Autore: Sergio Pelaia

  • Quattro ospedali in una montagna di guai

    Quattro ospedali in una montagna di guai

    Forse non tutti conoscono Nardodipace e, probabilmente, molti ne hanno sentito parlare per una banalizzazione mediatico-statistica che alla fine degli anni ’80 ne fece il «paese più povero d’Italia». Al di là delle etichette, è in realtà un paese simbolo delle aree interne. È l’ultimo Comune della provincia di Vibo e i suoi 1400 abitanti si dividono tra l’abitato principale, a 1000 metri di altezza, e 4 frazioni. Alcune contrade distano più di 30 km dal centro. Che a sua volta è lontano altri 20 km da Serra San Bruno, dove c’è l’ospedale più vicino. C’è gente, dunque, che per arrivarci deve fare almeno un’ora di auto, su strade dissestate che in inverno sono ricoperte di ghiaccio e neve.

    Da Nardodipace a Serra San Bruno, ore per un’ambulanza: l’esposto del sindaco

    Sempre che ce l’abbia, un’auto, che sia in grado di guidarla e che non stia tanto male da non poter raggiungere l’ospedale con mezzi propri. In quel caso la sorte dovrà essere clemente: l’unica ambulanza a disposizione per decine di migliaia di utenti potrebbe essere impegnata in un’altra emergenza e dunque metterci un bel po’ ad arrivare. È successo a una docente che proprio in una classe di Nardodipace si è accasciata a terra per una crisi ipertensiva ed è stata soccorsa dopo ore: non era presente in paese nemmeno il medico di base, così dopo l’episodio, approdato sulla stampa nazionale, il sindaco Antonio Demasi ha addirittura presentato un esposto ai carabinieri. Si è sempre parlato della necessità di una seconda ambulanza e in teoria ci sarebbe ma, in pratica, la si può utilizzare solo per trasporto sangue, dimissioni di pazienti Covid o consulenze specialistiche.

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    L’ospedale di Serra San Bruno

    Da qualche mese è arrivato un medico in più, così al Pronto soccorso tutti i turni sono coperti. Per assicurare la presenza h24 si è fatto ricorso alle prestazioni aggiuntive – che costano all’Asp 1 euro al minuto – ed è capitato anche che qualcuno avesse un malore dopo un turno di 20 ore. Per il resto, in un ospedale in cui c’erano molti reparti attivi e addirittura si partoriva, oggi ci sono una ventina di posti letto di Medicina e altrettanti di Lungodegenza. La Chirurgia quasi non esiste: c’è un solo medico che fa Day Surgery ed è vicino alla pensione. Poi un solo anestesista per le urgenze e un solo medico anche per la Dialisi. Nessuno per la Radiologia, da dove i referti vengono trasmessi a Vibo con annessi disagi e ritardi.

    Gli altri ospedali di montagna

    Una situazione analoga a quella di Serra la si riscontra anche negli altri tre ospedali montagna, classificati come tali nei decreti dei vari commissari ad acta e su cui da oltre vent’anni aleggia lo spettro della chiusura. Quello che al momento sembra più attrezzato è il presidio di San Giovanni in Fiore, che ha comunque subìto un forte ridimensionamento e non è certo privo di criticità. Tanto che di recente è stata lanciata una petizione online  che è già oltre le 1500 sottoscrizioni.

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    L’ospedale di San Giovanni in Fiore

    San Giovanni in Fiore sta oltre i 1000 metri e gli ospedali più vicini sono a Crotone e Cosenza, tra i 50 e i 60 km. I suoi 17mila abitanti – ma contando i limitrofi l’utenza arriva a 30mila persone – hanno a disposizione un Pronto soccorso con 5 medici e una decina di anestesisti che ruotano in convenzione con l’ospedale di Crotone. Ci sono tre ambulanze ma non sempre hanno un medico a bordo. Poi 20 posti letto di Medicina e un reparto di Lungodegenza nuovo ma mai aperto. Soprattutto – e qui sta la differenza rispetto agli altri ospedali di montagna – c’è un reparto di Chirurgia che, a breve, dovrebbe tornare operativo con l’arrivo di un medico da Crotone e gli avvisi di mobilità per garantire il personale necessario.

    Acri e Soveria Mannelli

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    L’ospedale di Acri

    Ad Acri, che è un po’ più in giù come altitudine ma che è tra i 4 il Comune più popoloso, c’è il Pronto soccorso con la turnazione di 4 medici e, anche qui, un solo anestesista-rianimatore per le urgenze. Ci sono poi 16 posti letto Covid, destinati per lo più a pazienti non gravi che arrivano già da altri ospedali, ma è chiaro che la gestione dei percorsi dedicati impegna non poco il settore dell’emergenza. Sono attivi i 20 posti letto di Medicina e altri 10 in Dialisi, ma la Chirurgia è sostanzialmente ferma.

    A Soveria Mannelli c’è la guardia attiva di 4 anestesisti e un medico per ogni turno di Pronto soccorso, ma c’è una sola ambulanza. La Medicina ha 22 posti, altri 4 sono in Lungodegenza. Mentre in Chirurgia, anche qui, si fa solo Day Surgery. L’ospedale del Reventino è al centro di un caso perché, nel dossier inviato ad Agenas dalla Cittadella con gli interventi da finanziare con il Pnrr, è stato previsto nei locali dell’attuale presidio un Ospedale di comunità. La nuova impostazione, votata più all’assistenza territoriale, difficilmente si concilierebbe con l’esistente, ma al Comitato Pro Ospedale di Soveria sono arrivate rassicurazioni sulle possibilità di modifica, anche perché solo un nuovo Dca potrebbe modificare la configurazione di ospedale di montagna.

    Il Pronto soccorso dell’ospedale di Soveria Mannelli

    Scopelliti, Loiero e gli ospedali di montagna

    La politica non ha comunque mai mancato di utilizzare questi territori come bacini elettorali, non risparmiando promesse puntualmente smentite dai fatti. Ciò ha generato negli anni diversi movimenti civici di protesta iniziati con Peppe Scopelliti, destinatario di dure contestazioni ai tempi della famigerata chiusura di 18 ospedali e del ridimensionamento di quelli di montagna, che però secondo una previsione iniziale partorita già all’epoca di Agazio Loiero erano destinati alla chiusura.

    Gli epigoni di Scopelliti sui territori si producevano in annunci che davano addirittura come imminente l’attivazione non solo di reparti di Chirurgia h24 ma anche di qualche posto letto di Terapia sub intensiva. Tutte cose mai avvenute. Ma il commissario ad acta nominato dal governo Renzi, allora targato Pd, è riuscito a fare anche peggio. La rete ospedaliera disegnata da Massimo Scura per la montagna prevedeva una dotazione identica a quella precedente, andando però oltre in relazione alla costruzione dei “nuovi” ospedali. L’attivazione di quello di Vibo, per esempio, secondo Scura dovrebbe assorbire completamente tutti i posti letto presenti in provincia.

    Oliverio sconfessato

    Le manifestazioni partite dalla montagna hanno mobilitato migliaia di persone. E c’è sempre stato chi, come l’allora segretario regionale del Pd Ernesto Magorno e l’ex presidente della Regione Mario Oliverio, andava rassicurando i territori su cose che non poteva in realtà garantire. Nel 2015 il “decreto Scura” sulla riorganizzazione ospedaliera è arrivato anche sul tavolo del Presidente della Repubblica con un ricorso dei comitati montani finanziato da raccolte fondi tra i cittadini. Il ricorso è poi arrivato al Tar, che lo ha rigettato, facendo emergere che la giunta Oliverio, a parole critica verso Scura, nei fatti si era costituita in giudizio contro i comitati e in appoggio al commissario.

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    Massimo Scura e Mario Oiverio visitano un ospedale calabrese

    Basta farsi un giro tra Nardodipace e Serra San Bruno, o salire fin nel cuore della Sila e del Reventino, per rendersi conto di quanto le rivendicazioni di queste popolazioni non siano neanche avvicinabili a quelle di chi pretende l’ospedale sotto casa. Non si invocano nemmeno più i punti nascita, per altro chiusi da tempo anche in ospedali più grandi come quello di Soverato. Si pretenderebbe quel poco che è previsto in provvedimenti mai attuati, come gli anestesisti e gli altri medici necessari per una gestione adeguata delle emergenze. E poi dei reparti di Chirurgia che non siano solo ambulatori in cui si rimuove qualche verruca.

    Un caso che riguarda il 58% dei calabresi

    Questi ospedali di frontiera sono l’unico avamposto sanitario, e dunque di garanzia di diritti primari nonché di minima civiltà, per migliaia di persone delle aree interne. E quando parliamo di aree interne ci riferiamo al 78% dei Comuni calabresi e al 58% degli abitanti della regione. Che si vedono spogliati di ogni servizio e devono pure sorbirsi, ciclicamente, la retorica della lotta allo spopolamento e dell’attrattività dei borghi. Meriterebbero una pur minima, ma reale, rappresentanza politica. Magari capace di fare meno passerelle e di pretendere risposte da Catanzaro e da Roma. Dall’assunzione del personale necessario alla modifica del decreto ministeriale che fissa gli standard ospedalieri in massimo 3,7 posti letto ogni 1000 abitanti. Altrimenti saremo costretti ancora a lungo a sopravvivere tra le tragedie delle «decine di Mesoraca» – tanto per citare non un passante, ma Roberto Occhiuto – che ci sono in tutta la Calabria.

  • Il superburocrate così dà l’incarico al portaborse del politico

    Il superburocrate così dà l’incarico al portaborse del politico

    Stavolta la nomina non l’ha fatta un politico. La politica però in qualche modo c’entra sempre. Anche quando una superburocrate a capo di un apparato monstre decide di affidare all’esterno un incarico che, evidentemente, a suo parere non si può proprio assolvere con le risorse interne. Difficile a credersi, ma è quanto succede in uno dei Palazzi in cui resistono privilegi impensabili in altri luoghi di lavoro.

    Il segretario della segretaria generale

    L’ultima perla consegnata ai calabresi attraverso il Burc riguarda l’ennesima chiamata diretta in uno staff. Solo che stavolta non si tratta di un consigliere regionale, ma del vertice della struttura amministrativa di Palazzo Campanella. Il segretario generale Maria Stefania Lauria, che sta al punto più alto di una piramide di ben 250 dipendenti, ha dovuto arruolare un esterno come suo segretario particolare.

    Il segretario generale Maria Stefania Lauria e l’ex presidente del consiglio regionale, Mimmo Tallini

    Quarantamila euro per il portaborse

    Lei percepisce uno stipendio di 184mila euro lordi all’anno, a cui si aggiunge un’indennità di risultato in rapporto ai mesi di servizio e alla valutazione dei risultati conseguiti. Il suo segretario particolare al 100% ne prenderà invece 40mila. Molti di meno, certo, ma in realtà il prescelto, tale Francesco Noto, con questa nomina raddoppia: fino al giorno prima era infatti il segretario particolare al 50% del presidente del consiglio regionale, Filippo Mancuso.

    La fortuna del portaborse

    È questo uno dei tanti tratti quantomeno singolari di questa vicenda, che vede un portaborse passare di fatto dallo staff di un organo politico di vertice a quello del più alto burocrate dello stesso palazzo. Ma di passaggi che destano, diciamo così, un certo stupore, ce ne sono anche altri. Il primo, lampante paradosso, è che un dirigente che è a capo di una megastruttura amministrativa il cui personale costa già di per sé 25 milioni di euro all’anno di soldi pubblici decida di farne spendere un altro po’ per pescare all’esterno un collaboratore.

    Promossa da Tallini

    Un altro è che la stessa Lauria, a cui l’allora presidente Mimmo Tallini ha affidato anche la direzione generale del consiglio regionale, abbia già alle dipendenze dirette un Settore (il Segretariato generale, appunto) che conta solo al suo interno circa una cinquantina di persone. Per non parlare degli altri uffici che, comunque, sempre a lei fanno riferimento.

    C’è poi il fatto che il provvedimento, una determina dirigenziale, porti la firma, oltre che della responsabile del procedimento Romina Cavaggion, anche della stessa Lauria, alla quale il 19 gennaio scorso l’Ufficio di Presidenza – di cui ovviamente è a capo Mancuso – ha conferito l’incarico dirigenziale ad interim del Settore Risorse Umane.

    Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del consiglio regionale della Calabria

    Si libera un posto nella struttura del presidente del consiglio regionale

    Per ricapitolare, dunque, con questo atto Lauria comunica al Settore diretto da Lauria che intende avvalersi di un collaboratore esterno. E Lauria prende atto che nulla osta alla nomina del segretario particolare che la stessa Lauria poi dispone con una sua determina. Liberando così, ché non guasta mai, un posto in più nella struttura del presidente del consiglio regionale, il quale certamente troverà presto un sostituto di Noto, che vi era stato inserito lo scorso 25 novembre.

    Certamente sarà tutto legittimo, e si tratta comunque di poca cosa rispetto alla guerra dei mandarini che abbiamo già raccontato. Ma è la conferma di quanto il pudore, al contrario di una miriade di portaborse, non trovi proprio alloggio ai piani alti di Palazzo Campanella.

  • Acqua pubblica in Calabria? L’ultima parola spetta a una banca in Irlanda

    Acqua pubblica in Calabria? L’ultima parola spetta a una banca in Irlanda

    Si tratta di due situazioni molto diverse tra loro, ma Sacal e Sorical in comune hanno anche alcune cose non proprio marginali. Innanzitutto gestiscono, in regime di sostanziale monopolio, gli aeroporti e gli acquedotti della regione, due settori cruciali che stanno attraversando percorsi piuttosto sofferti di riassetto societario. In queste società miste i rapporti tra pubblico e privato sono, per così dire, mutevoli e altalenanti. E vi ruotano attorno delle situazioni tutte da chiarire di cui, probabilmente, i calabresi sanno ben poco.

    L’altro fattore che accomuna Sacal e Sorical sono le «gravi incurie» e i «disordini» che dal punto di vista contabile si sono «stratificati negli anni». Lo ha certificato la Corte dei conti concludendo che le «gravi irregolarità» che riguardano queste realtà, al pari di Ferrovie della Calabria e Corap, «recano nocumento alla gestione del bilancio regionale, sia in termini di maggiori oneri, alimentando contenzioso e ingenerando debiti fuori bilancio, e sia sotto il profilo dell’attendibilità e veridicità del bilancio».

    Sacal e Sorical, le differenze

    Detto questo, vanno chiarite anche le differenze. Sorical, che dal 2004 gestisce l’acqua calabrese con una convenzione trentennale per cui paga 500mila euro all’anno, è al 53,5% della Regione e al 46,5% dei privati (Acque di Calabria s.p.a., controllata al 100% alla multinazionale Veolia). Sacal è subentrata nel 1990 al Consaer (consorzio costituito nel 1965 per la realizzazione e la gestione dell’aeroporto di Lamezia Terme) e nel 2009 ha avuto in concessione per 40 anni lo scalo lametino, a cui nel 2017 si sono aggiunti anche quelli di Reggio e Crotone, reduci dai fallimenti delle rispettive società di gestione. Ma soprattutto nei mesi scorsi è passata sotto il controllo dei privati.

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    Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia

    A inizio agosto avevamo banalmente osservato come la linea di demarcazione fosse già sottile: erano 13.666 le azioni di Sacal in mano a enti pubblici – Comuni, Regione, Province e Camere di commercio – e 13.259 quelle dei privati. Dopo la vittoria alle elezioni, Roberto Occhiuto si è però accorto che i pesi sulla bilancia erano cambiati e, sotto la guida di un supermanager nominato da Jole Santelli e vicino alla Lega, un gruppo imprenditoriale (la “Lamezia Sviluppo” della famiglia Caruso) aveva acquisito la maggioranza delle quote nel silenzio generale.

    Tempo scaduto, ma tutto ancora ai privati

    Ciò che è avvenuto dopo è noto: l’Enac ha avviato una procedura che potrebbe portare alla revoca della concessione e al commissariamento degli aeroporti. Per scongiurarlo la Regione ha dato mandato a Fincalabra di acquisire il pacchetto azionario facendo tornare pubblica la maggioranza. Ma qui sta il problema, perché non sembra che questo passaggio sia così semplice come qualcuno pensava. Il tempo che l’Enac aveva concesso è già scaduto da oltre un mese, ma la ripubblicizzazione della società aeroportuale ancora non c’è stata.

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    Occhiuto vota per il Presidente della Repubblica

    Nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica lo stesso Occhiuto assicurava – intervistato da CalNews, Calabria News 24 e Calabria Diretta News – di essere impegnato anche da Roma nei negoziati «con eventuali soci privati di Sacal e con i privati di Sorical». A distanza di pochi giorni, a margine della conferenza stampa sui suoi primi 100 giorni, riguardo a Sacal ha parlato di una trattativa «estenuante».

    L’ultimatum di Occhiuto

    La sostanza dell’impasse sugli aeroporti è ovviamente legata ai soldi: i privati si dicevano disponibili, con una lettera resa pubblica dallo staff del presidente della Regione, a cedere tutto il loro pacchetto senza sovrapprezzo al valore nominale di poco meno di 12,5 milioni di euro (foto lettera). Occhiuto invece ritiene che il valore reale, alla luce della crisi e della procedura Enac, sia molto minore e non vuole far scucire alla Regione tutti quei soldi.

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    La lettera dei privati che hanno acquisito la maggioranza di Sacal a Roberto Occhiuto

    Come se ne esce? Dalla Cittadella è partito un ultimatum: se entro 10 giorni non si sblocca la trattativa mandiamo tutto a monte e facciamo nascere una nuova società che assumerà tutto il personale Sacal. La cosa non sarebbe indolore perché passerebbe attraverso la revoca della concessione da parte di Enac. Intanto i lavoratori stagionali, già precari da anni, restano a casa, e i 152 dipendenti (71 operai, 70 impiegati e 11 quadri) vanno verso la cassa integrazione con una prospettiva che, complice il crollo del traffico aereo durante la pandemia, non è per niente rosea.

    Sorical: 595mila euro di utili, 188 milioni di debiti

    In Sorical, che nel frattempo ha dovuto fronteggiare la grave crisi idrica dell’Epifania, l’assetto societario è molto meno ingarbugliato: attualmente la Regione ha 7.169.000 azioni e Acque di Calabria 6.231.000. La società è in liquidazione ormai da 10 anni, il Bilancio 2020 ha fatto registrare un utile di 595mila euro – in aumento rispetto all’esercizio precedente – ma i debiti ammontano a 188 milioni di euro. Per l’acqua al momento però non c’è alcuna possibilità che i privati passino in maggioranza, anzi: Veolia da tempo non nasconde di volersi liberare e la Regione ha detto chiaramente di puntare ad acquisire le sue quote.

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    L’acquedotto Abatemarco (dal sito Sorical)

    Una delibera di Giunta regionale di maggio del 2021 aveva dato questo indirizzo ed era stata commentata con entusiasmo dall’asse leghista che (allora) governava la Regione con Nino Spirlì e (ancora oggi) Sorical con Cataldo Calabretta. Quell’annuncio però tra poco compirà un anno e non sembra, al di là delle dichiarazioni di facciata, che siano stati fatti dei decisivi passi in avanti. Tanto che, per non perdere alcuni fondi destinati all’ammodernamento degli acquedotti, nel frattempo è stata creata, su impulso dell’Aic (l’Autorità di governo d’ambito in cui sono rappresentati i Comuni), un’Azienda speciale consortile che si dovrà occupare della fornitura d’acqua al dettaglio, mentre a Sorical resterà l’ingrosso.

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    Spirlì e Calabretta

    La multiutility e quella banca irlandese…

    Si tratta di una soluzione provvisoria perché Occhiuto vuole arrivare a un’unica «multiutility» che gestisca tutto: fornitura idropotabile, depurazione e riscossione delle bollette. E proprio nei giorni scorsi il suo capo di gabinetto, incontrando i sindacati, ha dichiarato l’impegno della Regione a sottoscrivere un protocollo d’intesa per cui, «laddove si dovesse verificare l’acquisizione e la pubblicizzazione della Sorical», l’attuale personale della società passerà in toto alla nuova «multiutility» con le stesse condizioni contrattuali. I dipendenti sono 266 (125 amministrativi, 127 operai, 12 funzionari, 1 “atipico” e 1 dirigente) e, in termini di costo del personale, secondo la Corte dei conti Sorical è passata da 13,9 milioni nel 2017 a 15,6 nel 2020. Con un aumento che alla magistratura contabile appare «anormalmente elevato», considerato che un reale incremento di unità si è avuto solo fra gli operai.

    Ma per realizzare il progetto di Occhiuto, e dunque arrivare al gestore unico previsto dalla legge, c’è di mezzo un altro ostacolo, evidentemente ancora da superare: Sorical può diventare totalmente pubblica solo se si “convince” una banca con sede in Irlanda, la Depfa, con cui la società ha debiti per circa 85 milioni di euro. Nel 2008 Sorical ha stipulato con questo istituto un contratto derivato beneficiando di un project financing, così Depfa Bank oggi è il suo principale creditore e ha il pegno su crediti e conti correnti. Dunque è con la banca nel caso di Sorical, e con la “Lamezia Sviluppo” nel caso di Sacal, che si deve fare letteralmente i conti per far tornare questi settori, di enorme interesse collettivo, sotto il controllo pubblico. Ma come si può immaginare né le banche né gli imprenditori privati fanno quello che fanno per beneficienza.

  • L’etica a 5 stelle? Quarantamila euro per l’avvocato di Afflitto in Regione

    L’etica a 5 stelle? Quarantamila euro per l’avvocato di Afflitto in Regione

    Il Burc è ormai un oggetto di culto non solo per gli addetti ai lavori. Non tanto perché è un diario (non sempre aggiornatissimo) della vita amministrativa della Regione, quanto per le nomine di cui il Bollettino ufficiale puntualmente dà conto soprattutto nei primi mesi di ogni nuova consiliatura.

    Scorrere i nomi dei beneficiari dei co.co.co. che il consiglio regionale assume, su indicazione diretta dei consiglieri regionali per far parte delle loro “strutture”, riserva infatti sempre nuove soddisfazioni agli amanti del genere.

    M5S? Erano moralizzatori

    Non solo dalle parti della maggioranza, dove c’è chi riesce addirittura a farsi assumere sia dalla Giunta che dal Consiglio, o dell’opposizione “tradizionale”, in cui anche gli ex assessori regionali si reinventano portaborse. Ma anche nel campo di chi ha sempre indossato la veste moralizzatrice contro tutti i privilegi di cui gode la vituperata casta.

    Sì, proprio i  Cinque stelle. Ora che sono entrati nel Palazzo, in attesa che rispolverino la loro proposta di legge che taglierebbe gli stessi stipendi che intanto stanno incassando, da un lato hanno rinunciato ai vitalizi – che non sono certo quelli di faraonici di una volta – ma dall’altro non stanno rinunciando a fare incetta di collaboratori.

    Il legale diventa anche collaboratore del consigliere regionale

    Tutto legittimo, certo, ma è quantomeno singolare che uno dei due consiglieri regionali eletti con l’M5S, il presidente della Commissione di Vigilanza Francesco Afflitto, chiami a far parte dello staff di collaboratori di fiducia anche il suo avvocato. Che è, per inciso, uno dei due legali che lo rappresentano in un contenzioso legale in cui viene contestata proprio la sua elezione a Palazzo Campanella.

    Eugenio Vitale, si legge sull’ultimo Burc, sarà il suo responsabile amministrativo al 100% con un compenso di oltre 40mila euro all’anno. Ed è la stessa persona, a meno di improbabili omonimie, che lo rappresenta assieme a un altro avvocato nella causa che contro Afflitto ha intentato Alessia Bausone, che in fase di riconteggio ha conquistato il primo posto tra i non eletti nella lista M5S della circoscrizione centrale.

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    La sede del Consiglio regionale della Calabria

    L’avvocato e la causa con la Bausone

    A distanza di poco più di una settimana dalla prima udienza, davanti al Tribunale di Catanzaro, della causa civile in cui Bausone sostiene la presunta ineleggibilità di Afflitto in relazione all’aspettativa dall’Asp di Crotone, quest’ultimo ha dunque indicato il suo avvocato per un incarico remunerato con soldi pubblici, uno di quelli che spettano – in più rispetto ai consiglieri “semplici” – ai presidenti di Commissione, ai capigruppo e ai componenti dell’Ufficio di Presidenza.

    Annunciando un esposto «al competente consiglio di disciplina forense affinché valuti la compatibilità di tale curiosa circostanza con la deontologia a cui ogni avvocato ligiamente si deve attenere», Bausone non risparmia accuse pesanti al “rivale”: «I calabresi – chiede l’esponente dei 5stelle – devono pagare, di fatto, le spese legali per la difesa in giudizio di un consigliere regionale?».

    Non manca infine una paradossale annotazione politica: il centrodestra, rispettando la prassi, ha permesso che un rappresentante dell’opposizione come Afflitto fosse eletto al vertice della Vigilanza; in attesa che l’organismo da lui guidato vigili – magari con lo zelo a cui l’M5S ha abituato la sua base – sull’operato della maggioranza, certamente c’è chi intanto vigila su di lui.

  • L’invasione delle ultrapale: sullo Jonio soffia vento di protesta

    L’invasione delle ultrapale: sullo Jonio soffia vento di protesta

    Iniziamo dai numeri. La Calabria consuma oltre 5 miliardi di kWh, ma ne produce ben 17. Il surplus di energia elettrica è enorme, quasi +180%. La stessa Calabria, però, è tra le regioni italiane che più consumano gas (oltre 2,5 milioni di metri cubi all’anno) per alimentare le centrali termoelettriche. Proviene da fonti rinnovabili solo un terzo della nostra energia. Il resto arriva da fonti tradizionali, quelle che prima o poi finiscono e che comunque ci tengono appesi alla geopolitica mondiale.

    C’è un altro dato oggettivo, per cui non servono rilevazioni statistiche ma bastano i nostri occhi: vaste porzioni di territorio sono state inesorabilmente modificate da centinaia di enormi pale che sembrano infilzare il paesaggio. In questo nuovo orizzonte calabrese oggi ci sono oltre 400 impianti eolici. Le vie del vento sono infinite, c’è però da chiedersi quali e quanti vantaggi ne traggano le comunità locali. In queste settimane molti Comuni sono in rivolta contro nuovi progetti di cui contestano l’esibita ecosostenibilità e a cui oppongono, paradossalmente, ragioni di tutela ambientale.

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    Dal sito della Guardia costiera di Crotone

    La nuova frontiera dell’eolico

    La nuova frontiera è l’eolico off-shore galleggiante. Secondo il Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) da qui al 2030 l’Italia dovrà installare pale in mare per 900 MW. Ad oggi non c’è ancora nessun impianto in funzione ma sono stati presentati almeno 40 progetti. Se si concretizzassero, produrrebbero 17mila MW, una potenza di quasi 19 volte superiore a quella prevista dal Pniec.

    Due colossi del settore vogliono installare un’ottantina di pale in Calabria, in un vasto tratto di mar Jonio che tocca tre province, da Crotone fino a Monasterace: 33 turbine eoliche per Repower Renewables, altre 45 per Minervia Energia, società creata ad hoc da Falck Renewables e BlueFloat Energy, che stanno provandoci anche in Puglia. I parchi galleggianti sorgerebbero nel primo caso tra 60 e 75 km dalla costa, nel secondo tra 13 e 29 km. Le aziende ne pubblicizzano i potenziali benefici in termini di mancate emissioni di anidride carbonica e di posti di lavoro. Gli scettici lanciano allarmi su possibili danni a un ecosistema marino importante proprio per la produzione di ossigeno.

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    L’area al centro del progetto della Repower Renewable s.p.a.

    C’è chi dice no

    Nella seconda categoria vanno annoverati i Comuni di Crotone e Isola Capo Rizzuto, nonché il Wwf Calabria. Il consiglio comunale crotonese ha deliberato a maggioranza di opporsi al rilascio della concessione. Un territorio «già compromesso nella sua integrità ambientale – si legge nella delibera – da numerosi impianti per la produzione di energia, dai pozzi per la coltivazione di idrocarburi, dalle discariche per rifiuti di vario tipo, dall’inquinamento del suolo e del sottosuolo, non può tollerare ulteriori pressioni sul patrimonio naturalistico».

    Non ci sono solo gli aerogeneratori in mare, ma anche gli elettrodotti: quello sottomarino e quello terrestre in parte interesserebbero il Sito di interesse nazionale “Crotone, Cassano e Cerchiara”. Il cavidotto attraverserebbe un habitat ad alta biodiversità («praterie di Posidonia oceanica») che serve anche da «salvaguardia della costa per il contributo alla fissazione dei fondali ed alla protezione delle spiagge dall’erosione». Toccherebbe poi due Zone speciali di conservazione. Sarebbe infine prossimo al Sic Colline di Crotone e all’area marina protetta di Isola Capo Rizzuto.

    Castelli ed eolico

    Proprio il Comune di Isola, che può già vantare «il parco eolico più grande d’Europa», ha inoltrato nei giorni scorsi le sue osservazioni al Ministero: quattro pagine con motivazioni che vanno dalla «deturpazione paesaggistica del territorio» ai possibili danni al comparto pesca. «Probabilmente – sostiene l’amministrazione – chi propone ciò non ha mai visto il sole che tramonta alle spalle del Castello Aragonese di Le Castella, simbolo turistico della Calabria nel mondo. Che simbolo sarebbe con alle spalle un ammasso di pale eoliche a fargli da sfondo?».

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    Le Castella, uno dei luoghi simbolo della Calabria

    Nelle osservazioni depositate dal Wwf calabrese si legge che «il progetto è in grado di provocare effetti negativi plurimi su fauna e flora sia marina che terrestre». Si tratterebbe di «siti protetti dall’Unione Europea» che, in alcuni casi, hanno «come motivi istitutivi, il transito e la sosta di specie migratorie che si dirigono da e per l’Europa Orientale, partendo e/o approdando in Calabria».

    A chi tocca rispondere?

    Ma chi dovrebbe rispondere a questi rilievi? La procedura viaggia su un doppio binario. La richiesta di concessione demaniale marittima va al Ministero delle Infrastrutture e alla Capitaneria di porto. La Valutazione di impatto ambientale, per progetti che superano i 30 MW, spetta al Ministero dell’Ambiente, ma è la Regione che alla fine deve concedere l’autorizzazione. La Calabria non ha un assessore all’Ambiente. In un momento storico in cui il Pnrr destina alla «rivoluzione verde» quasi 60 miliardi di euro, dei quali 5,9 sono solo per le rinnovabili, la delega è rimasta in capo al presidente della Regione Roberto Occhiuto, che non ha certo molto tempo libero visto che è anche commissario alla Sanità.

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    Il Capitano Ultimo

    Ha designato come «uomo di raccordo tra la Regione e i Ministeri per il Pnrr» l’assessore supertecnico Mauro Dolce, a cui ha affidato però solo le Infrastrutture e i Lavori pubblici. Non che andasse meglio prima: nella Giunta precedente c’era il Capitano Ultimo, che a parole si è sempre schierato con i territori, ma ha annunciato uno stop ai nuovi impianti rimasto solo nelle rassegne stampa. Riuscendo così a scontentare sia gli ambientalisti che gli imprenditori del settore già pronti, dopo i suoi annunci, alla class action.

    Pecunia non olet

    In un limbo amministrativo simile la «transizione ecologica», declinata nel Pnrr a suon di «semplificazione delle procedure» e «potenziamento di investimenti privati», potrebbe anche tradursi in greenwashing. «Strategia di comunicazione o di marketing – è la definizione del dizionario Treccani – perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo».

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    La Faggeta di Monterosso minacciata dalle pale eoliche (foto dalla pagina Facebook Kalabri Trekking)

    Intanto non mancano altre proteste per nuovi parchi eolici “tradizionali”: il più recente è quello di Monterosso, nel Vibonese, che per 3 aerogeneratori provocherebbe secondo le associazioni l’abbattimento di 4mila alberi. Ma ci sono anche i fautori dei vantaggi che deriverebbero dalle pale. Come il sindaco di San Sostene, Luigi Aloisio, che di recente ha annunciato un potenziamento dell’ormai storico impianto, di proprietà di una società controllata da Falck Renewables, che ricade nel suo Comune – ma in realtà più vicino alle Serre che al centro abitato della costa jonica – parlando di un introito medio di 400mila euro all’anno per l’ente da lui guidato.

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    Fasi di costruzione del parco eolico San Sostene (foto dal sito del Comune) (1)

    Che prezzo ha l’orizzonte?

    Peccato che, ormai oltre un decennio fa, le enormi pale abbiano modificato non poco quei boschi. I tir che le trasportavano sono entrati nella viabilità interna della montagna come un elefante in una cristalleria. E che gli appetiti sul business eolico pare siano stati tra i motivi scatenanti di una guerra di ‘ndrangheta, identificata come la seconda faida dei boschi, che ha insanguinato le Serre e il basso Jonio catanzarese.

     

    Le mafie non possono essere un alibi, certo, ma gli interessi mafiosi sull’eolico e le rinnovabili in generale non sono neanche un dettaglio trascurabile. Lo testimoniano indagini come “Via col vento” e “Imponimento”, già approdate a sentenze di primo grado con condanne in abbreviato per boss del calibro di Pantaleone “Scarpuni” Mancuso e Rocco Anello. E un altro episodio emerge da “Alibante”, recente indagine sui tentacoli delle ‘ndrine nella politica e nell’economia del territorio di Falerna e Nocera Terinese. Il presunto boss 80enne Carmelo Bagalà confidava a un suo uomo di fiducia che c’era una «ditta tedesca» interessata a investire nel settore. Erano alla ricerca di terreni, così Bagalà e il suo fedelissimo avevano individuato una zona del Monte Mancuso su cui installare delle pale eoliche. «Ma quelle enormi», commentavano. «Hanno detto che pagano un sacco di soldi…». Ma che prezzo ha l’orizzonte?

  • Superconsulenti sì, purché non siano calabresi: Occhiuto ora non vuole più i cervelli in fuga

    Superconsulenti sì, purché non siano calabresi: Occhiuto ora non vuole più i cervelli in fuga

    Lo scorso 18 ottobre lo stesso Roberto Occhiuto che oggi rivendica il suo «cambio di passo» lanciava, da Milano, una delle dirette a cui avrebbe poi abituato il suo pubblico social. Ancora fresco di elezione, e gigioneggiando un po’, spiegava come tutti, in quel momento, gli chiedessero notizie sull’imminente composizione della sua giunta. Il governatore/factotum della città si descriveva invece come «più impegnato» a cercare «personalità di assoluta qualità» da «coinvolgere, in ruoli chiave», nel «progetto di rilancio della Regione». Obiettivo dichiarato del suo scouting lombardo erano i «calabresi che se ne sono dovuti andare, ma che magari sognano di tornare».

    Visto che è stato lui a rispolverare il refrain della diaspora e delle eccellenze, ma senza alcuna voglia di alimentare campanilismi di cui non si sente il bisogno, vale la pena dopo 3 mesi andare a indagare il giro di nomine che si è nel frattempo innescato in quel di Germaneto. Un generatore semiautomatico di incarichi che al momento, sempre al netto della retorica calabrocentrica, non pare inquadrabile nella narrazione, cara a Roberto Occhiuto, del nativo illustre che torna nella riserva indiana a dispensare virtù e conoscenze.

    I superconsulenti in quota Bertolaso

    I botti di Capodanno, per esempio, alla Cittadella li hanno sparati reclutando due superconsulenti per nulla calabresi, ma che godono entrambi del requisito di provenire dal cerchio magico di Guido Bertolaso. Si tratta di Agostino Miozzo ed Ettore Figliolia, chiamati da Occhiuto a occuparsi rispettivamente di sanità e questioni giuridiche. A onor del vero non avranno dei supercompensi, ma del loro primo mese al servizio della causa calabrese non sembrano esserci grandi tracce. A parte qualche conferenza stampa, un paio di interviste e certamente molte videochiamate.

    Uno come Miozzo, d’altronde, nel 2019 dichiarava 213mila euro di incarichi pubblici (fonte Presidenza del Consiglio), mentre ora dalla Regione Calabria avrà 12mila euro all’anno (più rimborsi spese). A parte la sua democratica smania di «arrestare» i no-vax, per adesso l’ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico – che Giuseppe Conte voleva nominare commissario alla sanità – ha fatto scoprire alla Calabria le magnifiche e progressive sorti della telemedicina, una cosa di cui nell’Unione Europea si parla dal 2008.

    Ma la Calabria potrà godere anche delle sue competenze in materia di «riorganizzazione del sistema regionale di emergenza urgenza». Lo stesso settore per cui Occhiuto ha annunciato un accordo con Areu (l’Agenzia che se ne occupa per la Regione Lombardia) ribadendo l’obiettivo di «importare buone pratiche senza inventarsi nulla di nuovo». A questi intenti non ha reagito benissimo la Fismu (affiliata Cisl Medici) che ha invitato il governatore a parlare con i medici e a guardare «alle esperienze che funzionano sul territorio».

    Aspettando Bortoletti

    Certamente meno rumoroso di Miozzo è Figliolia, che dopo anni in servizio all’Avvocatura dello Stato, e con una lunga sfilza di incarichi governativi alle spalle, ora si occuperà di «temi giuridici riguardanti l’azione di governo» della Regione Calabria. Tante volte in questi anni, in effetti, la Regione ha ingaggiato contenziosi non sempre fortunati con il governo nazionale, ma questi quasi sempre riguardano le leggi regionali che, in teoria, sarebbero di competenza del Consiglio.

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    Il colonnello dei Carabinieri, Maurizio Bortoletti

    Uno che ci servirebbe come il pane, nel pieno delle sue funzioni, sarebbe invece il subcommissario alla sanità Maurizio Bortoletti. Colonnello/manager che ha risanato un buco enorme nella sanità campana, è stato nominato per affiancare Occhiuto a metà novembre. Ma ancora oggi non è operativo per via di un braccio di ferro con l’Arma dei carabinieri dovuto alla procedura per il suo “distacco”.

    Alla comunicazione pensa Forza Italia

    Vabbè: lasciando da parte i nomi altisonanti e le consulenze in remoto, ci sono comunque anche altri esterni, meno noti ma rigorosamente non calabresi, chiamati in questi mesi alla corte di Occhiuto. Il suo portavoce, per esempio, dal 16 novembre – ma lo aveva seguito già in campagna elettorale – è il messinese Fabrizio Augimeri. Giornalista professionista, già portavoce di Mariastella Gelmini, consigliere per la comunicazione di Renato Brunetta e capo ufficio stampa del gruppo di Forza Italia alla Camera, ha – oltre ai rimborsi spese per le missioni – un trattamento economico pari a quello di un dirigente di settore della Giunta regionale di fascia A.

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    Fabrizio Augimeri quando era portavoce di Mariastella Gelmini

    Ma evidentemente lui non basta, perché ad occuparsi di comunicazione istituzionale il presidente della Regione ha chiamato anche un’altra «esperta esterna»: Veronica Rigoni, «in possesso di alta qualificazione professionale», già consigliere comunale a Creazzo (Vicenza) e responsabile della comunicazione dei giovani di Forza Italia. Neanche lei calabrese, e da quanto risulta nemmeno iscritta all’albo dei giornalisti, avrà un compenso di 36mila euro per un anno.

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    Silvio Berlusconi e Veronica Rigoni, ex consigliere comunale in provincia di Vicenza e responsabile comunicazione giovani FI

    La rivoluzione di Roberto Occhiuto può aspettare

    Pure guardando ai dirigenti autoctoni, però, non sembra che sulla Cittadella si sia abbattuta quella rivoluzione burocratica che era stata annunciata. A fronte di due nuovi direttori generaliIole Fantozzi alla Sanità e Claudio Moroni alle Infrastrutture – altri due – Filippo De Cello al Bilancio e Maurizio Nicolai alla Programmazione comunitaria – sono rimasti dov’erano.

    L’arrivo di Fantozzi alla Salute ha suscitato malumori dentro e fuori il palazzo. Ma ancora più perplessità ha sollevato la conferma di Nicolai. È il manager protagonista, in negativo, del blocco dei 69 milioni di euro per cui Roberto Occhiuto è dovuto andare fino a Bruxelles. Ed è anche un politico: si era candidato con Forza Italia alle Regionali del 2020 prendendo, nel collegio di Cosenza, 3.279 voti.

    Fatte salve alcune indubitabili competenze, alla fine è pur sempre la politica che sponsorizza superconsulenti e incaricati di partito. Chiamati da fuori, alla faccia dei «calabresi che se ne sono dovuti andare», a colonizzare una regione già tradizionalmente terra di conquista che, per ora, non è proprio quella «che l’Italia non si aspetta».

  • Sergio Abramo, l’eterno “sindaca” che voleva essere governatore

    Sergio Abramo, l’eterno “sindaca” che voleva essere governatore

    Nel suo celebre romanzo d’esordio, Triste, solitario y final, Osvaldo Soriano narra di uno Stan Laurel (Stanlio) che ingaggia l’altrettanto noto investigatore Philip Marlowe affinché scopra perché nessuno lo faccia più lavorare. Ecco, abusare del già citatissimo titolo di quel libro può aiutare a rendere l’atmosfera in cui si consuma l’epilogo istituzionale del più volte sindaco di Catanzaro Sergio Abramo. Che altra metafora si può d’altronde usare per uno che sembrava intramontabile, che nel suo curriculum inserisce il megaconcerto di Vasco Rossi a Catanzaro, che ha nella gallery del Comune una foto con Patti Smith, che pur non arrivando a un metro e sessanta è stato il centravanti della nazionale italiana dei sindaci?

    Per descriverlo non serve molto di più di quanto non abbia detto lui stesso nella lunga parabola iniziata, anche se lo ricordano ormai in pochi, come papabile candidato a sindaco del centrosinistra negli anni ’90. E proseguita come acclamato uomo-del-fare poi incoronato pluricampione del centrodestra.

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    La strana coppia Sergio Abramo e Patty Smith

    Il tour «veni trovami» con Riccardo Iacona

    Nel suo ultimo messaggio di auguri da primo cittadino, quello di Capodanno, ha richiamato «tanti momenti ed emozioni» vissuti con la fascia tricolore, ma non ha nascosto la speranza di «essere ricordato, tra pregi e difetti, come il sindaco che ha dato un volto nuovo al capoluogo». Certo Catanzaro era molto diversa nel 1997, quando vinse le elezioni per la prima volta con un largo consenso confermato, con il 70%, nel 2001.

     

    Certo oggi neanche lui è lo stesso di quando le impietose telecamere di Riccardo Iacona immortalarono – rendendolo davvero immortale – il suo modo strapaesano di fare campagna elettorale. «Tutt’appast?» e «veni trovami» entrarono nell’immaginario collettivo, come le strette di mano e i baci seriali che dispensava agli elettori per le vie della città. Non serviva aggiungere altro al saluto, alla garanzia della sua presenza proprio nel momento in cui ci si aspettava che fosse presente e a disposizione.

    I tormentoni di Sergio Abramo

    All’epoca non era solo un politico ma un imprenditore quotato. Con le sue «7-8 società» riusciva a garantire un’occupazione a «circa 2700 lavoratori», tanto da far dire all’autore di Presa Diretta che «Sergio Abramo è un po’ come gli Agnelli a Torino». Lui si schermiva e aggiungeva orgoglioso di non essere iscritto a nessun partito. Eppure negli anni le tessere non gli sono mancate. Così come le frasi-tormentone che gli sono scappate più volte in pubblico.

    Agli annali restano espressioni, rivolte a cittadini spesso esasperati per le più svariate e serie ragioni, come «a ‘mmia non mi dissaru nenta» e «ti cercavi voti io?». Così com’è agli atti, anche delle forze dell’ordine, la baruffa scoppiata davanti alla sede della Provincia con uno degli esponenti della sua maggioranza: si rinfacciavano reciprocamente certi giochetti elettorali che fecero perdere al centrodestra, all’esordio della riforma Delrio, la guida dell’ente. Più recente, ma altrettanto gustosa, è la caricatura che Ivan Colacino fa del «sindaca» esasperando la sua dizione piuttosto “aperta”.

    https://www.facebook.com/ivancolacino82/videos/5203928802972980

    Tutt’altra storia rispetto agli ultimi rantoli del consiglio comunale destinato a rinnovarsi nella prossima primavera. Già qualche giorno prima di Natale lui stesso minacciava di «staccare la spina» di fronte a una scena abbastanza decadente: in aula è stata sfiorata la rissa non per questioni importanti per la città, bensì per l’abbigliamento di un assessore contestato da un consigliere.

    I primi saranno gli ultimi

    Un motivo ci sarà se l’ultimo “Governance Poll” di Noto per Il Sole 24 Ore ha piazzato Sergio Abramo in coda tra i sindaci calabresi con un -14,4% rispetto al 64,4% delle elezioni del 2017. Proprio lui, che è sempre stato tra i sindaci con il più alto gradimento su scala nazionale, già nel 2020 aveva mostrato un calo fermandosi al 51esimo posto. Oggi diventato il 70esimo (su 105).

    È evidente che i problemi sono tanti e le emergenze infinite. Si sa che governare non paga e il potere logora anche chi ce l’ha. Ma forse anche lui aveva pensato a un finale diverso – sempre che abbia mai pensato a un finale – quando, da rampollo di una famiglia di artigiani della tipografia, si affacciava alla politica. Maturità scientifica e corsi di management alla Bocconi, nel 1993 era presidente dei giovani industriali calabresi e nel 1996 entrava nella Giunta nazionale di Confindustria. Un anno dopo arrivava la prima elezione a sindaco, dopodiché diventava anche presidente di Anci Calabria.

    La maledizione di Palazzo Campanella

    Nel 2005 il coronamento della carriera doveva essere la presidenza della Regione, a cui si era candidato con il centrodestra, ma è stato sconfitto da Agazio Loiero, l’unico riuscito a strappare al centrodestra anche il capoluogo con la vittoria (2007) di Rosario Olivo. L’avvento di Peppe Scopelliti alla Regione (2010) gli ha portato in dote un paio di anni da presidente di Sorical. Dopo dei quali (2013) è tornato al posto a cui sembra destinato per diritto divino: sindaco di Catanzaro per la terza volta.

    Quella attuale è la quarta. Nel frattempo (2016) ha lasciato l’azienda di famiglia ed è diventato (2018) anche presidente della Provincia. Proprio l’ente intermedio un tempo preso a modello di buona amministrazione è oggi il suo principale cruccio. La Provincia è sull’orlo del default e rischia di non riuscire a pagare nemmeno lo stipendio ai dipendenti: ha un disavanzo – dovuto al peso di alcuni derivati risalenti al 2007 – di 12 milioni all’anno.

    Gettonopoli

    A Palazzo de Nobili, al netto del sarcasmo sull’intitolazione dell’edificio dopo le diverse inchieste che lo hanno investito, l’aria non è più mite. Il centrodestra è diviso in mille rivoli avvelenati e ci vorrà un intervento romano per individuare il suo successore. Intanto c’è l’onta, benché presunta, del consiglio comunale più indagato d’Italia con i due filoni dell’inchiesta “Gettonopoli” riuniti in un unico troncone processuale che coinvolge 19 consiglieri.

    Queste ombre non lo hanno neppure sfiorato, ma pure politicamente di recente per lui non c’è stata neanche una gioia. «Quando vado in Regione – ha assicurato – non si muove nulla senza il parere di Catanzaro». Intanto negli ultimi due anni il centrodestra ha vinto due volte le Regionali, ma né Jole Santelli né Roberto Occhiuto hanno dato soddisfazione alla sua ambizione mai celata di entrare da amministratore anche all’ultimo piano della Cittadella.

    Dalla Lega a Toti

    È passato, nel giro di pochi mesi, dalle simpatie (ricambiate) per la Lega all’autoconferma in Forza Italia, per approdare subito prima delle Regionali alla creatura centrista di Toti e Brugnaro. Nemmeno il passaggio a “Coraggio Italia” gli ha però giovato: il suo candidato al consiglio regionale, Frank Santacroce, è rimasto fuori perché sorpassato dal vibonese Francesco de Nisi.

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    Sergio Abramo con Luigi Brugnaro, leader di Coraggio Italia

    Anni di amore-odio col suo grande elettore Mimmo Tallini alla fine non sono serviti al grande salto. Altrettanto altalenanti sono state le sue relazioni con le grandi famiglie imprenditoriali di Catanzaro. Prima, fino al terzo mandato, erano tutti con lui. Poi qualcosa si è rotto, pare a causa di autorizzazioni comunali a supermercati che hanno incrinato certi monopoli. Così parte dell’élite degli affari ha finito per appoggiare alcuni suoi avversari. Puntualmente sconfitti nelle urne.

    Il delfino è Polimeni ma sta con Mangialavori

    Il suo uomo ombra più vicino, negli anni, è stato il capo ufficio stampa del Comune Sergio Dragone, che però a gennaio del 2019 si è dimesso per ragioni «personali». Era lui il vero pontiere con Tallini. Oggi il delfino più quotato è Marco Polimeni, presidente del consiglio comunale che ambisce ad essere il suo successore. E che intanto, per sicurezza, si è accasato con il senatore/coordinatore forzista Giuseppe Mangialavori.

    Abramo (al centro) con Baldo Esposito (primo da sinistra) Baldo Esposito e Marco Polimeni (secondo da destra)

    Tra pochi mesi Sergio Abramo non sarà più sindaco e decadrà automaticamente anche da presidente della Provincia. Un po’ solitario lo è sempre stato, ma ha avuto dietro, intorno e sotto un bel po’ di cortigiani che oggi cercano protezione altrove. Quanto possano rivelarsi tristi e finali i prossimi passaggi della sua lunga avventura politica lo si scoprirà a breve. Si tratta pur sempre di un navigato goleador. A cui però nessuno, dopo vent’anni di gloria, pare voler offrire più neanche uno scampolo di partita nel campo della politica che conta.

  • La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    Una volta uscito dal carcere, il superboss di Limbadi Luigi Mancuso avrebbe praticato una «politica di pace» per cui ognuno, sul territorio vibonese, doveva avere il suo spazio. E tutti dovevano essere «belli garbati, precisi» e fare «le cose col silenzio». Ne parlavano in questi termini, intercettati, due imprenditori ritenuti sodali del clan di Filadelfia capeggiato da Rocco Anello. Che proprio dai nuovi equilibri garantiti dal «supremo» sembra abbia tratto negli anni grossi vantaggi.

    In passato era stato tra i protagonisti di quella che negli ambienti venne definita «linea bastarda», un’alleanza di ‘ndrangheta che si opponeva allo strapotere dei Mancuso. Poi alcuni boss di quella fazione sono stati uccisi, altri ridimensionati, e i rapporti sull’asse Filadelfia-Limbadi si sono ricomposti.

    Anello, il boss imprenditore

    Anello viene d’altronde descritto oggi come un boss imprenditore. Lontani gli anni in cui il suo paese era famigerato per la lupara bianca, si sarebbe rivelato un mediatore scaltro con un infallibile fiuto per gli affari. E dal suo feudo, sul confine tra Vibonese e Lametino, avrebbe costruito un impero economico che arriverebbe oltre le Alpi. Villaggi turistici, impianti eolici, movimento terra, forniture di calcestruzzo, appalti boschivi, estorsioni su lavori pubblici. Armi e droga. Con intermediari legati alla politica e talpe nelle forze dell’ordine.

    Niente telefono, basta la moglie

    Anello faceva business ma non aveva telefoni. Gli bastava che chi ne aveva facoltà facesse il suo nome. Era la moglie, Angela Bartucca, a fare da catalizzatore di tutti i messaggi in entrata e in uscita per il boss. Formalmente separati, lui nei giorni scorsi è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione, lei a 12.

    Con un passato oscuro che rimanda alla scomparsa di due giovani – Santino Panzarella e Valentino Galati avrebbero avuto relazioni con lei, ma sulla loro sorte non c’è mai stata alcuna certezza giudiziaria – Angela Bartucca avrebbe rivestito il ruolo di tramite tra il capocosca e gli altri affiliati.

    Il finanziere coinvolto

    Una condanna a 12 anni l’ha rimediata anche un brigadiere della Guardia di finanza, Domenico Bretti. Gli uomini del clan lo chiamavano “Gardenia” e da lui avrebbero avuto informazioni di polizia giudiziaria, roba di microspie e bonifiche, che dovevano rimanere segrete.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme

    Anello, la moglie, il finanziere, più un’altra sessantina di imputati, hanno optato per l’abbreviato e sono stati quasi tutti condannati. L’hanno chiamato “Imponimento”, il secondo maxiprocesso vibonese dopo “Rinascita-Scott”, ed è arrivato a sentenza proprio nei giorni scorsi. Ancora in corso, invece, è il rito ordinario in cui ci sono imputati eccellenti come l’ex assessore regionale Francescantonio Stillitani.

    Il precedente processo sugli Anello, denominato “Prima”, si era fermato al 2004. Così la Dda di Catanzaro ha provato a ricostruire gli affari e i rapporti che, da allora e fino a oggi, il clan avrebbe intessuto con molte famiglie del Vibonese, ma anche del Reggino e del Catanzarese, per arrivare fino in Sicilia. Per farlo, oltre all’immancabile mole di intercettazioni, sono stati incrociati i racconti di ben 29 pentiti.

    Kalashnikov all’ufficio postale

    Tra questi il più importante è Andrea Mantella, ex boss scissionista di Vibo città che ha rivelato come Anello avesse un canale per le armi con la Svizzera. Da lì, via Piemonte, pistole e kalashnikov in quantità sarebbero arrivate in Calabria addirittura per posta, con l’ufficio postale di Curinga utilizzato come una sorta di magazzino-polveriera dai sodali del boss. L’indagine della Dda si è intrecciata con quanto ha raccolto la Polizia Federale elvetica, che grazie al contributo di un agente infiltrato ha svelato gli interessi del clan di Filadelfia in alcuni night club in Svizzera e in un ristorante in Germania.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Un pentito che conosce bene quel territorio è poi Francesco Michienzi, che ha confermato il canale svizzero per le armi e ha tratteggiato la «figura carismatica di Rocco Anello»: quando era libero «riuscì a controllare completamente la costruzione e la gestione» di un villaggio sulla statale 18 «estromettendo i Mancuso». E quando era dentro era la moglie a portare fuori le sue «imbasciate».

    Dal Tirreno allo Jonio

    La zona di confine tra Vibonese e Catanzarese su cui Anello esercitava il suo potere non è però solo quella della costa tirrenico tra Pizzo e Lamezia, ma anche l’area interna dell’istmo che arriva all’altro tratto di costa, quello jonico. Da quella parte c’è Roccelletta di Borgia, il paese di un altro pentito che, fin nei verbali depositati di recente, ha rivelato alcune cose scottanti. Si tratta di Santo Mirarchi, affiliato da giovanissimo a un gruppo criminale che fino al 2009 non aveva un “locale” autonomo di ‘ndrangheta ma era, appunto, sotto quello di Filadelfia.

    Mirarchi ha parlato parecchio di estorsioni. Grosse estorsioni a danno di imprese importanti. Il suo gruppo avrebbe partecipato a quella sui lavori della statale 106 all’altezza di Borgia a danno dell’Astaldi, uno dei principali general contractor italiani e tra i primi 100 a livello mondiale nel settore delle costruzioni.

    «Una parte dei proventi di questa estorsione – in tutto circa 300mila euro secondo il pentito, ndr – e precisamente la somma di 50mila euro, spettava a Rocco Anello». Il boss avrebbe allungato le mani anche sui lavori di movimento terra dell’allora autostrada A3, nonché su un subappalto per la costruzione «del padiglione universitario alle spalle del policlinico a Germaneto». Ancora: il gruppo di Roccelletta, sempre col permesso di don Rocco, avrebbe avuto la sua fetta sui lavori «per il posizionamento delle cosiddette antenne relative alla telefonia cellulare che dovevano essere installate nelle montagne di Roccelletta, Filadelfia e Vallefiorita».

    «I capannoni degli Abramo»

    C’è infine una vicenda che era inedita fino alla discovery degli ultimi verbali. Mirarchi la colloca «fra il 2000 e il 2004» e riguarda «la costruzione dei capannoni industriali in località Germaneto da parte dei fratelli Abramo».
    Da Borgia avrebbero chiesto l’estorsione ma «costoro, cioè gli Abramo, fecero presente – dice Mirarchi – di essere legati a Rocco Anello, pertanto l’estorsione venne pagata a quest’ultimo».

    Il pentito lo avrebbe saputo perché, lavorando al cantiere come guardiano, avrebbe assistito alle discussioni tra Anello, gli Abramo e i referenti di Borgia. «Ricordo – dichiara il pentito – che Rocco Anello ebbe 200mila euro a titolo estorsivo, quelli di Roccelletta vennero ricompensati con gli appalti e con l’assunzione di diversi guardiani tra i quali anche me». Ma non c’è nessun riscontro giudiziario.

    L’erba con la Panda

    Non solo estorsioni, però: nei racconti di Mirarchi c’è spazio anche per traffici di droga. Il pentito dice di aver acquistato spesso cocaina e marijuana da «un certo Fruci». I fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci sono ritenuti l’ala operativa degli Anello su Curinga e, anche loro, sono stati condannati a 20 anni a testa in “Imponimento”.
    Una volta, a consegnare dieci chili di marijuana al pentito sarebbe stato un «corriere di Fruci»: si trattava di «un vecchietto» che gli portò l’erba a casa «a bordo di una Panda».

  • Sanità, appalti, portaborse: le ultime parole famose dei politici calabresi

    Sanità, appalti, portaborse: le ultime parole famose dei politici calabresi

    Certo si tratta di contraddizioni meno drammatiche rispetto a quella per cui, nello stesso giorno, si esulta perché Studio Aperto parla del «primato» della Calabria sui vaccini ma si registrano, in appena 24 ore, 8 morti per Covid e migliaia di nuovi contagi. Con i ricoveri che schizzano al 41% in area medica e al 19% in Terapia intensiva.

    Le dichiarazioni dei politici calabresi

    La situazione degli attuali politici calabresi, giusto per scomodare una volta di troppo Ennio Flaiano, resta grave, ma davvero poco seria. Specie se ci si attarda nell’esercizio di mettere a confronto certe dichiarazioni che protagonisti e comparse della scena regionale rilasciano, con evidente sprezzo del ridicolo, smentendo puntualmente se stessi. La scarsa memoria dei cittadini amministrati è sempre un buon alleato, dunque ricordare ogni tanto le acrobazie verbali dei Nostri può essere uno spunto per valutarne l’affidabilità.

    Chiudere gli ospedali? Ottimo, riapriamoli

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Partiamo proprio dal dominatore del momento, Roberto Occhiuto. Oltre a citare i «target di Figliuolo» almeno tre volte al dì ha da poco annunciato con altrettanto zelo la riapertura degli ospedali di Cariati, Trebisacce e Praia a Mare. Giova fare un salto indietro di oltre un decennio. Il 23 luglio 2010 l’allora presidente della Regione Peppe Scopelliti, commissario-governatore proprio com’è oggi Occhiuto, diceva al consiglio regionale che «la chiusura degli ospedali – riportano i resoconti di Palazzo Campanella – rappresenta un messaggio culturale nuovo».

    Neanche 3 mesi dopo (9 ottobre 2010) Scopelliti presentava il Piano di rientro al teatro Morelli di Cosenza. E in prima fila c’era proprio Occhiuto, all’epoca deputato dell’Udc, che dichiarava: «Oggi finalmente si mette mano a una riforma che, certo, genera qualche protesta come è naturale quando si fanno scelte impopolari. Diamo tempo a chi governa di affrontare tutti i problemi».

    Tra i 18 ospedali indicati dall’allora governatore c’erano anche quelli di Trebisacce, Praia a Mare e Cariati. A disporre la riapertura dei primi due è stato in realtà il Consiglio di Stato. Per il terzo c’è voluta un’occupazione a oltranza dei cittadini e il sostegno clamoroso di Roger Waters. Dopo l’intervento del fondatore dei Pink Floyd Occhiuto ha almeno ammesso che «l’errore fu quello di chiudere, forse, gli ospedali sbagliati e soprattutto di non convertirli in Case della salute e poliambulatori».

    Dema di lotta e di governo

    A ricordargli questa contraddizione è stato, con la nota veemenza, il tre volte ex (pm, sindaco di Napoli e candidato alla Presidenza della Calabria) Luigi de Magistris durante la recente campagna elettorale. Anche a lui però la memoria gioca brutti scherzi. È ancora agli atti dei social un suo tweet del 24 febbraio 2013 in cui si autodefiniva un «visionario» sostenendo che «la fase più avanzata della democrazia sia l’anarchia». E aggiungendo di «sognare» comunità che «si autogestiscano senza poteri, solo amore!».

    In quel momento, più che un ibrido tra Bakunin e Mario Capanna, Dema era però già sindaco di Napoli da due anni e sarebbe stato rieletto anche per un altro mandato. Qualche anno dopo la sua tendenza alla sovversione, e giammai al potere, lo avrebbe portato a candidarsi alla Regione mentre ancora vestiva la fascia di primo cittadino. E la via rivoluzionaria di de Magistris alle istituzioni probabilmente continuerà con le Politiche 2023. Intanto è cronaca di questi giorni la molto poco anarchica nomina di suo fratello Claudio nello staff di uno dei due consiglieri regionali eletti nelle sue liste, Ferdinando Laghi.

    Scontro tra titani

    Il populismo fa fare di queste figure ai politici calabresi (autoctoni o adottati, come Dema)come, di recente, ha confermato il comportamento del 5stelle locali con i portaborse. Ma de Magistris è riuscito nell’impresa di farsi rinfacciare l’incoerenza perfino da un campione di giravolte come Carlo Tansi. Il geologo ha ricordato all’ex pm di averlo criticato perché si era avvicinato al «PUT (Partito Unico della Torta)» come in effetti avvenuto con l’ingresso di Tansi in coalizione col vituperato Pd, mentre ora «quel PUT gli ha sistemato suo fratello come portaborse alla regione».

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    C’eravamo tanto amati: Luigi de Magistris e Carlo Tansi ai (brevi) tempi della loro alleanza

    Feudalesimo democratico

    A proposito di Pd, nel girone dei politici calabresi smemorati non può certo mancare Nicola Irto, neo incoronato leader con un congresso – «unitario» per gli apologeti, farsa per i detrattori – che, nei fatti, non ha certo brillato per dialettica democratica. È stato eletto segretario l’unico candidato alla segreteria e sono entrati nell’assemblea regionale tutti i delegati che erano stati inseriti nelle liste. Il 21 maggio scorso in un’intervista all’Espresso Irto annunciava di non volersi più candidare a governatore. E, soprattutto, dichiarava che «il Pd è in mano ai feudi». Se dopo pochi mesi quell’impostazione medievale si sia dissolta non è dato saperlo. Ma valvassini e valvassori sembrano ben rappresentati nel gioco correntizio che ha portato Irto dov’è ora. Magari anche lui in prospettiva Politiche 2023.

    Nicola Irto prima delle ultime elezioni regionali
    Nicola Irto prima delle ultime elezioni regionali

    Garantismo a processi alterni

    Irto è il futuro, ma anche il recente passato dei dem ha regalato soddisfazioni. Basti pensare all’ex presidente Mario Oliverio: quando usò come pretesto gli avvisi di garanzia di “Rimborsopoli” per liberarsi della sua prima giunta politica si mostrò nei fatti giustizialista; le grane giudiziarie successive che lo hanno visto coinvolto in vicende da cui è puntualmente uscito pulito ne hanno fatto un indefesso garantista. Ma è lo stesso Oliverio che durante il suo mandato aveva giurato e spergiurato di non volersi mai e poi mai ricandidare alla guida della Regione. E che ha poi finito ingloriosamente la sua carriera candidandosi e ottenendo un misero 1,7%.

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    Mario Oliverio festeggia con Carlo Guccione dopo la vittoria alla Regionali: lo nominerà assessore per poi scaricarlo

    Dottor Orso e mister Marso

    Non mancano esempi fulgidi anche nell’attuale Giunta. Delle dichiarazioni di Gianluca Gallo, che le cantava proprio a Oliverio su politica e sanità, abbiamo già scritto. Ma non è da meno il collega Fausto Orsomarso. L’assessore di FdI, che si faceva fotografare in discoteca con Bob Sinclar mentre sulle strade del Tirreno cosentino veniva inviato l’Esercito per controllare gli assembramenti della movida, si è prodotto in un discreto carpiato anche sulla metro leggera Cosenza-Rende.

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    Fausto Orsomarso insieme al celebre dj Bob Sinclar

    A luglio 2011 intestava a Scopelliti il merito di aver «snellito l’iter burocratico» e sbloccato «i capitali che serviranno ad implementare la mobilità urbana». Una mossa grazie alla quale «entro il 2015 […] ogni giorno 50/60 mila utenti useranno questo sistema per spostarsi». A giugno 2016 tacciava l’allora governatore Oliverio di «scarsa cultura istituzionale» perché non aveva consultato l’allora sindaco Occhiuto (Mario) prima di procedere alla gara d’appalto per una metro «con una previsione assurda di 40mila persone di bacino quotidiano».

    Politici calabresi ed elettori smemorati

    Da notare che il fratello dell’attuale presidente della Regione – fuoriclasse di giravolte, specie sulla metro in questione, e promesse da marinaio: giusto in questi giorni a Cosenza si festeggiano i cinque anni di quella sulla realizzazione (mai avviata) del nuovo stadio nei successivi 36 mesi – era stato eletto proprio ai tempi della prima dichiarazione di Orsomarso. Che nel 2011 (in maggioranza) esaltava l’opera – «in meno di mezz’ora collegheremo tutta l’area metropolitana» – e nel 2016 (all’opposizione) ne metteva in risalto i problemi. D’altronde è la stessa classe dirigente che annuncia i «ticket» ancora prima del voto e li dimentica subito dopo. Ed è forse quella che, essendo noi elettori i primi smemorati, ci meritiamo.

  • Amalia Bruni dopo Mattarella? Ok per la Dandini, non per i suoi compagni

    Amalia Bruni dopo Mattarella? Ok per la Dandini, non per i suoi compagni

    I giochi nel consiglio regionale calabrese sono fatti da poco più di 24 ore quando un’icona de sinistra, in una trasmissione che riscuote ampio consenso proprio in quel target, fa il nome di Amalia Bruni. Intervistata da Diego Bianchi a Propaganda Live (La7), Serena Dandini affronta un trend topic: perché non una donna al Colle?

    Donne di Calabria (e non)

    Dandini si indigna perché si sente spesso dire che il presidente della Repubblica può essere Draghi, o Berlusconi, o una donna. «Cioè una donna a caso: Draghi, Berlusconi o un dromedario. Come se nel nostro Paese non esistessero decine e decine di donne con un curriculum elevatissimo in grado di ricoprire questo ruolo».

    Dunque tira fuori un elenco con le sue papabili. E tra una Barbara Jatta (nominata direttrice dei Musei Vaticani da Papa Francesco) e un’Anna Maria Loreto (prima donna a capo di una grande Procura come quella di Torino) piazza proprio la neuroscienziata lametina sconfitta alle elezioni regionali da Roberto Occhiuto.

    La calabrese Antonella Polimeni, prima donna nella storia a guidare l'Università La Sapienza di Roma
    La calabrese Antonella Polimeni, prima donna nella storia a guidare l’Università La Sapienza di Roma

    Nell’elenco c’è un’altra calabrese, almeno di origine, ovvero Antonella Polimeni, «prima donna dopo 700 anni a guidare l’università della Sapienza». Ma il dato è politico, non geografico. Al di là della facile battuta – «avere in Italia un presidente che ha scoperto il gene dell’Alzheimer può aiutare…» – l’interessata subito reagisce con comprensibile orgoglio postando il video sui social e ringraziando pubblicamente Dandini.

    La solitudine di Amalia Bruni

    Poi aggiunge due cose. La prima è un autoelogio – «sono quaranta anni anni che dedico tutte le mie energie professionali al miglioramento delle condizioni di vita dei calabresi» – mentre la seconda va al punto: «Fa strano – dice Bruni – che se ne debba parlare in una trasmissione, per quanto colta e intelligente come Propaganda Live, e che a sollevare il problema debba essere una donna, preparata e sensibile, come Serena Dandini, mentre dalla politica che conta, Parlamento, Istituzioni e Palazzi vari, nessuno batte ciglio».

    Amalia Bruni durante la campagna elettorale per le Regionali 2021
    Amalia Bruni durante la campagna elettorale per le Regionali 2021

    Ecco, la riflessione è opportuna ma anche rivelatrice della solitudine di chi la suggerisce. Amalia Bruni in un Palazzo c’è entrata e, coerentemente con la campagna elettorale, continua a definirsi – o almeno dà questa indicazione al suo ufficio stampa – come «leader dell’opposizione in consiglio regionale». Ma per eleggere il presidente della Repubblica la sua coalizione non ha mandato lei a Roma.

    Tre uomini come delegati

    Proprio giovedì dal consiglio regionale sono venuti fuori i delegati calabresi che parteciperanno al più alto rito istituzionale della Repubblica. Si tratta di tre uomini, come sempre due di maggioranza e uno dell’opposizione: per il centrodestra ci sono i due presidenti – quello della Giunta Roberto Occhiuto e quello del Consiglio Filippo Mancuso – e per il centrosinistra il capogruppo del Pd Nicola Irto. L’indicazione non può non avere un significato politico. E, al netto del bon ton di facciata, esautora di fatto Bruni dal ruolo di leader della coalizione Pd-M5S.

    Amalia Bruni: celebrata in tv, ignorata dai suoi

    Certo lei non ha fatto molto per evitarlo: aderire al gruppo Misto appena eletta, diventando capogruppo di se stessa, pur nell’intenzione di rimanere equidistante non è sembrata una scelta strategica fruttuosa. Tanto più che proprio nel Pd Bruni sta pescando per il suo staff – ne fanno parte la dirigente dem lametina Lidia Vescio e la vicepresidente di Avviso Pubblico Maria Antonietta Sacco da Carlopoli – e proprio al Pd lei ha tolto le castagne dal fuoco accettando la candidatura dopo la girandola di nomi che ha coinvolto anche lo stesso Irto, Enzo Ciconte e Maria Antonietta Ventura.

    È la politica matrigna, che a queste latitudini, dietro una facciata di sinistra, non si crea troppi problemi né di genere né di merito. Divorando con implacabile cinismo le creature che ha da poco generato. E senza curarsi del paradosso di una «leader» celebrata in diretta nazionale ma ignorata dai suoi stessi compagni di banco.