perché Aramini è comunque un tecnico competente e sensibile alle tematiche ambientali. Il problema è che ha in mano poco o niente di concreto da programmare come tutti quelli che lo hanno preceduto.

    la sede del consiglio regionale della Calabria
    La sede del Consiglio regionale

    In tanti, tra commissari e presidenti, si sono avvicendati negli anni. Il primo fu il senatore Antonino Murmura e con lui sono partite anche le contese di fronte alla giustizia amministrativa che hanno coinvolto i suoi successori in una serie di ordinanze, sospensive e sentenze che hanno aggiunto solo confusione a confusione. Dal 2010 chi ha governato la Regione ha preferito optare per i commissari perché questi vengono nominati dal presidente della Giunta mentre, per legge, i presidenti sono indicati dal presidente del consiglio regionale. L’ultimo bando di Palazzo Campanella per individuare un presidente è stato chiuso a ottobre del 2020 ma non è stato ancora nominato nessuno. Meglio non assumersi la responsabilità politica di un fallimento annunciato.

    Il concorso e i favoritismi

    Oltre ai contenziosi amministrativi non è mancata qualche digressione nel penale. Nel 2015 era scattata un’inchiesta su alcuni concorsi del Parco che secondo l’accusa erano stati pilotati. Ma il reato di abuso d’ufficio contestato a 6 imputati è stato dichiarato prescritto a settembre dal Tribunale di Vibo. Già in precedenza era scattata la prescrizione per alcune contestazioni di falso ideologico, mentre gli imputati sono stati assolti da altre per falso anche se nelle motivazioni della sentenza si parla comunque di procedura «viziata da evidenti favoritismi».

    La pianta organica approvata nel 2005 prevede 57 unità di personale, 41 tecnici e 16 amministrativi, di cui 6 dirigenti. Oggi quelli che ci lavorano si contano sulle dita di una mano. C’è un solo dirigente e qualche funzionario, più un centinaio di tirocinanti scelti tra disoccupati/inoccupati inseriti in un percorso di riqualificazione professionale di politiche attive. Al Parco sono state assegnate negli anni scorsi anche alcune decine di operai ex Afor che lavorano sul territorio. In generale, qualche iniziativa per cercare di rendere fruibili i percorsi naturalistici si intraprende. I risultati, però, sono inevitabilmente proporzionati ai finanziamenti che l’ente ha a disposizione.

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    Il consuntivo 2020 individua «trasferimenti correnti», ovvero le somme assicurate dalla Regione, per circa 1 milione di euro, circa mezzo milione in meno rispetto all’anno prima. Le spese per il personale ammontano a 937mila euro. È chiaro che resta ben poco. Tutto ciò però non è abbastanza per svegliare i sindaci del territorio e far loro rivendicare il ruolo assegnatogli dal popolo. Si vedrà ora se il presidente del consiglio regionale Filippo Mancuso e l’Occhiuto del «cambio di passo» vogliano mettere «cuore e coraggio» anche per riempire questa scatola vuota. Che, ormai da 30 anni, incarna il fallimento della politica su un territorio in cui bellezza e marginalità si vanno sempre più impastando. In un amalgama che restituisce nient’altro che decadenza.