Autore: Saverio Paletta

  • Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Un giro del mondo e tanti guai, tra l’amore e l’anarchia. Li ha vissuti Giacomo Bottino, un operaio nato a Paola nel 1897 e poi emigrato, giovanissimo, a San Paolo del Brasile.
    Sulle rotte dell’emigrazione transoceanica, Giacomo incontra la sua prima, grande passione: la politica.
    A inizio XX secolo, essere socialisti non è facile. Ma essere anarchici può essere peggio: significa fare concorrenza a sinistra ai compagni dell’Internazionale, già in fase di divisione tra socialismo e comunismo. E significa, ovviamente, finire nel mirino delle autorità quasi in completo isolamento politico.
    Che è poi quel che accade a Bottino.

    Stuccatore a Formia

    In Brasile Bottino non ha solo conosciuto l’anarchismo, ma ha anche imparato un mestiere: fa lo stuccatore ed è abbastanza apprezzato.
    Nel 1921 si trova a Formia, dove si divide tra il lavoro e l’attività politica. E dove non ci mette molto a farsi schedare.

    Una copia d’epoca di Umanità Nova

    Infatti, Giacomo si dedica a un’intensa propaganda tra i muratori e i ferrovieri, in maggioranza comunisti, ai quali distribuisce Umanità Nova, la mitica rivista fondata e diretta da Errico Malatesta, dapprima a Milano e poi a Roma, dove il giornale e il suo fondatore sono costretti a trasferirsi perché i fascisti ne avevano incendiato la sede per rappresaglia in seguito alla strage dell’hotel Diana, attribuita agli anarchici.
    Bottino frequenta Malatesta e proprio a casa del guru dell’Internazionale Anarchica conosce l’altra sua grande passione: Ida Scarselli.

    Una famiglia pericolosa votata all’anarchia

    Bella, alta mora e un po’ robusta (e, aggiungerà qualche anno dopo un anonimo verbale di polizia, «dall’aria simpatica») Ida è coetanea di Giacomo.
    Ma in quanto a passione anarchica sembra tre volte più anziana: fa parte di una famiglia toscana di sette fratelli (oltre a lei, Oscar, Ferruccio, Egisto, Tito, Leda e Ines), tutti anarchici e tutti pericolosi.

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    Ida Scarselli

    Il 28 febbraio 1921 gli Scarselli si fanno (a dir poco…) notare a Certaldo, in provincia di Firenze, dove partecipano a un durissimo scontro di piazza con le Forse dell’ordine e i fascisti, giunti a dare manforte.
    Ferruccio, il fratello maggiore, resta ucciso. Oscar, affetto da una vistosa zoppia, si dà alla macchia e fonda un suo gruppo: la Banda dello Zoppo. Poi scappa all’estero, gira mezza Europa e alla fine si rifugia in Urss, assieme a suo fratello Tito.
    Egisto passa guai peggiori: arrestato subito dopo i disordini, si becca vent’anni di condanna. Ida, invece, viene arrestata e processata a Roma. Ma sarà assolta nel 1925 per insufficienza di prove.

    Propaganda e anarchia: il primo guaio di Giacomo

    Con questo popò d’esempio, Giacomo non ci mette molto a ficcarsi nel suo primo guaio serio.
    Nel 1922 si trasferisce a Roma per stare vicino a Ida.
    Il 24 aprile di quell’anno, Bottino si fa beccare dalla Polizia mentre volantina tra i soldati per incitarli alla diserzione. Viene arrestato e finisce sotto processo per propaganda sovversiva. Lo salva l’insufficienza di prove.
    Ma i problemi veri sono solo all’inizio.

    Una lettera maledetta

    Il 27 novembre 1926 la censura intercetta una lettera indirizzata a Giacomo, che nel frattempo convive a Roma con Ida.
    Gliel’ha spedita suo cognato Oscar dal Belgio e sembra scritta apposta per far infuriare i fascisti: dentro c’è tutto quello che un fuoriuscito può pensare del duce.

    Errico Malatesta, il guru dell’Internazionale anarchica

    Le autorità iniziano a scavare nelle vite di Giacomo e Ida e trovano abbastanza elementi per considerarli non più dei “semplici” antifascisti, ma addirittura dei cospiratori.
    A questo punto scatta il confino di pubblica sicurezza. Per sottrarvisi, Giacomo scappa a Messina. Ma la fuga dura poco, perché i carabinieri lo beccano il 13 febbraio 1927.
    A questo punto il confino a Lipari dovrebbe essere una certezza, per lui.
    Ma il regime la pensa diversamente: la pratica di Giacomo e Ida è passata, nel frattempo, al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

    La galera e il confino 

    I due anarchici non sono più un affare delle prefetture, ma sono diventati di competenza dell’Ovra, la famigerata polizia fascista, che li ritiene parte del Soccorso Rosso internazionale, dopo aver scoperto le attività di Ida in favore dei detenuti politici.
    Giacomo è rispedito a Roma il 20 marzo 1927 e subisce un processo per direttissima assieme alla sua compagna.
    La condanna, inevitabile, è una mazzata per entrambi: tre anni di carcere, tre di sorveglianza e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici a lui; due anni e mezzo di carcere, tre di sorveglianza più l’interdizione a lei.
    Ma l’amore vince ancora su tutto. E stavolta, galeotto è proprio il fascismo.

    Il matrimonio e il ritorno in Calabria

    Giacomo esce di galera il 19 marzo 1930, ma le autorità lo trattengono e lo spediscono al confino a Ponza. Qui ritrova Ida e, finalmente, la sposa Scontata del tutto la pena, Giacomo fa ritorno in Calabria nel ’32, dove porta con sé Ida e i loro tre figli.
    Dapprima la famiglia Bottino si stabilisce a Paola, dove Giacomo chiede, invano, alla Questura di Cosenza un passaporto verso il Brasile, per sé, per la moglie e per una figlia.
    Poi la coppia si trasferisce nel capoluogo, dove lui lavora come stuccatore nel cantiere del Palazzo degli Uffici.

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    La Scarselli e Bottino (a destra)

    Li raggiunge il cognato Egisto, nel frattempo uscito di galera grazie all’amnistia concessa dal regime per celebrare il suo decennale. Giacomo, con tre figli a carico, si dà la classica calmata e lavora duro. Anche Egisto si dà da fare come muratore nel medesimo cantiere del cognato. Tuttavia, non perde la passione politica e il vizio della propaganda. Resiste finché può a Cosenza e poi prova a scappare all’estero. Ma la polizia di confine lo ferma il 18 febbraio 1938 a Ventimiglia, assieme a un antifascista cosentino: Edoardo Vencia di Pedace.

    Nel Brasile dei golpisti

    La fine della guerra e del fascismo non significa la pace per la famiglia Bottino. Evidentemente, l’Italia di Mario Scelba, per anarchici come loro, non è più sicura di quella del ventennio.
    Il 19 gennaio 1947 Giacomo, Ida e i tre figli si trasferiscono in Brasile, per la precisione a Niteròi, una città costiera dello Stato di Rio de Janeiro.

    Il visto di residenza brasiliano di Ida Scarselli

    L’approdo in America Latina è la classica brace dopo la padella: nel 1964 i militari cacciano con un golpe il presidente João Goulart e instaurano la dittatura che durerà per i ventun anni successivi.

    Fine della storia

    Da questo momento in poi, Giacomo, di cui sono note anche in Brasile le simpatie politiche, finisce nel mirino della polizia e subisce le angherie di un vicino di casa, evidentemente legato al regime.
    Quest’ultimo minaccia Giacomo più volte e lo denuncia ai militari. Non pago, arriva a sparare all’italiano e lo uccide. È il 14 settembre 1970.
    Ida muore il 22 ottobre 1989, a novantadue anni suonati. E vanta un primato singolare: è stata la prima donna condannata da un Tribunale fascista. Per questo merito, lo Stato italiano le ha riconosciuto la pensione e la reversibilità di Giacomo.

  • Il tuono prima della tempesta: i pistoleri della Villa Vecchia

    Il tuono prima della tempesta: i pistoleri della Villa Vecchia

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    A volte la violenza si percepisce nell’aria, che si satura fin quasi a esplodere.
    Nella Cosenza del ’77 è proprio così: la violenza politica degli anni di piombo inizia pian pano a evaporare.
    Quella della malavita, invece, è in crescendo.
    È il pomeriggio del 23 gennaio. Mancano poco più di undici mesi alla morte cruenta di Luigi Palermo, detto ’u Zorru, il mitico capo della mala locale, erede dell’altrettanto mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu.
    Sono passate da poco le quattordici e Francesco Fotino, appuntato di polizia che presidia la guardiola della vecchia prefettura (che oggi è diventata la sede della Provincia), sente alcuni spari e delle urla.

    Un duello di malavita alla Villa Vecchia

    I rumori provengono dalla Villa Vecchia, l’ex regno di Ciccio Scarpelli, alias Ciccio Fred Scotti, ex custode della struttura comunale e celebre per essere stato uno dei primissimi cantanti di malavita calabresi.
    Fotino si precipita fuori e nota uno spettacolo agghiacciante: un ragazzo cerca di trascinare a spalla un coetaneo gravemente ferito a una gamba. Quest’ultimo si chiama Giuseppe Castiglia e ha 21 anni. Ma gli amici lo chiamano Nuccio.
    Il poliziotto urla l’alt e poi spara un colpo di avvertimento in aria.

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    Fred Scotti e il leone della Villa comunale

    Il soccorritore molla Castiglia e scappa. Fotino rientra di fretta e furia nella guardiola e chiama il 113 per avere rinforzi. Poi va alla Villa Vecchia.
    Lo spettacolo, stavolta, è peggiore: un altro giovane riverso per terra, davanti al cancello della Villa. Ha una grossa macchia di sangue all’altezza del cuore. Si chiama Carlo Mussari, ha 25 anni e anche lui ha il suo bravo nomignolo: Dipignano.
    Per Mussari non c’è niente da fare: un proiettile gli ha attraversato il torace da parte a parte e i soccorritori lo trovano già cadavere.

    Il soccorso inutile e la morte

    Qualche speranza in più ci sarebbe per Nuccio: i suoi amici lo caricano su una Mini Minor Cooper 1300 e tentano di portarlo in Ospedale.
    Alla tragedia si aggiunge la sfortuna: l’auto è a rosso fisso e si pianta all’imbocco del ponte Mancini, che collega Cosenza Vecchia all’Ospedale.
    I soccorritori se la danno a gambe e abbandonano Castiglia, ormai agonizzante, per la seconda volta.

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    Una mitica Gazzella degli anni ’70

    Anche l’arrivo di una volante della Polizia è inutile: gli agenti trasbordano il ferito e cercano di arrivare al Pronto Soccorso. Ma Nuccio è gravissimo, perché il proiettile gli ha reciso l’arteria femorale e fermare l’emorragia è impossibile. Il ragazzo arriva a destinazione già cadavere.

    Le indagini sul duello, in tre sotto torchio

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    Il boss Franco Perna

    La prima pista degli inquirenti porta ad Alfredo Andretti. Questa pista parte dalla Mini Minor usata per soccorrere Nuccio, che appartiene alla sorella di Andretti.
    Tra l’altro, i poliziotti hanno trovato dentro l’auto delle prove non proprio trascurabili: i documenti di Castiglia, una pallottola calibro 7,65, una bottiglia di brandy e un paio di guanti in pelle marrone. Quanto basta ad Alfredo Serafini, il procuratore incaricato delle indagini, per fermare Andretti con l’accusa di concorso in omicidio.
    Inoltre, spuntano dei testimoni, tuttora sconosciuti, e un’altra prova: un caricatore Mauser trovato in una tasca di Dipignano.
    I questurini fermano altre due persone: Salvatore Pati, che all’epoca ha 26 anni, e Antonio Musacco, che ne ha 30.

    La prova che manca e l’antefatto

    Anche per loro due l’accusa è di concorso in omicidio. Ma a loro carico c’è una sola certezza: aver soccorso (e poi mollato) Nuccio.
    Ma il guanto di paraffina, negativo per tutti e tre gli indagati, toglie ogni dubbio: gli unici pistoleri di quel maledetto 23 gennaio ’77 sarebbero stati Nuccio e Dipignano.
    La sera prima, infatti, Castiglia ha litigato col cognato di Mussari e lo ha preso a schiaffi. I due, quindi si sarebbero dati appuntamento davanti alla Villa Vecchia, anche coi relativi compari, per chiarirsi.
    Ma le cose avrebbero preso un’altra piega: anziché “appaciarsi”, Castiglia e Mussari si sarebbero insultati e poi presi a revolverate a vicenda.
    Un duello violento, tipico di certa mala cosentina, finito male.

    I compari

    Il doppio omicidio della Villa Vecchia è la prima occasione in cui Andretti, Pati e Musacco compaiono nelle cronache giudiziarie. Ma i loro sono nomi destinati a tornare. Vediamo come. Andretti, considerato affiliato del boss Franchino Perna, sarà ucciso nel 1985 per un regolamento di conti. Qualche anno dopo, il pentito Roberto Pagano lo accuserà dell’omicidio dell’imprenditore Mario Dodaro. Musacco finisce in vari procedimenti, tutti dovuti a presunti fatti di mafia, a partire dal celebre maxiprocesso “Garden”.
    Stesso discorso per Salvatore Pati.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    «Eravamo “grattisti”, siamo diventati “sgarristi”». Con quest’efficace espressione, il boss pentito Franco Pino racconta la trasformazione della criminalità cosentina da malavita in mafia.
    Violenti, a volte in maniera vistosa e stupida (come Castiglia e Mussari, appunto), i giovani leoni di una certa Cosenza si preparavano, ognuno a modo suo, al salto di qualità che sarebbe arrivato proprio alla fine del ’77.
    Ma questa è un’altra storia…

  • Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi

    L’assoluzione, poi le lacrime di commozione dell’assolto più importante: Sandro Principe.
    Tutto questo, adesso, è cronaca che impazza per la rete e di cui si attendono approfondimenti già nelle prossime ore.
    Ma, alla fine di un’inchiesta cominciata nella prima metà del decennio scorso e di un processo di primo grado iniziato quattro anni fa, resta un dato: il “Sistema Rende” non esiste.
    Non, almeno, come lo aveva ipotizzato la Dda di Catanzaro.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Umberto Bernaudo, ex sindaco di Rende

    Non erano collusi con la ‘ndrangheta

    Secondo il collegio giudicante – presieduto da Stefania Antico e composto da Urania Granata e Iole Vigna – Principe, l’ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo e l’ex assessore Pietro Paolo Ruffolo, non sono stati collusi con la ’ndrangheta cosentina, non hanno sollecitato voti né hanno fatto favori alle cosche. In termini giudiziari: il fatto non sussiste.
    Discorso più sfumato per Giuseppe Gagliardi, ex consigliere comunale di Rende ed ex assessore provinciale, finito a giudizio solo per corruzione elettorale e assolto anche lui.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Pietro Paolo Ruffolo, ex assessore del Comune di Rende

    Rende non è Gomorra

    Rende non è Gomorra, sebbene il processo Sistema Rende avesse già i suoi condannati, tutti attraverso il rito abbreviato.
    Si tratta di Adolfo D’Ambrosio e Michele Di Puppo, ritenuti affiliati al clan Lanzino-Rua (quattro anni e otto mesi a testa), dell’ex consigliere regionale Rosario Mirabelli e di Marco Paolo Lento (due anni a testa).
    Rende non è Gomorra, tuttavia le cosche – e tutto il clima di veleni che ne accompagna la sola presenza – hanno pesato non poco nella vita (non solo politica) della città del Campagnano, ritenuta a lungo un modello civile e urbanistico.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Giuseppe Gagliardi, ex consigliere comunale a Rende ed ex assessore provinciale

    Sistema Rende

    I preliminari dell’inchiesta Sistema Rende sono iniziati nel 2012, subito dopo l’arresto di Ettore Lanzino, boss e “primula” delle cosche cosentine, beccato dai carabinieri del Ros proprio in un appartamento di Rende.
    L’arrivo della Commissione d’accesso antimafia in municipio fu questione di pochi mesi. E da quel momento in avanti prese il via uno stillicidio pesantissimo, a livello politico e poi giudiziario.
    Sono coincidenze, ci mancherebbe. Ma è doveroso rilevarle comunque: nel 2013, mentre la Commissione spulcia le carte del Comune, il sindaco Vittorio Cavalcanti, sostenuto (o, se si preferisce, imposto) da Principe, getta la spugna e Rende finisce commissariata.
    L’anno successivo, arrivano altri due stop per Principe: nella primavera 2014 i riformisti perdono clamorosamente contro la coalizione di centrodestra, guidata da Marcello Manna, e nell’autunno seguente il Pd nega la ricandidatura dello stesso Principe al Consiglio regionale.
    In tutto questo hanno pesato i sospetti di mafiosità? Impossibile dirlo. Ma occorre ricordare che l’inchiesta Sistema Rende ricostruisce gli ultimi anni ruggenti della leadership di Principe, che tocca il culmine nelle provinciali del 2009, con l’elezione di Ruffolo, Bernaudo e Gagliardi, e nelle amministrative del 2011, quando Cavalcanti diventa sindaco al posto di Bernaudo.

    Voti infetti?

    Secondo le ipotesi dell’accusa, rappresentata nel processo dall’attuale procuratore capo di Paola Pierpaolo Bruni, i voti delle cosche avrebbero avuto il loro ruolo in questi exploit. E, viceversa, gli amministratori di Rende avrebbero agevolato non poco le “coppole”.
    Queste accuse hanno raggiunto il massimo nel 2016, con l’arresto eccellente di Principe, poi revocato dal Riesame. Rende, a partire da quell’anno, non è più l’isola felice.

    Il paradosso Lanzino

    Nel 2012, quando finì in manette Ettore Lanzino, Marcello Manna non pensava di candidarsi a sindaco di Rende. Si limitava a fare manifestazioni coi Radicali e navigava in quell’area liberalsocialista a cavallo tra centrodestra e centrosinistra.
    Soprattutto, era l’avvocato di Lanzino, che avrebbe difeso fino al 2018, cioè fino al rinvio a giudizio di Principe.
    Ovviamente non c’è alcuna relazione tra la professione (e gli assistiti) e il ruolo politico di Manna. È solo un paradossale gioco di porte girevoli, grazie al quale un leader finisce in manette per presunte collusioni con un boss e l’avvocato di quest’ultimo gli fa le scarpe a livello politico.
    Di più non è possibile (né bello) dire, perché c’è di mezzo la democrazia. E la democrazia dice che i rendesi hanno scaricato da otto anni in qua il meccanismo politico creato da Principe.

    Il paradosso salernitano

    Il discorso è speculare per Marcello Manna, su cui pende tuttora la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione in atti giudiziari presso il Tribunale di Salerno per la nota vicenda dell’ex giudice Marco Petrini.
    Questa vicenda, sia chiaro, riguarda l’attività professionale di Manna e non il suo ruolo di sindaco. Che sia così lo hanno ribadito i magistrati che si occupano di questo delicatissimo procedimento, con la conferma dell’interdizione dall’esercizio dell’avvocatura a Manna, ma senza alcuna conseguenza politica. Una beffa del destino.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Le porte girevoli

    Marzo è il mese pazzo per eccellenza. Ma maggio può fare scherzi peggiori. Il mese è iniziato con tre scenari possibili.
    Il primo: proscioglimento di Manna e condanna di Principe. Quest’ipotesi avrebbe comportato senz’altro la fine del riformismo rendese e avrebbe fatto colare un bel po’ di fango anche sulle sue innegabili realizzazioni
    Secondo scenario: proscioglimento di Manna e Principe. Ormai è un’ipotesi astratta, anche se bella. Se si fosse realizzata, tutto sarebbe finito in un pari e la parola sarebbe ritornata alla politica.
    Terzo scenario: assoluzione di Principe e rinvio a giudizio di Manna. Non ci si pronuncia per elementare e doveroso garantismo. Tuttavia, visto che Manna ancora non ha deciso se optare per il rito abbreviato o per quello ordinario, quest’ipotesi è quasi certa e potrebbe rimescolare non poche carte.
    Di sicuro il sindaco ne uscirebbe indebolito di fronte al tribunale dell’opinione pubblica, l’unico che conti per un politico. Principe, al contrario, si rafforzerebbe. Anche a dispetto di alcune figuracce (ricordate la storia del “lazzo”?) che gli sono costate le elezioni del 2019 e che sono passate di prepotenza negli annali del trash.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Una veduta aerea di Rende

    La città nel mezzo

    Stanco, commosso e insolitamente pacato, Sandro Principe ha rilasciato una dichiarazione un po’ confusa non appena lui e i suoi sodali sono stati assolti con formula piena.
    Ma nel mezzo di questa vicenda decennale, iniziata con un arresto eccellente, e trascinatasi tra tante contraddizioni, resta Rende, che non è più quella degli anni d’oro.
    Il bilancio non è evaporato come quello di Cosenza, ma resta a forte rischio e la fama di oasi è un ricordo.
    La città è passata da “modello” a “sistema” e resiste come può al declino, che c’è anche se è meno visibile rispetto al resto dell’area urbana.
    Tuttavia, la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Cosenza fa chiarezza su un punto: la poltrona di sindaco a Rende non scotta più. E di questi tempi non è poco…

  • Duello tra boss: morte e sangue alle porte di Cosenza

    Duello tra boss: morte e sangue alle porte di Cosenza

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    Ancora non era mafia e non lo sarebbe diventata per un pezzo. Eppure i malavitosi di Cosenza odoravano già di leggenda. Va da sé, di leggenda nera. I loro nomi riempiono rapporti di Pubblica sicurezza, dominano le cronache (anche a dispetto delle censure del fascismo) e passano di bocca in bocca.
    Parliamo, in questo caso, del mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu, attivo tra il Ventennio e gli anni ’60, e di altri personaggi, come ad esempio Francesco De Marco, detto ’u Baccu e Michele Montera.

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    Piazza Riforma negli anni ’50: quartiere di nascita di Luigi Pennino, capo della malavita cosentina (foto L. Coscarella)

    I tre facevano parte dello stesso gruppo e, in particolare, Baccu e Penninu erano legatissimi. Poi le cose cambiano. Montera si mette in proprio e fa concorrenza a Penninu, che entra ed esce di galera con accuse non leggerissime: lesioni e omicidio.
    Ma anche Baccu si ribella a don Luigi. E la paga cara.

    Una malavita “bastarda”

    Nella prima metà del XX secolo a Cosenza c’è una malavita effervescente, che tuttavia non si può definire mafia. Il motivo è “sociologico”: i traffici della malavita di Cosenza si basano sulla prostituzione. E il lenocinio, secondo gli statuti dell’Onorata Società (il nome che allora la ’ndrangheta dava a sé stessa) è uno di quegli “strani mestieri che impediscono al delinquente di considerarsi uomo d’onore.
    Una condizione che la mala bruzia si sarebbe trascinata fino agli anni ’70, quando la terza generazione di “guagliuni ’i malavita” (titolo dell’omonimo libro di Francesco Carravetta) avrebbe tentato il salto di qualità, in parte riuscendoci, sotto la guida di altri boss come Franco Pino, Antonio Sena, Franchino Perna e Luigi Pranno. Ai tempi di Penninu le cose erano diverse.

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    Una storica immagine del quartiere dei Rivocati

    Luigi Pennino: profilo di un boss

    È doveroso premettere che non c’è alcun atto giudiziario definitivo che inchiodi Luigi Pennino al lenocinio. Inoltre: anche i boss non cosentini stimavano Pennino, che non consideravano un lenone. Tuttavia, ‘u Penninu resta la figura di spicco dell’ambiente cosentino, fatto di papponi, piccoli contrabbandieri ed estorsori. La sua leadership si basa su un misto di fascino personale (lo testimonia il suo successo con le donne), astuzia, coraggio e abilità con le armi.

    Nasce nel ’900 alla Riforma, che allora non è una piazza ma una campagna ai confini della città che dà su altre campagne, che costituiscono un hinterland povero in mano a pochi ricchi.
    Per qualche anno Pennino fa il fotografo ambulante. Ma il suo tenore di vita, testimoniato dall’abbigliamento elegante, è superiore alla sua professione e al suo ceto.
    Come si procuri i soldi per vivere bene – e campare una bella moglie – non è del tutto un mistero per le forze dell’ordine. Già nel ’31 ’u Penninu finisce in galera con l’accusa, confermata in appello, di furto e associazione a delinquere. È solo l’esordio.

    Il duello tra Pennino e Baccu avviene proprio nella discesa del Crocefisso alla Riforma

    Un duello tra ex amici

    Nel ’44 a Cosenza la guerra è finita. Ciò non vuol dire che in città regnino la pace e la sicurezza.
    A differenza dei compari reggini e siciliani, i malavitosi cosentini non ricorrono alla lupara bianca ma si affrontano a viso aperto dove e come capita.
    Così avviene in un tardo pomeriggio della primavera di quel dopoguerra, quando ’u Penninu e ’u Baccu discutono animosamente nella discesa del Crocefisso, che conduce alla Riforma.
    De Marco, sodale di Pennino, è un bestione dalla forza erculea. E tenta di ribellarsi al capo, a dispetto del fatto che quest’ultimo sia stimato e temuto in tutta la città, perché gestisce il suo potere con garbo e con un senso personale di giustizia che lo hanno reso una specie di Robin Hood.
    Come mai Baccu si è ribellato? Sulla rivolta del fedelissimo ci sono due versioni diverse, ma non necessariamente contrastanti.
    La prima: sarebbe stato Michele Montera, altro ex sodale di Pennino, poi diventato capo di un gruppo rivale, a istigare De Marco. La seconda: De Marco, tra le varie, era invidioso del successo con le donne. Non è la prima volta che don Luigi subisce un tentativo di golpe. E non si fa trovare impreparato.

    Pennino contro Palermo: la malavita di Cosenza

    Torniamo indietro di quasi dieci anni, per la precisione al 2 aprile 1935. Pennino convoca i suoi per una partita a bocce.
    Chi perde, dovrà pagare il vino per un altro gioco: Patrune e sutta.
    Col boss ci sono Albino e Michele Montera, Giovanni Del Buono, Francesco Parise e tale Luigi Palermo, detto ’u Calavisi (che, stando alle carte, sarebbe solo omonimo del boss storico, detto ’u Zorru, che prenderà il posto di Palermo).

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    Luigi Pennino, storico capo della malavita di Cosenza

    La partita a bocce va benissimo. Decisamente meno quella a Patrune e sutta: Pennino si arrabbia coi suoi e li convoca fuori per chiarire. Prende sottobraccio Albino Montera e si dirige verso il gasometro.

    Alle sue spalle c’è Palermo, che estrae un coltello e lo colpisce di striscio al collo e poi al petto. Il secondo colpo non va a bersaglio come si deve e il coltello buca solo la giacca del boss. Quest’ultimo reagisce e colpisce ’u Calavisi al fegato con una coltellata ben piazzata.
    Palermo muore quattro giorni dopo e Pennino è condannato a quattro anni di carcere, perché la Corte d’Assise di Cosenza gli riconosce le attenuanti sull’imputazione di omicidio colposo.

    La fine di Baccu

    Lo stesso copione si ripete, più o meno, dieci anni dopo alla Riforma. Abituato a guardarsi le spalle, don Luigi si presenta armato come si deve.
    Ha una Smith & Wesson a tamburo, con cui ha barattato la sua vecchia Beretta. De Marco spara per primo e colpisce Pennino alle gambe.
    Il boss è più preciso e deciso, oltre che fortunato: mira al petto e spara tre volte. E tutt’e tre centra il bersaglio.
    Stavolta la legittima difesa c’è tutta. Baccu termina la carriera e la vita. Penninu morirà trent’anni dopo e il suo feretro riceverà onorificenze degne di un leader.
    Poi inizierà l’era di Luigi Palermo, ’u Zorru. Ma questa è davvero un’altra storia.

  • Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

    Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

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    Chi non gli vuol bene (o è deluso) rimprovera due cose all’ex sindaco Mario Occhiuto: essersi concentrato sul voluttuario e il dissesto del Comune di Cosenza.
    Quest’ultimo non è colpa sua. O, almeno, non lo è del tutto. Gli si può rimproverare di non aver tenuto i conti sotto il livello di guardia, tanto più che lo Stato aveva iniziato a sforbiciare le sue rimesse dal 2011.
    Gli emblemi del voluttuario by Occhiuto restano le luminarie con cui ha tentato di abbellire, non sempre riuscendoci, varie zone della città.

    Parliamo dei famosi “cerchi” e dei santini di un improbabile Re Alarico che hanno troneggiato per anni, a costi non proprio leggerissimi.
    «Archite’ ricogliati ssì circhi», rappavano alcuni anni fa Zabatta e Solfamì, i re mascherati dell’hip pop satirico cosentino.
    Ora che i circhi non ci sono più (anche se Franz Caruso li ha rimessi in giro), è doverosa una riflessione: il dissesto di Cosenza non è colpa delle luci. Ma a Cosenza c’è stato un sindaco che ha messo il Comune in crisi per altre luci: Francesco Martire.

    Cosenza verso il dissesto: il primo grande debito

    Francesco Martire non era un archistar ma aveva lo stesso il pallino delle opere pubbliche.
    Esponente della sinistra storica, già deputato per tre legislature a partire dal 1865, aveva promosso la realizzazione della ferrovia Sibari-Sila.
    Nel 1876 Martire diventa sindaco di Cosenza, dove fa ricostruire il ponte Alarico e, appunto, realizza l’illuminazione a gas.

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    Il vecchio ponte Alarico (1883) in ferro, sostituito dall’attuale dopo la Seconda Guerra mondiale

    Per una città come Cosenza, il gasometro è la classica manna. Ma anche uno sproposito: costa un milione di lire dell’epoca, oltre venti milioni di euro attuali.
    Infatti, la Cosenza dell’ultimo quarto del XIX secolo conta circa ventimila abitanti e il suo bilancio è al massimo di duecentomila lire. Quindi s’impone il mutuo. Martire lo contrae a nome del municipio col banchiere napoletano Gaetano Anaclerio.

    Il contratto è un capestro: per garantirlo, il Comune emette 3.036 obbligazioni da cinquecento lire l’una, da rimborsarsi entro cinquant’anni. Più gli interessi ed eventuali penali. C’è chi mugugna. Ma tant’è: nella Cosenza di allora, chi non è d’accordo salta, più che in quella di oggi.
    È il caso di Antonio Coiz, il preside del Telesio, trasferito in Puglia qualche mese prima del prestito. Martire è intoccabilissimo, perché protetto da tutti. Dalla sua sinistra e dagli avversari.

    Inciucio d’epoca tra destra e sinistra

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    Luigi Miceli

    Alle spalle di Martire c’è Luigi Miceli, esponente della sinistra radicale, che fa la guerra al destrorso Francesco Muzzillo.

    Muzzillo sulle prime la spunta: la sua lista vince le elezioni del 1876. Ma Miceli, parlamentare di lungo corso ed esponente della Cosenza che conta, preme per lo sconfitto. All’epoca i pastrocchi non sono un problema, visto che il sindaco è nominato dal re su proposta del Consiglio comunale.
    Quindi Martire diventa sindaco. Ma, per tenersi la poltrona, ricorre a un espediente oggi molto in uso nei paesi dell’Europa orientale: riempie la giunta di avversari.

    Dissesto: la massoneria scende in campo a Cosenza

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    Pietro De Roberto

    Passano gli anni e le cose cambiano. Cambia anche il debito, che triplica per colpa delle clausole firmate da Martire e, va da sé, dell’insolvenza del Comune.
    Cambia anche la posizione di Miceli, bollito da anni di potere e insidiato dalla massoneria.
    Miceli, nel 1888, è ministro dei Lavori pubblici nel governo di Francesco Crispi. A Cosenza le logge “Bruzia”, guidata dal patriota Pietro De Roberto, e “Telesio” gli fanno la guerra.
    Allo scopo, i grembiulini preparano un trappolone: un incontro pubblico presso il teatro Garibaldi, promosso dal settimanale La lotta. Lo scopo del meeting è apparentemente innocuo: la richiesta di un reggimento del Regio esercito in città. Ma il dibattito diventa una requisitoria contro Miceli, che, nonostante il suo consistentissimo seguito politico, subisce una bella botta.

    A.A.A. sindaco cercasi

    Cosenza, che non ha un sindaco da tre anni ed è amministrata dal facente funzioni Giuseppe Compagna, va alle elezioni nel novembre 1888. Con una novità: il re non nomina più i sindaci, che sono eletti direttamente dai Consigli.
    Le elezioni sono tipicamente cosentine: venti liste per un totale di settantuno candidati. Con gli occhi di oggi, non sembrano grandi numeri. Ma per una città di poco più di ventimila abitanti in cui ha diritto al voto il quindici per cento circa dei residenti è tantissimo.

    Vince la lista sponsorizzata dalla loggia “Bruzia”, che si aggiudica sedici consiglieri su trenta. Ma è una vittoria parziale, perché arriva la parte più difficile: fare il sindaco.
    Le finanze di Cosenza sono vergognose: tre milioni di debito, saldato in minima parte (il Comune ha rimborsato solo duecentoventi obbligazioni). Più che un sindaco, in questa situazione, occorre un eroe.
    Infatti, il finanziere Angelo Quintieri, aristocratico e ricco possidente di Carolei, rifiuta la poltrona offertagli dalla “Bruzia”.

    Alimena sindaco

    Al suo posto accetta Bernardino Alimena, figlio del patriota Francesco e professore universitario a Napoli.
    Alimena sembra l’uomo giusto al posto giusto: giurista di prima grandezza (tra le varie, è l’avversario più accreditato del criminologo Cesare Lombroso) ha il prestigio necessario per dare lustro alla città e ottenere credito politico a Roma.

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    Bernardino Alimena

    Il  prof si dà subito da fare: denuncia il debito alla cittadinanza, inizia a tagliare i conti e, soprattutto, dà la caccia agli evasori, che anche allora non sono pochi.
    Come sempre, il rigore comporta l’impopolarità: gli elettori si ribellano e la giunta, piena di massoni, perde pezzi. E perde pezzi anche la loggia “De Roberto”: piuttosto che vedersela con gli elettori arrabbiati, i grembiulini si mettono in sonno.
    A fianco di Alimena resta il solo De Roberto, che muore nel 1890. Per il professore la situazione diventa critica: rimpasta due volte la giunta pur di restare in sella, ma niente da fare. È costretto a dimettersi appena sei mesi dopo la nomina.

    Dissesto, luminarie e lampioni

    In tutto questo, resta una domanda: come presero i cosentini di allora l’innovazione del gasometro? Secondo le cronache dell’epoca, malissimo: i rapporti di polizia giudiziaria riferiscono di lampioni presi a sassate in alcune zone. In particolare, nel rione Sant’Agostino, zona storica delle “lucciole”, e nel quartiere Santa Lucia, dove le professioniste dell’amore avevano iniziato a trasferirsi. Segno che, per certe attività, il buio fosse più gradito.

    Il debito, invece, è estinto nel 1924. Ma più per merito dello Stato, che ha nazionalizzato il sistema bancario, che del Comune.
    Nessuno, invece, ha danneggiato le luminarie di Occhiuto, che in compenso non hanno provocato il dissesto di Cosenza pur offrendo il loro modesto contributo alla causa.
    Ma questa storia ha un’unica morale, che vale oggi come a fine Ottocento: per chiarire i conti pubblici, non c’è luce che basti.

  • Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Una campagna stampa virulenta. Ma anche un classico del giornalismo d’inchiesta contemporaneo, con tutti i pregi e i difetti del caso.
    La lunga requisitoria condotta da Il Candido, la più famosa testata d’inchiesta e di satira di destra nella Prima Repubblica, contro Giacomo Mancini vanta almeno un primato: è il primo dossier completo nei confronti di un leader politico di prima grandezza. Soprattutto, è la prima inchiesta andata a segno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Mancini lascia la segreteria del Psi

    Iniziato il 26 novembre del 1970, il battage dura circa due anni. Al termine dei quali, il quadro politico italiano, di cui Mancini era una delle figure più importanti, cambia radicalmente.
    Il leone socialista, malridotto dall’inchiesta, lascia la segreteria del Psi. Giorgio Pisanò, diventato nel frattempo bersaglio anche di attentati mai chiariti (gli incendi alla sede milanese de Il Candido del ’72), approda in Senato col Msi.

    Il centrosinistra, infine, entra nella sua prima grande crisi, perché l’affermazione della Destra nazionale di Almirante, spinge la Dc su posizioni conservatrici.
    Il calo di Mancini, infine, cambia anche gli equilibri interni del Psi, che sprofonda nell’immobilismo della segreteria di Francesco De Martino.
    Tutto questo riguarda la grande politica nazionale. E la Calabria? È l’epicentro di questa vicenda che ancor oggi fa discutere.

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    Una delle prime pagine del Candido che attaccano frontalmente Mancini

    Il Candido: storia di un giornale “contro”

    Fondato da Giovannino Guareschi nel ’45, Il Candido nasce come foglio di satira rivolto al mondo cattolico, all’opinione conservatrice e, va da sé, al mondo neofascista. Il settimanale di Guareschi è un po’ l’alter ego settentrionale de l’Uomo Qualunque del commediografo napoletano Massimo Giannini, che pescava nello stesso bacino. I piatti forti della testata non sono solo i lazzi e le vignette (indimenticabili quelle sui comunisti “trinariciuti”), ma anche le inchieste. Una di queste, dedicata ad Alcide De Gasperi, finisce malissimo.

    Il papà di don Camillo aveva sostenuto, sulla base di documenti non attendibili, che De Gasperi, durante la guerra, aveva segnalato agli americani alcuni bersagli sensibili da bombardare. Querelato per diffamazione, Guareschi finisce in galera nella primavera del ’54 e vi resta un mese. Condannato a un anno di carcere, lo scrittore schiva la pena per amnistia. Un destino simile toccherà, circa vent’anni dopo, a Giorgio e Paolo Pisanò. Ma andiamo con ordine.

    Giacomo Mancini: il superministro calabrese

    Nel 1970 Giacomo Mancini è il politico calabrese più influente e potente di tutti i tempi. Già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici nei governi di centrosinistra guidati da Moro, Mancini diventa segretario del Psi al posto di Francesco De Martino, di cui era stato il vice col quale aveva condotto la campagna elettorale del ’68, assieme al Psdi.
    I risultati, com’è noto, non furono lusinghieri. In compenso, le polemiche furono virulente. Resta memorabile quella condotta da Aldo De Jaco su L’Unità, che conia per l’occasione il primo – e più famoso – nomignolo su Mancini: il Califfo.

    Meridionalista fino al midollo, Mancini non si staccò mai dalla Calabria e dalla sua Cosenza, che cercò di privilegiare in tutti i modi. Tuttavia, la calabresità si rivelò un tallone d’Achille. Perché la Calabria, a inizio ’70, entrava di prepotenza nelle cronache nazionali. E non solo per gli ambiziosi progetti di sviluppo, promossi dallo stesso Mancini.

    Giorgio Pisanò: fascista, spia, contrabbandiere, giornalista

    Come ha ricordato in tutte le sue autobiografie, Giorgio Pisanò era uno di quelli che non ha mai potuto smettere di essere fascista.
    Già ufficiale delle Brigate nere della Rsi, Pisanò svolse missioni spericolate per conto di Salò durante la guerra civile. In particolare, si occupava di spionaggio e di sabotaggi. Per svolgere questi compiti, varcava più volte i confini militari tra la Repubblica di Mussolini e il Regno del Sud, allora sotto amministrazione angloamericana.
    Cosa curiosa, ne uscì sempre illeso. Al punto da ammettere, nel suo La generazione che non si è arresa, che i Servizi alleati sapessero tutto di lui ma non gli facessero nulla.

    Perché? La risposta oggi è persino banale: gli americani avevano deciso di salvare il salvabile del fascismo per impiegarlo in chiave anticomunista. Insomma, nasceva la Stay Behind italiana.
    Finita la detenzione a San Vittore e nel campo di concentramento di Terni, Pisanò si arrangia come può per sbarcare il lunario. Inizia come contrabbandiere al confine svizzero e poi si dà al giornalismo, dove si fa notare subito per le ricostruzioni sugli eccessi dei partigiani.

    Il fascista e i servizi segreti

    Difficile dare un giudizio assoluto su queste prime inchieste di Pisanò, dietro le quali non è difficile leggere le imbeccate e le veline dei Servizi segreti militari.
    Tuttavia, il loro valore storiografico è notevole, visto che vi si sono “abbeverati” tanti storici, accademici e non, a partire da Renzo De Felice per finire a Giampaolo Pansa.

    Del rapporto tra i Servizi e Pisanò resta una traccia in una velenosissima intervista rilasciata da Giacomo Mancini a Paolo Guzzanti e apparsa su Repubblica del 12 ottobre 1980: «Adesso nessuno apre gli occhi sul fatto che Pisanò, uno dei giornalisti amici del generale Aloia e dell’ex capo del Sid Henke stia pubblicando una impressionante documentazione».

    Il riferimento va all’inchiesta postuma di Pisanò su Aldo Moro. Ma questa è un’altra storia. Per quel che ci riguarda, è importante notare che nel ’68 Pisanò, che comunque si è fatto un “nome”, rileva il Candido dagli eredi di Guareschi. La partenza è in sordina: per attendere il botto ci vorranno due anni.

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    Giorgio Pisanò è stato anche direttore del giornale Il Candido

    La campagna stampa di Pisanò contro Mancini

    L’inchiesta di Pisanò su Mancini fu il classico fulmine. Non proprio a ciel sereno, perché nella Calabria dei primi ’70 prendeva forma un curioso (e inquietante) laboratorio politico: la rivolta “nera” di Reggio, guidata dal sindacalista Cisnal Ciccio Franco e sposata dal Msi di Almirante, che mirava a spostare a destra tutti gli equilibri e (squilibri) politici possibili.
    L’esordio è dirompente: Biografia di un ladro, recita lo strillo di copertina del Candido. E non è da meno il paginone centrale che reca lo stesso titolo e contiene la prima di circa trentasei puntate.

    Grazie a un’indiscutibile abilità editoriale, Pisanò cerca un target facile. E lo trova in Calabria (come più o meno ha fatto di recente Giletti). Abbraccia la rivolta di Reggio e picchia in testa ai leader calabresi. In particolare, il segretario del Psi.
    La campagna stampa è un crescendo di virulenza, ma anche di documentazione. E più crescono i documenti, più il linguaggio si appesantisce.

    Tra inchiesta e sfregio: la requisitoria del fascista

    Lo testimonia una striscia curiosa che, a partire dal ’71 diventa l’occhiello degli articoli: Mancini è un ladro. Oppure: Mancini sei un ladro. Il tutto ripetuto come un mantra.
    Pisanò non risparmia niente. Ad esempio, lo stile di vita dell’ex ministro: «Compagno socialista che tiri la cinghia-Consolati: il ladro Mancini se la gode anche per te».
    Oppure i finanziamenti per la sua campagna elettorale: «1968: ha speso un miliardo per farsi eleggere».

    Da manuale dello sfregio anche i titoloni delle copertine, rigorosamente bicromatiche: «Mancini, un uomo tutto d’un puzzo”. E ancora: «Il ladro Mancini non ci ha denunciati».
    Restano agli annali due battutacce che forse sono ancora il sogno dei titolisti più spregiudicati: «Si scrive leader si legge lader» e «Quelli che rubano con la sinistra sono Mancini».

    I contenuti sono roventi: si va dagli appalti dell’Anas ai legami con Cinecittà. Pisanò racconta un intreccio fitto di tangenti, fondi stornati e favoritismi spregiudicati. L’inchiesta non si ferma solo al segretario, ma coinvolge i suoi affetti, a partire dalla moglie donna Vittoria, e i suoi amici, ad esempio il produttore cinematografico Dino De Laurentis. Proprio il caso De Laurentis diventa la buccia di banana per Pisanò.

    In galera

    Mancini sommerge Il Candido di querele e qualcuna va a bersaglio. Ma è poca cosa. Invece si rivela più efficace la denuncia di De Laurentis, per un presunto reato decisamente più pesante della diffamazione: l’estorsione.
    Giorgio Pisanò e suo fratello Paolo finiscono in carcere a febbraio ’71 e vi restano per due mesi. Durante i quali tentano di esibire delle prove a loro discolpa (alcune bobine contenenti le registrazioni di colloqui tra Pisanò e De Laurentis).

    Ma, soprattutto, capitalizzano al massimo l’incidente con un diario dal carcere che appare a puntate.
    La tensione arriva al massimo e l’inchiesta deraglia: esce dai recinti del giornalismo e sfocia nello scontro personale.
    Alla fine della giostra, i Pisanò vengono assolti, De Laurentis si trasferisce negli Usa e Mancini si dimette. La segreteria del Psi torna dov’era prima. Cioè nelle mani di De Martino.

    Pisanò anticipa Tangentopoli

    Quest’inchiesta, tutta da rievocare e approfondire, ha un limite: Pisanò attribuisce al solo Mancini un meccanismo di finanziamento, essenzialmente illecito, che riguardava tutto il suo partito.
    Detto altrimenti, il giornalista milanese non si era “accorto” di aver anticipato Tangentopoli. Ma tant’è: allora era più facile colpire le persone che i partiti in blocco.
    L’inchiesta tutt’oggi resta divisiva: c’è chi osanna Pisanò e chi, al contrario, lo considera un prezzolato che mescolava verità e bugie per conto terzi.
    Chi potrebbero essere questi ultimi? La lista non è proprio corta.

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    Eugenio Cefis

    Gli utilizzatori

    In cima potrebbe esserci Eugenio Cefis, ex partigiano e potentissimo patron dell’Eni, che di sicuro odiava, cordialmente ricambiato, Giacomo Mancini.
    Attenzione: Pisanò, come riporta correttamente Paolo Morando nel suo Cefis. Una storia italiana (Laterza 2011) non aveva risparmiato strali a Cefis. E di questi strali c’è traccia anche nel dossier del Candido dedicato ad alcune vicende oscure del passato partigiano del presidente dell’Eni. Ma mentre gli attacchi a Cefis calano quelli a Mancini aumentano.

    Certo, non c’è prova che Cefis abbia finanziato Pisanò. Tuttavia, molti attacchi del Candido sembrano fatti apposta per compiacere Cefis. Il quale, c’è da dire, era abituato a rapporti particolari coi giornalisti, anche quelli più insospettabili. Ad esempio Mauro De Mauro, il leggendario cronista de L’Ora di Palermo che, secondo i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, era finito a libro paga dell’Eni. Di sicuro, Cefis voleva far fuori l’ex ministro e l’inchiesta di Pisanò lo ha aiutato tanto.

    Compagni coltelli

    Secondo un’opinione diffusa, un utilizzatore dell’inchiesta del Candido sarebbe stato il socialdemocratico Luigi Preti. Saragattiano convinto e più volte ministro di settori delicati (le Finanze), Preti era un altro che non amava Mancini.
    Al punto di farlo intercettare, come sostenne l’ex segretario del Psi in un’intervista a L’Espresso. Preti, tra l’altro vicino ai demartiniani, imputava il calo elettorale delle due sigle socialiste proprio alla politica di Mancini.

    Inutile dire che la convergenza d’interessi con l’inchiesta di Pisanò c’era. E non solo perché il giornalista era originario di Ferrara, proprio come Preti. Ma soprattutto perché il Candido andò fortissimo anche in Emilia Romagna… quando si dice il caso.
    Altro dettaglio non irrilevante, sono le numerose lettere di plauso inviate dai cosentini a Pisanò. Tutti fascisti? Proprio no: il Candido, a Cosenza, lo si leggeva di nascosto ma tantissimo. E lo leggevano tanto anche i socialisti. Senz’altro i demartiniani. Ma non è un caso che, proprio allora, un demartiniano rampante si staccò da Mancini e ne divenne concorrente: era Cecchino Principe.

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    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    Fine della storia

    L’inchiesta terminò con un pari: Pisanò uscì dai processi ed entrò in Parlamento, Mancini iniziò la parabola discendente. Il suo ultimo ruolo di rilievo nazionale fu quello di “Craxi driver”, cioè di accompagnatore di Craxi alla segreteria.
    L’asse del centrosinistra, col declino di Mancini, si era spostato a Nord e puntava su Milano. Ma anche questa è un’altra storia…

  • Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    A Carfizzi, appena 506 abitanti tra la Sila crotonese e la costa jonica, la storia, anche quella contemporanea, sfocia nella leggenda.
    A Carfizzi, che sorge su una collina a poco più di 500 metri sul livello del mare, c’è un’ulteriore altura, la Montagnella, in cui confluiscono tre sentieri, che partono dal centro del paesino e dalle vicine Pallagorio e San Nicola dell’Alto.

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    Bandiere rosse sventolano sulla Montagnella di Carfizzi negli anni ’70

    Sono tre comuni arbëreshë dalla demografia ridotta al minimo dall’emigrazione. E tuttavia, hanno una memoria importante.

    Carfizzi: avanguardia contadina

    Le comunità albanesi di Calabria hanno una vocazione particolare: essersi trovate in prima linea in tutte le grandi trasformazioni storiche. Fu così per il Risorgimento e per il fascismo. Ma anche per l’antifascismo.
    A riprova che nella Calabria contemporanea povera e arretrata ci fu sempre chi desiderò un futuro diverso. Ma gli arbëreshë, forse, lo desiderarono di più.
    Ed ecco che il primo maggio 1919 si svolse proprio sulla Montagnella di Carfizzi la prima lotta pubblica dei contadini, in perfetta sincronia con quanto avveniva al Nord in quegli stessi anni di crisi profonda e in anticipo o quasi sul resto del Mezzogiorno.

    Pasquale Tassone: il dottor Lavoro

    Si potrebbero riempire interi tomi sulle condizioni dei braccianti agricoli calabresi a cavallo tra XIX e XX secolo.
    Terribile ovunque, la vita dei contadini non proprietari era pessima nel Crotonese, dove il latifondo aveva resistito a tutti: francesi, Borbone e liberali.
    E c’era di peggio: il livello di vita dei minatori. La parola chiave di questa situazione, che rispecchiava alla perfezione gli schemi marxisti, è: sfruttamento.

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    L’urna di famiglia di Pasquale Tassone

    Erano senz’altro una forma di sfruttamento, a tratti odiosa, le 12 ore al giorno di lavoro nei campi di Carfizzi e Pallagorio e nelle zolfatare di San Nicola per compensi da fame.
    La prima protesta, pacifica, fu organizzata da Pasquale Tassone, medico e sottufficiale del Regio Esercito, fresco reduce della Grande Guerra e si svolse, appunto, il primo maggio del 1919.

    Tassone, di idee socialiste come molti esponenti della borghesia emergente dell’epoca, riuscì a organizzare i lavoratori per dare il via a una serie di manifestazioni dal forte simbolismo. L’unità tra operai e contadini, tanto predicata da Gramsci (un altro albanofono illustre), si realizzava anche nella Calabria profonda, in occasione del primo maggio.
    In perfetta coerenza con le proprie idee, il medico operaio divenne antifascista. E forse pagò con la vita la sua scelta e le sue lotte: morì per un colpo di fucile ricevuto in circostanze mai chiarite il 12 dicembre del 1935.

    Carfizzi e non solo: storia della manifestazione

    Il primo maggio “albanese” subì, va da sé, un’interruzione durante il Ventennio.
    Ma anche a questo riguardo, non mancano le leggende metropolitane: c’è chi sostiene che i braccianti e gli operai della zona abbiano continuato a celebrare di nascosto la festa dei lavoratori sulla Montagnella, magari approfittando della tolleranza dei notabili locali.

    Tuttavia, il primo maggio della Montagnella riprende alla grande solo a partire dal 1946, quando l’amministrazione dell’Amgot (il governo militare alleato), non proprio favorevole alle manifestazioni operaie, lascia il territorio alle contese tra la Dc e il Fronte popolare.

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    Contadini in marcia nel Crotonese

    La ripresa, raccontano le poche fonti d’epoca, avvenne in grande stile, con tre grossi cortei che invasero pacificamente la Montagnella per celebrare la prima vera Festa dei lavoratori del dopoguerra.

    Da allora in avanti, il copione di questo Primo maggio arbëresh è rimasto più o meno invariato: il raduno sulla cima dell’altura, l’immancabile comizio dei “forestieri”, cioè dei dirigenti sindacali della “triplice”, regionali e non solo, e poi la festa.
    Ma negli anni ’40 il clima era tutt’altro che allegro e il sindacato non era affatto “imborghesito”, come oggi.

    Disordini e tragedie: Giuditta Levato

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    Giuditta Levato

    La fine della guerra aveva riacceso le vecchie tensioni sociali, calmierate dal fascismo col classico “bastone e carota” tipico delle dittature.
    La legge Gullo, in particolare, aveva rilanciato le speranze dei braccianti di poter diventare proprietari, vivere del proprio e non più sotto padrone.
    La questione delle terre, irrisolta dai tempi delle Due Sicilie, riesplose con le occupazioni dei contadini.
    La morte tragica di Giuditta Levato, colpita a morte da una fucilata a Sellia Marina durante una protesta contro il barone Mazza, chiuse in maniera tragica il 1946.
    Ma il peggio doveva arrivare.

    Arresti e strage: Carfizzi e Melissa

    Nel 1949 la borghesia italiana tira un sospiro di sollievo: la Dc ha vinto le Politiche dell’anno prima e l’Italia resta a Ovest.
    Tuttavia, le tensioni restano altissime, in particolare sulle coste orientali della Calabria, dove si verifica un’imponente manifestazione di massa: circa 14mila contadini occupano le terre abbandonata o “usurpate” dai vecchi notabili, trasformatisi da feudatari in latifondisti.
    Più che rivoluzionaria, la pretesa dei braccianti è legalitaria: il rispetto delle norme della legge Gullo, su cui la Dc, all’epoca vicina ai terrieri, era piuttosto “tiepida”.

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    Il ricordo delle vittime della strage di Melissa

    In questo contesto, in cui la fobia anticomunista giustifica le strette autoritarie, sedici contadini di Carfizzi vengono arrestati. La loro colpa? Aver partecipato a una manifestazione per l’occupazione delle terre.
    Ma la tragedia vera e propria avviene a Melissa, per la precisione nel feudo Fragalà, di cui il maggiore proprietario è il barone Luigi Berlingieri.

    Ottobre di sangue

    Su questo feudo c’è una contesa antica. I napoleonici ne avevano assegnato metà al demanio. Tuttavia, gli ex feudatari avevano di fatto “usurpato” la parte pubblica, destinata ai contadini poveri. E questa situazione si era protratta fino alla legge Gullo.
    L’esplosione delle proteste spinge i dirigenti calabresi della Dc a chiedere aiuto a Roma, in particolare al Ministero dell’interno, presieduto da Mario Scelba, un duro animato da un anticomunismo a prova di bomba.
    Scelba invia i reparti della Celere, il corpo di polizia antiguerriglia di fresca costituzione. Uno di questi reparti si stabilisce proprio a Melissa, dove la tensione tra i contadini e il barone Berlingieri è alle stelle.

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    La storica prima pagina che il settimanale satirico Cuore dedicò alla morte dell’ex ministro Scelba

    Il 29 ottobre, la tragedia: i celerini caricano la folla dei manifestanti. E sparano ad altezza uomo: prima proiettili di legno, poi quelli veri.
    Nel parapiglia, restano colpiti 18 contadini. Due di loro muoiono sul colpo: sono il 30enne Francesco Nigro e il 15enne Giovanni Zito.
    Angelina Mauro, una ragazza di 23 anni, viene soccorsa. Ma inutilmente: morirà poco dopo per le ferite ricevute.

    Il primo maggio borghese

    In memoria di quella tragedia, a Carfizzi l’artista Antonio Cersosimo ha realizzato nel 1998 il “Monumento al I maggio” una scultura in marmo che svetta in cima alla Montagnella.
    I tempi sono cambiati per fortuna, e la miseria da cui sono scaturite quelle tragedie è un ricordo.

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    Il monumento sulla Montagnella

    La Montagnella del 2022, riprende dopo due anni di interruzione dovuta alla pandemia, con un tema antico: la sicurezza sul lavoro, affrontato da Angelo Sposato, segretario generale della Cgil Calabria, Santo Biondo, il suo omologo della Uil, Giuseppe De Tursi e Rossella Napolano, dirigenti della Cisl della Calabria centrale. A chiudere, il concerto di Eugenio Bennato, un habitué di queste iniziative.
    A 104 anni di distanza dalla prima Montagnella il lavoro resta un’emergenza, con ben altre tragedie.

  • Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    «Chi doveva guardarmi le spalle mi ha accoltellato», dice un Luigi de Magistris particolarmente carico.
    «Già, perché il sistema, come ho detto più volte e infine scritto nel mio libro, ha avuto i suoi anticorpi», gli fa eco Luca Palamara.
    Un incontro tra ex: colleghi e nemici, in entrambi i casi come magistrati. Anche a Cosenza, la sera del 27 aprile, si ripete il copione già visto più volte in tv, quando Lobby & Logge, l’ultimo libro scritto da Palamara assieme ad Alessandro Sallusti, teneva banco nel dibattito pubblico.

    C’eravamo tanto odiati

    Già: c’è voluta la brutta guerra tra Russia e Ucraina per frenare l’impatto mediatico di Lobby & Logge. Ma ciò non toglie che i miasmi del pentolone scoperchiato dall’ex capo dell’Anm continuino ad attirare attenzione.
    Calati nel contesto calabrese, poi, sollevano polemiche e stimolano riflessioni sul filo del non detto.
    «Mi fa piacere che oggi Palamara riconosca la gravità di ciò che mi è accaduto», incalza de Magistris, che ha partecipato al dibattito più come ex sostituto procuratore di Catanzaro che come ex sindaco di Napoli ed ex candidato a governatore della Calabria.
    «Io cerco di raccontare con onestà quel che ho visto e ho vissuto». Ribadisce Palamara. E prosegue: «All’epoca di Why Not trovai eccessivo il decreto di perquisizione di Gigi, che sembrava fatto apposta per essere pubblicato sui giornali». È l’onore delle armi, che tra l’altro Palamara ha reso in più occasioni al suo interlocutore.

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    Luigi De Magistris a Cosenza durante la campagna elettorale per le Regionali 2021 (foto Alfonso Bombini)

    Morra, il terzo incomodo

    Nel dibattito di Cosenza, moderato dal giornalista e scrittore Arcangelo Badolati, c’è un terzo incomodo: l’ex grillino Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia.
    Morra calabresizza ancora di più, se possibile, l’argomento e lancia alcune bordate. Innanzitutto, a proposito delle toghe nostrane borderline: «Si parlava di quindici magistrati di Catanzaro nell’occhio del ciclone. Ora, tranne Marco Petrini, tutti gli altri mi pare siano al loro posto». L’affaire Petrini diventa la scusa per un altro affondo: «Ricordo a me stesso che Marcello Manna è stato interdetto, per questa vicenda, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno. E trovo gravissimo che i sindaci calabresi abbiano eletto Manna, nonostante questa situazione, presidente dell’Anci regionale».

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    Il giudice Marco Petrini

    Guai ’i nott e altre storiacce

    Qualche buontempone ha napoletanizzato Why not, l’ex inchiesta monstre di de Magistris, in Guai ’i nott, guai di notte. E i guai erano belli grossi. A Palamara, che ha argomentato sul lobbismo in magistratura, l’ex sindaco di Napoli ha raccontato una storia concreta. La sua.
    «Mastella, il ministro della Giustizia, mi fece trasferire perché indagavo il suo presidente del Consiglio. Ma neppure nell’Italia fascista, una storia così». Il sottinteso dell’ex pm è chiaro: conflitto d’interesse.
    E ancora: «Finché indagavo solo personaggi vicino al centrodestra, ricevevo qualche applauso dall’altra parte. Poi, quando ho ampliato le inchieste, le cose sono cambiate».
    Una conferma in più a quanto sostenuto da Palamara, che in varie occasioni ha graticolato l’ex presidente Napolitano, accusato di essere il protettore delle trame delle lobbies in toga.

    A proposito di logge

    A ciascuno la sua loggia, rigorosamente deviata. Per Palamara è la famigerata loggia Ungheria, per de Magistris fu la loggia di San Marino, che emerse sulla stampa quando Why not era nel vivo.
    Le espressioni “massoneria deviata” e “massomafia” riecheggiano nella sala a più riprese, più attraverso de Magistris e Morra che tramite Palamara, che in maniera più pragmatica parla di lobbismo. In realtà, forse, si dovrebbe parlare di cricche o di grumi di potere. Ma, a proposito di grembiuli, emerge un nome: Giancarlo Pittelli, ex big di Forza Italia, che fu l’inizio della fine di Gigi magistrato.
    «Il mio procuratore capo mi tolse l’inchiesta quando arrivai a Pittelli, che era vicinissimo a lui e a sua moglie». Insomma, la complessità calabrese fa passare in secondo piano i racconti da brivido di Palamara.

    L’affaire Gratteri

    Le domande su Nicola Gratteri, l’idolo dell’anti ’ndrangheta, di solito sono scontate. Quella rivolta da Badolati a Palamara lo è di meno: «Secondo lei Nicola Gratteri riuscirà a diventare capo della Direzione nazionale antimafia?». La risposta è in tema col dibattito: «La vedo davvero difficile, perché Gratteri è fuori dalle correnti».

    Palamara, Morra, Badolati e de Magistris durante la presentazione del libro

    Palamara, de Magistris, Morra e i fantasmi eccellenti

    «Quando si muore, in Italia si diventa eroi», dice con amara retorica de Magistris.
    «Se avessi fatto le tue inchieste nel ’92, l’esito sarebbe stato diverso, forse peggiore», commenta sinistro Palamara.
    Morra aggiunge il ricordo di Falcone e Borsellino, diventati eroi solo dopo gli “attentatuni”. Prima, invece, erano nel mirino di tanti, a partire dai loro colleghi: «Le loro carriere e inchieste furono ostacolate proprio dal Csm», chiosa il presidente della Commissione antimafia.
    Il riferimento, scontatissimo, va al trentennale imminente delle stragi del ’92 in cui morirono i protagonisti del maxiprocesso.
    Una volta le toghe dovevano essere rosse. Oggi non basta più: devono essere rosso sangue.

    Il pubblico cosentino presente all’incontro
  • Umberto De Rose, il volto grigio del potere

    Umberto De Rose, il volto grigio del potere

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    Oggi è difficile dire che fine farà Umberto De Rose, il tipografo passato alla storia per la vicenda del Cinghiale.
    Non ha più giornali da stampare, anche perché l’informazione su carta stampata è morta. Inoltre, gli equilibri di potere del vecchio centrodestra, che ne avevano propiziato l’ascesa, non esistono più.

    Un colore esprime la sua parabola: il grigio. È il colore dei notabili di seconda fila, che fanno carriera a prescindere dalla loro modestia e grazie alle cordate di cui fanno parte.
    Ogni cosa ha un prezzo e De Rose, con le gaffe per conto terzi e le rogne giudiziarie, ha pagato il suo.

    Il tabloid come destino

    «De Rose non è un editore ma stampa il giornale che leggi», recitava un paginone autocelebrativo apparso più volte fino al 2010 su tutti i giornali usciti dalle sue rotative e poi ripetuto da mega manifesti affissi nelle zone principali della regione.
    Umberto De Rose ha stampato praticamente tutti i giornali della Calabria tranne due: La Gazzetta del Sud e Il domani della Calabria. E tutti i giornali stampati da lui avevano una caratteristica: il formato tabloid, che, come sanno gli addetti ai lavori, era il formato tipico dei giornali scandalistici, a partire dal Sun.

    Nel caso di De Rose questo formato era obbligato perché il suo stabilimento di Montalto Uffugo non era attrezzato per produrre il “lenzuolo”, cioè lo standard dei giornali “seri”.
    La famiglia Dodaro si è sottratta al monopolio di De Rose e, dal 2004, ha stampato Il Quotidiano della Calabria (poi del Sud), con mezzi propri. Tutti gli altri, invece, hanno avuto a che fare con lui. E sono falliti tutti, uno dopo l’altro.

    La strage di carta

    Delle due l’una: o Umberto De Rose è cattivo oppure porta sfiga. Probabilmente nessuna delle due: è solo un tipografo che ha continuato a stampare, a caro prezzo, nel momento storico in cui i nuovi media minacciavano l’informazione cartacea, già declinata da un pezzo.
    Fatto sta che tutti i giornali stampati da lui hanno chiuso grazie ai debiti vantati dal tipografo.

    Un’eccezione vistosa al diritto fallimentare, secondo il quale i crediti dei lavoratori dovrebbero precedere quelli dei fornitori. In Calabria non è così: le maestranze dell’editoria periodica, numerose e malpagate, sono venute dopo le esigenze di una stamperia che, secondo i canoni industriali, è un’azienda di medie dimensioni. Ciononostante, De Rose, è diventato prima presidente regionale di Confindustria poi di Fincalabra.

    Umberto De Rose e il Cinghiale

    Umberto De Rose non è stato condannato, ma il suo numero telefonico notturno con Alfredo Citrigno resta un esempio di trash da manuale.
    A partire dal linguaggio colorito, per finire con le argomentazioni, in apparenza minacciose. E poi la perla di comicità involontaria e amara: il nomignolo appiccicato quasi per caso a Tonino Gentile (e per estensione a tutta la famiglia): il Cinghiale.
    In realtà, De Rose usava la metafora del cinghiale («’u cinghiale quann’è feritu mina ad ammazza’»), ogni tre per due.

    Sul punto possiamo essere garantisti, anche più dei magistrati che hanno assolto lo stampatore dall’accusa di violenza privata nei confronti di Citrigno jr, all’epoca editore de L’Ora della Calabria. Le sue metafore, in apparenza sinistre, le sue esortazioni tamarre («L’ha cacciata ’sta cazz’i notizia?») erano un’espressione genuina di antropologia calabrese del potere.
    De Rose, amico della famiglia Citrigno, ma anche dei Gentile, è un uomo a cavallo di più ambienti e mondi. Vive dei loro equilibri e cerca di mantenerli, perché ne teme i contraccolpi.

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    Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia

    In principio fu la Provincia

    Nel resto d’Italia, la carta stampata perde colpi dall’inizio del millennio, quando l’informazione inizia a spostarsi sulla rete. In Calabria, escono giornali su giornali, che si contendono circa 40mila lettori.
    Ma i giornali significano potere e comunicazione per i notabili. E per De Rose che, stampandoli, mette a disposizione delle piattaforme.
    È il caso della Provincia Cosentina, fondata da Piero Citrigno nel ’99, poi ceduta al costruttore Rolando Manna a inizio millennio, infine collassata nel 2008 tra le mani di una società di giornalisti. Il colpo finale è stato il grosso debito col tipografo.

    Piero Citrigno

    Calabria Ora e figli

    Storia simile per Calabria Ora, fondata sempre da Citrigno assieme all’imprenditore Fausto Aquino. Questo giornale, se possibile ha avuto una storia più travagliata: cinque direttori in otto anni di vita, due cambi di società e una tragedia (il suicidio di Alessandro Bozzo). Infine lo scandalo delle rotative bloccate per non far uscire la “cazz’i notizia”, relativa alla presunta inchiesta su Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino.

    Alla fine della giostra, Citrigno è rimasto col cerino in mano: una condanna per bancarotta fraudolenta e una per violenza privata. Alla maggior parte dei giornalisti, rimasti a spasso, sono rimaste le vertenze e le querele. Il motivo della chiusura? Gli 800mila euro di debiti nei confronti di De Rose.

    Morto un giornale se ne stampano altri due

    A questo punto, lo stampatore dovrebbe essere fuori gioco. Invece no: dalle ceneri de L’Ora della Calabria nascono Il Garantista e La Provincia di Cosenza.
    Il primo, fondato da Piero Sansonetti, ex direttore dell’Ora, dura 18 mesi, grazie anche ai contributi statali per l’editoria. Inizialmente non è un tabloid perché è stampato fuori regione da un tipografo meno caro ma più preciso. Poi arriva la crisi e finisce nelle rotative di Umberto De Rose. Il quale mette benzina: circa 300mila euro che servono a pagare la previdenza. Ma si rifà alla grande: ne incassa 500mila, tolti dal finanziamento pubblico. Poi il giornale chiude e ai giornalisti restano solo gli ammortizzatori.

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    Piero Sansonetti

    Peggio ancora per La Provincia di Cosenza, fondata da un gruppo di ex redattori dell’Ora e poi passata di mano in mano e da una redazione all’altra. Fino alla chiusura, in cui hanno avuto un ruolo principale i crediti di De Rose.
    Non finisce qui: nel frattempo (2016) dalle ceneri de Il Garantista nasce Cronache di Calabria, affidato a una vecchia gloria come Paolo Guzzanti. Inutile dire che il destino è il medesimo. I tramiti di queste iniziative sono due pubblicitari, Francesco Armentano e Ivan Greco, già sodali di Citrigno e uomini di fiducia di De Rose. A loro si deve il paradosso curioso per cui, mentre altrove i giornali, anche gloriosi, chiudono i battenti in Calabria le rotative continuano a girare alla grande.

    Umberto De Rose e Fincalabra

    Durante l’era Scopelliti, Umberto De Rose raggiunge il massimo e porta all’incasso l’impegno politico del decennio precedente, nel quale si era candidato a sindaco in quota Forza Italia (quindi Gentile) contro Eva Catizone.
    Con lo scandalo di Calabria Ora (se preferite, Oragate, o Il Cinghiale) arriva la prima gomitata seria all’immagine pubblica del Nostro. In questa vicenda c’è chi, con una certa malignità, fa brutti paragoni in famiglia. Cioè tra Umberto e suo papà Tanino, tra l’altro notabile di prima grandezza della massoneria cosentina, considerato un galantuomo vecchia maniera.
    Ma questi sono dettagli rispetto ad altre faccende, decisamente più serie.

    Una di queste è il processo per le consulenze in Fincalabra. Al riguardo, riemerge il cognome dei Gentile, associato ad Andrea e sua sorella Lory. Per i contratti di collaborazione a favore dei due, De Rose finisce nel mirino della Corte dei Conti e della magistratura penale. Mentre la posizione di Andrea viene stralciata quasi subito, Lo stampatore passa i guai per il contratto di Lory e di altre due persone: il Tribunale di Catanzaro gli infligge un anno e otto mesi nel 2017. La Corte d’Appello azzera la condanna due anni dopo.
    Resta a suo carico la responsabilità contabile per danno erariale, stabilita dalla Corte dei Conti.

    Fine della storia?

    Il grigio è definitivamente stinto nelle carte bollate e nei debiti (altrui). E la parabola di De Rose è in calo. Già, lui non è mai stato un editore. E in compenso non stampa più, perché nessuno legge quasi più i vecchi giornali.
    Tutti gli imperi si logorano e i castelli crollano. Ma quelli di carta lo fanno per primi.

  • Dopo Mancini il declino: Cosenza rischia il collasso

    Dopo Mancini il declino: Cosenza rischia il collasso

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    Il dibattito sull’area urbana (e, in prospettiva, sulla città unica) è un braccio di ferro tra gli opposti campanilismi di Cosenza e Rende.
    Le ultime puntate di questa contesa si sono concentrate sui rapporti tra i due territori, ciascuno dei quali ambisce alla centralità, o se si preferisce, supremazia.
    Ma questi rapporti sono l’esito di visioni politiche diverse: più territoriale quella di Rende, più evanescente quella di Cosenza, che sconta ancora il fatto di essere stata la sede del potere calabrese della Prima Repubblica.

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    Cecchino Principe, sindaco di Rende dal 1952 al 1980

    Rende: il paese diventa città

    Il paragone tra Cosenza e Rende è possibile solo a partire dal ’93, quando con l’elezione diretta dei sindaci e la fine della finanza derivata le amministrazioni locali si sganciano dai partiti.
    A rivedere le cose col senno del poi, balza agli occhi un paradosso: la dimensione paesana da cui è partita Rende si è rivelata alla fine un vantaggio, perché ha esemplificato tantissimo le dinamiche politiche.
    Ciò che non è avvenuto nella complicatissima Cosenza.

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    Sandro Principe

    Caos a Cosenza e “ordine” a Rende

    I numeri, come sempre, aiutano a chiarire: dal 1946 al 1993 il capoluogo ha avuto diciassette sindaci e due commissari prefettizi, per una durata media di poco meno di tre anni per primo cittadino.
    Al contrario di Cosenza, Rende ha avuto otto sindaci e nessun commissario.
    La statistica più impressionante riguarda Cecchino Principe, sindaco dal 1952 al 1980. Per restare nei paragoni, si pensi che Cosenza, nello stesso periodo, ha avuto sei sindaci, il più duraturo dei quali è stato Arnaldo Clausi Schettini.
    Con gli occhi di oggi, questa discrepanza sembra disordine (e spesso lo era). In realtà era il normale funzionamento di un’amministrazione comunale col vecchio sistema, in cui il sindaco era nominato dal consiglio comunale.
    Di più: mentre le città con demografia consistente e tradizioni politiche (e di potere), presentavano spettacoli simili a quello di Cosenza, i centri più piccoli, come Rende, appunto, avevano la classica figura del sindaco “a vita”, che riusciva a imporsi grazie alle liste civiche costruite su misura e a eventuali liste di partito più o meno compiacenti.

    Qual è stata, allora, la differenza tra Rende e i tanti paesi della Corona? La leadership di Cecchino Principe fu costruita da due fattori: un ruolo forte in un partito, il Psi, centrale negli equilibri politici del Paese, e un forte consenso sul territorio,
    Lo stesso meccanismo si è ripetuto per Sandro Principe, sindaco dall’80 all’87, che addirittura stravince nell’85 con un consenso bulgaro.
    A differenza di Cosenza, dove i galli nel pollaio erano troppi, a Rende il Psi era egemone e i Principe lo controllavano in maniera ferrea. Questo ha consentito alla dinastia del Campagnano di puntellare senz’altro la propria leadership e il proprio potere, a dispetto della crescita demografica, ma anche di fare gli interessi del proprio territorio, trasformandolo da un paesone di circa 14mila e rotti abitanti in una cittadina che oggi è quasi il triplo.

    La lenta agonia di Cosenza

    Il paragone più serio tra i due sistemi politici si può fare dal ’93 a oggi. E purtroppo bastona Cosenza.
    Al riguardo, emerge un altro paradosso: il capoluogo arretra vistosamente nel momento in cui i sindaci, dotati di poteri maggiori grazie all’elezione diretta, avrebbero potuto invece rilanciare il territorio o, perlomeno, frenarne il declino.
    La storia della Cosenza della Seconda Repubblica è la storia di un’agonia prolungata, interrotta qui e lì da qualche sussulto. Rende ha continuato a capitalizzare il ruolo dell’Unical, soffiata da Cecchino a Piano Lago, e si è puntellata a nordest, in direzione della Valle del Crati e della Sibaritide.
    Il capoluogo, al contrario, ha perso un pezzo dopo l’altro. E, soprattutto, ha perso la cassa.

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    Giacomo Mancini durante la sua sindacatura

    Don Giacomo: dopo di lui il diluvio?

    Il vecchio Giacomo Mancini intuì per primo la fine dei partiti e comprese al volo il nuovo sistema elettorale. Vinse nel’93 e stravinse nel ’97.
    Nei suoi nove anni e rotti di sindacatura (e di vita), Mancini cantierò opere e progetti tali da impegnare la città per i cinquanta anni successivi. Alcune di queste iniziative sono state realizzate quindici anni dopo: è il caso del Ponte di Calatrava e del rifacimento di piazza Bilotti, che allora si chiamava ancora “Fera”.
    Altre, invece, sono finite in nulla, come la metro leggera. Altre ancora hanno avuto uno sviluppo problematico: è il caso di viale Parco.
    Con lui è iniziato anche lo stress delle casse comunali, trasformatosi prima in dissesto più o meno “mascherato” e poi in default.
    I debiti dell’era Mancini non sono solo finanziari: il ricorso alle cooperative “b” ha ingessato la pianta organica del Comune e creato meccanismi elettorali un po’ viziati che pesano tuttora.
    Il rilancio del centro storico, il tentativo di puntellare a sud l’area urbana e il risveglio culturale della città sono gli aspetti più significativi di quell’amministrazione.
    Che ha avuto un solo limite: la presunzione di immortalità del vecchio Giacomo, che ha attivato dinamiche che lui solo sapeva gestire.
    Voto 9. Al netto del campanilismo, 7.

    Eva Catizone, quando era sindaco di Cosenza

    Eva, l’erede senza qualità

    Erede o fantasma? Eva Catizone è diventata sindaca a trentotto anni in qualità di erede del vecchio Giacomo.
    Ha stravinto anche lei, sulla scia dei consensi (anche emotivi) maturati nel decennio d’oro.
    La sua sindacatura, durata poco meno di quattro anni, è stata la prosecuzione dell’era Mancini. Ma è stata una prosecuzione scialba, perché i partiti, nel frattempo, avevano ripreso il loro ruolo e perché le vicende private si sono incrociate con i doveri pubblici.
    È quasi superfluo ricordare la turbolenta relazione con Nicola Adamo, all’epoca leader dei Ds. Lo facciamo solo perché quella vicenda rimbalzò agli onori delle cronache nazionali.
    Tutto lascia pensare che Eva, troppo giovane e fino a quel momento blindatissima, sia stata sopraffatta da una situazione e da un ruolo più grandi (e gravi) di lei. Infatti, è finita defenestrata da un golpe di palazzo da Prima Repubblica, tra l’altro accompagnato da una tragedia.
    Ci si riferisce alla morte di Antonino Catera, il giornalista che seguì quell’ultimo Consiglio, di cui non riuscì a scrivere perché stroncato da un infarto. Di lei si ricordano il Museo all’aperto, i cordoli a corso d’Italia (oggi Fera) e il cambio di denominazione di piazza Fera in Bilotti. Troppo poco.
    Voto 4.

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    Salvatore Perugini diventò sindaco di Cosenza nel 2006

    Salvatore, il galantuomo immobile

    Non basta essere galantuomini, né basta lo spessore politico. Amministrare può essere davvero un inferno.
    La sindacatura di Salvatore Perugini resta una parentesi di Prima Repubblica nella storia recente di Cosenza. Vecchie liturgie, vecchi equilibri e vecchi ricatti.
    Eppure, la rottura con gli ambienti socialisti che rivendicavano l’eredità di Mancini poteva essere l’occasione buona per fare i conti col vecchio Leone. Soprattutto, per archiviare nostalgia e retorica, che già allora si facevano sentire.
    I retroscena dell’epoca raccontano di un Perugini che ha rifiutato l’ipotesi del dissesto, per cui già allora (2006) ci sarebbero stati gli estremi. E che ha amministrato cercando di sforbiciare le spese e di nascondere la polvere sotto i tappeti.
    Ostaggio di una maggioranza rissosa, in cui covavano gli oppositori più feroci (e sleali), Perugini ha navigato a vista, tra un rimpasto e l’altro e rincorrendo i consiglieri per non andar sotto.
    Nel frattempo, il centro storico è regredito, le opere pubbliche si sono bloccate e la demografia ha accelerato la discesa. Di più: viale Parco, fiore all’occhiello dell’urbanistica secondo Mancini, si crepa e finisce al centro di un’inchiesta giudiziaria.
    Arte della sopravvivenza e immobilismo più il mancato coraggio del parricidio.
    Voto: 5.

    Occhiuto 1: Cosenza tenta la rimonta

    Al collasso di Perugini è seguito il crollo del centrosinistra, dovuto soprattutto alla litigiosità interna.
    Mario Occhiuto batte Paolini al ballottaggio nel 2011 e diventa il primo sindaco di centrodestra. Sebbene alle sue spalle ci fossero, così sussurrano i maligni, alcuni notabili del Pd, in particolare Nicola Adamo.
    L’archistar, fratello maggiore dell’attuale presidente della Regione, cerca di darsi da fare per rilanciare la città. Abbellisce dove e come può, cerca di incentivare il terziario e di opporsi alle presunte “prepotenze” rendesi.
    A un certo punto, si oppone anche alla metro di superficie, finanziata poco prima della sua sindacatura. Apre cantieri e continua la pedonalizzazione del centro città.
    I risultati sono più formali che altro, ma riesce comunque a far vedere qualcosa. Ad esempio, l’avvio del cantiere di piazza Bilotti. Lo ferma un golpe di palazzo sei mesi prima della scadenza del suo mandato.
    Nel frattempo, è sopravvissuto alla rottura coi Gentile e alla crisi regionale del centrodestra.
    Voto: 6 meno.

    Occhiuto
    Mario Occhiuto è stato per due volte sindaco di Cosenza

    Occhiuto 2: la rivalsa mancata

    Nel 2016 Mario Occhiuto stravince in scioltezza contro un fronte avverso diviso e indeciso. Polverizza Paolini e Guccione e si insedia alla guida di una maggioranza più forte.
    Porta a termine piazza Bilotti e realizza il ponte di Calatrava. Ma sono i suoi unici successi seri. Nel frattempo, il bilancio collassa, e alcune opere mostrano le proprie inadeguatezze: è il caso del parcheggio di piazza Bilotti.
    Anche il maggior dialogo con Rende, propiziato da Marcello Manna, non dà i suoi frutti. Ma tant’è: Occhiuto termina il suo mandato tra chiacchiere e polemiche. La sua eredità, affidata a Francesco Caruso, non è accettata dai cosentini.
    Voto 5 meno.

    E Rende resiste

    Cosenza, in tutti questi anni, perde circa 20mila abitanti. Rende, invece, continua a tener botta. Meno convegni, meno lustrini, più opere: è il caso di viale Principe, realizzata durante l’era di Umberto Bernaudo. Oppure di via Rossini, completata nello stesso periodo dal nuovo municipio, che scende a valle l’amministrazione e puntella la città a nordest.
    Soprattutto, non c’è il collasso demografico del capoluogo, perché i residenti oscillano tra i 33mila e i 35mila. L’edilizia si ferma e alcune opere mostrano la corda. Ma l’assetto urbano regge e l’economia tiene. Tant’è che Marcello Manna, che pure aveva battuto lo schieramento principiano, parla con rispetto della tradizione riformista cittadina. Lo ha fatto anche di recente, cercando di arruolare la figura di Cecchino Principe per colpire Sandro.

    Miseria e nobiltà

    La nobile è decaduta e l’ancella le ha fatto le scarpe. Da centro, Cosenza è diventata periferia. Resta una città invecchiata e in spopolamento, incapace di tutelare anche le sue memorie perché nel frattempo l’anagrafe ha cancellato i grandi notabili che le tutelavano.
    Il declino è uguale per tutti, ma su alcuni grava di più. Inutile dare altre pagelle, perché scopriremmo che anche i sindaci di Rende non sono il massimo.
    Ma una cosa è non capitalizzare appieno le potenzialità acquisite negli anni, un’altra è disperdere un patrimonio, arte su cui la classe dirigente cosentina si è dimostrata imbattibile.