Autore: Saverio Paletta

  • Pane, concimi, energia: quanto pesano Russia e Ucraina sui prezzi in Calabria

    Pane, concimi, energia: quanto pesano Russia e Ucraina sui prezzi in Calabria

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    Ce l’hanno ripetuto all’inverosimile: il battito d’ali di una farfalla può provocare un tornado dall’altra parte del mondo. E la crisi scatenata dal conflitto in Ucraina, che non è propriamente una farfalla, sembra confermare il paradosso geopolitico. Anche per quel che riguarda la Calabria.

    Siamo stati risparmiati per un pelo dallo sciopero dei trasportatori, che sarebbe stata una Caporetto economica, perché la nostra marginalità geografica, combinata all’inadeguatezza delle infrastrutture, rende problematico il trasporto su gomma, che resta la forma principale di approvvigionamento.

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    Ma lo scampato pericolo (per quanto?) non ridimensiona il problema dell’aumento dei prezzi, finora avvertito nel settore dell’energia e dei carburanti.
    Fare il pieno alla macchina è un problema e le bollette del gas possono ridurre tantissimi sul lastrico. Ma può esserci di peggio: l’aumento dei prezzi del cibo o, nei casi più estremi, la difficoltà a procurarselo.

    Caro pane, Cosenza resiste. Ma per quanto?

    Il pane è l’alimento per eccellenza. E quello calabrese, lo diciamo senza alcun campanilismo, è un prodotto vincente grazie a un ottimo rapporto qualità-prezzo, che, fino a poco prima dell’inizio delle ostilità tra Russia e Ucraina, oscillava attorno ai due euro e qualcosa al chilo. Questo prezzo è rimasto stabile, finora, solo nel Cosentino, grazie ai calmieri imposti dalla grande distribuzione organizzata. Ma questa può non essere una buona notizia, perché tenere i prezzi bassi di fronte all’aumento di grano, farina e carburanti può diventare un boomerang nel medio periodo.
    L’anello sensibile della panificazione è rappresentato dai molini, che riforniscono i forni, i quali sono le aziende alimentari “di prossimità” più diffuse.
    I cinque molini calabresi sono perciò l’osservatorio perfetto per quantificare il potenziale “caro pane”, calcolabile a partire dall’aumento del grano tenero.

    Né Russia né Ucraina, ma il prezzo sale lo stesso

    Il grano più utilizzato in Calabria non è quello ucraino (per decenni il più consumato d’Europa, anche ai tempi dell’Urss) né quello russo. Bensì quello francese.
    Ma lo stop dei due grandi mercati dell’Europa orientale ha comportato il venir meno dell’effetto calmiere sui prezzi del grano occidentale, che oggi costa quasi il doppio.
    Prima di procedere è doverosa un’avvertenza: la Russia non ha messo nessun blocco all’esportazione del proprio grano. Il problema è dovuto solo all’esclusione degli istituti di credito russi dallo Swift, cioè dal sistema di pagamenti globale. In pratica, quel grano è sempre in vendita ma per noi è impossibile comprarlo.

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    Farine in un molino

    Veniamo alla forbice dei prezzi. A marzo 2021 un chilo di grano tenero costava 22-23 centesimi circa al kg. Oggi ce ne vogliono circa 47.
    Ciò comporta che i molini sono costretti a vendere la farina a circa 75-80 centesimi al kg, con un aumento significativo rispetto ai 40 centesimi al kg di marzo 2021.
    In questa lievitazione del prezzo occorre includere anche il costo dell’energia necessaria ad attivare le macchine, il costo del carburante e del packaging.

    Un euro e cinquanta in più al kg

    E il pane? Al momento si può fare solo una proiezione, secondo la quale il prezzo di un kg di pane bianco potrebbe arrivare a 3,50 euro al kg.
    Una mazzata per l’economia delle famiglie calabresi, se si considera che il pil (che non vuol dire reddito) pro capite è di 17mila e rotti euro annui.
    Al momento la situazione è sotto controllo perché la Gdo obbliga di fatto i forni del cosentino a vendere il pane a circa 2 euro e rotti al kg, che mantengono relativamente bassi i prezzi in tutta la regione. Ma questo calmiere rischia di diventare una tagliola per i forni, che prima o poi saranno costretti ad aumentare e quindi a portare i prezzi del pane ai livelli di Lazio e Campania…

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    Anche il fai da te è proibitivo

    Se comprare il pane potrebbe diventare proibitivo, ricorrere al “fai da te”, per cucinare pizze e focacce in casa come ai tempi del lockdown è già quasi impossibile: il prezzo della farina al supermercato è lievitato notevolmente.
    Il prodotto più gettonato, in questo caso, è la farina “0”, indicata per la panificazione casareccia e per i rustici: un chilo costa al consumatore tra gli 85 e i 90 centesimi, con un aumento medio di quasi 40 centesimi rispetto ai 52 centesimi di marzo 2021.
    In questo caso, spiegano gli addetti ai lavori, l’aumento è dovuto al maggior uso del packaging e alla distribuzione.

    Non solo pane: il problema con i concimi

    Si dice paniere perché il riferimento principale è il pane. Ma nel paniere ci entra di tutto. E questo “tutto”, cioè carne, frutta e verdura, si misura attraverso un elemento base: il concime, che incide direttamente nella produzione vegetale, e in maniera meno diretta nella produzione delle carni.
    In questo caso, l’aumento è vertiginoso: circa del 90%.

    Grazie all’economia “di guerra” in cui si trova l’Italia (senza, per inciso, aver sparato neppure un colpo), sono diventati introvabili fosforo e potassio e inizia a scarseggiare l’azoto. In Calabria, l’aumento di queste materie prime per i fertilizzanti incide ancor di più, visto che non sono prodotte sul territorio ma devono arrivarci attraverso il trasporto su gomma e scontano il raddoppio del prezzo del carburante.
    Ciò comporta un aumento di almeno il 20% potenziale del prezzo dei prodotti della nostra agricoltura.

    Fuori pericolo, almeno al momento, le carni. Ma anche questa non è una buona notizia: la scarsità dei mangimi di origine vegetale costringe non pochi allevatori ad abbattere i capi. Questa scelta obbligata, nel breve periodo può ridurre in maniera sensibile il costo della carne. Tuttavia, nel medio periodo provocherà aumenti sensibili, visto che molte aziende andranno in crisi e, dopo la fine della sovrabbondanza, saranno costrette ad alzare i prezzi in maniera imprevedibile.

    Gas e petrolio, la speculazione oltre la guerra

    Non è tutta colpa di Putin, c’è da dire. Anzi, il presidente russo, al riguardo, si è dimostrato meno guerrafondaio del solito e si è detto meravigliato dell’aumento del costo dell’energia in Occidente visto che, ha ribadito, la Russia non ha chiuso i rubinetti.
    Ciò significa che, dietro le quinte della narrazione “bellica”, agisce una forte speculazione. Detto altrimenti, i grandi distributori avrebbero ammassato le materie prime per lucrare l’aumento dei prezzi indotto dalla scarsità, che a questo punto è dovuta solo in parte alla crisi ucraina.

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    Vladimir Putin

    Difficile prevedere quando si potrà tornare alla normalità. Se le operazioni belliche cessassero a breve e Russia e Ucraina trovassero un accordo soddisfacente, il prezzo degli alimenti, a partire dal grano calerebbe nel giro di un mese.
    Ma non tornerebbe ai prezzi di dicembre perché continuerebbe a pesarvi il costo dell’energia, che ci metterebbe di più, almeno sei mesi, per rientrare a livelli di guardia.
    E la Calabria sconterebbe più a lungo, almeno per un mese in più, l’instabilità energetica per via della sua marginalità geografica, che rende più oneroso il trasporto su gomma.
    Finché c’è guerra c’è speranza: era il titolo di un’amarissima commedia di Alberto Sordi. Gli speculatori concordano.

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    Alberto Sordi in Finché c’è guerra c’è speranza
  • Piccoli ma non fessi: la città unica oltre Cosenza e Rende

    Piccoli ma non fessi: la città unica oltre Cosenza e Rende

    Un lenzuolo troppo corto per coprire i territori e, soprattutto, chi li abita.
    L’area urbana di Cosenza risulta problematica non solo nella sua versione “minima”, che comprende il capoluogo, Rende e Castrolibero, ma persino in quella maxi che, a seconda delle scelte politiche, dovrebbe estendersi o a nordest, in direzione Sibari, o a sud, verso il Savuto.

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    Franz Caruso, sindaco di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Si badi bene: non sono scelte neutrali. Mirare a sud significa avvantaggiare Cosenza e i Comuni sulla vecchia via del mare (Dipignano e Carolei) e alle pendici del Monte Cocuzzo (Mendicino e Cerisano). Puntare a nord, invece, vuol dire riproporre la centralità di Rende, che farebbe leva sulla vicina Montalto e ridimensionerebbe non poco il capoluogo.
    Non è un caso che, durante la campagna elettorale di settembre Franz Caruso abbia rilanciato l’idea di “area vasta” o “area urbana allargata”, cioè estesa ai paesi a sudest.

    Ed è certo che anche il recente braccio di ferro sull’ospedale – che i rendesi vogliono nei pressi dell’Unical e i cosentini a Vaglio Lise – sia motivato dalle stesse dinamiche.
    L’area vasta puntellerebbe l’ipotetica “Grande Cosenza” a Sud e le eviterebbe il confronto diretto con Rende, che al momento sarebbe micidiale per la città dei bruzi.
    Una geopolitica su scala provinciale, non meno pericolosa di quella vera, perché chi perdesse la sfida sarebbe condannato allo spopolamento, dovuto all’aumento delle tariffe e al calo dei servizi.
    Ovviamente, i conti si fanno con gli osti, cioè i sindaci di tutti i comuni potenzialmente interessati.

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    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il ruggito di Orlandino

    Il nodo cruciale dei due modelli di area urbana è Castrolibero, che ha ancora molto da dire, visto che è uno dei territori più ricchi del Sud come reddito pro capite.
    Castrolibero è incuneato tra Cosenza e Rende, con cui confina senza alcun ostacolo fisico: solo la segnaletica chiarisce in quale Comune ci si trova.
    Orlandino Greco – attuale vicesindaco ed ex sindaco di Castrolibero, ex presidente del Consiglio provinciale di Cosenza ed ex Consigliere Regionale – esprime una preoccupazione non proprio trascurabile: la sua cittadina potrebbe essere schiacciata dalle due importanti dirimpettaie. Anche a livello economico: «Rende», spiega Greco, «è in predissesto e Cosenza ha un dissesto importante, difficile da risolvere in breve». Perciò il dubbio è lecito: tutto ciò che si trova attorno rischierebbe di essere risucchiato dai passivi delle due città leader.

    Grande Cosenza? Niente fusioni a freddo

    Per Orlandino è, quindi, inutile ipotizzare «fusioni a freddo, come nei casi di Corigliano-Rossano o dei Casali del Manco, che mi sembrano situazioni fallimentari, visto che parliamo di territori caratterizzati da importanti disparità fiscali e tariffarie interne e tuttora agitati da campanilismi duri a morire».
    Secondo Greco l’area urbana dev’essere disegnata «cerchi concentrici e non, come ipotizzava Sandro Principe, a linea retta». L’ipotesi del vicesindaco è piuttosto chiara: un nucleo basato su Cosenza, Rende e Castrolibero che attrarrebbe tutto ciò che lo circonda in maniera virtuosa.

    L’ex consigliere regionale e leader di Idm, Orlandino Greco

    No al modello Principe

    Già: «Il modello di Principe darebbe una certa baricentricità a Rende, ma trasformerebbe tutto il resto, a partire dal capoluogo, in una periferia». Il modello di Greco, al contrario, «farebbe perno su Cosenza e rispetterebbe tutti».
    In quest’ottica, Castrolibero avrebbe fatto già dei passi importanti per due fattori almeno: il Psc e il sistema dei trasporti pubblici. «Noi abbiamo integrato l’Amaco nel nostro territorio e abbiamo impostato il Piano strutturale comunale in modo da poterci allineare subito a un progetto urbanistico condiviso». Ma questo progetto non può essere sviluppato nel breve periodo: «Occorre partire dalla condivisione dei servizi per dare uguali chance a tutti gli abitanti del territorio, perché non serve a nessuno una città enorme ma piena di periferie poco servite».

    Caracciolo tira a nord

    Montalto Uffugo è stata considerata a lungo un satellite della “Grande Cosenza” per via della sua “eccentricità”: non sfiora neppure il capoluogo, ma è collegata solo a Rende attraverso Settimo.
    Pietro Caracciolo, il sindaco della cittadina che ispirò “I Pagliacci” a Leoncavallo, è consapevole di questa particolarità e, ovviamente, tira a nord. «Ripeto quel che ho già detto per l’Ospedale, che deve sorgere a Rende: nella nostra zona verrà realizzato un secondo svincolo della A3, inoltre sono in fase di realizzazione il ponte che unirà ancor di più le nostre zone industriali e sono in cantiere molte iniziative che faranno di Rende e Montalto le aree più infrastrutturate della provincia».

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    Pietro Caracciolo, sindaco di Montalto Uffugo

    Morale della favola: la “Grande Cosenza” dovrà comunque servire tutto il territorio provinciale, che è uno dei più grandi del Paese «e l’area a nordest è l’unica veramente baricentrica sia verso lo Jonio sia verso il Tirreno». Montalto, in altre parole, è una gemella siamese di Rende, che mira ad approfittare dei vantaggi della città sorella: l’Università innanzitutto, ma anche la zona industriale, prossima alla fusione territoriale con la propria. Il blocco Rende-Montalto darebbe non poco filo da torcere.

    Carolei non vuole essere periferia della Grande Cosenza

    Carolei, all’estremo opposto di Montalto, sconta un grosso fallimento urbanistico e un dissesto recente, subito e tamponato alla meno peggio da Francesco Iannucci, sindaco dal 2017.
    Il fallimento si chiama Vadue, la grande frazione residenziale che ha avvicinato il paese all’ingresso sud di Cosenza, tra piazza Riforma e viale della Repubblica. Negli anni ’80 Vadue era considerata la “zona dei ricchi”, ora è diventata una periferia quasi priva di servizi, in cui solo l’edilizia privata, basata su ville e palazzine, mantiene qualche ricordo del passato glorioso e delle promesse mancate.

    Francesco Iannucci, sindaco di Carolei

    La diffidenza è il minimo. E Iannucci la esprime non troppo tra le righe: «In linea di principio sarei d’accordo», spiega il sindaco. Ma il problema è il “come”. Già: «Cosa guadagnerebbero in concreto gli abitanti di Carolei e dei paesi a Sud dall’area vasta? Se a questo progetto corrispondesse un’idea di sviluppo, si proceda pure, altrimenti non converrebbe a nessuno diventare periferia di un’area che avrebbe il suo centro ad almeno dieci chilometri di distanza». Meglio iniziare da una condivisione dei servizi e poi chi vivrà vedrà.

    La geopolitica di Dipignano

    Una cosa è sicura: Gaetano Sorcale, docente universitario di Relazioni internazionali, si intende di geopolitica e diplomazia. E le applica come può per favorire Dipignano, di cui è sindaco da poco più di un anno.
    Dipignano confina con Cosenza attraverso Laurignano, nel cui territorio ricade una parte di Molino d’Irto, l’antica zona industriale di Cosenza.
    A dirla tutta, Laurignano sembra una frazione del capoluogo, «visto che su 1.800 residenti più di mille sono cosentini».

    Gaetano Sorcale, sindaco di Dipignano e docente universitario

    Secondo il sindaco l’estensione a sud dell’area urbana darebbe grosse possibilità non solo al suo Comune, ma anche alla stessa Cosenza: «Nel nostro territorio potrebbe passare benissimo il secondo svincolo sud della A2, che decongestionerebbe il traffico cittadino, diventato problematico dopo le trasformazioni urbanistiche dell’era Occhiuto». Inoltre, la maggiore disponibilità di territorio di Dipignano «consentirebbe uno sviluppo equilibrato dell’area, che si potrebbe bilanciare a sud».
    Tuttavia, secondo Sorcale, non sarebbe un processo di breve periodo: «Occorre uno sviluppo per fasi: iniziamo a mettere assieme i servizi, a progettare assieme lo sviluppo urbano e la grande città verrà da sé».

    In alternativa c’è Pandosia

    Se la “Grande Cosenza” dovesse risultare problematica, nessuna paura: ci sarebbe sempre Pandosia, il progetto lanciato da Mendicino circa otto anni fa.
    Si tratta di un maxicomune che comprenderebbe nove paesi per un totale di circa 30mila abitanti. Un secondo Casali del Manco, ma più grande che aggancerebbe una buona fetta di Appennino al capoluogo.

    Antonio Palermo, sindaco di Mendicino

    Già, spiega Antonio Palermo, il sindaco di Mendicino: «Il mio territorio non è solo parte dell’area urbana ma è anche un elemento fondamentale delle Serre Cosentine».
    Pertanto «non siamo obbligati a diventare una periferia ma possiamo sempre scegliere se e come diventare “grandi”». Ovvero: se nessuno garantisce lo sviluppo equilibrato della “Grande Cosenza”, possiamo sempre creare una realtà più vasta che ci consentirà economie di scala piuttosto importanti.
    Proprio in quest’ottica deve essere interpretato il sostegno dato da Palermo all’idea di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise: «Se parliamo di grande città, il capoluogo deve essere baricentrico, altrimenti è un nonsenso». Sui tempi e modi di questa realizzazione, Palermo si allinea agli altri sindaci: «Iniziamo con la gestione comune dei servizi e poi si vedrà».

    Lucio Di Gioia, sindaco di Cerisano

    Cerisano ha già l’aria buona

    Il meno interessato sembra essere Lucio Di Gioia, il sindaco di Cerisano, che non ha confini diretti con Cosenza.
    «Il nostro vantaggio è essere un borgo in mezzo alla natura, che consente una buona qualità di vita», spiega il primo cittadino. Quindi «entrare in un’area più vasta può essere utile solo se ne ricavassimo più servizi di migliore qualità». Per il resto, «diventare una periferia non ci serve».

    Quattro case e un forno

    Rende e Cosenza duellano per chi deve essere la prima della classe. Gli altri diffidano. Forse perché, sussurrano i maligni, la fascia tricolore piace a tutti, anche se consente di amministrare a malapena le famose “quattro case e un forno”.
    O forse perché, alla fin fine, i campanili piacciono a tutti. La vera sfida sarà la costruzione dal basso della grande città. E, date le premesse, non sarà un processo breve né facile.

  • Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    «Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella». Il complimento al quadrumviro (e alla città) proveniva da una fonte insospettabile: Pietro Ingrao, che si era rifugiato in Presila e aveva visitato più volte il capoluogo.
    Ingrao parlava della Cosenza dell’immediato dopoguerra, iniziato in Calabria un po’ prima, con l’arrivo degli Alleati. Cioè parlava di una città di poco più di 40mila abitanti che di lì a poco avrebbe vissuto un boom urbanistico formidabile e una crescita demografica impetuosa.

    Ma nel piano di crescita urbana disegnato da Bianchi covavano già i germi del futuro declino della città: prima di altri il supergerarca aveva intuito che l’unica possibilità di espansione di Cosenza era a nordest, cioè verso Rende, perché a sudovest c’era l’ostacolo insormontabile dei colli e c’era un hinterland accidentato, pieno di campagne urbanizzate male e collegate peggio, da strade che tutt’oggi gridano vendetta.

    Una rissa per l’Ospedale

    La storia si ripete, ma stavolta in farsa. Riguarda il nuovo Ospedale hub di Cosenza che Marcello Manna, il sindaco di Rende, vorrebbe nel suo territorio.
    E lo vuole così tanto da aver chiesto a Roberto Occhiuto un progetto di fattibilità.
    Manna, nella sua richiesta, ha rilanciato un mantra vecchio di almeno dieci anni: Rende sarebbe preferibile al declinante territorio perché c’è l’Unical, che ha un corso di laurea in Farmacia e uno in Medicina e Tecnologie digitali nuovo di zecca. Inoltre, perché la città del Campagnano ha più territorio disponibile, anche in posizione strategica, a cavallo tra la Statale 107 e lo svincolo Nord della A2.

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    L’Università della Calabria

    Franz Caruso, il sindaco di Cosenza, ha risposto picche e ha rilanciato l’idea, altrettanto di lungo corso, di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise, nei pressi della Stazione ferroviaria. Il presidente del Consiglio comunale bruzio, Giuseppe Mazzuca, a tal proposito ha già annunciato che l’assise si pronuncerà in tal senso da qui a poco
    In questo braccio di ferro, ciò che fa notizia è la pretesa rendese, segno che la città che è stata dei Principe al momento è in vantaggio sulla città che è stata dei Mancini, degli Antoniozzi e dei Misasi.

    Cinquant’anni di braccio di ferro

    Cosenza, al momento, mantiene gli uffici e i servizi pubblici che contano, a partire da Prefettura e Tribunale per finire con l’Ospedale e la sede della Provincia. E, ovviamente, ha l’anagrafe a suo favore che, con circa 67mila e rotti abitanti, la fanno poco più del doppio rispetto alla sua aggressiva dirimpettaia, da cui la dividono un tratto del torrente Campagnano e un segnale sul cavalcavia della Statale 107.

    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma il numero degli abitanti è illusorio, perché quei 67mila sono ciò che resta di una città che ha vissuto tempi migliori. E questo resto è destinato a calare, sia per la decrescita demografica sia per la ripresa dell’emigrazione, Al contrario, Rende, coi suoi poco meno di 34mila abitanti, tiene botta e denuncia una flessione minima.
    Come si è arrivati a questo punto? Com’è stato possibile che un paese, sostanzialmente arroccato su una collina e sceso a valle dai primi anni ’70 sia arrivato al punto di dare la polvere all’orgogliosa (e spocchiosa) “Atene delle Calabrie”?

    Un flashback

    Facciamo un passo indietro e torniamo al 1970. Allora Rende aveva incassato un importante risultato: l’Università della Calabria, in quel momento “ospite” a Cosenza, ma la cui sistemazione definitiva era stata concessa a Rende, che l’aveva spuntata su Piano Lago. Fu un colpo da maestro di Cecchino Principe, sindaco dal 1952 e all’epoca deputato di lungo corso e sottosegretario alle Partecipazioni statali. Il notabile socialista fece una serie di espropri “lampo” a costi bassissimi e con un metodo che oggi si definirebbe “clientelare”: indennizzò i proprietari dei terreni di Arcavacata con posti di lavoro nell’Università. Questa mossa, completata col disegno urbanistico affidato al big Empio Malara, cambiò le sorti di Rende e di tutta l’area urbana cosentina.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    La “grande Cosenza”, ideata da Michele Bianchi iniziava a svilupparsi, ma al contrario: non era Cosenza che si “allargava” verso Rende fino ad inglobarla, ma quest’ultima a estendersi verso il capoluogo. Inoltre, lo sviluppo di Rende ebbe un’altra conseguenza politica di lunga durata: l’irruzione dei Principe sulla scena politica regionale con un ruolo di primo piano e in piena autonomia rispetto alla leadership di Giacomo Mancini.
    Forse meno carismatico rispetto al big cosentino, Cecchino Principe aveva dalla sua una forte empatia coi suoi elettori e un grande senso pratico. L’agronomo di Rende l’aveva fatta sotto il naso al sussiegoso avvocato cosentino, che univa ai galloni dell’antifascismo militante il peso della tradizione familiare.

    La grande Cosenza che fu

    I cosentini minimizzarono: Rende, allora, aveva poco più di 13mila abitanti, una bazzecola. Cosenza, invece, aveva superato da poco i 100mila e si orientava a sudovest, cioè verso la vecchia via del mare, che portava ad Amantea per la vecchia strada borbonica. E aveva una zona industriale di tutto rispetto, tra Molino Irto e Vadue, che faceva perno sulle Cartiere Bilotti e sul Pastificio Lecce.
    Forse per questo non colsero la seconda mossa di Principe, che con un’altra serie di espropri consentì l’arrivo di Legnochimica a Contrada Lecco: era l’atto di nascita della zona industriale di Rende, che oggi è la principale dell’area urbana.
    Ma tant’è: i partiti politici facevano da collante e il vecchio sistema di finanza derivata ridimensionava non poco il peso delle autonomie, perché i quattrini arrivavano in base alla popolazione.

    La gara dei vampiri

    A questo punto si arrivò al paradosso: tutti i municipi dell’hinterland tentarono di agganciarsi al capoluogo per “vampirizzarne” la popolazione. Lo fece Carolei, che inventò Vadue, lo fece Mendicino e lo fece Laurignano. E lo fece Castrolibero con Andreotta.
    Ma chi succhiò più abitanti, fu Rende, semplicemente perché, a differenza dei suoi concorrenti, aveva un piano urbanistico a prova di bomba. E poi perché Cecchino Principe ebbe l’abilità di non farsene accorgere. La “sua” Rende si sviluppò come quartiere della Cosenza bene e benestante. Le cose sarebbero cambiate a partire dagli anni ’90, con l’ascesa di Sandro Principe, che interpretò in maniera particolare il nuovo sistema delle autonomie e pensò Rende come città alternativa e concorrente rispetto al capoluogo. Anche perché, tolto Giacomo Mancini, ormai non aveva quasi rivali.

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    Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

    L’effetto Duracell

    Tangentopoli fu un rullo compressore per Cosenza: azzerati i partiti storici, spento l’astro di Riccardo Misasi, il capoluogo provò a resistere col decennio manciniano, caratterizzato da alcune brillanti intuizioni che si sarebbero rivelate delle cambiali.
    Tutte le misure urbanistiche (il rifacimento di piazza Fera e il ponte di Calatrava) miravano ad arroccare la città a Sud. Al contrario, Sandro Principe potenziò Rende a Nord, con massicci investimenti nella zona di Quattromiglia, che divenne un quartiere modello.
    Era iniziato il braccio di ferro tra una città che perdeva abitanti e un’altra che aveva raddoppiato la popolazione residente. Il volano fu l’Unical, che aveva superato i 35mila iscritti dando il via a un mini boom edilizio.

    Ma l’aspetto politico restava quello più importante: la fine dei partiti aveva provocato l’azzeramento delle vecchie élite cosentine, che riuscirono sì e no a riciclarsi nel nuovo alla meno peggio. A Rende, invece, fu centrale la continuità dei Principe, che consentì una gestione razionale e “dirigista” dello sviluppo urbano ed economico.
    Principe seguiva a Principe. A Cosenza, invece, i Gentile, gli Adamo, i Guccione, gli Incarnato, i Morrone e via discorrendo avevano preso il posto dei Misasi, dei Mancini, dei Perugini, degli Antoniozzi, dei d’Ippolito e via discorrendo. Se non è declino questo…

    E ora?

    Il declino è uguale per tutti ma ad alcuni fa più male. È il caso di Cosenza, che pesa nelle dinamiche regionali solo perché è capoluogo di una delle province più grandi d’Italia. Ma questo peso è illusorio, perché l’ente Provincia, con la fine della Prima repubblica, si era “paesanizzato” non poco: basti pensare che i presidenti provinciali più duraturi, Antonio Acri e Mario Oliverio, sono stati di San Giovanni in Fiore.

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    Mario Oliverio

    Se dalla demografia si passa all’economia, la situazione peggiora. Rende ha il bilancio in crisi, ma evita il dissesto grazie al suo consistente patrimonio immobiliare. Cosenza è andata in default il 2019, dopo aver nascosto per quasi vent’anni un debito imponente, nato in lire e lievitato in euro. Il che significa una cosa: a parità di tasse (al massimo in entrambi i Comuni), Rende riesce a garantire servizi passabili, Cosenza no.

    E la Grande Cosenza, in tutto questo? È solo un richiamo retorico per i cosentini che vivono nel capoluogo e consolano il proprio campanilismo con l’idea della “città policentrica” (un’assurdità urbanistica, perché tutte le città hanno un centro). I cosentini che hanno popolato Rende, al contrario, sono piuttosto tiepidi: a nessuno fa piacere diventare periferia di una città in declino e subirne i contraccolpi finanziari.
    E Telesio? L’Accademia Cosentina? E le memorie risorgimentali? Un’altra volta…

  • L’armata Brancaleone della Sanità calabrese

    L’armata Brancaleone della Sanità calabrese

    Chi tocca certi fili muore. E forse non ha torto chi afferma che il problema della Sanità calabrese è “di sistema”. Cioè, è l’esito di una situazione incancrenita da decenni di cattive prassi, che si riassumono in un’espressione: inefficienza totale.
    La quale si riflette, in maniera pesante, sulla salute dei cittadini e sull’economia di tutto il territorio, considerato che le strutture sanitarie calabresi inglobano il 75% del bilancio regionale. Sono cose note. Meno note sono le statistiche globali, pubblicate la scorsa estate da Openpolis.

    A dicembre 2020, le Aziende – sanitarie e ospedaliere – commissariate in Italia erano 34. A luglio 2021 il numero si è ridotto della metà, perché sono uscite dal commissariamento la Valle d’Aosta, l’Umbria e le Aziende piemontesi, liguri e venete finite nel mirino. Circa metà delle 17 Aziende rimaste sono calabresi.
    Gli altri numeri sono evanescenti e virtuali. Ci si riferisce alla contabilità, che risulta impossibile ricostruire con precisione. Ma anche i numeri approssimativi fanno paura.

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Dieci anni e otto commissari

    Riavvolgiamo il nastro per capire che nulla è cambiato, nonostante dieci anni di controlli (si fa per dire…) romani e otto commissari.
    A fine 2010, il disavanzo complessivo della Sanità calabrese era di 1 miliardo 46 milioni e 983mila euro. A poco, così rilevava il “famigerato” tavolo Massicci, erano serviti gli accorpamenti delle Aziende sanitarie locali nelle cinque Asp, avvenuta nel 2008.
    Alla fine dell’amministrazione Oliverio, il debito rilevato, più o meno a tentoni, dalla Corte dei Conti era di 1 miliardo e 51 milioni.
    La beffa ulteriore emerge dalla demografia: nel 2010 gli abitanti della regione erano 2 milioni e 10mila circa, ora sono 1 milione 849 e 145. I calabresi calano, i debiti aumentano e non sono proprio leggeri: circa 539 euro per abitante. Davvero, in tutto questo disastro, ha un senso la caccia al responsabile?

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Il garantismo è impossibile

    È impossibile raccontare la storia recente della Sanità calabrese prescindendo dai suoi risvolti giudiziari, a volte pesantissimi, che vanno dai “banali” abusi d’ufficio ai falsi in bilancio, dove rintracciabili.
    È il caso dell’Asp di Cosenza, una delle più grandi Aziende del Paese, di cui si sospetta un triennio di bilanci farlocchi (2015-2017). Su questi bilanci farà luce il processo Sistema Cosenza, che inizierà a breve, nel quale risultano indagati i due ex commissari regionali Massimo Scura e Saverio Cotticelli e l’ex direttore generale dell’Azienda cosentina Raffaele Mauro.
    I tre presunti bilanci falsi di Cosenza più i problemi contabili esplosi nel 2018 hanno fatto ipotizzare perdite di bilancio per circa 600 milioni. Peggio che andar di notte a Reggio, dove i bilanci semplicemente non esistono, e a Catanzaro, dov’è emerso lo zampino delle ’ndrine.

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    L’ex presidente della Regione ed ex commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti

    In principio era Peppe

    Peppe Scopelliti era partito alla grande. Nel 2010 aveva stracciato Loiero alle urne e poi, a commissariamento dichiarato, si era lanciato in proclami degni più del giocatore di basket che era stato che di un politico: tagliare gli sprechi, rivedere le strutture fatiscenti, sforbiciare il personale di quel che serve.
    Il tutto per un risparmio totale di circa 200 milioni. Peccato solo che Super Peppe, più lungo che lungimirante, non si fosse accorto che il punto debole della Sanità calabrese era proprio la sua Reggio: pochi e vaghi i dati forniti alla commissione ispettiva inviata dal ministero, bilanci evanescenti o comunque non rispettati, tendenza all’indebitamento e spese iperboliche.

    I presupposti della contabilità “orale” che hanno reso famosa l’Asp reggina c’erano tutti.
    C’è voluto Roger Waters con la sua recente sortita su Cariati per ricordare ai calabresi che “Pappalone” è riuscito nel “miracolo” di tagliare gli ospedali, ben sei nel solo Cosentino, ma non le spese. E a proposito di Cosenza: la parabola di Gianfranco Scarpelli, direttore generale dell’Asp, insegna che tagliare non basta. Infatti, il pediatra cosentino, notoriamente legato ai Gentile, aveva provato a mettere mano al contenzioso legale della sua Azienda e qualcosa l’aveva sforbiciata qui e lì. Ma questo non gli ha evitato le attenzioni dell’autorità giudiziaria e qualche scandalo giornalistico, culminati in un processo da cui è uscito per il rotto della cuffia.
    Voto: 4 meno meno, perché una rockstar ci ha ricordato che ha gestito la Sanità.

    Un manager alla carica

    La Sanità calabrese ha ripetuto, nel piccolo, ciò che accadeva nel resto del Paese: l’eclissi ingloriosa della politica, dovuta al crollo del berlusconismo, e l’arrembaggio dei tecnici.
    Infatti, il prudente Mario Oliverio, che aveva stravinto nel 2014 con una campagna elettorale piuttosto dimessa, è riuscito a non farsi tritare per la Sanità per il semplice motivo che (almeno formalmente) non l’ha gestita. La mission impossible è toccata a Massimo Scura, manager ingegnere di area Pd, che aveva rilevato il posto di Super Peppe dopo il breve interregno (circa sei mesi) di Luciano Pezzi, già subcommissario di Scopelliti.

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    Gli ex commissari alla Sanità Massimo Scura e Saverio Cotticelli

    A Scura si deve riconoscere di aver provato per davvero a fare il commissario ad acta. Al punto di attirarsi le ire di Oliverio, arrivato al punto di annunciare iniziative eclatanti. Peccato solo che durante il triennio di Scura (2015-2018) si sono verificati i presunti falsi in bilancio dell’Asp cosentina, è avvenuto il commissariamento per mafia dell’Asp di Catanzaro, è arrivata al capolinea la vicenda della Fondazione Campanella e, contemporaneamente, sono esplose le magagne dell’Azienda ospedaliera di Cosenza. In pratica, sono emerse tutte le criticità già rilevate dalla Commissione ministeriale nel 2009.
    Scura ha rimediato dalla sua esperienza calabrese un rinvio a giudizio per la vicenda della Task Force veterinaria regionale e un’inchiesta pesantissima.
    Voto: 5 meno meno, per essere riuscito a far sembrare il Pd, quando era al governo, una forza di opposizione.

    Il generale distratto

    C’è da sperare che la Sanità regionale non anticipi le tendenze della politica nazionale, perché l’esperienza di Saverio Cotticelli, generale dei carabinieri in pensione, dimostra che neppure il peggiore Pinochet potrebbe mettere un po’ d’ordine.
    Ad ogni buon conto, a Cotticelli, nominato dai cinquestelle in versione gialloverde e poi confermato nella versione giallorossa, non si possono fare troppi rilievi: a differenza di chi lo ha preceduto, non ha governato (e forse non ci ha neppure provato). Ha subito tutto ciò che gli capitava sotto e attorno. Anche la pandemia, che non si è accorto di dover gestire.
    Voto: 3, perché fa quasi tenerezza.

    L’asso pigliatutto

    È durato appena nove giorni, giusto il tempo di farsi tritare dai media per l’infelice battuta sul Covid trasmissibile solo col bacio alla francese, tra l’altro genderfluid. Tuttavia, i calabresi conoscevano già Giuseppe Zuccatelli, ex presidente dell’Agenas, che aveva gestito il “Pugliese Ciaccio”, la “Mater Domini” e l’Asp di Cosenza.
    Voto: in generale non pervenuto, ma comunque 3, per il doppio record del siluramento lampo e della dichiarazione maliziosa.

    Il record di Giuseppe Zuccatelli: nove giorni da commissario per il piano di rientro sanitario

    Il prefetto di ferro

    C’è chi è durato meno di Zuccatelli: è Eugenio Gaudio, ex rettore della Sapienza, che il 17 novembre 2020 ha rifiutato l’incarico a commissario ad acta propostogli dal governo il giorno prima.
    Si sa che i calabresi, quando qualcosa non va, diventano reazionari, invocano legge e ordine e sognano i prefetti, meglio se “di ferro”.
    Chi meglio del supersbirro siciliano Guido Longo, conosciutissimo dai calabresi per essere stato prefetto di Vibo, quindi in prima linea nella lotta alle super ’ndrine?
    Longo ha gestito la Sanità durante l’interregno di Spirlì con un piglio più burocratico che poliziesco. Infatti, ha amministrato in maniera “difensiva”: ha bocciato il bilancio dell’Asp di Crotone (2019), quelli di Vibo (2018-2019) e quello di Reggio (2019), l’unico che quell’Asp fosse riuscita a presentare. Non ha sbloccato le assunzioni e non ha applicato le norme anticovid.
    Nella Sanità calabrese conoscevamo la medicina difensiva. Longo ha dimostrato che l’amministrazione può non essere da meno.
    Voto: 5, per rispetto ai galloni.

    Il prefetto Guido Longo, ex commissario alla Sanità in Calabria

    Occhiuto ha ripoliticizzato la sanità calabrese

    Dare i voti a Roberto Occhiuto, che ha “ripoliticizzato” la funzione di commissario ad acta è prematuro. Le sue sortite principali nel settore sono quelle relative all’Ospedale di Cariati (anche lui fan dei Pink Floyd?) e sul piano di assunzioni di medici e Oss per l’Annunziata di Cosenza.
    Roberto Occhiuto non ha promesso le “montagne di pilu”. Ma qualcuno tra i suoi lo avrebbe fatto durante l’ultima campagna elettorale. Riuscirà il Nostro a resistere alle pressioni dei tanti che si aspettano il pane quotidiano dalla Sanità e premono dalle graduatorie che giacciono nelle stanze dei bottoni? Si accettano scommesse…

  • Ucraina e Russia: le comunità della Calabria tra paure e voglia di pace

    Ucraina e Russia: le comunità della Calabria tra paure e voglia di pace

    «Purtroppo sentiamo le bombe, perché qui siamo a circa 200 chilometri da Kiev». Padre Cirillo parla in maniera pacata, ma la voce tradisce l’emozione del testimone oculare di una grande tragedia: il primo atto militare su grande scala della Russia in territorio europeo dai tempi dell’invasione di Praga.

    Padre Cirillo è un testimone prezioso per più motivi. Innanzitutto, perché proviene da Vinnycja, una cittadina a sudovest dell’Ucraina, non troppo distante dal confine e quindi particolarmente interessata dai flussi dei profughi, che la attraversano come una fiumana incessante. Il video che vedete poche righe più su è girato dalla sua finestra, quello alla fine del paragrafo mostra come si passa la notte da quelle parti.

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    Padre Cirillo

    In seconda battuta, la testimonianza di padre Cirillo ha il valore dell’assoluta imparzialità del religioso, che mette da parte le questioni politiche e aspira soltanto alla pace.
    Infine, Padre Cirillo è una persona che vive a cavallo tra due paesi, l’Ucraina – dov’è nato e dove si trova da dicembre per assistere la madre ammalata – e l’Italia. Anzi, la Calabria, visto che il religioso fa parte dei minimi di San Francesco di Paola.

    Testimone dall’Ucraina

    Proprio grazie a questo ruolo, il padre minimo raccoglie le preoccupazioni dei suoi connazionali in Calabria e dei loro parenti rimasti in patria a subire o a fronteggiare l’invasione russa. Cerca di rassicurare tutti, con un racconto imparziale.
    «Le persone hanno iniziato ad andar via anche da qui, ora che sono iniziati i bombardamenti». Certo, la situazione non è paragonabile a quel che succede nei centri più grandi e nella capitale, ma ormai anche le province sono a rischio. «Molti passano la notte nei sotterranei e tutti facciamo i conti con le carenze nelle forniture idriche ed elettriche». E ancora: «Finora Vinnycja è stata risparmiata, ma non escludo che a breve potremmo subire anche noi l’occupazione militare». Con rischi che salirebbero alle stelle per tutti, specie se dalle operazioni “convenzionali” si dovesse passare alle tattiche, ben più sanguinose, della guerriglia.

    Il racconto di Inna

    Inna Stets vive a Cosenza da oltre dieci anni ed è una pittrice molto apprezzata. È originaria di Khmelnistkiy, una città turistica vicina a Vinnycja, dove ha lasciato la maggior parte dei suoi parenti. A partire dal fratello e dai nipoti.
    La sua testimonianza è meno imparziale di quella di padre Cirillo. Tuttavia, Inna non considera i russi dei nemici. Anzi: «Non sarebbe giusto far pagare a tutto il popolo russo le responsabilità della politica di Putin, perché loro sono vittime come noi». Sia nella loro madrepatria sia in Ucraina, dove la situazione “etnica” è più complessa di come la raccontano i nostri media e, soprattutto, di come filtra dalle propagande contrapposte. «Noi e i russi siamo popoli fratelli, perché ci sono molte famiglie miste: io stessa ho cugini di origine russa che parlano il russo normalmente e ho paura anche per loro».

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    Inna Stets

    Già: non si può mai sapere a quali conseguenze può portare la spirale dell’odio attivata «per semplici motivi di potere e di avidità». L’accusa a Putin («è un dittatore») è scontata. Molto meno la preoccupazione umanitaria per il popolo “fratello”: «Vedere tutti quei ragazzi mandati a combattere, e a morire, nel mio paese mi ha stretto il cuore. Ognuno di loro ha delle madri, delle mogli, dei figli che tremano per loro e forse li piangeranno come in molti facciamo per i nostri». E i calabresi? «Ho avvertito molta solidarietà e vicinanza dai cosentini, che fanno il possibile per aiutare la nostra comunità in questo momento difficile».
    Più particolare il rapporto coi russi che vivono a Cosenza: «Ho varie amiche russe, con le quali non ho mai avuto motivi di lite. Ma ora registro il loro silenzio e la loro assenza: alla manifestazione per la pace che si è svolta a Cosenza non ne ho vista nessuna».

    Russia e Ucraina, due comunità a confronto

    Quella ucraina è la comunità di stranieri residenti dell’Est europeo più numerosa, in Calabria. In tutto, sono 5.720, con una maggioranza schiacciante di donne (4.304). La concentrazione maggiore è nella provincia di Cosenza, dove le donne sono 1.349 e gli uomini 435.
    Decisamente minore la comunità russa, che conta 1.017 residenti in tutta la regione, con un rapporto tra donne e uomini ancora più sbilanciato: 852 contro 165. A Cosenza sono 468 (389 donne e 79 uomini).
    I loro riferimenti in città sono innanzitutto religiosi: gli ucraini si ritrovano attorno alla chiesa di San Nicola, dove seguono le funzioni religiose prevalentemente in rito greco bizantino; i russi, invece, nella chiesetta vicina a Loreto, dove seguono la liturgia ortodossa.

    Katia e il nazionalismo

    Katia Nykolyn, originaria di Leopoli, è tra le animatrici di un gruppo di attivisti che, in collaborazione con la Caritas Migrantes e con la Croce Rossa, raccoglie beni di prima necessità, medicine e soldi da inviare ai familiari rimasti in patria.
    L’ultima spedizione è stata piuttosto importante: oltre trenta pacchi, più 1.200 euro, raccolti tra connazionali ma soprattutto tra i cosentini. «Ho ricevuto tantissime telefonate dai calabresi, che sono riusciti a commuovermi». Ma la solidarietà non riesce a calmare la preoccupazione: «A Leopoli ci sono mio figlio Bogdan, mia nuora e la mia nipotina di sei anni». Nei confronti dei russi Katia esprime perplessità analoghe a quelle di Inna: «Ho varie amiche russe, ma sono letteralmente sparite da quando è iniziata la guerra».

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    Katya Nikolin

    Anche Katia non polemizza contro il popolo “fratello” ma limita i suoi strali a Putin e al suo establishment: «Hanno lanciato un seme di odio tra due popoli che vogliono solo stare in pace e hanno creato divisioni che non avevano più motivo». Katia, inoltre, racconta le emozioni contrastanti – ed estreme – dei suoi compatrioti: «Il popolo è pronto a difendersi anche a mani nude». E su queste emozioni pesa non poco la memoria sovietica: «Nell’Urss eravamo un popolo di serie b, la nostra lingua non aveva un valore e le nostre tradizioni erano represse». Ora, si chiede Katia, «è nazionalismo voler praticare le nostre tradizioni e parlare la nostra lingua in casa propria, senza controlli e censure? O dobbiamo chiedere il permesso al signor Putin?».

    La parola ai russi

    Tuttavia, non è corretto dire che i russi tacciono o, come sospettano gli ucraini, sotto sotto sono putiniani. Più semplicemente, non parlano di politica, forse perché temono che le critiche rivolte alo zar Vladimir si ritorcano contro di loro.
    Non parla di politica ma si limita a invocare la pace, Elena Semina, presidente di un’associazione molto attiva nel periodo pre pandemia nella promozione della cultura russa.

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    Elena Semina

    «Ricordo con molta nostalgia le iniziative che abbiamo promosso, a cui hanno partecipato molti italiani e molti amici dell’est Europa, ucraini compresi».
    Ora, invece «siamo piombati in un clima surreale di sofferenze e di odi. Ma la guerra non ha vincitori né vinti, solo vittime». Elena non fa il tifo per nessuno ma spera che «si arrivi a una soluzione che riporti pace e dignità a tutti».
    Un obiettivo minimo, che forse adesso sembra utopico.

    Un inquietante last minute

    La situazione resta fluida, sebbene i primi negoziati lascino intravedere qualche spiraglio. Logico, allora, cercare di saperne di più. Ma gli ulteriori tentativi di contatto con padre Cirillo in Ucraina sono inutili: «Non posso parlare, scusami, c’è la censura militare».
    Quanto dobbiamo preoccuparci?

  • La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    Non è un romanzo né un film, sebbene la vicenda abbia tutti i crismi della spy story. Anche l’Italia ebbe un’organizzazione simile a Odessa e Der Spinne, che mirava a proteggere i fascisti in fuga alla fine della guerra.
    A differenza delle due strutture tedesche, l’associazione italiana non fu completamente segreta né ebbe caratteri illegali o, peggio, criminali.
    Ma ebbe comunque le sue peculiarità: fu un gruppo essenzialmente femminile (e, per i parametri dell’epoca, anche “femminista”) ed ebbe la sua base vera in quella Calabria che, dopo la caduta del regime, si riscopriva “rossa” e in cui i contadini, appoggiati dalle forze di sinistra, iniziavano le prime, importanti mobilitazioni.

    Il Movimento italiano femminile, così si chiamava questa struttura, fondato dalla principessa Maria Pignatelli nell’autunno del ’46, ebbe anche il singolare primato di essere la prima organizzazione neofascista legale del Paese, perché precedette di poco la nascita ufficiale del Msi (che si costituì il 26 dicembre 1946).

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    La principessa Maria Pignatelli

    La strana fuga

    È l’estate del 1945. La principessa Pignatelli è prigioniera nel campo di concentramento britannico di Riccione. In città c’è Puccio Pucci, un reduce di Salò collegato a Pino Romualdi e ad Arturo Michelini, che nello stesso periodo si trovano a Roma e cercano di radunare tutti i fascisti sbandati attorno a un progetto politico.
    Pucci non è lì per caso. Deve recuperare la principessa che progetta l’evasione dal campo. Il piano riesce: grazie all’aiuto delle suore di Cesena, che fanno le ausiliarie del carcere alleato. Le religiose nascondono la principessa nel furgone della biancheria e la fanno arrivare a Roma. Qui trova rifugio in Vaticano, presso monsignor Silverio Mattei, prelato della Sacra congregazione dei riti.
    Proprio a casa di Mattei la Pignatelli inizia a tessere la trama con cui costituirà il suo movimento di assistenza ai fascisti, grazie senz’altro alla sua formidabile rete di contatti con l’aristocrazia romana e con molti esponenti dell’ex regime. Ma soprattutto grazie all’aiuto delle autorità vaticane.

    Un personaggio particolare

    La fuga a Roma, dove si erano rifugiati moltissimi fascisti in fuga dal Nord, mette la parola fine a due anni di prigionia per la principessa.
    Tutto era iniziato nella primavera del ’44, quando donna Maria riuscì in un’impresa spericolatissima. Varcò il confine di guerra, all’epoca poco sotto Roma, incontrò il feldmaresciallo Kesserling, a cui riferì notizie sensibili sulle strutture strategiche alleate. Poi andò a Gargnano sul Garda, dove incontrò Mussolini e Francesco Maria Barracu, ex federale di Catanzaro e in quel momento sottosegretario della Repubblica Sociale Italiana.
    Stando alle dichiarazioni della principessa e a varie testimonianze storiche, Mussolini in persona ordinò alla nobildonna di creare il Mif.
    L’ordine non fu dato per caso, perché la principessa Pignatelli sembrava la persona adatta allo scopo.
    Fiorentina di origine e figlia dell’ammiraglio Giovanni Emanuele Elia, donna Maria aveva sposato in prime nozze il marchese Giuseppe de Seta, aristocratico siciliano col vizio del gioco. Da lui ebbe quattro figli, tra cui Vittorio de Seta, che sarebbe diventato un importante regista del filone neorealista.

    Michele Bianchi e la principessa Pignatelli

    Sposa del principe Pignatelli di Cerchiara

    Ma il matrimonio durò poco. Subito dopo la separazione, la marchesa de Seta si legò a Michele Bianchi, di cui fu amante. Poi, nel ’42, subito dopo la morte del marito, sposò il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara.
    Il loro fu un legame forte, in cui sentimenti e passione politica costituirono un mix micidiale vissuto con una certa incoscienza. Anche Valerio, un fascista irrequieto con una carriera militare alle spalle, era legatissimo a Mussolini, per conto del quale aveva creato, alla fine del ’43, la Guardia ai labari, un’organizzazione clandestina ramificata tra la Calabria e Napoli.
    L’organizzazione fu scoperta e smantellata dai carabinieri nell’estate del ’44. Qualche mese prima, la polizia militare britannica aveva scoperto il viaggio della principessa oltre confine e arrestò i Pignatelli.
    Per Valerio e Maria iniziarono la galera e i guai giudiziari. I due, condannati a 12 anni di carcere a testa per spionaggio, furono detenuti assieme nel campo di concentramento di Padula per alcuni mesi. Poi la principessa fu trasferita dapprima a Terni e, da lì, a Riccione.

    Giornale d’epoca sul processo agli 88 di Catanzaro

    Intrighi internazionali

    Il Movimento italiano femminile disponeva di due carte vincenti: una struttura diffusa su tutto il territorio nazionale e l’appoggio della Chiesa, grazie al quale la principessa organizzò, quando ancora era latitante in Vaticano, l’espatrio di oltre 15mila fascisti in fuga verso l’Argentina di Juan Domingo Peron.
    Come rivela l’inchiesta di Giorgio Agosti, all’epoca questore di Torino, gli espatri furono coperti dai francescani di Genova, che radunavano i fuggiaschi e procuravano loro i passaporti per lasciare l’Italia. Assieme ai fascisti sbandati, per molti dei quali era diventato pericoloso restare in Italia, scapparono in Sud America non pochi ustascia croati, per i quali restare in Italia significava il rimpatrio e la morte certa.

    Ma perché proprio l’Argentina e, soprattutto, quale fu il ruolo della Pignatelli? La prima risposta è semplice: la comunità italiana di Buenos Aires era filofascista e, grazie a Peron, era diventata molto influente nelle scelte politiche del Paese latinoamericano. Più nello specifico, Valerio Pignatelli aveva un forte legame personale con il presidente argentino. Questo legame, di cui si avvantaggiò il Mif, fu ribadito in un incontro riservato tra la principessa, le dirigenti del suo movimento ed Evita Peron, che si svolse a Roma nel ’47. Il Mif, inoltre, si occupò anche della raccolta dei finanziamenti inviati dagli italiani d’Argentina per aiutare la nascita del Msi.

    Evita Peron

    Cose di Calabria

    Nell’estate del ’46 la situazione cambia. Grazie all’amnistia di Togliatti, donna Maria abbandona la latitanza e Valerio lascia il campo di Padula.
    I due tornano in Calabria, per la precisione a Sellia Marina. E proprio da lì la principessa inizia a gestire il Mif. Soprattutto, inizia a usare la Calabria come rifugio per fascisti.
    La vicenda, a questo punto, assume tratti pittoreschi, che emergono dalle lettere che la principessa indirizza alle dirigenti calabresi del Mif o ai leader del Msi. Donna Maria non parla mai di “fascisti” o di “latitanti”, ma si esprime in gergo: a seconda della gravità dei casi, parla di “disoccupati”, di “malati che devono cambiare aria”, di “falegnami”, “carpentieri” e via discorrendo.

    La casa in Sila per il fratello di Junio Valerio Borghese

    In un caso, il riferimento è esplicito, quando la principessa chiede aiuto a Luigi Filosa (foto in basso a destra), dirigente del Msi cosentino, perché cerchi una casa in Sila per il fratello e la sorella di Valerio B., cioè del principe Junio Valerio Borghese.
    In un altro caso, a dispetto delle tante cautele, qualcosa emerse a Cosenza, dove due ex repubblichini in fuga da Roma, avevano dato un po’ troppo nell’occhio e allarmato i comunisti. Difficile quantificare quanti fascisti abbiano approfittato degli aiuti del Mif. Secondo un calcolo prudente, potrebbero essere attorno al migliaio.

     

    Fasciste in rosa

    La particolarità del Mif fu la sua natura di movimento creato e gestito da donne, in cui gli uomini potevano avere al massimo due ruoli: quello di legale (che a Cosenza, per fare un esempio, fu ricoperto da Ugo Verrina, altro leader del Msi meridionale) o di consigliere religioso.
    I rapporti col Msi furono tutt’altro che idilliaci, perché la principessa difendeva a oltranza l’indipendenza del Mif dalle mire del partito, che voleva farne una specie di sezione femminile.
    Al riguardo, restano memorabili le polemiche della Pignatelli nei confronti dei vertici missini, di cui non gradiva le ingerenze.

    Se le donne votano come gli uomini, chiedeva la principessa al segretario del Msi Arturo Michelini, a cosa servono le sezioni femminili? E ancora: noi facciamo assistenza a chi ha problemi, non politica, ribadiva la nobildonna alle sue seguaci che si facevano tentare dalle candidature (anche se, va detto, il Msi fu il partito che candidò più donne).
    Il Mif chiuse i battenti intorno al ’53, perché la normalizzazione del quadro politico nazionale ne aveva rese superflue le funzioni. La principessa sopravvisse altri 15 anni. Morì in un brutto incidente stradale, nel momento in cui il ’68 gettava le basi di un protagonismo ben diverso per le donne…

  • Caso Lucano, le “verità” al veleno di Palamara

    Caso Lucano, le “verità” al veleno di Palamara

    Di sicuro, nel recentissimo Lobby e Logge di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, uscito per Rizzoli la scorsa settimana, ci sono alcuni vizi, non proprio leggeri: l’ansia di rivalsa e il desiderio di autodifesa dell’ex presidente dell’Anm più la proverbiale allergia del direttore di Libero nei confronti delle toghe.
    E tuttavia, le dichiarazioni al vetriolo dei due – che spesso vanno ben oltre il politicamente corretto – meritano una certa attenzione, per almeno due motivi: scombussolano un po’ le carte sulle questioni giudiziarie e, cosa più importante, si basano su fatti.
    Anche per quel che riguarda la Calabria, che emerge in questo libro-intervista soprattutto per quel che riguarda alcuni aspetti del processo a Mimmo Lucano, terminato con una condanna più commentata che analizzata.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Il magistrato e l’ex sindaco

    Le dichiarazioni di Palamara, sul caso Lucano, sono piccanti e argomentate.
    All’ex magistrato romano non interessa la vicenda di Lucano in sé, ma solo come punto di partenza per polemizzare contro gli equilibri interni al potere giudiziario. Cioè gli assetti di potere di quello che lui, nel suo libro precedente, ha definito “Il sistema”.
    Infatti, su Lucano l’ex capo delle toghe è piuttosto garantista: «Pur nel pieno rispetto delle motivazioni dei giudici di Locri, depositate il 17 dicembre del 2021, non mi spiego una pena così alta viste le imputazioni contestate e il contesto nel quale le condotte dello stesso Lucano si sono verificate».

    Il vero bersaglio di Palamara è Emilio Sirianni, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro, finito nei guai per via della sua amicizia per Lucano, in nome della quale si espose un po’ troppo, al punto di essere indagato dalla Procura di Locri e di subire un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura.
    Per onestà è doveroso ribadire che i fastidi giudiziari di Sirianni sono solo un ricordo, visto che il giudice catanzarese è stato archiviato a Locri e prosciolto dal Csm nel 2020, quindi oltre un anno prima che Lucano venisse condannato.

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    Emilio Sirianni

    Piange il telefono

    Tuttavia, ciò non toglie che certe affermazioni di Sirianni siano pesanti, come rilevano i magistrati di Locri nell’ordinanza di archiviazione dell’inchiesta sul loro collega: «il comportamento mantenuto è stato poco consono a una persona appartenente all’ordine giudiziario, peraltro consapevole di parlare con una persona indagata».
    Ma cos’ha detto di così pesante Sirianni?
    Innanzitutto, c’è una battuta piccantissima su Nicola Gratteri, “colpevole” di non aver difeso a sufficienza Lucano. In altre parole, Lucano era preoccupato del fatto che il procuratore di Catanzaro si era dimostrato tiepido sull’inchiesta di Locri, limitandosi a un banale: «Sarei cauto, bisogna leggere le carte», dichiarato in tv ad Alessandro Floris.

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Sirianni avrebbe cercato di rassicurare Lucano per telefono con un commento al peperoncino rivolto al magistrato antimafia più famoso d’Italia: «Lascialo stare, è un fascista di merda ma soprattutto un mediocre, un mediocre e ignorante».
    Addirittura alla ’nduja le dichiarazioni di Sirianni su un altro calabrese di peso: Marco Minniti, all’epoca ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, che viene definito «uno pseudo comunista burocrate che ha leccato il culo a D’Alema per tutta la vita».
    Non entriamo nel merito di queste dichiarazioni, così come non ci è entrata la commissione disciplinare del Csm che ha prosciolto Sirianni perché ha detto quel che ha detto in privato e non in pubblico e quindi non ha discreditato la magistratura.

    Compagni in toga

    A essere pignoli, la frase più pesante del giudice di Catanzaro sarebbe quella in cui non ci sono parolacce ma tira in ballo un altro magistrato: Roberto Lucisano, presidente della Corte di Assise d’Appello di Reggio e compagno di Sirianni in Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe italiane.
    Sempre stando alle intercettazioni riportate in Lobby e Logge, Sirianni avrebbe detto a Lucano una cosa non troppo sibillina: «Ho parlato con Lucisano, il quale mi dice che la procura di Locri sta indagando ma che su questo Magistratura democratica farà una crociata». Non è proprio poco visto che, commenta Palamara, Lucisano, in virtù del suo ruolo, potrebbe essere giudice di Appello di Lucano.
    Ma l’ex magistrato evita i processi alle intenzioni e si sofferma, piuttosto, sull’aspetto ideologico della vicenda.

    MImmo-lucano
    Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace condannato in primo grado

    Toghe rosse

    Un lungo virgolettato di un’altra intercettazione, riportato stavolta da Sallusti, chiarisce i motivi per cui Sirianni si è sbilanciato tanto nei confronti di colleghi ed esponenti di governo. E il diritto c’entra davvero poco.
    Ecco il passaggio, che sa più di Potere Operaio che di Anm: «Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte, siamo dalla parte, siamo dalla parte del più debole, perché questo è scritto nella Costituzione, non perché questa è una rivoluzione».

    Il commento di Palamara, che si riporta per dovere di cronaca, è piuttosto duro: «In questa intercettazione c’è tutto quello che ho vissuto nei miei undici anni alla guida del Sistema che ha governato la politica giudiziaria. L’egemonia culturale di sinistra che sovrasta la Costituzione, la partigianeria che interpreta la legge». Non è il caso di entrare nel merito di questa dichiarazione dell’ex magistrato, perché la vera notizia, in questo caso è un’altra.

    Uno scandalo inedito?

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    Luca Palamara

    La fornisce Palamara: «Strano che l’integrale di queste intercettazioni non sia mai uscito sui giornali, e ancora più strano che non siano mai arrivate al Csm, e non penso che sia stato un disguido delle poste». Dichiarazione sua, che spetta ai diretti interessati smentire.
    Ma è una dichiarazione che, se non smentita, autorizza le peggiori dietrologie. Ad esempio questa, sempre di Palamara: «Penso che quelle frasi gravemente scorrette nei confronti di importanti magistrati e politici avrebbero creato dei grattacapi non solo a lui ma a tutta la sinistra giudiziaria».
    Di sicuro queste dichiarazioni, che si prestano a tutte le strumentalizzazioni possibili, non aiutano a far chiarezza in una vicenda, quella di Mimmo Lucano, che richiede ben altra serenità.

  • Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    A Galatro, poco meno di 1.500 abitanti tra la Locride e le Serre, ci sono due potenti attrattori: innanzitutto le terme, costruite a fine ’800, e una fattoria modello, la Tenuta agricola Riario Sforza.
    Queste strutture sono ciò che resta di un progetto ambiziosissimo e mai realizzato. Si tratta di una città nuova di zecca, che avrebbe dovuto prendere il posto del borgo, dedicata nientemeno che all’eroe dei due mondi. Parliamo di Garibaldipoli, forse il primo progetto di rigenerazione urbana in Calabria, concepito da un personaggio singolare, Luigi De Negri, un ex garibaldino genovese trapiantato a Napoli.

    Un avventuriero per due continenti

    Su Luigi De Negri si sa poco. E quel poco che si sa lo si deve alle ricerche effettuate dallo storico Giuseppe Monsagrati, finite nel libro “Garibaldipoli e altre storie di terra e di mare” (Rubbettino 2021). Difficile dire, soprattutto, che età avesse De Negri quando, nel 1862, tentò la fortuna in Calabria meno di un anno dopo essere uscito di galera, dov’era finito per una maxitruffa a Napoli. E non si sa neppure che fine abbia fatto, dopo aver tentato di far fortuna in Africa, agli albori del colonialismo italiano.
    Che sia stato garibaldino e avesse partecipato alla spedizione dei Mille lo si apprende dai documenti del Generale. L’eroe dei due mondi in effetti ebbe con lui un rapporto particolare. In cui c’era di tutto, tranne la fiducia. E le sue idee strampalate, a volte geniali ma sempre irrealizzate, emergono dagli archivi giudiziari e ministeriali.

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    Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi

    Una città ultramoderna a Galatro

    Nel 1861 Galatro aveva un problema singolare: lo spopolamento, iniziato addirittura in età borbonica e dovuto alla cattiva posizione del borgo, tutt’altro che salubre.
    Il paese, tra l’altro, era stato ricostruito a inizio ’800 su un’altura, dopo che il terremoto del 1783 aveva raso al suolo il sito originario. In altre parole, questa situazione era il risultato di una scelta fatta in situazione di grave emergenza, in cui i rischi erano ben altri che l’aria insalubre e l’umidità.
    Con tutta probabilità, l’idea di creare una nuova città e dedicarla a Garibaldi fu suggerita agli abitanti di Galatro proprio da De Negri, che quell’anno aveva appena chiuso una tipografia per inventarsi una fantomatica Società Promotrice per le Opere Pubbliche Comunali per l’Italia meridionale, con tanto di sede prestigiosa: il Palazzo Maddaloni di Napoli, proprietà del principe Tommaso Caracciolo.

    Proprio a Napoli, De Negri avrebbe frequentato un galatrese diventato famoso: Nicola Garigliano, un medico liberale, ferito durante i moti che precedettero l’arrivo dell’Eroe dei Due Mondi nella ex capitale dei Borbone. Vediamo meglio di cosa si trattava.

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    Garibaldi entra a Napoli con i suoi uomini

    Garibaldipoli

    Sembra strano trovare tanta modernità nell’Italia appena unita. Eppure, se fosse stata realizzata, Garibaldipoli sarebbe stata la prima città realizzata in project financing.
    Non solo: sarebbe stata anche la prima città costruita su un piano regolatore all’avanguardia: una pianta quadrata, divisa in quattro porzioni da due strade che si incrociano ad angolo retto. L’abitato, infine, sarebbe stato costituito da case di un solo piano, di uno o tre vani. Il nome di Garibaldi, in questo caso, serviva ad ungere le ruote dell’amministrazione provinciale e dei ministeri e ad attirare investitori. Già: perché oltre che dai desideri dei cittadini di Galatro e dalla megalomania di De Negri, il progetto non era supportato da niente.

    La città patacca

    Garibaldipoli si sarebbe dovuta realizzare su un’altura della Valle del Salice, tramite l’esproprio, finanziato dal Comune di Galatro, di vari appezzamenti di terreno agricolo già assegnati a vari privati.
    L’operazione non era leggerissima, avendo un costo iniziale di circa 10 milioni di euro odierni. Stesso discorso per la costruzione, che secondo il piano di De Negri, sarebbe stata finanziata in parte dagli stessi cittadini con l’acquisto preventivo delle case, in pratica una cooperativa edilizia. Più interessante è l’altra parte del finanziamento, che sarebbe dovuto derivare da azioni, dal valore di 200 euro odierni l’una, emesse direttamente dalla Società di De Negri, il quale praticamente non metteva uno spicciolo di suo, ma solo il nome di Garibaldi, con cui millantava rapporti di grande intimità.

    In cambio di tanto impegno, l’imprenditore si “accontentava” della concessione gratuita delle acque termali, che allora sgorgavano in una grotta nei pressi del paese. Per sfruttarle avrebbe costruito uno stabilimento, finanziato sempre con azioni, da collocare addirittura presso il mercato internazionale.
    E non finisce qui: il nome del Generale, inoltre, avrebbe dovuto garantire la costruzione di nuove strade che collegassero l’area di Galatro, praticamente isolata, alla vicina Polistena.

    Convocato da Garibaldi

    C’è da dire che il Nostro si diede da fare per davvero. Inondò di lettere Garibaldi, a cui chiese addirittura di mettere la sua residenza proprio nella futura città.
    Ma l’Eroe dei Due Mondi, ripresosi da poco dalle ferite riportate in Aspromonte, non solo non aderì all’iniziativa, che finì in niente, ma volle vederci chiaro e convocò De Negri a Caprera. Di questo incontro, che avvenne alla fine del 1863, non si sa molto, se non che, da allora in avanti, De Negri non si sarebbe più messo in bocca il nome del Generale.

    Truffe garibaldine

    Infatti, non era la prima volta che De Negri usava il nome di Garibaldi che era già un brand di suo. Già nel 1860, a conquista appena ultimata delle Due Sicilie, l’imprenditore ligure aveva inventato un Comitato per la spada d’onore a Garibaldi, con sedi a Napoli e Milano.
    Era la classica macchinetta mangiasoldi, escogitata assieme ad Alessandro Salvati un altro ex garibaldino avventuriero come lui, segno che chi si somiglia si piglia.
    Lo scopo di questo comitato, che faceva concorrenza ai ben più seri Comitati di provvedimento garibaldini, era la raccolta di fondi per finanziare le prossime imprese dell’Eroe. Tra cui una bizzarrissima e megalomane: una spedizione nei Balcani per liberare l’Ungheria dal giogo austriaco. Sembra strano, ma qualcuno la prese sul serio, col rischio di scatenare una crisi internazionale

    Intrigo internazionale

    In Italia c’era allora una comunità di esuli ungheresi, divisa da una forte rivalità interna tra due leader, entrambi militari. Erano Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e uomo di fiducia di Garibaldi, e il generale Sandor Gall.

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    Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e persona molto vicina a Garibaldi

    Gall si fece sedurre dall’idea dei due fondatori del Comitato della Spada: uno sbarco in Grecia, possibilmente guidato da Garibaldi (o comunque in suo nome), quindi la risalita in armi nei Balcani occidentali per dare una mazzata all’Impero d’Austria. E così il Comitato iniziò a reclutare volontari e, soprattutto, a raccogliere quattrini.
    Peccato solo che Cavour, impegnato a negoziare la pace, contrastò l’iniziativa, a cui Turr si era ferocemente opposto, e Garibaldi negò il suo consenso. Risultato: i Comitati di provvedimento denunciarono per malversazioni finanziarie Salvati e De Negri, che finirono in galera assieme a Gal.

    Il generale ungherese Sandor Gall

     

    Senza Garibaldi

    Nel 1870 De Negri si tolse dalla testa Garibaldi e si buttò in un altro settore: la pesca. Allo scopo, aveva comprato uno scoglio nella baia di Posillipo, l’isola di Gajola. Luogo su cui aveva costruito una villa che sarebbe dovuta diventare la sede di quest’impresa. Un’attività economica per l’epoca all’avanguardia: l’allevamento dei pesci e il loro sfruttamento razionale. Inutile dire che questa iniziativa si sarebbe dovuta finanziare, più o meno, come Garibaldipoli: attraverso la raccolta di fondi mediante le azioni della sua Società di Pescicoltura. Anche quest’impresa finì malissimo, sia perché i pescatori vi si opposero sia perché la bocciò l’illustre zoologo Achille Costa.

    L’isola di Gajola, che fu acquistata dall’avventuriero ed ex garibaldino Luigi De Negri

    Mal d’Africa

    De Negri tentò l’ultima avventura ad Assab, nei primi ’80 del 1800. Il porto eritreo era da poco colonia italiana perché l’armatore Rubattino l’aveva venduto al governo. Logico che attirasse gli appetiti di imprenditori, semplici lavoratori e di avventurieri. Altrettanto logico che uno come De Negri tentasse anche lì. Infatti, il Nostro ripropose l’idea della pescicoltura con un’aggiunta esotica in più. Purtroppo per lui, trovò sulla sua strada Costa, a cui il governo dell’epoca chiese una consulenza. Inutile dire che il progetto fu lasciato cadere. Da questo periodo in avanti non si hanno più notizie di questo personaggio, a dir poco singolare.

  • Credito killer, diecimila imprese calabresi a rischio

    Credito killer, diecimila imprese calabresi a rischio

    Iniziamo con una cifra poco rassicurante: sono poco più di 10mila le imprese calabresi con seri problemi di credito.
    Tradotta in percentuali, questa cifra sembra piccola perché equivale al 5,6% delle attività in crisi in Italia. In realtà è un dato allarmante, se lo si paragona al resto del Sud, dove la percentuale di imprese con crediti in sofferenza è il 4,8%, e al sistema Paese, dove arriva al 4,5%.
    In questo caso, il Covid non c’entra, perché questi dati sono fermi alla fine del 2019.
    Ma sono gli unici disponibili provenienti da fonte autorevole, cioè il Rapporto sull’economia della Calabria pubblicato da Bankitalia lo scorso giugno.

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    Le notizie cattive non si fermano qui, purtroppo: la percentuale delle aziende con crediti in sofferenza nel 2019 è superiore dell’80% a quella censita nel 2007, che si attestava al 3,7%, con circa 5.200 imprese nei guai.
    Ma anche allora la Calabria aveva la sua brava maglia nera, sia rispetto al Sud, dove il dato era del 3,2%, sia rispetto al resto del Paese, dove oscillava attorno al 2,8%.
    Segno che le grandi crisi finanziarie iniziate nel 2008 hanno colpito tutta l’Italia in maniera più o meno grave, ma hanno affossato la Calabria, dove la struttura imprenditoriale è fatta in larghissima parte di imprese di dimensioni ridotte o minuscole.

    Tutta colpa del credito?

    I dati elaborati da Bankitalia provengono da Infocamere e dalla Centrale dei rischi. Il che, in parole povere, significa che le imprese censite sono considerate “cattive pagatrici”.
    Ma non è tutta colpa loro, anzi. «Il problema», spiega Franco Rubino, ordinario di Economia aziendale all’Unical, «è dovuto soprattutto alle pessime condizioni del credito, che mettono in ginocchio le attività».
    La dichiarazione di Rubino conferma in pieno l’analisi di Bankitalia, secondo cui «la Calabria è tra le regioni con la peggiore qualità del credito».

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    Franco Rubino, ordinario di Economia aziendale all’Unical

    Ma da cosa dipende questa qualità “bassa”? Senz’altro dai tassi d’interesse eccessivi che, come abbiamo già raccontato su I Calabresi, toccano il 6,7%. Cioè più del doppio del Nord.
    Tutto questo, spiega ancora Rubino, «si traduce in una difficoltà di accesso al credito doppia», che può peggiorare proprio per le aziende in sofferenza.
    E non è da escludersi che dietro tassi così alti si celino forme più o meno larvate di usura bancaria.

    Usura e banche, missione impossibile

    È difficilissimo, tuttavia, capire quando dai tassi elevati ma a norma di legge si arriva a forme di usura vere e proprie.
    Il problema può essere di decimali, perché tutto ciò che supera il Taeg (il Tasso annuo globale effettivo, calcolato su tabelle elaborate periodicamente dal Ministero dell’economia), anche di uno zerovirgola, diventa usura. E in questo caso, il problema cambia, perché si va sul penale.
    Perciò è impossibile censire a priori l’usura bancaria, che emerge solo in seguito a denuncia del debitore.

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    Fernando Scarpelli, responsabile provinciale di Cosenza dell’Associazione per la difesa degli utenti dei sevizi bancari

    Ciò non toglie che i casi possono essere più alti di quanto non si creda, spiega Fernando Scarpelli, avvocato e responsabile provinciale di Cosenza dell’Adusbef, l’Associazione per la difesa degli utenti dei sevizi bancari: «In un anno difendo in media oltre venti debitori vessati», spiega Scarpelli. E l’alto numero di risultati positivi, più che un complimento al professionista, indica un’altra cosa: vincere una causa contro un istituto di credito non è difficile perché le condizioni con cui sono concessi i crediti risultano eccessive. Già: «La differenza tra un mutuo concesso con un tasso variabile, che tende ad alzarsi, e una pratica di usura bancaria può essere minima». Solo che, nel secondo caso, finisce sotto i rigori della legge, nel primo no. Ma per il debitore vessato non cambia nulla.
    Peggio che andar di notte per le piccole imprese, che arrivano a pagare il 9,6% per un fido. In questo caso, prosegue Scarpelli, «i debiti si “incagliano” davvero per poco: bastano centomila euro o poco meno e si viene segnalati alla Centrale dei rischi».

    Morire di debiti

    Il dato più devastante riguarda la morte delle aziende in sofferenza. Secondo Bankitalia, in cinque anni oltre il 40% delle imprese segnalate alla Centrale dei rischi chiude i battenti o, peggio, fallisce. Del restante 60% solo un terzo esce dalla sofferenza. In pratica, solo 2mila aziende sulle 10mila prese a campione di Bankitalia riesce a risanarsi.
    E le altre? Tirano a campare per cinque anni e passano da un creditore all’altro, perché nel frattempo le banche, per ripulire i propri bilanci, vendono i propri crediti. E non sono somme piccole: nel 2020, sempre secondo Bankitalia, le banche hanno ceduto o “cartolarizzato” crediti in sofferenza per un totale di 428 milioni di euro. Una cifra enorme, paragonata al Pil della Calabria, che nello stesso periodo perdeva l’8%, attestandosi sotto i 30 miliardi.

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    La morale della favola è chiara: se non fosse stato per questi tassi alti, molte imprese potrebbero reggere. Perché, rivela sempre Bankitalia, la capacità di sopravvivenza delle imprese in crisi è comunque superiore alla media nazionale e la capacità di ripresa è uguale al resto d’Italia.
    Tutto questo, ovviamente, prescinde dal Covid, che ha dato la mazzata, provocando una contrazione immediata delle imprese del 3,2% nel periodo caldo della pandemia e aumentando la mortalità delle piccole imprese artigiane e terziarie.
    In questo caso, è difficile accollare al credito tutte le responsabilità, perché molte aziende, soprattutto nella ristorazione, hanno semplicemente chiuso per mancanza di lavoro.

    Accesso al credito

    Avere sofferenze bancarie significa trovarsi nella classica situazione del cane che si morde la coda: più si hanno debiti meno credito si può avere e, soprattutto, è più difficile rinegoziare i fidi e i mutui. Con risultati devastanti: nel 2020 è emerso che circa il 44% delle imprese reggine aveva problemi enormi nell’accendere linee di credito.
    Va da sé che, a prescindere dalle moratorie e dalle misure di soccorso predisposte per affrontare la pandemia, questa situazione rischia di avere solo uno sbocco. L’usura. Ma in questo caso, si passa dall’analisi economica alla cronaca giudiziaria…

  • Orsomarso e i suoi segreti nel cuore della montagna

    Orsomarso e i suoi segreti nel cuore della montagna

    A Orsomarso, meno di 1.200 anime nel nord della Calabria, il mare non c’è. Chi vuole goderselo va nelle vicinissime Santa Domenica Talao, Santa Maria del Cedro o Scalea. Ma, al riparo del turismo di massa, c’è un attrattore potenziale per un pubblico più specializzato ed esigente: la parte meridionale dell’Appennino Lucano, nota come Monti di Orsomarso, meno alti del Pollino, ma altrettanto massicci.

    E poi ci sono i loro tesori nascosti, accessibili solo agli appassionati più spericolati e qualificati: gli speleologi. Parliamo di grotte che si aprono sulle pareti dell’Appennino e si inabissano a grande profondità. Una in particolare, che si affaccia sul Pianoro di Scarpuri, è una cosiddetta “risorgenza”, cioè una sorgiva montana da cui emerge un fiumicattolo sotterraneo. È profondissima, circa 70 metri. L’altezza di un edificio. E non è un caso che si chiami Risorgenza Palazzo.

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    Esploratori in azione tra le viscere dei monti dell’Orsomarso

    Un mistero a metà

    L’esistenza di questa grotta, spettacolare non solo per le dimensioni, non era un segreto: non a caso è regolarmente censita da anni nei registri del catasto.
    Quel che non si conosceva e che è emerso solo di recente è la dimensione enorme e, soprattutto, la disposizione particolare e articolata di questa cavità, che è un’opera sofisticata di architettura naturale, lavorata per millenni dai corsi d’acqua e tuttora di difficile accessibilità e in parte inesplorata.
    La prima esplorazione seria risale al 2017 ed è opera di due gruppi di speleologi: Le forre del Tirreno, già protagonista di altre scoperte importanti, e Mercurion,
    Ma com’è fatta questa grotta? E, soprattutto, quali sono i suoi misteri?

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    L’ingresso del sifone sotterraneo

    I segreti della montagna

    L’ingresso è un triangolo piuttosto ampio nella parete della montagna, da cui sgorga un fiumiciattolo che finisce nella valle.
    La cavità iniziale è piuttosto ampia, circa 100 metri, e si sviluppa in orizzontale. Alla fine di questo antro c’è una biforcazione particolare che obbliga gli esploratori a improvvisarsi, rispettivamente, alpinisti o sub.
    Il primo percorso, sconsigliato a chi è sovrappeso o non ha capacità atletiche decorose, porta a una stanza superiore, raggiungibile con un’arrampicata su corda di 12 metri. La fatica vale la pena, perché il paesaggio è davvero spettacolare ed evoca immagini a metà tra il film horror e il Paradiso Perduto.

    Speleologi si calano nel corridoio sotterraneo della grotta

    I padroni di casa sono i pipistrelli, disturbati a malapena dai ragni delle grotte e da piccoli invertebrati, che si dividono un ecosistema costituito da un laghetto che genera piccole cascate. Il tutto in un tripudio di “concrezioni”, cioè di stalattiti, stalagmiti e vele, scolpite dal lavorio incessante dell’acqua sul calcare delle rocce. Proprio la presenza di pipistrelli, spiega Paolo Cunsolo, il presidente de Le forre del Tirreno, fa pensare all’esistenza di un secondo passaggio sulla parete della montagna, che gli speleologi stanno tuttora cercando. La vera sorpresa, tuttavia, è al piano più basso.

    Un mondo a parte

    «Qui c’è un mondo intero», ha esclamato Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia e autore della scoperta, avvenuta a settembre 2017 nell’Appennino lucano che parla calabrese. Torniamo alla biforcazione del piano terra per capire meglio. Oltre che scalare con le corde, si può proseguire dritti, ma in questo caso la situazione si complica, perché la grotta termina in un sifone pieno d’acqua. Per esplorarlo, Greco ha dovuto indossare muta e bombole. Per fortuna, il condotto non è lunghissimo (circa 5 metri), tant’è che il resto del gruppo lo ha percorso in apnea.

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    Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia, si muove all’interno del sifone

    La grotta nel cuore dell’Appennino lucano a cui si accede è l’elemento più spettacolare della struttura: 400 metri di superficie e di ampiezza ancora non calcolata, perché, spiega Cunsolo, «le torce riescono a malapena a illuminare parte della cavità».
    In parte, ricorda la cavità superiore, solo che è tutto più ampio e non ci sono pipistrelli. E tutto lascia pensare che gli esploratori del 2017 siano i primi esseri umani che ci hanno messo piede. Ma c’è un’altra sorpresa, ancora tutta da scoprire.

    Fango, acqua e freddo nelle grotte dell’Orsomarso

    La terza grotta 

    Anche questa seconda grotta termina con un sifone. Il che indica che le acque sotterranee hanno un percorso piuttosto lungo, caratterizzato da altre importanti cavità. Alla fine di questo sifone, racconta ancora Cunsolo, potrebbe esserci una terza grotta, forse grande come quella scoperta di recente nel Pollino. Ma raggiungerla può essere davvero difficile e più rischioso. E non è improbabile che l’impresa richieda l’impegno di speleologi subacquei. Una sfida importante per specialisti che non temono i pericoli ma li conoscono benissimo. Chi la raccoglierà?