Autore: Sergio Pelaia

  • INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

    INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

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    La vita di Emanuele Mancuso è cambiata nel giro di una settimana. Quattro anni fa, il 18 giugno del 2018, ha cominciato a parlare coi magistrati, ha deciso di raccontare ciò che ha visto e vissuto in 30 anni da rampollo di un potentissimo casato di ‘ndrangheta. Tre giorni dopo sarebbe dovuta nascere sua figlia, che si è poi fatta aspettare un altro po’, venendo al mondo il 25 giugno. I due eventi – la scelta di pentirsi e la nascita della primogenita – sono strettamente collegati.

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    Emanuele Mancuso intervistato da Studio Aperto

    Lo ripete spesso, Emanuele: ha iniziato a collaborare con la giustizia proprio per la figlia. Avrebbe voluto crescerla in un ambiente diverso da quello in cui è cresciuto lui. Ma, denuncia, ora gli viene impedito.

    Gli viene negato un diritto che è invece garantito a molti altri genitori che con la giustizia hanno avuto parecchi problemi ma che, come invece ha fatto lui, non ci hanno mai collaborato.

    Figlio di Pantaleone “l’Ingegnere”, quando suo padre era in carcere riusciva a vederlo più di quanto oggi permettano a lui di stare con sua figlia. Gli è concessa poco meno di un’ora a settimana, in locali «fatiscenti e privi di ogni requisito di legge». La bimba ora ha 4 anni e nota la presenza dei «signori» dei Servizi sociali e di quelli della scorta ai loro incontri.

    Lei vive, per decisione del Tribunale per i minorenni, in una casa-famiglia con la madre. Stanno in una località protetta individuata dal Servizio centrale di protezione, dunque a carico dello Stato, anche se l’ex compagna di Emanuele non si è mai dissociata dal contesto della famiglia di lui. Anzi, a suo dire sarebbe «in mano» ai Mancuso. A entrambi è stata limitata la responsabilità genitoriale.

    «Mi hanno visto persone di Limbadi»

    Emanuele è il primo, con il pesantissimo cognome Mancuso, ad essersi pentito. Mostra una certa dimestichezza con i meccanismi e la terminologia giuridica, ma il tono sicuro con cui solitamente parla, anche davanti ai giudici, durante un colloquio esclusivo con I Calabresi tradisce una profonda amarezza. Succede quando gli si chiede se abbia paura. «A questa domanda preferirei non rispondere. Una volta è capitato pure che mi abbiano visto alcune persone di Limbadi… Dico solo che quando ti isolano, provano ad avvicinarti più volte, ti tolgono quello che hai di più caro, la ragione per cui hai fatto la scelta più difficile, allora della vita e delle morte non ti interessa più niente. Non hai più paura di niente. Che mi dirà domani mia figlia?».

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    Pantaleone Mancuso “l’Ingegnere”, padre di Emanuele Mancuso

    «Salgono con le valigette di soldi e comprano tutto»

    Di recente ha inviato due lettere all’Autorità Garante per l’infanzia e al Presidente della Repubblica. Contengono una denuncia pesantissima: il pentito parla di «maltrattamenti» che la sua piccola subirebbe dagli operatori sociali. E parla di un «complotto» per sfinirlo e portarlo ad abbandonare la collaborazione con la giustizia.

    Dice anche molto altro: «La mia famiglia si compra tutto. Sale con valigette piene di soldi dove sta la bambina e corrompe i Servizi sociali. Infatti mi trattano come fossi Pacciani e fanno relazioni che contengono falsità, completamente sbilanciate dalla parte della mia ex compagna. La dipingono come una povera donna che non sapeva chi io fossi. Invece siamo stati insieme per circa 10 anni e si era inserita nel contesto criminale. È stata pure denunciata due volte per reati commessi mentre era nel programma di protezione».

    Un uomo libero

    Ora Emanuele è un uomo libero, anche se la libertà vera è un’altra cosa. «Mi sveglio alle cinque di mattina per andare a lavorare e torno la sera», dice. Ma si sente ingiustamente privato della possibilità di costruire un vero rapporto affettivo con la figlia. Una cosa che lo sta facendo vacillare parecchio. «Vogliono farmi ritrattare. Ho fatto tutto questo per poterla crescere e ora me lo impediscono».

    Il suo ragionamento è drammaticamente lineare. «Se il Tribunale ti dice che limita la tua responsabilità genitoriale a causa del conflitto con la madre della bambina, è chiaro che l’unico modo per riavere mia figlia è attenuare questo conflitto, insomma fare pace. Tra l’altro la rottura non è dovuta a motivi sentimentali, ma alla mia scelta di collaborare».

    Fare pace dunque significherebbe «inevitabilmente passare attraverso la mia famiglia». E fare marcia indietro, ritrattare, rientrare nei ranghi dei Mancuso. «Se va avanti così – ammette sconsolato – finisce che saluto tutti e ciao… ma non sarebbe solo una disfatta per la giustizia, sarebbe un’enorme sconfitta sociale».

    Teme le presunte pressioni sulla ex compagna

    C’è un episodio piuttosto inquietante che conferma quanto, secondo lui, l’ex compagna sia manovrata dai suoi familiari. Emerge da alcuni atti depositati nei processi – già approdati a sentenze di primo grado sia in abbreviato che in ordinario – sulle presunte pressioni della famiglia per indurlo a ritrattare. Si tratta di un’informativa di polizia giudiziaria redatta dopo l’ultimo arresto del padre.

    Nel 2014 “l’Ingegnere” era stato individuato a Puerto Iguazù, in Argentina, mentre cercava di passare il confine con il Brasile su un bus turistico, con un documento falso e 100mila euro addosso. A marzo del 2019 lo hanno invece beccato a Roma in una sala Bingo. Aveva con sé un IPhone ed è proprio da quel telefono che gli inquirenti hanno tirato fuori i messaggi scambiati con i familiari durante la latitanza. Chat che sono finite in un decreto di acquisizione di documenti di 187 pagine.

    Lei parla con i Mancuso

    I contatti tra i familiari di Emanuele e la sua ex compagna sono frequenti. Sembrano tenerla sotto controllo, tanto che a un certo punto si parla di un registratore da piazzare nella sua abitazione. E lei mostra soggezione nei confronti di Pantaleone, con cui dialoga attraverso il telefono della moglie. A un certo punto le dice, tra il serio e il faceto: «Sono in cielo e in terra». Le impartisce indicazioni precise: «Non mi deludere». Fino ad arrivare a scriverle esplicitamente: «Tu mettiti a disposizione».

    Succede dopo che lei manda un sms all’avvocato di Emanuele, fa uno screenshot del messaggio e lo invia alla sorella del pentito, che a sua volta lo inoltra al padre. Pantaleone cerca di tranquillizzare l’ex compagna del figlio. Ma lei è allarmata: «Si mi beccano quel coso su rovinata». Il «coso» sarebbe un telefono che lei dovrebbe portare a un incontro con l’ex compagno. La ragazza prova a ipotizzare una soluzione diversa: «Se riesco porto la scheda. E poi un cel lo prenderò lì». Lui taglia corto: «Na fari difficili». Ma il tono di lei resta quello: «Mi stati mandandu a furca».

    La compagna del pentito «abilmente governata» da Pantaleone l’Ingegnere

    L’ex compagna di Emanuele, secondo gli inquirenti «abilmente governata» dall’“Ingegnere”, avrebbe dovuto portare con sé, di nascosto anche dal suo compagno, un telefono (o una sim card) a un incontro con il pentito. Avrebbe voluto far credere, tramite l’sms al suo avvocato, che voleva riconciliarsi con lui ed entrare così nel programma di protezione, ma solo quando lui sarebbe stato posto ai domiciliari, perché all’epoca era ancora in carcere.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme dove si celebra anche il processo Rinascita-Scott

    L’attentato al pentito sventato dalla Dda di Catanzaro

    «In questo modo sarebbe venuta con me nella località protetta e, mettendo questa sim in un telefono, avrebbe dovuto inviare ai miei familiari la posizione in cui ci trovavamo». Insomma, chiosa il pentito: «Stavano pianificando un agguato. Ma la Dda di Catanzaro lo ha sventato». Trae una conclusione agghiacciante, Emanuele. Ma i contatti tra la sua famiglia e l’ex compagna sono effettivamente cristallizzati nelle carte della Procura antimafia. In cui parecchie pagine sono coperte da omissis.

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    Luigi Mancuso “Il Supremo”

    Una dinastia di ‘ndrangheta

    Intanto nel Vibonese, tra Limbadi e Nicotera, la calma apparente nasconde un’evoluzione ancora non decifrabile delle dinamiche interne a una delle famiglie più potenti dell’intera ‘ndrangheta, e dunque delle mafie di tutto il mondo. Luigi Mancuso, il “Supremo”, è stato arrestato nel blitz di “Rinascita-Scott”, la maxinchiesta di cui è un elemento centrale e da cui è scaturito il processo che si sta celebrando nell’aula bunker di Lamezia.

    Luigi è zio di Pantaleone “l’Ingegnere”, dunque prozio di Emanuele. Nel frattempo sono tornati in libertà due zii diretti del pentito, Diego e Peppe “‘Mbrogghia”. Quest’ultimo è ritenuto uno dei capi storici, tra i più temuti. Si è fatto 24 anni consecutivi di galera, 20 dei quali in regime di 41 bis. Pare abbia sempre avuto un legame particolare con Luigi, che è suo zio ma è più piccolo di lui di qualche anno. Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, Domenico, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.

    Peppe Mancuso “Mbrogghia”

    «Sono un esercito», dice Emanuele dei suoi parenti. E aggiunge: «Figli e nipoti si sono laureati, alcuni recandosi ben poche volte all’università, giusto per firmare… Hanno contatti con colletti bianchi, massoneria…». Descrivendo i boss, spiega che «Luigi è il più “istituzionale”». Mentre Peppe «ha un cimitero alle spalle (risulta condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ndr). Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa. Ai giovani però – conclude – io vorrei dire una cosa: il fascino della ‘ndrangheta è ingannevole, in realtà fa schifo, non rovinatevi la vita con queste porcate».

  • Il calabrese del “Russiagate”: «Sto con Putin»

    Il calabrese del “Russiagate”: «Sto con Putin»

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    La prima volta in cui il suo nome rimbalzò sui media italiani fu nel novembre del 2016, quando Bruno Giancotti tirò fuori Matteo Salvini da un piccolo guaio in cui si era cacciato con la Polizia russa. Il leader della Lega aveva esposto nella piazza Rossa un cartello contro il referendum renziano, ma i gendarmi intervennero fermandolo per qualche ora perché la legge russa vieta di esporre striscioni con slogan politici senza una preventiva autorizzazione. «Lo avevo avvertito», racconta Giancotti, uomo d’affari originario di Serra San Bruno che, dalle montagne del Vibonese, è arrivato a stabilirsi a Mosca fin dal 1986.

    Il calabrese putiniano di ferro

    Un po’ più serio, quantomeno per il contraccolpo mediatico, si è rivelato in seguito il caso dei presunti fondi russi alla Lega e degli audio diffusi da BuzzFeed. Il suo nome è spuntato anche nel Russiagate, ma Giancotti assicura di non essere lui il «Gianko» a cui i protagonisti della trattativa del Metropole facevano riferimento parlando di percentuali su una grossa partita di gasolio russo da far arrivare in Europa.

    Una questione molto più seria, e drammatica, è oggi quella della guerra Russia-Ucraina. Incalzato sull’argomento, Giancotti non si tira indietro di fronte alle domande. Ma va detto subito e chiaramente che lui è di parte: è dalla parte di Vladimir Putin e non nasconde di avere «conoscenze nelle alte sfere del potere» a Mosca. «Sono un putiniano convinto», spiega. «Invece mia moglie, che è russa, è antiputiniana. Io la definisco addirittura russofoba».
    Lo abbiamo contattato attraverso Facebook.

    Ma alcuni social network non erano stati oscurati in Russia? E non è censura questa?

    «Io riesco a usare Facebook perché il mio account è stato registrato in Italia, ma effettivamente sì: qui è stato bloccato».

     

    «Beh… la guerra mediatica la Russia l’ha sempre persa e la continua a perdere. Però le fake news erano diventate esorbitanti così è stata presa la decisione di limitare i social. Non è una decisione democratica, certo, ma siamo in guerra…».

    Almeno lei non la chiama «operazione speciale»… Ma che aria si respira lì? Sembra evidente la repressione del dissenso.

    «A Mosca c’è un’atmosfera tranquilla, non c’è panico né isteria. Certo, non si può negare che ci siano proteste contro la guerra di Putin. Repressione? La Russia è in guerra con l’Ucraina. E in guerra vigono regole particolari che contemplano anche temporaneamente la restrizione di libertà democratiche. Quelli nei confronti dei manifestanti comunque non sono quasi mai arresti ma fermi, gli arresti scattano solo in casi di violenze verso la polizia, come del resto accade anche in Europa. E poi quasi tutti i manifestanti sono giovani: è quasi fisiologico che si ribellino. Ma non ci sono arresti di massa. Ho osservato parecchie manifestazioni contro Putin e il comportamento della polizia mi è sembrato sempre molto corretto».

    Di certo Putin non è quello che si dice un campione dei diritti civili…

    «Non lo è mai stato, anzi ha sempre detto che la democrazia liberale è un fallimento. Lui è sempre stato per un regime decisionista, che in Occidente è definito dittatoriale».

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    Giancotti alla marcia del 9 maggio (Il Giorno della Vittoria) sulla Piazza Rossa a Mosca

    Quindi chi dice che in Russia c’è un regime ha ragione?

    «Nei dibattiti televisivi gli oppositori di Putin parlano sempre senza problemi. Non c’è la censura di cui si parla in Occidente, io non la avverto. Vedo intellettuali oppositori del governo che parlano e agiscono indisturbati. Alcuni hanno una linea politica in contrasto con la tradizione russa e vengono perfino finanziati dallo Stato».

    Torniamo alla guerra Russia-Ucraina. È un’invasione di uno Stato confinante. È un conflitto giusto secondo lei?

    «È una guerra. E la guerra si fa con le armi, non con i fiori. Le vittime ci sono da ambo le parti. Ma non è una guerra tra Russia e Ucraina, bensì tra Russia e resto del mondo. Fin dal 2007, dalla Conferenza di Monaco, Putin ha detto che è ora di smetterla con il mondo dominato da una sola potenza. Perché possa esistere un mondo multipolare servono dei meccanismi che garantiscano la sicurezza di tutti. Da allora non ha mai smesso di dire questi: abbiamo nostri valori, non stanno bene all’Occidente e al globalismo? Beh, vanno comunque rispettati».

    Insomma quella della Russia sarebbe un’azione difensiva?

    «La Nato aveva promesso di non estendersi verso Est. Invece anche fonti non russe, come la rivista tedesca Spiegel, confermano che sono avanzati piano piano, in sostanza manca solo l’Ucraina per chiudere il fronte attorno alla Russia. Io ricordo il periodo catastrofico di Eltsin, quando vedevo i generali dell’esercito vendere le loro medaglie al mercato nero. La Russia all’epoca non poteva alzare la voce contro gli Usa, che ne approfittavano per bombardare Belgrado. Ora invece c’è una potenza militare e non permetteremo che venga compromessa la nostra sicurezza con basi Nato. In Ucraina poi agiscono incontrollate formazioni neonaziste che non sottostanno certo al governo di Kiev».

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    Vladimir Putin

    È passato quasi un mese dall’inizio della guerra. Non crede che l’esercito russo stia incontrando ostacoli inaspettati?

    «In Occidente si sostiene che la Russia stia avendo più difficoltà di quanto pensasse. Putin invece ha detto che tutto sta andando come nei piani. E che si sta attuando una tattica ben precisa: colpire obiettivi in modo chirurgico e non distruggere tutto con bombardamenti a tappeto».

    Intanto però le bombe cadono anche su ospedali e teatri. Le vittime tra i civili ci sono eccome.

    «Parliamo di centinaia, mentre con azioni massicce sarebbero state centinaia di migliaia».

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    Gianluca Savoini, Claudio D’Amico e Bruno Giancotti

    Gli italiani che stanno in Russia secondo lei come la stanno vivendo?

    «Per quello che vedo io, o sono indifferenti o per lo più condividono la linea di Putin. È solidale con il governo russo anche tanta gente che non ha nessun rapporto con il potere».

    Chiudiamo tornando al Russiagate. Possibile che non fosse davvero lei «Gianko»?

    «Non ero io, non so nulla di quella storia, altrimenti mi avrebbero indagato (la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per corruzione internazionale in cui all’epoca nel registro degli indagati figurava solo Gianluca Savoini, ndr).

    Ma Savoini, D’Amico e Salvini li conosce, o no?

    «Sì, ho introdotto io D’Amico e Savoini in Russia. Accompagnavo Salvini al Parlamento, ma non perché io sia della Lega. Io sto dalla parte della Russia. E chiunque sia amico della Russia è mio amico. In quel momento c’era un accordo tra il partito di Putin, Russia Unita, e la Lega. Gli audio del Metropole mi hanno reso famoso ma non ero io quello di cui si parlava. È vero che ho partecipato a trattative simili, ma esclusivamente di natura commerciale, non certo per finanziare la Lega. È il mio lavoro: faccio il mediatore commerciale. Credo che Savoini abbia avviato la trattativa per conto suo ma ci abbia messo dentro la Lega per rendere la cosa più appetibile. Invece era una pura trattativa commerciale, condotta però da chi di commercio non capisce nulla: degli imbecilli, da una parte e dall’altra. Vorrei però precisare un’ultima cosa».

    Prego.

    «Quello che sono diventato è dovuto solo alle mie capacità personali e non sono arrivato dove sono per vicinanza al potere. Le mie convinzioni non le vendo».

    Però conosce bene diversi di quelli che vengono identificati come oligarchi, vero?

    «Li conosco fin da quando non erano ricchi, fin da quando vendevano valuta al mercato nero scambiando rubli con dollari. Ora sono ultramiliardari».

  • Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

    Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

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    La metafora veicola una suggestione da scrittore, ma la sostanza restituisce il pragmatismo del managerSanto Gioffrè nella vita ha fatto e fa entrambe le cose. Dunque, se gli si chiede cosa pensi della creazione dell’Azienda Zero come cura per la sanità calabrese, risponde così: «Mi sembra un tentativo di prendersi la carne e lasciare le ossa alle Asp».

    La lobby masso-bancaria e la Sanità calabrese

    Lui un’Asp l’ha guidata. Nel 2015 è stato commissario straordinario dell’Azienda più inguaiata di Calabria, quella di Reggio, raccontando poi quell’esperienza in un libro-testimonianza sulla «grande truffa nella sanità calabrese» . Quanto il suo sguardo sul «sistema» sia disincantato lo si intuisce subito: «C’è, almeno dal 2005, una lobby masso-bancaria che in combutta con i colletti bianchi ha creato un meccanismo attraverso il quale si è reso impossibile conoscere o risalire alla vera contabilità delle Asp».

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Il nodo, secondo Santo Gioffrè, sta tutto lì: «Se non ricostruiscono il debito, portando a galla tutti gli interessi che ci sono dietro, possono inventarsi pure la luna». Dunque l’Azienda zero «in linea di principio potrebbe anche funzionare, ma in un contesto sano». In quello attuale, «se non sai se ciò che stai pagando è già stato pagato, come fai?». C’è poco da girarci attorno: «Bisogna accertare chi si è preso i soldi, quanti ne ha presi e come li ha presi. Un’operazione di questo tipo si vuole fare? Serve una volontà di ferro».

    Il debito mai quantificato

    Proprio in questi giorni Roberto Occhiuto si è mostrato sicuro: «Abbiamo messo su una procedura – ha annunciato su Facebook – per accertare il debito entro il 31 dicembre 2022». Se ne occuperanno dei «gruppi di lavoro» che, tra il Dipartimento regionale e le Aziende del servizio sanitario, dovrebbero avere il supporto della Guardia di finanza per provare a capire quanto sia grande il buco nei conti. E così riuscire dove hanno fallito, in 12 anni di commissariamento, fior di generali delle stesse Fiamme gialle e dei carabinieri.

    Fin dall’avvio del Piano di rientro (era la vigilia di Natale del 2009) sono stati macinati commissari e spesi miliardi senza cavare un ragno dal buco. Con l’aggravante che ci si è avvalsi di una società, la Kpmg Advisory, che doveva appunto dare una mano nella ricognizione e riconciliazione del debito pregresso. È finita malissimo. Carlo Guccione ha dichiarato in consiglio regionale che, dal 2008, questa società ha ricevuto compensi per 11 milioni di euro. Ma l’entità del debito ancora non la sappiamo.

    La Kpmg e quell’ufficio regionale

    La storiaccia calabrese della Kpmg si incrocia, a questo proposito, con quella di una sigla poco nota ai non addetti ai lavori, BDE, che significa Bad Debt Entity. «Si trattava di un ufficio creato in Regione nel 2010 con l’intento di ripianare i debiti delle Aziende sanitarie e ospedaliere», spiega il manager-scrittore. I soldi, circa 500 milioni di euro, arrivavano da un mutuo contratto dalla Regione. «I debiti si pagavano in base alla certificazione delle fatture effettuata da Kpmg. Dopo 4 anni (fine ottobre del 2014) le somme residue sono state date, con una specie di forfait, alle Aziende: “pagate voi”, dissero da Catanzaro. E le Aziende cominciarono a fare le transazioni in base alle tabelle fornite da Kpmg».

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    Una delle sedi dela Kpmg, colosso internazionale della revisione contabile

    Il meccanismo si inceppa

    In uno schema di transazione utilizzato spesso dalle Aziende si sostiene che grazie alla BDE ci sarebbe stata «una riduzione del livello di indebitamento verso gli istituti tesorieri e un decremento dei relativi interessi passivi sulle anticipazioni di cassa nel corso dell’esercizio 2015». Qualcosa però deve essersi poi inceppato visto che negli anni successivi sono emerse «varie difficoltà da parte delle Aziende Sanitarie nell’efficace utilizzo delle risorse ricevute per il pagamento del debito pregresso, dovute principalmente alla carenza di figure professionali e competenze tecnico specialistiche nello svolgimento delle attività amministrative per il perfezionamento con i debitori di transazioni e nella emissione dei mandati di pagamento, nonché a difficoltà connesse alla verifica delle partite debitorie già pagate in esecuzione di assegnazioni giudiziarie, al fine di evitare pagamenti multipli per medesime fatture».

    Le origini del bilancio orale secondo Santo Gioffrè

    Ecco, le fatture pagate due volte ai privati. È proprio ciò che si è puntualmente verificato – come di recente confermato dalla Corte dei conti – e che Gioffrè ha denunciato. Da anni va ripetendo, carte alla mano, cosa si celi dietro i «pignoramenti non regolarizzati» a cui «mai nessuno, dal governo a ogni istituzione che ne avrebbe il dovere, ha voluto mettere mano». Come funzionava il sistema? «Le aziende creditrici si rivolgevano al giudice, che ordinava il pignoramento presso terzi, cioè alla banca che svolgeva il servizio di Tesoreria per l’Azienda. L’istituto bancario però non trasmetteva all’Asp le minute delle fatture che pagava. È questa l’origine del famigerato “bilancio orale” che ha sconquassato tutto. L’Asp non negativizzava quel debito, che rimaneva sempre attivo, anche se i soldi se li erano presi».

    Dietro ci sarebbe la «lobby» che, grazie ai mancati controlli e a qualche complicità nelle stanze delle Asp, avrebbe provocato una lievitazione spropositata di pignoramenti non regolarizzati. Che quando Gioffrè si è insediato, a marzo del 2015, ammontavano a «circa 400 milioni di euro», ai quali va aggiunto il resto del contenzioso. «Quando ho capito il meccanismo mi sono messo in testa di ricostruire il bilancio, per farlo però avevo bisogno di venti persone che esaminassero ogni tipo di pagamento fatto. E lì mi hanno fermato».

    In nove anni 600 commissari ad acta

    Questo fa capire perché nessuno, dal 2013, sia riuscito ad approvare il bilancio dell’Asp di Reggio, dove in due anni si sono insediati «ben 600 commissari ad acta per il recupero crediti». Gioffrè legge incredulo la relazione in cui un suo predecessore parlava – era il 2014 – di «quasi 349 milioni corrispondenti a mandati di pagamento effettuati ma non ancora contabilmente imputati e regolarizzati». Vi si aggiungeva che «nel passaggio di consegne dal vecchio al nuovo tesoriere non sarebbero state fornite le carte e tutto ciò che veniva pagato non veniva inserito nel sistema di contabilità».

    Tutte fuori dal Piano di Rientro, Calabria esclusa

    Questa sarebbe l’origine di un disastro debitorio che, negli anni successivi, sarebbe arrivato a sfiorare, solo a Reggio, il miliardo di euro. Tutto a causa di una «complicità verticale» che ha reso «marcio» l’intero settore. La controprova? Semplice: «Su 10 Regioni entrate in Piano di rientro ormai oltre un decennio fa 9 ne sono uscite. La Calabria invece rimane in questa condizione e rischia di non uscirne mai. Perché il Piano di rientro ha a che fare con la finanza e l’economia. I calabresi sono numeri».

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto

    «Tutto ciò – conclude amaramente Gioffrè – ha prodotto un blocco delle assunzioni che ha fatto saltare due generazioni di professionisti e ha ridotto la capacità di dare risposte terapeutiche e di prevenzione. Con un aumento di mortalità pari al 4% rispetto alle regioni che non sono più in Piano di rientro. Non ci sono medici. C’è una sola università. Intanto paghiamo 330 milioni all’anno alle regioni del Nord per la mobilità passiva. Il sospetto che da Roma vogliano mantenerci in questa condizione sorge, eccome».

  • Tra Azienda zero e Corte dei Conti, la sfida di Occhiuto plenipotenziario (ma non troppo)

    Tra Azienda zero e Corte dei Conti, la sfida di Occhiuto plenipotenziario (ma non troppo)

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    L’ultima doccia di realtà è arrivata, bella fredda, dalla solita Corte dei conti. Che proprio nei giorni scorsi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha aggiunto alla vergogna dei fondi Covid non spesi – 77 milioni di euro di cui si era già parlato a fine anno – quella, ugualmente nota, degli importi pagati per prestazioni già remunerate (quindi pagati due volte), per prestazioni extrabudget, per interessi e indennità non spettanti. Somme «veramente notevoli» che ammontano, in totale, ad «almeno 61/65 milioni di euro». Cioè a oltre due terzi del disavanzo sanitario (91 milioni di euro) emerso dall’ultimo Tavolo “Adduce”.

    La strigliata della Corte dei Conti

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    Il passato e il presente della sanità calabrese sono questo. Li ha descritti impietosamente il procuratore regionale Maria Rachele Anita Aronica parlando del «frequente ricorso, da parte dei creditori delle Aziende sanitarie e, in particolare da parte degli Enti accreditati, allo strumento della cessione di credito a società deputate istituzionalmente al recupero crediti, senza però che il credito sussista o perché già pagato o perché non esistente, per di più, talora, anche sovrastimato».

    Le transazioni si sono spesso concluse con il pagamento di crediti in realtà già saldati o di interessi «con conseguenze devastanti in caso di mancato pagamento anche di una sola rata residuale e d’importo notevolmente inferiore rispetto a quanto già pagato». Sono inoltre stati corrisposti «abnormi importi (svariati milioni di euro) per interessi, rivalutazione e spese di giudizio, a seguito di decreti ingiuntivi non opposti e alla nomina dei Commissari ad acta per l’esecuzione del giudicato».

    L’Asp di Reggio, si sa, non ha presentato i Bilanci dal 2013 fino al 2018. L’Asp di Cosenza non lo fa dal 2017. Anche le altre Aziende (sanitarie e ospedaliere) non se la passano bene: nel 2020 tutte hanno chiuso in perdita. Le Asp di Reggio e Catanzaro sono state pure commissariate per mafia. E i vari commissari alla Sanità nominati dal governo «non sono riusciti a porre fine al caos contabile e organizzativo né, d’altra parte, hanno potuto contare su un valido reale supporto di personale».

    Il deficit della Sanità aumenta

    Questo aspetto lo ha evidenziato la Corte Costituzionale in una sentenza del 2021 sul Decreto Calabria. In quel verdetto la Consulta ha scritto: «Solo nella Regione Calabria (…) le irregolarità registrate nella gestione regionale della sanità hanno assunto livelli di gravità mai riscontrati in precedenza». La Corte dei conti ci ha messo sopra il carico: «Purtroppo il caos contabile e la disorganizzazione sono inevitabilmente fonte di mala gestio e terreno fertile per la criminalità organizzata che trova nutrimento in questi fenomeni, prosperando ancor di più».

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    La Corte Costituzionale

    Un quadro «desolante aggravato dal deficit che, come è stato detto in sede di parifica, non si è ridotto in misura sensibile dopo oltre dieci anni – dal 2009 – anzi è sicuramente di molto superiore, considerato che non si dispone di alcuni dati/Bilanci certi». Per il procuratore regionale è «evidente che se non si pone fine a questa insensata situazione attraverso un’adeguata programmazione, un congruo monitoraggio e utilizzo di idonei strumenti informatici nonché di personale, qualitativamente e quantitativamente appropriato, il rientro dal disavanzo sanitario non potrà avvenire».

    Passato, presente e… Azienda zero

    Ecco, proprio questo è il punto: come se ne esce? Il presidente/commissario Roberto Occhiuto ha individuato la soluzione – non l’unica ma certamente finora la più rilevante – nella creazione di un nuovo ente, l’Azienda zero. Esiste già in altre Regioni, in cui la situazione è certamente meno grave, e dovrebbe sovrastare tutti gli altri organismi del Servizio sanitario regionale accentrando funzioni molto importanti. Per Occhiuto questo è il futuro della sanità calabrese.

    Con l’Azienda zero, e con un aiutino della Guardia di finanza, è convinto di poter tagliare sprechi, doppi pagamenti e altre varie nefandezze mettendo ordine nei conti del sistema sanitario, con tanto di sospirata quantificazione del debito complessivo della sanità calabrese entro la fine del 2022. Dall’istituzione della nuova creatura a oggi si sono però consumati dei passaggi politici e legislativi che probabilmente, tra rimandi normativi e modifiche di articoli e commi, ai cittadini sfuggono nel loro significato reale.

    Concentrato di poteri

    La legge istitutiva è stata approvata dal consiglio regionale lo scorso 14 dicembre. Tra le competenze assegnate c’è la centralizzazione degli acquisti e l’espletamento delle procedure di selezione del personale delle Aziende del Servizio sanitario. Spese e concorsi, insomma, li gestisce direttamente l’Azienda zero. Che si prende anche gli accreditamenti delle strutture sanitarie e sociosanitarie. Non proprio bazzecole, se si pensa a cosa hanno significato e significano tuttora le assunzioni e gli interessi dei privati per la sanità calabrese.

    Ci sono poi le funzioni della Gestione Sanitaria Accentrata (GSA). Si tratta di un cervellone che tiene la contabilità di tutti i rapporti economici, patrimoniali e finanziari intercorrenti fra la Regione e lo Stato, le altre regioni, le Aziende sanitarie, gli altri enti pubblici e i terzi. Pure questa non è esattamente robetta. Viene da chiedersi cosa rimanga alle Asp e a cosa serva mantenere in vita il dipartimento regionale Sanità.

    Le prime modifiche ad Azienda zero

    Comunque: un altro passaggio legislativo si è consumato lo scorso 28 febbraio. Il consiglio regionale ha approvato due proposte di legge che modificano quanto era stato previsto a dicembre per il nuovo moloch della sanità calabrese. La prima porta la firma di due fedelissimi del presidente, Pierluigi Caputo e Salvatore Cirillo. Tra gli «interventi di manutenzione normativa» hanno inserito l’assegnazione all’Azienda zero di tutto il sistema regionale dell’emergenza urgenza 118 ed elisoccorso e il numero unico di emergenza 112.

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    Roberto Occhiuto con il fedelissimo Pierluigi Caputo

    Ma non solo: il nuovo ente attuerà «la programmazione, il controllo e il monitoraggio dei Lea in materia di emergenza urgenza e pre e intraospedaliera in linea con gli indirizzi regionali e nazionali». Anche questa non una cosa da poco: i Lea (Livelli essenziali di assistenza) risultano decisivi ogni qual volta il governo verifica lo stato di attuazione del Piano di rientro.

    Il baratto tra Governo e Occhiuto

    L’altra proposta approvata a fine febbraio porta invece la firma dello stesso Occhiuto. È composta da una serie di modifiche che, con ogni evidenza, il governo ha chiesto in cambio della decisione benevola di non impugnare la legge istitutiva. In alcuni casi si tratta di refusi o di chiarimenti interpretativi. In altri proprio no. Come nel caso della cosiddetta norma di salvaguardia.

    Questa ha lo scopo di «garantire le prerogative spettanti al commissario ad acta fino al termine del periodo di commissariamento, nonché a salvaguardare l’applicazione delle norme nazionali». Sembrano passaggi tecnici, ma sono sostanziali. La norma specifica che fino a quando sarà in atto il commissariamento sono «fatte salve, nell’attuazione della presente legge, le competenze attribuite al Commissario ad acta».

    Il pallino resta in mano a Roma

    La seconda aggiunta prevede che la legge su Azienda zero si applichi «laddove non in contrasto con quanto disposto dal decreto-legge 10 novembre 2020, n. 150 (il “Decreto Calabria”, ndr). È chiaro, insomma, che il governo si è tutelato: ha messo dei paletti all’Azienda zero e ha richiamato la centralità del commissario. Che sì, al momento è sempre Occhiuto, ma ove mai si incrinasse qualcosa nei suoi rapporti con Roma, Palazzo Chigi potrebbe nominare qualcun altro togliendo il pallino della sanità dalle sue mani. La nomina del direttore generale dell’Azienda zero, che ne è il legale rappresentante ed esercita le funzioni della GSA, spetta infatti al commissario ad acta.

    Azienda zero: un nuovo carrozzone?

    Il governatore/commissario, nel dare vita alla sua creatura, si è comunque guardato dal ricalcare la frettolosità di chi guidava la Regione nel 2007. Era l’epoca Loiero-Lo Moro e, a sorpresa, il consiglio regionale, con un emendamento al collegato alla Finanziaria, cancellò le 11 Aziende sanitarie locali per creare, al loro posto, le attuali cinque Asp provinciali. L’articolo 1 della legge sull’Azienda zero dispone invece che l’ente entri in funzione solo nel momento in cui la giunta regionale approverà una delibera che ne disciplini i tempi di attuazione.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Dunque al momento esiste solo sulla carta. E resta da vedere se la creazione di questa Azienda, che come ogni nuovo ente pubblico in Calabria è ad alto rischio carrozzone, possa davvero rivelarsi la cura giusta per le purulenti ferite della sanità calabrese. Che continuano a sanguinare debiti e disavanzo. E assorbono, come da ultimo bilancio approvato dalla Regione, il 62% delle risorse a disposizione: 3,9 miliardi di euro solo per il 2022.

  • Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Nella Calabria delle aspiranti capitali deluse (Diamante e Capistrano), di quelle che ce l’hanno fatta ma si sono impelagate nelle polemiche (Vibo) e di quelle che sognano a occhi aperti facendo finta di non vedere la realtà (la Locride), la cultura resta una chimera. Per lo più se ne fa materiale da brochure o da programma elettorale, e a decretarne gli indirizzi sono spesso personaggi mitologici, metà direttori artistici e metà amministratori locali, in una promiscuità di rapporti e funzioni che prescinde quasi sempre dalle reali competenze.

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    La squadra fortissima di Primavera dei teatri: da sinistra Settimio Pisano, Dario De Luca e Saverio La Ruina

    Nell’attuale giunta regionale nessuno detiene la tradizionale delega perché se n’è scelta una più modernista («Attrattori culturali»). Il marketing però è un’altra cosa. E molto di ciò che si spaccia per arte e cultura è in verità commercio puro: nomi altisonanti usati per fare quantità, bandi discutibili e progetti di dubbia consistenza a drenare finanziamenti. Ma va anche sfatato il luogo comune della mancanza di risorse: i soldi, per la cultura in Calabria, ci sono. Lo conferma Settimio Pisano, che da anni si occupa di curatela nel campo del teatro e delle arti performative. È quello che si dice un addetto ai lavori (direttore generale e responsabile della programmazione internazionale del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, nel 2019 ha ricevuto il Premio UBU come “Miglior curatore/organizzatore”) e, per questo, gli abbiamo posto qualche domanda.

    Molto banalmente: in Calabria, con la cultura, si mangia?

    «Certo. Nel comparto lavorano migliaia di persone e intorno si genera un indotto importante. Bisognerebbe fare molto di più, non soltanto immettendo più denaro nel settore ma gestendolo meglio. Il punto non sono le risorse, ma come vengono impiegate».

    Che tipo di problemi riscontrano i lavoratori del settore nel rapporto con gli enti pubblici calabresi, in particolare con la Regione?

    «Bisogna prendere atto di una situazione evidente: la Regione Calabria non è in grado di gestire efficacemente il settore artistico-culturale e non potrà farlo finché non si doterà di specifiche competenze professionali. In oltre vent’anni di attività ho visto decine di assessori, dirigenti e funzionari. Molti sono stimati professionisti e si sono spesi con rigore e sensibilità per svolgere al meglio il proprio lavoro. Tuttavia i problemi permangono, anzi si aggravano col tempo».

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    La sede della Giunta e degli uffici regionali a Germaneto

    Perché?

    «La scarsa considerazione di cui gode il settore artistico e la conseguente trascuratezza gestionale, le pastoie burocratiche e l’incapacità della politica di governarle, sono questioni che hanno un peso determinante. Ma la faccenda è più complessa».

    Come sempre. Ma provi a spiegarlo…

    «C’è un problema strutturale. L’organizzazione della Regione e le sue competenze interne non sono adeguate costitutivamente a governare il settore. Serve un ente intermedio, sul modello delle Film Commission regionali, che abbia al suo interno le professionalità e le competenze adeguate. Una Calabria Live Commission, un’istituzione a partecipazione pubblica e privata in grado di produrre una visione corretta, tempi di programmazione certi, conoscenza specifica e sul campo delle varie discipline artistiche, un alfabeto comune con gli addetti ai lavori, regole impermeabili all’invasività della politica e ai cambi di amministrazione, avvisi pubblici redatti in base a obiettivi reali con adeguate azioni di monitoraggio e valutazione dei progetti.

    Gli operatori del settore artistico sono professionisti e meritano una governance all’altezza. Alla guida del settore servono profili professionali precisi: curatori, mediatori culturali in grado di coniugare sensibilità artistica e competenze manageriali, riconosciuti e attivi in ambito nazionale ma ancorati al territorio regionale. Soprattutto non servono artisti: gli artisti facciano gli artisti».

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Con Roberto Occhiuto alla Cittadella non è cambiato niente?

    «È un po’ presto per valutare l’operato della nuova Giunta. Certamente la cultura non è stata tra le priorità di questi primi mesi. Adesso però è urgente darsi una mossa. Ma sono certo che il presidente Occhiuto abbia la giusta sensibilità per affrontare e migliorare la situazione, del resto da consigliere regionale nel 2004 ha redatto e firmato la prima Legge regionale sul Teatro».

    Ma ci saranno anche delle lacune dall’altro lato, quello di chi “produce” arte, no?

    «La lacuna più grave è l’incapacità di produrre un’offerta artistica plurale e di alta qualità. A guardare i principali cartelloni è evidente un’omologazione su un tipo di offerta mainstream, commerciale, di puro intrattenimento. Offerta assolutamente legittima per la quale, al limite, si può discutere della reale necessità di sostegno con soldi pubblici. Ma è possibile che i calabresi restino esclusi da quanto accade nel panorama artistico contemporaneo nazionale e internazionale? In Europa il paesaggio artistico è in continua evoluzione, è in atto un ricambio generazionale che sta portando innovazione nei linguaggi, nei contenuti, nelle estetiche».

    Mentre qui a che punto siamo?

    «Beh… mi chiedo con quale orizzonte artistico, culturale, estetico stiamo crescendo i nostri figli. Gli stiamo offrendo le stesse possibilità di visione, di formazione del gusto, di riflessione sulle nuove forme d’arte e di cittadinanza, di partecipazione al dibattito culturale che hanno i loro coetanei italiani ed europei? La risposta è no. E non è semplicemente responsabilità di cattive politiche pubbliche, che pure sono determinanti. Il punto è la qualità di un’offerta che, nella maggioranza dei casi, è fortemente provinciale e sempre uguale a sé stessa. È un problema, ancora, di profili professionali non adeguati a produrre un rinnovamento nella proposta artistica. È un problema di mancato confronto col resto del mondo, di mancata conoscenza di quanto accade oltre i confini regionali nelle arti contemporanee. Vero, ci sono le eccezioni: esistono alcune realtà che spingono in direzioni nuove, ma sono poche e limitate a contesti dai quali fanno molta fatica ad uscire per raggiungere un pubblico più ampio».

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    Il TAU, Teatro auditorium dell’Unical

    Come si può sprovincializzare la cultura in Calabria?

    «Confronto, confronto e ancora confronto con quello che succede fuori da casa nostra. Visione, conoscenza, ibridazione: per i cittadini e per gli artisti. Per questi ultimi anche di più: gli artisti sono i primi a chiudersi nel loro studio o nel loro teatro e a ignorare quanto accade fuori. E questo è un problema serio per la Calabria, dove quasi tutti gli operatori del settore si definiscono artisti. Dal punto di vista politico, poi, è necessario rafforzare le poche esperienze che stanno dimostrando di aprirsi all’esterno e al nuovo, accompagnarle verso una crescita che le affranchi dalla condizione di isolamento e subalternità».

    Il rapporto tra politica e cultura, in Calabria, sembra ancora passare per altre dinamiche…

    «È necessaria un’inversione del paradigma secondo il quale la proposta “istituzionale” è quella mainstream, mentre il resto è sperimentazione per pochi eletti. La prima, pur legittima e gradevole, è tuttavia il passato, è un orizzonte limitato che ci impedisce di guardare oltre. “Il resto” è il presente e il futuro, è la strada per riavvicinarci al resto d’Italia e d’Europa, per contribuire alla crescita di una generazione di cittadini più consapevoli e critici in grado di desiderare, immaginare e infine costruire un futuro diverso. È necessaria una rottura, un ribaltamento di prospettiva, un cambio di passo deciso e improvviso. La comunità artistica calabrese deve farsene carico».

  • Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il rischio che si faccia un enorme buco nell’acqua è direttamente proporzionale alla banalità della battuta. La questione è però molto seria: se le risorse idriche calabresi entro il prossimo 30 giugno non verranno affidate a un soggetto gestore c’è la contreta possibilità che non solo la Regione Calabria, ma anche tutte le altre Regioni italiane, perdano l’opportunità di utilizzare i finanziamenti europei destinati al settore: dal Pnrr ai fondi Ue 2021/2027 fino alla riprogrammazione del React Eu. Un potenziale disastro.

    Quattro regioni mancano all’appello

    Per la fine di giugno è infatti fissata la deadline per l’affidamento a regime del Servizio idrico integrato e, a livello nazionale, l’Italia deve garantire alcune «condizioni abilitanti». Che mancano, o sono solo parzialmente soddisfatte, per 4 Regioni: Molise, Campania, Sicilia e, appunto, Calabria. Le condizioni abilitanti sono i pre-requisiti che gli Stati membri devono soddisfare per poter fruire dei fondi europei. Il dipartimento per le Politiche di coesione della Presidenza del Consiglio dei ministri specifica che «affinché la singola condizione possa ritenersi soddisfatta, è necessario che l’adempimento copra la totalità dei criteri previsti e, per alcune condizioni abilitanti, la copertura dell’intero territorio».

    Conseguenze per tutti

    È proprio il caso del Servizio idrico. «Eventuali carenze, anche parziali in ordine a specifici criteri o ambiti regionali, non permetterebbero di asseverare la condizione come soddisfatta, con conseguenze penalizzanti per l’intero Stato membro». Dunque le spese collegate all’obiettivo specifico, benché certificabili, non potrebbero essere rimborsate allo Stato membro «per quanto riguarda la quota Ue, finché l’adempimento non sia certificato dalla Commissione». La Calabria sconta un pesante ritardo verso l’individuazione del soggetto gestore unico previsto dalla normativa nazionale (D.lgs. 152/2006) e regionale (l. r. 18 del 18 maggio 2017).

    In attesa del servizio idrico integrato

    L’affidamento della gestione del servizio idrico integrato, che è una condizione abilitante per usufruire dei finanziamenti europei, spetta per legge all’ente di governo d’ambito, ovvero l’Autorità idrica calabrese in cui sono rappresentati i Comuni. L’Aic nei mesi scorsi ha indicato una strada: l’affidamento a una società, creata sulle ceneri della “Cosenza Acque”, che si dovrebbe chiamare “Acque Pubbliche della Calabria”, un’Azienda speciale consortile in cui dovrebbero entrare, come soci, tutti i 404 Comuni calabresi ed eventualmente altri enti pubblici.

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    Assemblea dell’Autorità idrica calabrese con i sindaci

    Sorical fino al 2034?

    Sorical ha la concessione della grande adduzione dell’acqua fino al 2034. È una partecipata al 53,5% dalla stessa Regione e per la restante quota è in mano privata. Nel tentativo – in corso da quasi un anno e a un decennio dalla messa in liquidazione – di essere ripubblicizzata, si ritrova alle prese con le condizioni poste dal suo principale creditore. Si tratta di una banca irlandese di cui abbiamo scritto che ha ceduto i suoi circa 85 milioni di euro di crediti a un Fondo governativo tedesco.

    Che, stando a quanto riportato dalla Gazzetta del Sud domenica scorsa, pare si stia mettendo di traverso. Dunque, da un lato, se non si supera questa impasse non si può affidare l’intero servizio a Sorical. Ma anche la soluzione, pur indicata come provvisoria, di affidare solo la fornitura al dettaglio alla nuova “Acque Pubbliche della Calabria”, lasciando l’ingrosso alla società mista le cui quote private sono pignorate dai tedeschi, sembra essere altrettanto irta di ostacoli.

    La diga del Menta, gestita dalla Sorical, società partecipata della Regione Calabria

    Chi metterà i soldi?

    L’Aic sta sottoponendo ai Comuni, illustrandole negli incontri delle Conferenze territoriali di zona, le delibere da approvare in consiglio comunale per entrare nella nuova società. Ben pochi però finora lo hanno fatto. Si sta tentando pure la strada dei Contratti di rete, ma i comprensibili dubbi dei sindaci, soprattutto relativi al «chi ci metterà i soldi», si moltiplicano. Così il cronoprogramma iniziale, che prevedeva di arrivare ad avere un Piano industriale entro metà febbraio, e all’affidamento definitivo del servizio il 18 marzo, è già ampiamente non rispettato.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    La multiutility di Occhiuto

    In mezzo c’è la Regione che, secondo quanto va ripetendo da tempo il presidente Roberto Occhiuto, punta a creare un’unica «multiutility» per gestire tutto: la fornitura dell’acqua dalla captazione fino ai rubinetti delle case, ma anche la depurazione e la riscossione delle bollette. Il tempo però stringe e in pochi mesi è difficile creare un simile soggetto. Le alternative sono due: rendere Sorical pubblica, ma bisogna pagare almeno 85 milioni di euro di debiti e potrebbe anche non bastare. La seconda possibilità è rendere operativa la “Acque pubbliche della Calabria”. Ma servirebbero risorse e personale che al momento non esistono.

    Tra Manna e Calabretta spunta Occhiuto

    Entrandoci, infatti, i Comuni dovrebbero versare 1 euro per ogni abitante nell’arco di tre anni. Poca cosa. I vertici dell’Aic stanno dunque cercando di interloquire con Utilitalia (Federazione che riunisce le Aziende operanti nei servizi pubblici rappresentandole presso le Istituzioni nazionali ed europee) per la redazione del Piano industriale. C’è poi il tentativo di trovare un sostegno economico da parte del Ministero, ma senza l’appoggio politico-istituzionale della Regione è dura.

    Sì, perché dalla Cittadella – che potrebbe anche entrare in “Acque pubbliche” come socio – non pare sia arrivato al momento alcun segnale di accompagnamento a questo percorso, che pure lo stesso Occhiuto aveva detto di voler intraprendere in via provvisoria per non perdere i fondi del Pnrr. È chiaro, allora, che tutto è subordinato a una partita politica: da un lato c’è l’Aic guidata dal sindaco di Rende e presidente di Anci Calabria Marcello Manna, dall’altro Sorical guidata dal leghista Cataldo Calabretta, in mezzo Occhiuto. Che vorrà certamente avere un ruolo di primo piano anche in un settore decisivo come questo.

    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    I Comuni nella Sorical

    Intanto va detto che la via che porterebbe all’affidamento del servizio a una Sorical interamente pubblica non potrebbe essere percorsa se non mettendo dentro anche i Comuni, perché senza di loro non si può esercitare il controllo analogo previsto dalla gestione in house. Gli stessi Comuni, rispetto alla società “Acque pubbliche della Calabria”, sono d’altronde alle prese con una scelta che appare forzata, perché la legge 233/21 prevede, sostanzialmente, la possibilità dell’ente d’ambito di commissariare le gestioni in economia. Che in Calabria sono attualmente la quasi totalità, con i risultati che conosciamo.

    Chiare, fresche e dolci Acque pubbliche

    Se diventasse operativa la “Acque pubbliche”, che avrebbe sede legale a Cosenza, si instaurerebbe un rapporto di tipo negoziale con Sorical che, come avviene anche oggi, avrebbe competenza fino ai serbatoi comunali. Gli organi della nuova società sarebbero l’Assemblea composta da tutti i Comuni e gli enti pubblici coinvolti, il Consiglio di Amministrazione (composto da quindici membri, compreso il presidente, in rappresentanza delle cinque Province e delle diverse fasce di popolazione), il direttore (che, come il Cda, verrebbe nominato dall’Assemblea) e il collegio dei revisori dei conti.

    I crediti della Sorical

    I problemi storici però resterebbero immutati nella loro gravità. Sorical, nel bilancio 2020, ha inserito alla voce «crediti verso clienti» una somma di 96,5 milioni di euro (31 sarebbero dovuti dalla fallita Soakro, 14 dalla Lamezia Multiservizi, 13,9 dal Comune di Cosenza, 3,3 da Congesi). Nel bilancio di previsione approvato a fine anno dalla Regione, per rischi connessi alla riscossione delle somme relative al servizio idropotabile, vantati nei confronti dei Comuni in dissesto e predissesto e degli enti che non hanno sottoscritto piani di rateizzazione o accordi con la Regione, sono stati previsti 69,7 milioni di euro. I debiti maturati dai Comuni verso la Regione fino al 2004, anno in cui è stata creata Sorical, restano tra le «criticità rilevanti ancora irrisolte».

    Cataldo Calabretta, commissario della Sorical

    L’evasione dei comuni

    Secondo quanto dichiarato negli anni scorsi dagli stessi vertici Sorical, il servizio idrico calabrese registrerebbe un’evasione del 50%, con punte del 70%. A novembre del 2020 l’attuale commissario Calabretta dichiarava che i Comuni dovevano versare ancora 160 milioni di euro «con i quali si potrebbero coprire i debiti della società», che oggi ammontano in totale a 188 milioni. D’altro canto negli anni molti Comuni hanno contestato la determinazione delle tariffe, questione rispolverata in questi giorni anche dal Codacons calabrese.

    Perdite idriche pari al 52,3 %

    Qualche altro dato può essere utile a comprendere la complessità del problema. Le regioni del Mezzogiorno fanno registrare il 52,3% di perdite idriche: più di metà dell’acqua immessa nei sistemi di acquedotto viene cioè sprecata, a fronte di una media nazionale del 43,7% (Relazione annuale Arera 2020). Circa 1 milione e 450mila famiglie meridionali subiscono interruzioni della fornitura idrica (Istat, 2020). Il 20% del territorio italiano è a rischio desertificazione (Anbi, 2021).

    La Calabria senza servizio idrico integrato

    Secondo il governo nazionale la soluzione sta nelle gestioni industriali, che al Sud scarseggiano. Nel Pnrr sono individuate quattro linee di investimento e due riforme che hanno lo scopo di «garantire la sicurezza dell’approvvigionamento e la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo».

    A questo sono riservate complessivamente risorse per 4,38 miliardi di euro, di cui una quota intorno al 51% secondo il governo sarà indirizzata al Mezzogiorno (circa 2,2 miliardi di euro). Ma la Calabria non ha ancora il servizio idrico integrato né un soggetto gestore che possa intercettare e, come si usa dire molto in questo periodo, mettere a terra questi potenziali finanziamenti. Nonostante si tratti probabilmente dell’unica occasione per mettere mano a reti colabrodo risalenti a mezzo secolo fa.

  • Cono Cantelmi, l’ex leader anticasta M5S portaborse da 150mila euro

    Cono Cantelmi, l’ex leader anticasta M5S portaborse da 150mila euro

    Se la Regione Calabria avesse un suo dizionario politico-antropologico lo si dovrebbe aggiornare, alla voce staff, con continui, sorprendenti innesti: l’ultimo è quello di Cono Cantelmi. Ovviamente non c’è da scandalizzarsi né da farne una questione morale, tanto più che tra i vituperati portaborse spesso – non sempre – ci sono bravi professionisti che non difettano di curriculum e competenze. Probabilmente sarà così anche in questo caso. Ma come si fa a non registrare che la traiettoria di certi percorsi appare, per così dire, quantomeno poco lineare? Cambiare idea è sinonimo di intelligenza, ma forse Cono Cantelmi ha in questo senso un po’ esagerato. Da candidato alla Presidenza della Regione del Movimento 5 Stelle, oggi si ritrova a fare da braccio destro a un esponente di primo piano della Lega.

    Cono Cantelmi, da aspirante governatore a portaborse

    Va detto che tra una circostanza e l’altra sono passati 8 anni. E lui, qualche tempo dopo l’esperienza fallimentare delle Regionali del 2014, si è allontanato dal mondo calabro-grillino. Però va detto pure che il suo era ancora il Movimento dei duri e puri, che mai avrebbero pensato che il loro leader calabrese potesse un giorno diventare il collaboratore esperto al 100% del presidente leghista del Consiglio regionale Filippo Mancuso. Invece nei giorni scorsi il salviniano più influente di Calabria ha indicato proprio Cantelmi per l’incarico di fiducia, che prevede un compenso di oltre 30mila euro all’anno.

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    Filippo Mancuso

    Parola d’ordine: lotta agli sprechi

    Avvocato di Catanzaro, Cantelmi nel novembre 2014 spiegava sul Blog delle Stelle che il primo punto del suo programma per la Calabria era ciò che sarebbe poi diventato una realtà su scala nazionale: il Reddito di cittadinanza. «I soldi – gli chiedeva un anonimo intervistatore – dove li prendete?». Risposta facile: «Attingeremo dal fondo di riserva per i debiti fuori bilancio, ma soprattutto faremo una guerra senza quartiere contro gli sprechi della casta in Regione: e lì i soldi ci sono eccome!».

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    Cantelmi sul palco e Nicola Morra al suo fianco

    Parole scolpite sulla roccia del sacro Blog. Altra domanda: «Da dove comincerà la lotta agli sprechi?». Ancora più facile: «Dai vitalizi dei consiglieri regionali. Ho chiesto agli altri candidati presidenti di sottoscrivere un impegno etico per ridursi lo stipendio a 2.500 euro e restituire i rimborsi elettorali, ma fanno finta di non sentire».

    Meno voti che click

    Con gli anni la furia anticasta si deve essere un po’ placata, ma Cantelmi non sembra aver dimenticato del tutto le sue posizioni di allora. Sul suo profilo Facebook compare infatti qualche post che richiama il grillismo delle origini. Come quello del 20 settembre 2021 con cui – cinque stelline gialle ad aprire e chiudere la frase – ha ricordato che «l’ambiente e la sua cura» sono sempre stati una sua «passione» ed un «impegno» anche durante le sue «precedenti militanze politiche».

    Un manifesto elettorale di Cono Cantelmi per le Comunali 2021 a Borgia

    In quei giorni stava di nuovo prendendo parte a una campagna elettorale, quella per le Comunali di Borgia. Candidato a consigliere a sostegno della riconfermata Elisabeth Sacco, Cantelmi ha preso 135 voti – per essere candidato alla Presidenza della Regione gli erano bastati 183 clic – e non è riuscito a entrare in consiglio comunale. Nel Comune del Catanzarese si è votato proprio il 3-4 ottobre scorso, stessi giorni in cui Mancuso prendeva sotto il vessillo della Lega i quasi 7mila voti che lo avrebbero proiettato sulla poltrona più alta del consiglio regionale. Mentre lui trionfava, il suo futuro collaboratore, già aspirante governatore 5 stelle, era candidato in una lista guidata da un’esponente del Pd: Elisabeth Sacco è componente dell’Assemblea regionale dem.

  • Nicola Longo, il Serpico calabrese che stregò Fellini

    Nicola Longo, il Serpico calabrese che stregò Fellini

    In meno di un’ora di conversazione Nicola Longo riesce a raccontare una serie di aneddoti che una sola sceneggiatura poliziesca non basterebbe a contenere. Può menzionare uno per uno i mammasantissima calabresi che ha arrestato a Roma, parlare dei traffici di cocaina in cui si è infiltrato tra night e salotti della Capitale, ricordare come ha sgominato i laboratori dei marsigliesi che fornivano eroina a mezzo mondo, oppure ridere della somiglianza che Gerard Depardieu sosteneva di avere con lui perché voleva interpretare il film sulla sua vita.

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    Nicola Longo con Federico Fellini e la sua immancabile sciarpa rossa

    Il film mancato di Fellini sul Serpico calabrese

    In realtà lui pensava di avere più tratti in comune con Sylvester Stallone e sognava di essere impersonato da Robert De Niro, ma Federico Fellini, che pure ci credeva, non è mai riuscito a girare quel film. Su indicazione di Tonino Guerra – poeta, scrittore e sceneggiatore che ne ha parlato anche a Tg2 Storie – il regista aveva letto la prima bozza dell’autobiografia di Longo, La valle delle farfalle: gli era talmente piaciuta da fargli firmare subito un contratto. Il progetto per portare al cinema la vita leggendaria di quel poliziotto di origini calabresi, definito da Fellini «un poeta con la pistola», non è però mai andato in porto. Adesso quel libro è stato pubblicato da Rubbettino con il titolo di “Macaone” e una postfazione di Vincenzo Mollica.

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    Nicola Longo con lo scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra

    Il poliziotto infiltrato per conto dei servizi segreti

    Le cronache della Roma nera degli anni ’70 e ’80 riportano spesso le imprese spericolate del «Serpico italiano». Lavora ufficialmente per la Narcotici, ma ancora prima di iniziare a fare il poliziotto viene contattato dai Servizi segreti. Dopo anni da undercover, infiltrato prima tra gli hippie di Piazza di Spagna e poi tra i trafficanti della Roma bene, finisce per collaborare a più operazioni di portata internazionale con la Dea. Mettendo le manette a boss della ‘ndrangheta e di Cosa nostra, oltre che a leggende del crimine come “Renatino” De Pedis (uno dei capi della banda della Magliana) e il boss corso-marsigliese Jack Masia.

    Da bullizzato a lottatore

    La sua avventurosa vita inizia nella Piana di Gioia Tauro degli anni ‘50, tra Taurianova e Polistena. Il padre, sottufficiale dei carabinieri, arresta qualche parente di alcuni suoi compagni di scuola che, per questo, lo bullizzano in ogni modo. O almeno ci provano, perché lui reagisce scoprendo che i suoi pugni fanno parecchio male. Ne nasce la passione per la boxe – ma in seguito diventa anche una promessa olimpica della lotta libera – che lo porta, nel 1962, ai Campionati italiani novizi di pugilato. È tra i finalisti dei welter leggeri e si scontra con un certo Casamonica, membro di una famiglia di nomadi stanziali nel Lazio di cui, anni dopo, avrebbe arrestato un parente che aveva importato dal Pakistan un carico di eroina nascosto dentro un blocco di marmo.

    Nicola Longo voleva diventare un boxeur

    «Volevo fare pugilato, non la guerra»

    A 17 anni entra nelle “Fiamme Oro”, i gruppi sportivi della Polizia, ma quando lo convocano per il ritiro della nazionale di pugilato deve fare una scelta. È stato infatti ammesso alla Scuola Allievi Sottufficiali e una strada esclude l’altra: o lo sport o la divisa. «Amavo la boxe – racconta a I Calabresi – e prima di entrare in Polizia avevo fatto un corso speciale nell’Esercito per incursori arditi. Mi dicevano che avrei fatto sicuramente una bella carriera militare, ma io volevo fare il pugilato, non la guerra». Si rivela decisivo un colloquio con il professor Franco Ferracuti, psichiatra e criminologo del Sisde. «Mi convocò nel suo ufficio ancora prima che prendessi servizio alla Mobile. E mi disse: “Il tuo destino è qua, nei Servizi”. Negli anni è diventato il mio mentore. Anzi, la mia ombra».

    Il mio nome è Massimo Macaone

    All’inizio degli anni ’70 comincia il lavoro di infiltrato per la Narcotici. Come prima cosa gli dicono di scegliere un nome falso e lui opta per Massimo Macaone, un omaggio a un esemplare di farfalla che lo riporta alle sue radici, ai pomeriggi assolati della Calabria, e che richiama un eroe omerico. «Con i capelli lunghi, una camicia aperta sui jeans sdruciti, scarpe logore e al collo un laccio di cuoio con appeso un dente di pescecane, mi confondevo con i giovani hippie di piazza di Spagna. Sulla scalinata di Trinità dei Monti avevo sistemato un cavalletto sul quale dipingevo miniature di paesaggi che vendevo ai turisti».

    Quando fece scappare un ragazzo di Rosarno

    Come gli è già capitato nelle guerriglie urbane con studenti e operai «che non percepivo come nemici», anche nei tossicodipendenti non vede avversari da sconfiggere «ma vittime da salvare». Scopre proprio a Piazza di Spagna quanto sia difficile fare amicizia con persone che poi potrebbe far arrestare. E gli capita anche di far scappare, di proposito, un conterraneo di Rosarno che sarebbe poi diventato una presenza costante della sua vita. Si fa chiamare Schizzo e della sua vicenda personale, narrata nel libro con la tenerezza del ricordo, si sarebbe innamorato anche Fellini.

    Nobile siciliano e narcos capitolino

    In un altro incarico da undercover assume l’identità di un nobile siciliano, Nicola Paternò, proveniente dalla Colombia e arrestato in Germania con una grossa partita di cocaina da piazzare a Roma, probabilmente nei locali notturni. L’arresto non viene reso noto, così lui si può spacciare per il barone siculo infiltrandosi nel giro dei night. Per completare la trasformazione, da fricchettone a nobile playboy con la Mercedes messa a disposizione dal Ministero, si sarebbe reso necessario un passaggio dal barbiere. Ma anche un corso di galateo con madame Annie, nobile di origini austriache a cui qualche tempo prima avevano rubato i gioielli di famiglia. Che proprio lui aveva recuperato «arrestando due tossici mentre tentavano di rivenderli».

    La sparatoria e l’arresto di Vallanzasca

    Ha condotto sotto copertura diverse operazioni contro il riciclaggio di denaro sporco e il traffico internazionale di armi. È stato pure protagonista dell’azione che dopo una sparatoria per le strade di Trastevere ha portato all’arresto di Renato Vallanzasca e della sua banda. Nel 1978 è rimasto gravemente ferito, per la seconda volta, in un conflitto a fuoco. Durante la convalescenza scrive un racconto destinato alle scuole per la prevenzione della tossicodipendenza. È il suo esordio con la scrittura. E quando Guerra lo legge non può che incoraggiarlo a continuare.

    Il Serpico calabrese Nicola Longo con il maestro Federico Fellini

    Stregato da Fellini

    C’è un bel po’ di Calabria in “Macaone”, dall’infanzia nella Piana alla violenza delle faide, con le parole del padre che gli tornano spesso in mente: «Uno ’ndranghetista vale quanto una penna lasciata al vento o quanto l’oro di tutta Francia». Nel Cinema Italia di Polistena, dove aveva visto “La Strada”, è nata la sua passione per quel mondo. Di nascosto era riuscito a portarsi a casa delle lastre e aveva messo in piedi, con una scatola bucata e una pila elettrica, delle proiezioni casalinghe su cui ricamava storie inventate. «Quando lo raccontai a Fellini – confida – disse che ce l’avevo nel sangue e che avrebbe voluto insegnarmi a fare il regista».

    Il regista si fa portare da lui in moto in giro per Roma, spesso di notte, a scegliere i luoghi che avrebbero dovuto essere il set de La valle delle farfalle. Poi però tutto naufraga a causa di alcune divergenze tra Fellini e il produttore, ma si parla anche di pressioni arrivate dai vertici nazionali della Polizia. «Lui non ha mai smesso di pensarci – spiega Longo, e la lettera inviatagli dal regista nel luglio del 1989 lo conferma – e penso volesse fare qualcosa che richiamasse il neorealismo. Giulietta Masina, dopo la sua morte, mi confermò che ai piani alti del Viminale non volevano che il film si facesse, dicevano che era per non mettermi a rischio… mah».

    La lettera inviata da Federico Fellini a Nicola Longo

    Da poliziotto a scrittore

    Di certo il pericolo, dopo una vita di adrenalina e storie folli che oltre al fiato sospeso custodiscono anche una certa sensibilità, non sarebbe stato una novità per Longo. Come non lo è l’ennesima trasformazione, la sua seconda vita: da poliziotto a scrittore. «La Polizia è come il resto del mondo, al suo interno c’è il bene e c’è il male. Ma io ora mi sento uno scrittore, è questa la mia nuova strada». Così, prima di salutare il cronista «paesano» con altri episodi degni dei polizieschi di Enzo G. Castellari o di quelli con Tomas Milian che lui stesso ha ispirato, spiega che sta già lavorando al seguito di “Macaone”. Le storie non gli mancano. E sa anche come raccontarle.

    Nicola Longo ha ispirato persino Tomas Milian (a destra)
  • Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    In un’Italia schiacciata dal caro bollette, e tempestata dallo storytelling sulla transizione ecologica fattasi persino Ministero, è normale che le fonti rinnovabili siano sulla bocca di tutti. E siccome siamo pur sempre il Paese dei Guelfi e dei Ghibellini, nel dibattito si contrappone chi pensa che per non rischiare di fare danni all’ambiente o dare soldi alle mafie non si debba toccare nulla, a chi è convinto che dare in pasto ampie porzioni di territorio alle multinazionali dell’energia serva a evitare i rincari su gas e luce.

    I numeri delle rinnovabili

    Come abbiamo già fatto raccontando cosa stia succedendo attorno all’eolico (in mare e in terra) tra il Golfo di Squillace e i boschi del Vibonese, anche stavolta proviamo a partire dai numeri, che non sono soggetti ad interpretazioni. Le normative comunitarie e nazionali dicono che si dovrà dismettere l’uso del carbone per generare energia elettrica entro tre anni. Nel 2030 il 72% dell’elettricità dovrà arrivare dalle rinnovabili, mentre nel 2050 dovremmo essere prossimi al 95-100%.

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    Impianto fotovoltaico in aperta campagna

    Come ci si deve arrivare? Soprattutto con il fotovoltaico: a fine 2020 abbiamo 21,4 GW prodotti da fonte solare, ma secondo stime forse troppo ottimistiche si potrebbe arrivare anche ai 2-300 GW. Governo e Ue lasciano comunque aperta la porta delle importazioni e dei possibili sviluppi tecnologici di fonti finora poco adoperate come, appunto, l’eolico offshore. Per raggiungere gli obiettivi fissati al 2030 si stima che si debba arrivare a circa 70-75 GW di rinnovabili, ma a fine 2019 eravamo a 55,5 GW.

    Questi sono i dati nazionali, guardando alla Calabria invece va ricordato che produciamo oggi un enorme surplus di energia elettrica (+180%), ma siamo tra quelli che consumano più gas naturale (oltre 2,2 milioni di metri cubi nel 2020) per alimentare le centrali termoelettriche tradizionali. E rispetto al gas i rincari in bolletta c’entrano eccome. In questa situazione, con i miliardi del Pnrr a disposizione, l’impulso politico e la conseguente programmazione sarebbero come il motore e lo sterzo di un’enorme automobile che però rischia di restare a secco di benzina, cioè di fondi spendibili, per carenze tecniche e progettuali.

    Il Piano energetico calabrese risale al 2005

    Il principale strumento attraverso cui le Regioni, dagli anni della liberalizzazione del mercato energetico e della riforma del Titolo V, programmano e indirizzano gli interventi in questo settore è il Piano energetico regionale (Per), che essendo ormai indissolubilmente legato a funzioni e obiettivi di carattere ambientale negli anni è diventato Pear (Piano energetico ambientale regionale). È il Pear, dunque, che deve contenere tutte le misure relative al sistema di offerta e di domanda dell’energia sul territorio. Ma in Calabria questo strumento fondamentale non è proprio aggiornatissimo: il Pear attualmente in vigore è stato approvato dal consiglio regionale il 4 marzo del 2005.

    L’Ultimo assessore all’Ambiente

    Proprio così: mentre Guelfi e Ghibellini dell’energia duellano via social, la Calabria dell’era Covid-Pnrr è orfana di un assessore all’Ambiente – la delega è rimasta in capo a un già impegnatissimo Roberto Occhiuto – e il principale strumento di programmazione energetica è fermo a 17 anni fa, cioè a quando la Regione era guidata da Giuseppe Chiaravalloti. In verità nel 2009 sono state licenziate dalla giunta regionale dell’epoca delle linee guida per l’aggiornamento, ma «alla luce dei nuovi orientamenti comunitari in materia, dell’evoluzione del quadro normativo e dei nuovi strumenti di programmazione adottati nel corso degli ultimi anni, risultano ormai superate».

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    Il Capitano Ultimo, assessore all’Ambiente nella giunta regionale guidata da Jole Santelli

    A metterlo nero su bianco è la stessa Regione Calabria che, nell’agosto del 2020, sotto la guida di Jole Santelli e su proposta del “Capitano Ultimo”, ha dato impulso agli uffici (Dipartimento Attività produttive, Settore Politiche energetiche) per la «costituzione di un “Tavolo tecnico per l’aggiornamento del Piano energetico ambientale regionale”» che predisponga le nuove linee guida da sottoporre all’approvazione della Giunta. Quali risultati ha prodotto tutto ciò a quasi 20 mesi dalla delibera del precedente governo regionale? Nessuno.

    In attesa di Enea

    Come atti ufficiali siamo insomma ancora fermi al 2005, anche se, stando a quanto è stato possibile apprendere in via ufficiosa dagli uffici della Cittadella, nel 2018 è stato stilato un documento sulla situazione energetica regionale nell’ambito del programma europeo “Horizon” che, forse, potrebbe costituire una base abbastanza aggiornata da cui partire per redigere un nuovo Pear. Quasi sempre a fare da consulente alle Regioni per questi scopi è Enea, e proprio all’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – i cui esperti avevano lavorato anche al vecchio Piano – la Cittadella si è rivolta di recente per avere una sorta di preventivo e capire quanto possa costare la consulenza scientifica per elaborare delle nuove linee guida partendo dal documento del 2018.

    Cosa hanno fatto in Emilia e Campania?

    Poi, eventualmente, si dovrà passare anche attraverso il confronto con tutti i soggetti istituzionali e sociali interessati. Giusto per avere qualche termine di paragone, la Regione Emilia-Romagna ha in vigore il Per adottato nel 2017 che fissa la strategia e gli obiettivi per clima ed energia fino al 2030 e si realizza attraverso un Piano triennale di attuazione (Pta). Questo strumento è stato aggiornato nel 2020 ed è stato già avviato il percorso partecipato che porterà al Pta 2022-2024. Scendendo più a Sud, il Piano energetico ambientale della Regione Campania è stato approvato nel luglio del 2020.

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    L’Università della Calabria

    Unical e Comuni per abbattere i costi delle bollette

    Intanto noi restiamo impantanati nei buoni propositi e nelle dispute ideologiche che finiscono per dividere anche il fronte ambientalista tra intransigenti e possibilisti. La politica ovviamente non è da meno in quanto a verbosità e divisioni, con l’aggravante che certe posizioni sono evidentemente dettate dalla ricerca di facili consensi più che dal merito di un tema di vitale importanza, oggi e nell’immediato futuro, per ognuno di noi.
    L’Università della Calabria (Dipartimento di Ingegneria Meccanica Energetica e Gestionale) in collaborazione con sedici Comuni Calabresi (Aprigliano, Belmonte, Carlopoli, Cerzeto, Cervicati, Crotone, Francica, Galatro, Morano Calabro, Mongrassano, San Marco Argentano, Parenti , Platì, Panettieri, San Fili, Tiriolo) , ha cominciato a lavorare, con un incontro avvenuto nei giorni scorsi, alla costruzione delle prime Comunità di energia rinnovabile (Cer) con lo scopo di andare «oltre l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno energetico delle comunità locali, abbattendo drasticamente i costi per cittadini le imprese e gli enti locali».

    Eppur qualcosa si muove

    Lunedì 21 febbraio sullo stesso tema è previsto un ulteriore incontro in Regione a cui parteciperà il presidente Roberto Occhiuto, la sottosegretaria al MiTE Ilaria Fontana, il deputato Giuseppe d’Ippolito (Commissione Ambiente) e il docente Unical Daniele Menniti. Qualcosa – complice la tempistica del Pnrr – dunque si muove. La potenziale collaborazione tra governo, Regione, Comuni e università potrebbe rappresentare un’occasione irripetibile per costruire una nuova solidarietà energetica tra le comunità locali e superare l’approccio passivo dei cittadini-consumatori.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Quanto questa impostazione improntata alla cooperazione dal basso possa essere conciliabile con il business dei colossi dell’energia, che hanno evidentemente il profitto come obiettivo ultimo, non è difficile intuirlo. Per evitare commistioni di interessi, che sotto l’ombrello della transizione energetica magari nascondono nuovi tentativi di sfruttamento dei beni comuni, servirebbero dunque, innanzitutto, una chiara volontà politica e degli strumenti pubblici adeguati di programmazione e regolamentazione del settore. Proprio ciò che, almeno finora, in Calabria manca.

  • Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Fausto Gullo, a buon diritto annoverato tra i compianti “politici-di-una-volta”, nel 1944 era tra i sostenitori della svolta di Salerno. Aveva aderito alla linea del suo leader, Palmiro Togliatti, ed era poi entrato nel secondo governo Badoglio come ministro dell’Agricoltura, carica mantenuta anche nei successivi. Con il De Gasperi II, cioè il primo governo repubblicano, il comunista Gullo è invece passato al Ministero di Grazia e Giustizia. La Dc aveva spinto affinché lasciasse il posto ad Antonio Segni, futuro capo dello Stato su cui, in quel frangente, i conservatori puntavano per frenare l’approccio che il cosentino (ma nato a Catanzaro) passato alla storia come “il ministro dei contadini” aveva impresso al settore agrario.

    Sergio Rizzo e lo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra l’esordio di Gullo nel governo di unità nazionale e la sua nomina a Guardasigilli sono passati appena due anni. Ma, si sa, a precedere l’alba della Repubblica era stata una notte lunga e tempestosa. Che aveva reso quei tempi forieri di straordinarie mutazioni istituzionali e politiche. È in questa fase che un interessante libro appena uscito colloca una vicenda cruciale nella storia della magistratura italiana: il caso Pilotti, assurto a simbolo dell’eterno dibattito sull’indipendenza del potere giudiziario da quello politico.

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    Il giornalista Sergio Rizzo

    Il libro si chiama Potere assoluto – I cento magistrati che comandano in Italia (Solferino) ed è l’ultima fatica di Sergio Rizzo, già firma del Corriere della Sera, oggi vicedirettore di Repubblica e autore di bestseller come La casta, scritto con Gian Antonio Stella nel 2007. Il caso in questione, illuminante rispetto alle odierne questioni che (referendum e anniversari di Tangentopoli compresi) investono il sistema Giustizia, riguarda la carriera di Massimo Pilotti, uno che era già magistrato a 22 anni (nel 1901) e che nel 1933 ottiene la nomina a segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni.

    Pilotti l’epuratore

    Un giurista di fama internazionale, insomma, che dopo l’invasione della Jugoslavia fu anche presidente della Corte suprema di Lubiana. E una volta rientrato in Italia diventa procuratore generale della Cassazione (1944). Il governo Bonomi lo mise pure a presiedere le commissioni di epurazione del ministero degli Esteri, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dell’Avvocatura dello Stato. Incarico, quest’ultimo, da cui si dimise dopo che la stampa lo accusò di aver tramato con i funzionari sottoposti a epurazione per ridimensionare le accuse a loro carico. Il governo Parri lo confermò, nonostante la contrarietà di Togliatti (all’epoca ministro della Giustizia), negli altri ruoli.

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    Ritratto di Massimo Pilotti (dal sito della Procura generale di Cassazione)

    Schiaffo alla Repubblica

    Il vero scandalo però viene fuori quando il Guardasigilli è Gullo. È in corso l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1947, sono trascorsi appena 6 mesi dal referendum del 2 giugno. In platea per l’occasione siede il primo presidente della neonata Repubblica, Enrico De Nicola. «Il procuratore generale della Cassazione – ricostruisce Rizzo – prende la parola, e nel discorso che apre l’anno giudiziario non gli rivolge il saluto istituzionale. Fatto che già sarebbe grave. Ma Pilotti ignora perfino la nascita della Repubblica». Gravissimo. Si dice che Pilotti sia monarchico, una sorta di Quinta colonna dei fedeli al re nella magistratura, che avrebbe anche spinto sul riconteggio dei voti – in quei giorni non mancano gli scontri di piazza – per mettersi di traverso rispetto alla proclamazione della Repubblica.

    Un Gullo diverso

    Il nuovo ministro ha bene in mente il giudizio sprezzante del suo predecessore nei confronti di Pilotti, che Togliatti definì l’uomo «di fiducia del Governo fascista al momento della conquista dell’Etiopia». Così lo sgarbo a De Nicola diventa un’occasione per fare le scarpe all’alto magistrato. Gullo è certamente un uomo diverso rispetto agli anni della clandestinità, quando da giovane politico-avvocato, nonché fondatore di giornali come Calabria proletaria e L’Operaio, veniva schedato, sorvegliato, arrestato e mandato al confino in Sardegna. Non è nemmeno più lo stesso a cui nel novembre del 1943, dopo la rivolta cosentina contro la permanenza in cariche istituzionali di persone coinvolte con il Fascismo, veniva preferito Pietro Mancini come prefetto.

    Soprattutto, Gullo non è più quello della svolta di Salerno, in nome della quale i partiti antifascisti avevano accantonato la questione monarchica per favorire l’unità nazionale. Ora i conti si possono regolare. Così il Guardasigilli scrive al Consiglio superiore della magistratura, all’epoca dipendente dal suo Ministero, annunciando l’intenzione di rimuovere Pilotti. L’epuratore, dunque, sta per essere epurato. Prova a difendersi, ma Gullo è irremovibile: Pilotti perde il posto da pg. Ma uno così non non finisce certo in rovina. Lo piazzano alla Presidenza del Tribunale delle Acque e per l’occasione elevano la carica a pari grado di procuratore generale.

    Giustizia e politica: due scuole di pensiero

    Anche la pensione non gli va malaccio: da collocato a riposo, nel 1949 Pilotti diventa arbitro italiano alla Corte permanente di arbitrato dell’Aja e, nel 1952, presidente della Corte di giustizia della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Nel togliere a Pilotti la poltrona di pg, secondo Rizzo, Gullo avrebbe incontrato ben altre resistenze se la vicenda non si fosse incrociata con quella dell’Assemblea costituente. Che proprio nei giorni dello sgarbo a De Nicola discute degli articoli sul rapporto tra giustizia e politica.
    Si scontrano due scuole di pensiero. Da una parte quella che rappresenta anche il futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone: propone che i pm dipendano dal governo e che a guidare il Csm sia il capo dello Stato. Dall’altra chi sostiene l’indipendenza assoluta dei magistrati dal potere politico.

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    La Corte di giustizia della Ceca. Al centro, Massimo Pilotti (1952, dal sito della Corte di giustizia europea)

    Le parole di Calamandrei sullo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra questi c’è Piero Calamandrei. Ma, dopo il caso Pilotti, la sua linea perde consistenza e nell’Assemblea si finisce per mediare tra le due posizioni. «In realtà chi ha impedito all’autogoverno della magistratura di affermarsi in pieno nel nostro progetto – attacca Calamandrei alla Costituente – non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori della opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti».

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    Piero Calamandrei

    Lo sgarbo, secondo Calamandrei, l’alto magistrato lo ha fatto «non al presidente della Repubblica, ma proprio alla magistratura: e la magistratura deve ringraziar proprio lui, il procuratore generale Pilotti, della ostilità con cui è stata accolta nel progetto della Costituzione l’idea dell’autogoverno: proprio lui, col suo gesto, è riuscito a impedire che la magistratura possa aver fin da ora quella assoluta indipendenza di cui la grandissima maggioranza dei magistrati, esclusi alcuni pochi Pilotti, sono degni». Qualche giorno dopo il discorso di Calamandrei, Gullo rimuove Pilotti. E, secondo Rizzo, l’idea «dell’indipendenza cristallina della magistratura tramonta con la sua defenestrazione».