Autore: Saverio Paletta

  • Cosenza a mano armata

    Cosenza a mano armata

    Il 1981 a Cosenza fu l’anno di due record particolari: gli omicidi (diciannove nel solo capoluogo) e, soprattutto, le rapine a mano armata.
    In particolare, gli assalti ai furgoni o ai vagoni portavalori. In quest’ultimo caso, il bersaglio preferito dei Vallanzasca ’i nuavutri era il treno Cosenza-Paola.
    Allora, in quella tratta, non esisteva la galleria. Perciò, il percorso sui binari della Crocetta era piuttosto lento e accidentato. Insomma, la zona ideale per i banditi.

    Record in punta di pistola

    Iniziamo con una cifra tonda: le rapine a mano armata del 1981 a Cosenza sono 136 in tutto.
    Questa cifra è l’apice di una escalation iniziata cinque anni prima. Al riguardo, la semplice lettura dei numeri dà un quadro impressionante.
    Nel 1976 le rapine sono solo dodici. Salgono a quarantacinque nell’anno successivo e arrivano a sessantacinque nel 1978.
    Nel 1979 si registra un leggero calo (sessantuno “colpi”) e nel 1980 risalgono di molto: novantasei.

    Ma cosa spinge la mala di Cosenza a emulare le gesta di quella del Brenta e, più in generale, delle “batterie” dei rapinatori a mano armata che in quegli anni terrorizzano l’Italia, almeno da Napoli in su?
    E soprattutto: possibile che le bande cosentine avessero sviluppato dal nulla (e praticamente da sole) questa “expertise”?

    La parola al pentito

    In uno dei consueti verbali-fiume, l’ex boss Franco Pino rilascia alcune dichiarazioni inequivocabili.
    La prima riguarda l’ascesa criminale dei gruppi cosentini, avvenuta proprio attraverso le rapine: «Eravamo cani sciolti, poi cominciammo a fare gruppo dando l’assalto ai vagoni portavalori sulla tratta ferroviaria Paola-Cosenza» (appunto…).
    Nella seconda dichiarazione, più generica, Pino fa un riferimento esplicito alla compartecipazione di forestieri, in particolare catanesi.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Questa affermazione, tra l’altro, è riscontrata da una retata del 19 gennaio 1981. In quell’occasione finiscono in manette trentuno persone, sei di questi sono pregiudicati di Catania.

    Come nasce una ’ndrangheta

    La storia è risaputa fino alla noia, ma occorre un richiamo per chiarire meglio il concetto: con la morte del vecchio boss Luigi Palermo detto ’u Zorru (1977), la mala cosentina cambia struttura.
    Perde l’aspetto popolare, col suo sottofondo di “bonomia”, e mira a diventare una mafia.
    Una cosa simile, per capirci, a quel che nello stesso periodo accade a Roma, in particolare con l’ascesa della Banda della Magliana.

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    La Banda della Magliana

    Le batterie criminali cosentine confluiscono nei due gruppi che si contendono a botte di morti il controllo del territorio: il clan Pino-Sena e quello Perna-Pranno.
    Le rapine portano soldi, pure tanti, che servono a finanziare le cosche che, come tutte le attività, hanno costi non indifferenti: le paghe ai picciotti o ai killer, l’acquisto delle armi e della droga, le spese legali e l’assistenza ai familiari dei carcerati.
    Ma, anche per questo, le rapine sono un criterio di selezione dei picciotti o aspiranti tali.

    Da “grattisti” a “sgarristi”

    Un’altra frase di Franco Pino definisce con grande efficacia questo processo: «Eravamo grattisti e siamo diventati sgarristi».
    Tradotto in soldoni: i rapinatori più bravi, cioè capaci di tenere il sangue freddo e di non usare a sproposito le armi, entrano nelle cosche col grado di picciotto.
    Assieme a loro, agiscono i professionisti indipendenti: i catanesi menzionati da Pino (e quelli finiti in manette), ma anche romani.
    Il meccanismo è piuttosto semplice: il boss “benedice” e le batterie miste, di picciotti e indipendenti, eseguono. Quindi una quota del bottino finisce al capo e il resto viene diviso.
    Questo spiega perché i colpi diventano sempre più spettacolari e lucrosi. Ad esempio, il celebre assalto al furgone della Sicurtransport.

    Cosenza a mano armata: l’assalto alla diligenza

    L’episodio è uno dei più clamorosi nelle vicende criminali cosentine. Sia per il bottino, novecentotrenta milioni dell’epoca, sia per la dinamica, ricostruita anche dal collaboratore di giustizia Dario Notargiacomo nelle pieghe del processo Garden.
    È l’11 agosto 1981. Il portavalori viene seguito a distanza proprio da Notargiacomo, che fa da staffetta a bordo di una moto potente.
    Ed è sempre Notargiacomo a segnalare ai suoi l’arrivo del furgone, che finisce in una trappola micidiale.

    Un camioncino, messo di traverso sulla strada, blocca il portavalori. Contemporaneamente, un’altra auto, alle spalle del mezzo, impedisce la retromarcia.
    Quindi escono fuori i rapinatori: uno di loro spara contro il parabrezza, un altro infila un candelotto di dinamite nel tergicristalli.

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    Mario Pranno

    Sembra la scena di uno di quei poliziotteschi che all’epoca sbancavano ai botteghini.
    Invece è una storia vera, che prova la determinazione con cui i cosentini tentano di non essere secondi a nessuno. Che ci siano le cosche dietro quest’operazione, lo prova la successiva retata, in cui le forze dell’ordine recuperano parte del malloppo e fanno scattare le manette ai polsi di sei persone.
    Tra queste Mario Pranno e Francesco Vitelli.

    Un “milanese” in trasferta

    Nelle rapine cosentine c’è anche chi ci ha rimesso la carriera criminale.
    È il caso di Ugo Ciappina, uno dei più celebri rapinatori italiani.
    Classe 1928, di famiglia comunista originaria di Palmi, Ciappina partecipa alla Resistenza, dove suo fratello Giuseppe ha un ruolo forte: è contemporaneamente dirigente del Pci clandestino di Como e ispettore politico delle brigate Garibaldi.

    Ugo Ciappina in una immagine d’epoca e in una foto di pochi anni fa, ormai anziano

    Nel dopoguerra, Ciappina tenta vari mestieri. Poi mangia la foglia e assieme a varie persone, tra cui un ex fascista, fonda la Banda Dovunque, detta così perché agiva dappertutto. Grazie a questa batteria, il Nostro si fa un nome nella ligera, cioè la mala milanese.
    Tant’è che riprende alla grande l’attività una volta uscito di galera da dove entra ed esce di continuo.

    La rapina di via Osoppo a Milano

    Nel 1958 partecipa a uno dei colpi più sensazionali dell’epoca: la rapina a un portavalori a via Osoppo, nel cuore di Milano.
    Il bottino è lautissimo: 114 milioni di lire di allora, ancora non toccati dall’inflazione. Preso e condannato, esce di carcere nel 1974.
    Eppure proprio a Cosenza, Ciappina prende uno scivolone: lo arrestano sempre nel maledetto 1981 per un tentativo di rapina alla Banca nazionale del lavoro. Ma evita la condanna.
    Alla faccia della città “babba”…

  • Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Non ebbe, forse, il clamore esplosivo della vicenda di Paul Getty III né creo catene di solidarietà in tutto il Paese, come il caso di Cesare Casella.
    Tuttavia, il sequestro di Marco Forgione, dieci anni compiuti l’antivigilia del Natale 1979, scosse Cosenza e divenne un caso nazionale.

    La città “babba”

    Cosenza ha solo la fama di zona civile e tranquilla. In realtà, in quell’ultimo scorcio di anni ’70 si spara e ammazza alla grande.
    L’escalation inizia il 14 dicembre 1977, con l’omicidio di Luigi Palermo detto ’u Zorru, lo storico capo della vecchia malavita bruzia.

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    John Paul Getty III

    Sotto la patina di un’apparente tranquillità i cosentini vivono quasi sotto coprifuoco.
    In questo contesto, il sequestro del piccolo Forgione è il primo punto di rottura. È il primo segnale all’opinione pubblica nazionale che anche il nord della Calabria è come tutto il resto del Sud infestato dalla mafia. Già: i sequestri di persona, negli anni’70, significano soprattutto ’ndrangheta.
    Certo, ci sono stati i sardi, in testa Grazianeddu Mesina, e poi ci sono state le spacconate di Vallanzasca. Ma i calabresi sono un’altra cosa: con loro non si può assolutamente scherzare.

    Il sequestro

    È la sera del 9 novembre 1979. Una Fiat 500 imbocca lo svincolo per Pianette di Rovito, una manciata di chilometri dal capoluogo.
    La guida Davide Forgione, un ragazzo di 19 anni, rampollo di una celebre famiglia di commercianti di calzature. A bordo con lui c’è Marco, il fratello minore.

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    La 500 su cui viaggiava Marco Forgione

    All’improvviso, due auto bloccano la 500. Ne escono otto uomini armati, che bloccano Davide per circa mezzora e rapiscono Marco.
    È l’inizio di un calvario, per il piccolo e la sua famiglia, che durerà cinquantasette giorni.

    Silenzio, parla il Papa

    Il 16 dicembre 1979 Karol Wojtyla è Papa da poco più di un anno. Più deciso e carismatico dei suoi due predecessori immediati (Paolo VI e Giovanni Paolo I), inizia a prendere posizione nei confronti delle mafie, sulle quali la Chiesa aveva tenuto fino ad allora atteggiamenti altalenanti.
    Quel 16 dicembre è domenica e Giovanni Paolo II dedica la sua omelia proprio a Marco.
    «Ho presente in questo momento il piccolo Marco Forgione, rapito a Cosenza nel mese scorso e che l’antivigilia di Natale compirà il decimo anno di età», dice il Papa alla folla che riempie piazza San Pietro.

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    Il ritaglio di Gazzetta del Sud con la notizia del rapimento

    E continua: «La sua voce e quella di altre persone che versano nella stessa dolorosa condizione, giunge al mio cuore, insieme a quella dei familiari, carica di ansia e di angoscia».
    Infine l’appello: «È questo dolore profondo di anime innocenti e di famiglie colpite nei più intimi affetti che mi induce a rivolgere un accorato appello ai rapitori: la grazia del Natale tocchi i loro cuori, li distolga dai loro propositi e li induca a restituire alle famiglie i loro cari».
    Non è ancora il Pontefice che, tredici anni dopo, lancerà la scomunica ai mafiosi, ma la strada è quella.

    La parola ai comunisti

    Anche l’altra Chiesa italiana, cioè il Pci, prende posizione sul rapimento di Marco. Sulle colonne de L’Unità del 27 dicembre Filippo Veltri riporta una dichiarazione del papà del piccolo prigioniero: «Non fategli sapere che è Natale».
    I comunisti vivono l’era Berlinguer e tentano il dialogo con la “borghesia”, fino ad allora trattata con sospetto da molta sinistra. Disinteressata o meno, la linea legalitaria, sperimentata già con grande durezza nei confronti delle Br durante il sequestro Moro, assume definitivamente le vesti dell’antimafia.

    L’articolo dedicato da L’Unità al sequestro Forgione

    Proprio a fine ’79, il Partito comunista organizza due dibattiti sulla criminalità mafiosa: uno a Paola e l’altro a Sibari. E di questa criminalità i sequestri di persona sono un segno tangibile.
    O meglio, «un segno ulteriore di come la piovra mafiosa si sia ormai propagata in tutta la regione, non risparmiando oasi un tempo ritenute felici ed immuni dalla criminalità organizzata».

    La liberazione

    Più che le parole del Papa e le polemiche dei comunisti, per Marco è stato decisivo il riscatto: circa quattrocento milioni di lire dell’epoca.
    Il piccolo ritrova la libertà il 5 gennaio del 1980, quando i suoi carcerieri lo rilasciano nella periferia di Sant’Onofrio, il paese del Vibonese noto per il rito religioso dell’Affruntata.
    Le indagini, coordinate dal procuratore capo Saverio Cavalcanti e dai suoi sostituti Oreste Nicastro e Alfredo Serafini, approdano a poco, tanta è l’omertà. Che, tuttavia, non riguarda solo l’affaire Forgione.

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    Marco Forgione assieme al sostituto procuratore Oreste Nicastro

    Alfredo: l’altro bambino rapito

    Marco è il più piccolo tra i sequestrati di quell’anno.
    Poco più grande di lui, Alfredo Battaglia in quel terribile ’79 ha compiuto tredici anni. Alfredo, figlio di un gioielliere di Bovalino, viene sequestrato il 30 ottobre ed è rilasciato il 23 febbraio del 1980, dopo centoquindici giorni di prigionia vissuti in piena sindrome di Stoccolma.
    Intervistato dalla neonata Rai 3 durante il sequestro, suo padre si dimostra duro: «Non si tratta solo dei mafiosi ma dei politici che li proteggono, che alle elezioni li abbracciano e li baciano sui palchi dei comizi».

    Enrico: lo studente universitario

    Piuttosto giovane è anche Enrico Zappino, che nel ’79 ha ventidue anni e studia all’Università di Pisa.
    Figlio di Pasquale, ufficiale medico di Mileto, nel Vibonese, e della professoressa Giuseppina Naccari Carlizzi, Enrico viene sequestrato il 22 dicembre e torna in libertà quattro mesi dopo. Il suo riscatto subisce varie negoziazioni: all’inizio i rapitori pretendono due miliardi, alla fine si “accontentano” di duecento milioni.
    Quando si dice chiedere cento per ottenere dieci…

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    Adolfo Cartisano, il fotografo morto in balia dei rapitori

    Zappino torna agli onori della cronaca nel ’93, quando si offre prigioniero al posto di un altro rapito di Bovalino: il fotografo Adolfo Cartisano, sequestrato a luglio di quell’anno e non ancora liberato, a dispetto dell’avvenuto pagamento del riscatto.
    Il gesto è nobile ma inutile: Cartisano, probabilmente, era già morto. I suoi familiari ne ritrovano il corpo solo nel 2005, in seguito alla cantata anonima di un pentito.

    Gli altri

    Antonio Rullo, imprenditore di Reggio Calabria, resta botte di mesi in mano ai suoi rapitori.
    I quali, tuttavia, gli consentono di inviare lettere e foto ai suoi familiari perché si affrettino a liberarlo.

    L’articolo de L’Unità sul sequestro Rullo

    L’ultimo della lista è Domenico Frascà, farmacista di Locri, anche lui imprigionato per mesi.
    Forse anche questa sequenza di rapimenti stimola il legislatore a far presto sulla normativa antimafia, all’epoca in elaborazione, che sarebbe stata varata solo nel 1982, sulla scia dell’impatto emotivo del delitto dalla Chiesa.
    Ma nel ’79 la consapevolezza del pericolo mafioso era comunque alle stelle. Scrive ancora, al riguardo, Veltri: «Attenti che si è giunti ad un punto limite». Col senno del poi, è impossibile dargli torto.

  • Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

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    Iniziamo con una data: 28 giugno 1982. L’avvocato Silvio Sesti, penalista cosentino di grande livello e specchiata onestà, cade sotto il fuoco di due sicari, che lo freddano nel suo studio.
    Di questo cold case della storia criminale calabrese rimane un dettaglio vistoso. Gli assassini non sono calabresi, ma due napoletani: Alfonso Pinelli e Sergio Bianchi, detto ’o Pazzo.
    «Sparava come un dio e non gliene fotteva niente di nessuno», ha detto di lui Pasquale Barra, detto ’o Animale che, prima di pentirsi, faceva il killer delle carceri per conto della Nuova camorra organizzata. Suo l’assassinio truce di Francis Turatello, nel carcere di Badu ’e Carros.
    Ma in quanto a sangue versato, Bianchi lo fregava: portava sulla coscienza (posto che ne avesse una) trecento morti ammazzati. A questo punto, la domanda vera è una: cosa ci facevano due killer campani a Cosenza? Un altro dettaglio può aiutare: anche ’o Pazzo faceva parte della Nco. E la Nco significa solo un nome: Raffaele Cutolo.

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    Il funerale di Silvio Sesti

    Cosentini in trasferta

    Facciamo un passo indietro e cambiamo zona: il 3 settembre 1981 i carabinieri arrestano a Napoli Franco Pino, boss rampante della malavita cosentina, l’ultima che si era costituita in ’ndrangheta.
    Assieme al giovane boss (29 anni all’epoca), finiscono in manette i cosentini Giuseppe Irillo, detto ’a Vecchiarella, e Antonio De Rose, che qualche anno dopo sarebbe diventato il primo pentito di Cosenza. Più il paolano Osvaldo Bonanata, detto ’u Macellaiu. Più vistosi i nomi dei napoletani arrestati assieme ai compari calabresi: Francesco Paolo Alfieri e suo padre Salvatore, entrambi uomini di spicco della Nco. Di nuovo Cutolo. La domanda, stavolta, è invertita: che ci facevano i quattro cosentini a Napoli?

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    L’alleanza d’acciaio

    Per Franco Pino è facile rispondere: il boss dagli occhi di ghiaccio aveva l’obbligo di dimora fuori regione e risiedeva all’Hotel Vittoria di Sapri.
    Ma anche a Napoli Pino si era fatto notare, almeno dalle forze dell’ordine che lo sospettavano di alcune rapine.
    In realtà, il rapporto tra il clan Pino-Sena e la Nco faceva parte di una strategia più complessa e sofisticata, messa a punto da don Raffaele, all’epoca latitante nel suo castello di Ottaviano.

    Lo strano battesimo

    Tutto comincia in carcere, quando (erano gli anni ’70) Egidio Muraca, storico boss di Lamezia, inizia Raffaele Cutolo alla ’ndrangheta.
    Altra domanda: perché Cutolo aveva bisogno di farsi iniziare in un’altra struttura criminale, tra l’altro più giovane della Camorra? E ancora: perché la ’ndrangheta, struttura notoriamente “chiusa” e familistica, accettava tra le sue file un napoletano?
    La risposta è articolata. Iniziamo dal punto di vista napoletano: la Camorra, a differenza delle sorelle calabrese e siciliana, non ha mai avuto una struttura compatta e verticistica e, tranne qualche ritualità, non ha mai fatto davvero il salto di qualità verso la mafiosità “vera”. Detto altrimenti, Cutolo aveva bisogno di farsi riconoscere per ritagliarsi un ruolo.
    Viceversa, per i calabresi trovare contatti di rilievo era vitale per mettere un piede a Napoli, fino ad allora “colonizzata” dai siciliani. Insomma, un matrimonio d’interesse in piena regola, che diede i suoi frutti.

    …E se n’è gghiuto puro ’o calabrese

    Qualcuno ricorderà la scena del delitto in carcere de Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, un classicone dei mafia movie.
    Bene: la sequenza richiama l’omicidio di don Mico Tripodo, lo storico boss di Sambatello, nemico giurato del reggino Paolo De Stefano, con cui Cutolo aveva stretto un’alleanza di ferro.
    Tripodo fu ammazzato da due giovani cutoliani: Luigi Esposito e Agrippino Effige, neppure cinquant’anni in due.

     

    L’alleanza tra Cutolo e gli emergenti della ’ndrangheta prevedeva lo scambio di killer: i calabresi in Campania e, viceversa, i campani in Calabria.
    Questa gestione non era una novità per i reggini. A Cosenza, invece, era quasi inedita.
    Franco Pino, infatti, non era solo un boss che sgomitava per emergere: tentava di trasformare la mala cosentina in ’ndrangheta vera e propria. E questo spiega perché la Calabria Citra, a un certo punto, si riempì di camorristi.

    Sul Tirreno

    Un uomo chiave di questa trasformazione è il sanlucidano Nelso Basile. Anche Basile aveva un legame d’acciaio coi cutoliani: il suo compare d’anello era Antonio Russo di Afragola. Russo, a sua volta, agiva in Calabria assieme a Bianchi e a Nicola Flagiello di Sant’Antimo.

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    Un ritaglio d’epoca sull’arresto di Pino a Napoli

    Quest’ultimo aveva un ruolo fortissimo nella Nco, perché cognato di Antonio Puca, detto ’o Giappone, luogotenente di Cutolo. I cutoliani venivano in Calabria non solo ad ammazzare, ma anche a svernare, cioè a sottrarsi ai killer della Nuova Famiglia, contro la quale ’o Professore aveva ingaggiato una guerra senza quartiere.
    Secondo varie testimonianze i napoletani si rifugiavano nelle montagne di Falconara Albanese, dove non davano nell’occhio.
    Ma al riguardo è meglio non andare oltre. Soprattutto, è importante evitare paralleli strani con la tragedia tuttora irrisolta di Roberta Lanzino, che morì proprio in quei luoghi.

    Sulla Sibaritide

    Il primo grande boss della Sibaritide, Giuseppe Cirillo, non era calabrese. Neppure napoletano: era di Salerno.
    Anche lui aveva un legame forte con Cutolo, che passava attraverso suo cognato Mario Mirabile, capoparanza della Nco a Salerno. Come se non bastasse, Cirillo era vicino anche a Vincenzo Casillo, detto ’o Nirone, altro uomo di fiducia di don Raffaele.

    La parabola criminale

    Questo intrico termina col declino di Cutolo, che a partire dalla seconda metà degli anni ’80, viene emarginato dalla scena criminale e non solo.
    Forse il suo progetto di una Supercamorra organizzata in maniera militare era un po’ troppo, sebbene avesse sedotto tantissimi soggetti borderline: si contano, al riguardo, cinquemila tra affiliati e fiancheggiatori negli anni d’oro della Nco.

    Raffaele Cutolo alla sbarra

    Ma i calabresi e i cosentini, cosa facevano per Cutolo? Franco Pino, in uno dei suoi verbali fiume, fa un nome: Francesco Pagano, che a suo dire agiva coi campani e, quando era necessario, andava a sparare in trasferta.
    Un’altra “cantata” di Pino getta luce sul delitto Sesti: secondo il superpentito, lo avrebbe commissionato Basile. Ma quest’ultimo non può confermare né smentire: è stato ucciso nell’83.
    Stesso discorso per Bianchi ’o Pazzo, morto com’è vissuto: ammazzato per strada a Napoli nella seconda metà degli anni’80.

  • Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Scalfari è morto: viva Scalfari.
    Quando se ne va l’ultimo illustre vegliardo del giornalismo italiano, l’estremo saluto dev’essere all’altezza. In questo caso, deve ricordare la formula funebre dell’Ancien Régime.
    Già: come tutti i direttori di giornale che si rispettino, Scalfari fu un monarca. E lo fu in maniera assoluta. Aggressivo nella sostanza ed elegante nelle forme, l’ex direttore e fondatore di Repubblica (e prima ancora de l’Espresso), aggiungeva ai difetti del giornalista una matrice particolare: la calabresità.

    Scalfari calabrese di ritorno…

    In Calabria, Scalfari visse pochino: giusto gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. E di sicuro non per sua volontà.
    L’occupazione angloamericana a Sud aveva senz’altro dato sollievo alle popolazioni. Ma aveva pure scatenato una crisi economica enorme. La cosiddetta “Am-Lire”, cioè la cartamoneta stampata a profusione dal governo militare alleato, aveva innescato un’inflazione spaventosa e bruciato tutti i risparmi. Specie quelli investiti in titoli di Stato.
    Come quelli di papà Pietro, originario di Vibo.

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    Il giovane Eugenio Scalfari

    La famiglia Scalfari fu quindi costretta a riparare in Calabria per sbarcare il lunario. Lo stesso giornalista rievoca quest’esperienza in Breve storia di un padre, un racconto biografico pubblicato su l’Espresso nel 2017.

    Scalfari fascista ma non troppo

    Gli Scalfari erano la classica famiglia “perbene” o, se si preferisce, notabile.
    Il nonno Eugenio fu professore al ginnasio e, guarda un po’, a sua volta giornalista. Il bisnonno Pietro Paolo fu una personalità di spicco del Risorgimento (aprì le porte della città a Garibaldi).
    Papà Pietro era un personaggissimo: eroe della Grande Guerra e poi legionario con D’Annunzio a Fiume, si barcamenò come direttore di Casinò.
    Ma era anche coltissimo e trasmise al figlio l’amore per i libri e la scrittura.
    Come tutti i giovani promettenti, Scalfari si iscrisse al Pnf e proprio negli organi di partito iniziò la gavetta giornalistica.
    Questa scelta, comune a tanti grandissimi giornalisti (Montanelli e Bocca su tutti) non deve meravigliare. Il fascismo, rispetto agli altri regimi autoritari, ebbe una sua particolarità: fu fondato da un giornalista. E, pur censurandola a botte di veline, mantenne una certa sensibilità verso la carta stampata, più per esigenze di propaganda che per (improbabile) amor di libertà.

    Giulio De Benedetti, direttore de La Stampa e suocero di Scalfari

    Eugenio liberale e poi radicale

    Finita la guerra e trasferitosi a Roma, il giovane Eugenio entrò in banca. Ma, tra un deposito e un assegno, scriveva. Eccome, complice anche il matrimonio azzeccato con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, celebre direttore de La Stampa.
    Aderì prima al Pli e poi partecipò alla fondazione del Partito radicale. Ma per lui la politica era soprattutto una questione di comunicazione. Infatti, la fece sui giornali che diresse, a partire da l’Espresso.

    Scalfari e i golpisti

    Con l’Espresso, Scalfari ebbe la sua prima medaglia: una condanna a quattordici mesi per aver diffamato il generale Giovanni de Lorenzo. La condanna resta tuttora controversa, visto che fu emessa a dispetto della richiesta di assoluzione avanzata dal pm, il celebre Vittorio Occorsio.
    Ci riferiamo, va da sé, al dossierone sul Sifar e sul Piano Solo, un mega sputtanamento confezionato da Lino Jannuzzi.

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    Il generale Giovanni de Lorenzo

    Allora la galera i giornalisti la facevano per davvero (ne sapevano qualcosa Giovannino Guareschi e Giorgio Pisanò). Ma a favore di Scalfari e Jannuzzi intervenne il Psi, che portò i due in Parlamento, dotandoli dell’immunità.

    Repubblica

    La Repubblica di Scalfari è una delle più geniali intuizioni del giornalismo italiano. Fondato nel 1976, fu il primo grande quotidiano della sinistra.
    In questo caso, si parla di quotidiano indipendente, cioè non subordinato al Pci e ai suoi satelliti. Fu una botta di fortuna, propiziata anche dal grande fiuto del fondatore.
    Scalfari, infatti, capì che mancava un organo a una fetta vasta di opinione pubblica, di sicuro sinistrorsa ma non disposta a prendere l’Unità per Vangelo.

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    Eugenio Scalfari negli anni d’oro di Repubblica

    Complice una grande squadra di cronisti giudiziari e di notisti politici, il nuovo quotidiano prese il volo. La formula era semplice ma efficace: Scalfari e i suoi riprendevano le inchieste dei giornali d’assalto (Paese Sera e L’Ora di Palermo, per capirci) ma senza l’ombra del comitato centrale comunista.
    Repubblica dialogò con un pubblico enorme, che andava dalla sinistra liberale a quell’area filocomunista che considerava Berlinguer un messia. E sfondò.

    Il giornale chiesa

    Secondo molti, Repubblica fu un giornale-partito. Ma questa definizione è sbagliata per difetto: Scalfari, in realtà, aveva fondato una Chiesa.
    Laica, a tratti atea come si dichiarava il suo fondatore, ma pur sempre chiesa. Sulle colonne di questo giornale prese forma il sinistrese politicamente corretto, che sopravvisse a tutti i traumi della sinistra.
    Grazie a questa formula, Scalfari si prese il lusso di dichiarare prima guerra a Craxi e poi a Berlusconi, per esempio. E di vincerla sempre.
    Tangentopoli non sarebbe stata Tangentopoli se prima non ci fosse stato il lungo lavorio di Repubblica, che fece scuola anche tra molti giornalisti che a Repubblica non misero mai piede. Idem per Berlusconi, che pure riusciva a parare i colpi col suo impero editoriale.

    L’anti giornalista

    Fazioso ma non per conto terzi, autoreferenziale e un po’ arrogante, Scalfari per molti versi può essere definito un anti giornalista.
    Fanno fede, al riguardo, gli articoli lunghissimi, i periodoni un po’ manzoniani e un po’ barocchi e l’autocompiacimento, che arrivava alla scrittura in prima persona. Roba che per molto meno Montanelli avrebbe sparato.
    Eppure Scalfari, nonostante ciò, ebbe un successo smodato e divenne un riferimento. Tant’è che i lettori di giornali si possono dividere in tre categorie: quelli che riuscivano a capire Scalfari, quelli che lo leggevano comunque e quelli che lo detestavano.
    Anche in età da pensione il Nostro si tolse una soddisfazione per cui dozzine di giovani, anche più atei di lui, venderebbero l’anima: un dialogo privilegiato con papa Francesco.

    Papa Francesco, l’ultimo illustre intervistato (e un po’ vittima) di Scalfari

    Un dialogo strano, fatto di smentite vaticane e di abbracci pontifici. Scalfari veniva accusato di mettere in bocca al papa cose mai dette e ciononostante, continuava a intervistare Bergoglio come se nulla fosse.
    Scriveva come gli pareva (benissimo per un intellettuale, non troppo per un giornalista) e faceva comunque opinione. Insomma, essere Scalfari è il secondo desiderio di un giornalista ambizioso (il primo è avere un articolo 1 al Corriere della Sera).
    E allora che dire? Scalfari è vivo e lotta con noi. E tutto il resto è fuffa.

  • Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

    Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

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    Una domanda banale per iniziare: a che servono i giornalisti in Italia?
    La risposta è scontata: a fare da ufficio stampa ad alcune Procure. O dall’altro lato della barricata, ad altrettanti studi legali.
    Poi servono nelle tornate elettorali: c’è sempre qualche inchiesta che azzoppa qualcuno o un virgolettato che fa comodo.
    Ma i giornalisti servono, soprattutto, quando costano poco e quando si prestano, in maniera più o meno disinteressata, a far da carne da cannone.
    Soprattutto, a livello giudiziario. Quanto tutto questo incida sulla libertà di stampa (e sulla correlata libertà di informazione, specie in Calabria) è facile da capire.

    Informazione: Italia tra le ultime, la Calabria è peggio

    Lo ha detto più volte l’Ocse: l’Italia è piuttosto giù nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa. E va sempre peggio, perché nel 2022 siamo scesi al 58esimo posto (su un totale di 180), come denuncia l’ultimo World Press Federation Index.
    Il rapporto indica soprattutto una causa di questa situazione non brillante per un Paese occidentale: l’autocensura.

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    La libertà di stampa in Italia secondo l’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere

    Ci si autocensura perché si rischia tanto, a livello legale. Poi ci si autocensura perché si è pagati troppo poco per rischiare. Oppure perché gli editori, oltre che di spendere il meno possibile, si preoccupano di non dar fastidio ai padroni del vapore (sul quale sono a bordo o contano di salire).
    In tutto questo, com’è messa la Calabria? Malissimo, va da sé. E la situazione è quasi impossibile da quantificare perché mancano dati precisi.

    L’informazione in Calabria e le querele à gogo

    Qualche mese fa l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho aveva ribadito la necessità di tutelare i giornalisti dalle liti temerarie.
    Questa dichiarazione finì in un appello firmato da quasi tutte le testate calabresi, inclusa la nostra, e da singoli giornalisti.
    L’emergenza c’è. Anche se mancano i numeri per definirla. Qualcosa la si apprende dalla Polizia postale, che in seguito all’esplosione del giornalismo online, è diventata il terminal delle querele.

    Queste, in Calabria, si aggirano grosso modo attorno al centinaio l’anno. Tantissimo, se si considera il totale degli iscritti all’albo e lo si proietta sulla popolazione regionale.
    Altra domanda: che fine fanno queste querele? Una statistica giudiziaria è impossibile.
    Tuttavia, non ci si allontana dalla realtà se si ipotizza che circa il 60% finisce in niente. In pratica, non arriva neppure all’avviso di garanzia.
    Di quel che resta, una parte maggioritaria va a dibattimento. Più limitato il numero delle condanne (in pratica, il 15% del totale). Ma questi, ripetiamo, sono dati molto informali, da prendere con le pinze.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho

    Quando le querele imbavagliano

    Se molte finiscono in niente, perché le querele imbavagliano? Innanzitutto, per i costi legali, che ci sono anche per i prosciolti.
    Poi, ovviamente, per motivi di serenità. Peggio ancora con le richieste di risarcimento danni, che obbligano comunque a difendersi e non offrono le garanzie del procedimento penale.

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    Una rotativa in funzione

    Qualche domanda a Cafiero

    Il problema è semplice: querelare è facile. Ed è facile non perché le normative che regolano l’editoria e la professione sono in buona parte obsolete.
    La facilità con cui si querela è dovuta alla giurisprudenza, che ha aumentato a dismisura le possibilità di far condannare i giornalisti.
    E allora: Cafiero sa che si querela molto perché una buona fetta dei suoi colleghi magistrati ha aumentato la “querelabilità” a botte di sentenze? Inoltre, lui o qualche altro big in toga hanno mai pensato di far dibattere al Csm questo problema?

    Redazioni a macchia di leopardo

    Gli editori (parliamo di editoria periodica) si dividono in tre categorie: quelli che pagano, quasi inesistente, quelli che pagano male, i più, quelli che non pagano affatto.
    Concentriamoci sulla seconda.
    Pagare male, in questo caso, significa pagare il minimo indispensabile. Ovvero, contrattualizzare decentemente solo i pochi redattori che servono per ottenere i finanziamenti pubblici e gli sgravi. Il resto, pazienza: si accontenterà di paghe da fame ottenute attraverso contratti borderline.

    D’altronde, quanti part time, verticali od orizzontali, o co.co.pro coprono prestazioni professionali da tempo pieno e indeterminato?
    Ciò comporta che più o meno tutte le redazioni siano a macchia di leopardo. Cioè che gli articoli uno condividano pc e scrivanie con part time che fanno il loro stesso lavoro.
    Gli esempi abbondano: tra questi la vecchia Provincia Cosentina (che chiuse i battenti nel 2008) e Calabria Ora/L’Ora della Calabria, che non esiste più dal 2014.

    La vera minaccia alla libertà

    La contrattualizzazione a macchia di leopardo non è solo colpa degli editori “taccagni. In buona parte, invece, è dovuta alla fragilità del mercato, che non consente l’editoria “pura”, che resiste, spesso male solo in alcune nicchie (inesistenti in Calabria).
    Gli editori calabresi sono sempre stati “impuri”, che non significa necessariamente cattivi. Sono imprenditori che hanno il core business altrove e usano i media per curare i propri interessi.

    In Calabria nel mondo dell’informazione questo principio vale quasi per tutti, con la palese eccezione de I Calabresi.
    Il resto, vuoi per mancanza di business, vuoi per prassi consolidate, segue le regole dell’aziendalistica, deformate sulle abitudini regionali: pagare poco e male, fino a ricorrere al nero.
    In fin dei conti, la minaccia per eccellenza alla libertà di stampa è questa: un cronista pagato male e tutelato peggio (quanti sono i giornalisti coperti da assicurazioni professionali?) è un cronista che lavora male.

    La bassa qualità dell’informazione in Calabria (e non solo)

    Ma la poca libertà di stampa non è solo un affare degli addetti ai lavori. Riguarda anche il pubblico, perché spesso si traduce in informazione di cattiva qualità.
    A questo punto, è scontata una domanda: perché una persona preparata e dotata delle qualità che fanno il buon giornalista dovrebbe imbarcarsi in un mestiere duro, a volte rischioso? E in cambio di cosa? Quattro spiccioli e la certezza di guai giudiziari, se va bene, o fisici, se va male?

    Il caporalato

    Altre testate sono sopravvissute attraverso due pratiche a rischio: la cooperativa di giornalisti (è il caso de Il Garantista) e l’affidamento a uno o più service (il Domani della Calabria e, più di recente, La Provincia di Cosenza).
    Le cooperative hanno una forte controindicazione: trasformano i giornalisti in imprenditori. In pratica, li costringono a fare un mestiere non loro. Questo quando funzionano. Ma, al riguardo, in Italia c’è solo il Manifesto che corrisponde ai criteri di una cooperativa vera. Per il resto, sono imprese mascherate, che scaricano sui dipendenti i rischi dell’imprenditore.

    I service, cioè le agenzie stampa che gestiscono testate intere o loro singole parti, possono essere peggio. In queste forme di gestione, infatti, si annida il caporalato, perché il titolare dell’agenzia gestisce un forfait e non è detto che lo faccia in maniera trasparente.
    Ad ogni buon conto le garanzie per i giornalisti rischiano di essere minime, visto che non sono infrequenti i casi in cui le eventuali querele sono a carico del service e non dell’editore…

    L’informazione in Calabria: chiusure e fallimenti

    Gli editori “impuri” sanno bene una cosa: che i giornali, comunque li si gestisca, sono aziende in perdita.
    Quando il costo supera gli utili “immateriali” (pubblicità alle proprie aziende, e possibili “attacchi” a concorrenti o politici ostili), di solito si chiude o si fallisce.
    È capitato alla Provincia Cosentina, ceduta dal gruppo Manna a un gruppo di giornalisti e fallita nel giro di tredici mesi. È capitato a Calabria Ora, fallito dopo vicende controverse. Più sfumata la storia del Garantista, che ha subito un cambio di gestione è poi è fallito.
    Queste tre chiusure hanno lasciato strascichi pesanti di vertenze e questioni giudiziarie irrisolte. Più una tragedia: il suicidio di Alessandro Bozzo, storica firma del giornalismo cosentino.

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    Alessandro Bozzo: la sua tragica morte fece riaccendere i riflettori sullo stato dell’informazione in Calabria

    Quanti peli ha la solidarietà?

    Di Alessandro si ricorda un funerale commovente, un processo per far chiarezza sulla morte, qualche evento pubblico e due libri dedicati a lui.
    Della chiusura di Calabria Ora/L’Ora della Calabria, invece, si ricordano le polemiche e gli scandali.
    Dei giornalisti, anche talentuosi, espulsi dalla professione non si ricorda nessuno, tolte le parole di circostanza.
    Del vecchio assetto dell’editoria periodica calabrese restano in piedi due testate: il Quotidiano del Sud (già della Calabria), e la Gazzetta del Sud, più una galassia di giornali online di diversa qualità e fattura.
    Il precariato è la norma, in questa situazione: vi si resiste solo passando da una testata all’altra, spesso in condizioni di estremo disagio.
    Che libertà e che qualità si possono assicurare per questa via? Il resto, le indignazioni passeggere e le finte solidarietà sono chiacchiere.

  • Gli “ottantotto folli”: processo ai fascisti nella Calabria liberata

    Gli “ottantotto folli”: processo ai fascisti nella Calabria liberata

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    Parliamo pure di resistenza al Sud. Ma, almeno, diamole un colore più preciso: il nero. Che può non piacere, ma corrisponde alla realtà: la Calabria, che pure ebbe figure di prima grandezza dell’antifascismo (il ministro Fausto Gullo, Pietro Mancini e don Luigi Nicoletti) fu in realtà la culla del neofascismo.
    E lo fu, praticamente, da subito. Lo testimonia un processo particolare e bizzarro, che vanta almeno un record: fu il primo maxiprocesso calabrese del dopoguerra.
    Vi finirono in ottantotto alla sbarra. Non erano mafiosi né delinquenti. Ma solo fascisti, disposti a restare tali a tutti i costi. E qualcuno lo pagarono.

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    Le truppe britanniche sbarcano a Reggio Calabria

    Bombe e volantini

    È la mattina del 28 ottobre 1943 e in Calabria la guerra è – più o meno – finita. Se ci fosse ancora il fascismo, anche i calabresi celebrerebbero il ventennale della marcia su Roma.
    Ma, sebbene il regime sia finito, c’è chi non si dà per vinto.
    Ad esempio, a Nicastro, dove gli abitanti trovano, al loro risveglio, parecchi volantini per strada. Contengono slogan inneggianti al duce, anzi Duce, e al fascismo.
    Un mese dopo capita di peggio. È la sera del 28 novembre ’43: due bombe ad alto potenziale devastano, sempre a Nicastro, le tipografie di Era Nuova e Nuova Calabria, due riviste antifasciste.
    Non finisce qui: nella stessa notte, un’altra bomba esplode contro l’ingresso della casa di Marcello Nicotera, ingegnere e tipografo e antifascista.
    Ma i bombaroli alzano il tiro: un altro ordigno finisce contro l’ufficio di stazione dei carabinieri.
    Il 1943 dei nicastresi termina con un’altra bomba, stavolta contro la caserma dei carabinieri.

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    Un giornale d’epoca racconta il processo agli ottantotto

    Fiori per concludere

    Anche i primi mesi del ’44 sono piuttosto animati, almeno nel Lametino. Tre attentati dinamitardi, per fortuna senza grosse conseguenze, colpiscono il Liceo e la sezione del Pci di Nicastro e il municipio di Sambiase.
    Tutto termina con episodio gentile: la notte del 23 marzo mani ignote depongono fiori sulle tombe dei soldati tedeschi seppelliti nel cimitero di Nicastro. Forse le stesse mani, qualche ora prima, hanno strappato i manifesti dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata.
    Neppure questa seconda data è un caso: il 23 marzo è l’anniversario della fondazione dei Fasci da combattimento.

    Allarmi son fascisti…

    I carabinieri non hanno quasi dubbi. Anzi, hanno un teorema. Intendiamoci: non ci vuol molto a capire che gli autori di quelle bravate sono fascisti irriducibili.
    Occorre solo capire quali.
    Forse con l’aiuto dei servizi segreti della Regia marina (e di alcuni settori dell’Oss, l’antenato della Cia), i militari ipotizzano due teste pensanti, una a Crotone l’altra a Cosenza.
    La prima appartiene al marchese Gaetano Morelli, che a dire il vero qualche indizio di troppo lo ha seminato.
    Infatti, gli uomini della Benemerita trovano in un fondo silano del nobiluomo un arsenale coi controfiocchi: undici moschetti calibro 91, caricatori più che in proporzione e due casse di bombe a mano. Tutte armi militari, trafugate da ufficiali dell’esercito.
    La seconda testa è particolare: quella di Luigi Filosa. Una testa così calda da meritare un approfondimento a sé.

    Il camerata rosso

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    Luigi Filosa. il fascista “rosso”

    Classe 1897 e longevo come tanti folli (è morto nel 1981) il cosentino Luigi Filosa resta tuttora un rebus politico.
    Repubblicano di matrice liberal-progressista, Filosa incontra il fascismo nel segno dell’eresia politica. Amico e sodale di Michele Bianchi, porta assieme a lui i fasci a Cosenza, poco meno di un anno dopo la nascita del partito.
    L’avvocato indossa la camicia nera, ma pensa in rosso: attacca i latifondisti e non risparmia critiche allo stesso Mussolini.
    È scettico persino sulle possibilità di prendere il potere a breve. Tuttavia, si adegua e guida le squadre cosentine durante la marcia su Roma e poi diventa federale di Cosenza.
    Viene silurato per le sue frequentazioni antifasciste (in particolare, col repubblicano Federico Adami e i comunisti Giulio Cesare Curcio e Salvatore Tancredi).
    Espulso dal partito, subisce prima l’ammonizione (1926) e poi, nel 1931, il confino, da cui torna l’anno successivo grazie all’amnistia concessa per il decennale della rivoluzione fascista.
    Per lui il crepuscolo mussoliniano è un ritorno di fiamma bizzarro: perché rischiare per un regime da cui si è subito tanto nel momento in cui questo non conta più? Perché mettersi in gioco quando le sanzioni ricevute potrebbero essere un salvacondotto per l’Italia del futuro?

    Il principe e la marchesa

    Gli organizzatori veri sono due aristocratici calabresi: il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara e sua moglie, la marchesa Maria de Seta, sposata in seconde nozze ed ex amante di Michele Bianchi.
    I due ricevono l’ordine da Carlo Scorza, il segretario del Pnf, su iniziativa di Mussolini in persona. Devono creare le Guardie ai Labari, un’organizzazione a metà tra la brigata partigiana e la Stay Behind, per dar fastidio agli Alleati nelle retrovie.
    I Pignatelli gestiscono la rete da Napoli, dove si dedicano allo spionaggio più spregiudicato. E imbastiscono un triplo gioco con i tedeschi, coi repubblichini e con l’Oss.
    Ma questa è un’altra storia.

    La retata dei big

    Oltre Filosa e Pignatelli, finiscono nella retata ottantotto persone. Tra queste, si segnalano alcuni notabili del fascismo cosentino.
    Sono Orazio Carratelli, ex direttore di Calabria Fascista e Rosario Macrì, sciarpa littorio e fiduciario del gruppo “Carmelo Rende”. Un paradosso riguarda Pietro Morrone, già federale di Cosenza dal ’30 al ’36 e fresco reduce di guerra: la cronologia fa di lui un “persecutore” di Filosa.
    Non si può proprio non menzionare, tra i big, una figura chiave della vita cosentina, anche durante la Prima Repubblica: Orlando Mazzotta.

    Un ricordo di don Orlando

    Orlando Mazzotta

    Nato a Lago nel 1916 da famiglia umile, Orlando Mazzotta è il classico self made man. Si diploma prima al Magistrale e poi, da privatista, al Classico, unica via di accesso per l’epoca alla facoltà di Giurisprudenza.
    La sua carriera è fatta di sacrifici e borse di studio. Aderisce al fascismo sin dall’Università (diventa, infatti, vicesegretario del Guf di Cosenza) e vi fa strada.
    All’arrivo degli Alleati, Mazzotta è capo ufficio stampa del partito a Cosenza e volontario della Milizia, cioè squadrista.
    Nel dopoguerra, diventa un avvocato di grido, è dirigente del Msi ed è tra gli animatori dell’Accademia Cosentina. Nella sua storia familiare c’è una piccola nemesi: suo figlio, Giuseppe, anche lui avvocato, è stato candidato sindaco di Cosenza nel ’93 da Rifondazione Comunista…

    La retata dei giovani

    In questa singolare operazione dei Carabinieri, vi sono molti giovani. Alcuni di loro diventeranno volti noti.
    È il caso, a Cosenza, di Teodoro Pastore, Beniamino Micciché ed Emilio Perfetti. Con loro, finisce in gattabuia Vittorio Bruni, sottotenente del 16esimo Reggimento di fanteria di stanza a Cosenza. Per i quattro l’accusa è di traffico d’armi.
    Ma, al di là dei fatti specifici, occorre ricordare un paradosso di questo primo maxiprocesso della Calabria del dopoguerra: i fascisti sperimentarono sulla propria pelle le leggi fascistissime di pubblica sicurezza e il Codice Rocco non ancora emendato.

    Un processo bizzarro ai fascisti

    Celebrato nella primavera del ’45, quando Mussolini si avvia alla sua tragica fine, il processo a carico degli ottantotto è pieno di stranezze e bizzarrie.
    Alcune di queste, forse, sono dovute alla scarsa volontà di condannare per davvero i reprobi.
    Molto si gioca sull’insufficienza di prove, che impedisce di ricostruire, ad esempio, i rapporti tra i Pignatelli e gli altri imputati. Altro, invece, è affidato all’estro dei difensori e degli imputati stessi, soccorsi a un certo punto, dagli antifascisti.

    Lo show di Filosa

    don Luigi Nicoletti

    Luigi Filosa, ad esempio, combina una delle sue guasconate: rinuncia alla difesa di Cribari, Fagiani e Goffredo (tre “principi del foro”) e decide di far da sé.
    La sua trovata non è proprio disprezzabile: riesuma il Filosa antifascista ed esibisce il casellario penale come un medagliere.
    La strategia riesce, anche perché intervengono a favore dell’avvocato tre big dell’antifascismo: Fortunato La Camera, leader regionale del Pci, Luigi Pappacorda, segretario provinciale del Partito d’Azione, e don Luigi Nicoletti, sacerdote e segretario della Dc. Un soccorso “rosso”, ma pure bianco, con tutti i crismi.

    La furbata di Morelli

    Gaetano Morelli, invece, se la prende coi carabinieri: lo avrebbero bastonato, dice, per farlo “cantare”.
    In pratica, avrebbe subitolo stesso trattamento che, fino a poco prima, gli squadristi riservavano a oppositori e dissidenti. Con una sola differenza: nessuno gli ha somministrato l’olio di ricino.
    I quattro giovani cosentini, invece, si accusano a vicenda: Perfetti accusa Pastore e quest’ultimo nega. Bruni, invece, ammette di aver rubacchiato delle pallottole, ma solo per andare a caccia. In questo caso, è evidente il tentativo della difesa di far saltare l’accusa di associazione a delinquere.

    Cantando Giovinezza

    L’8 aprile 1945 arriva il verdetto. Qualcuno la fa franca per non aver commesso il fatto. È il caso di Mazzotta, Carratelli, Macrì e Morrone.
    Altri le prendono. Come Luigi Filosa, che da neofascista riceve una condanna più pesante di quelle subite da antifascista: otto anni.
    La maggior parte degli accusati busca pene che vanno dai quattro ai dodici anni.
    Ma, notano i cronisti dell’epoca, tutti accolgono la sentenza con un’ennesima guasconata: non appena il presidente smette di leggere, cantano Giovinezza, l’inno del Ventennio ormai alle spalle.

    Togliatti libera tutti

    Ma un virtuosismo della difesa azzera tutto. Gli avvocati scovano un po’ di cavilli e vanno in Cassazione.
    Quest’ultima annulla e fa ripartire il processo. Che non si svolgerà mai, perché nel frattempo Togliatti ha lanciato la sua amnistia.
    La quale resta un esempio morale di pacificazione nazionale, non ci piove.
    Tuttavia, è anche un esempio di lottizzazione dei fascisti. La Dc, infatti, mira a burocrati e dirigenti che avevano fatto carriera nel Ventennio. Il Pci fa incetta di intellettuali e sindacalisti. Per gli altri ci sarà il Msi, nato come “casa rifugio” per gli impresentabili e, quindi, irriciclabili.
    Ma tant’è: anche questi compromessi sono alla base della nostra democrazia.

  • Il lavoro quando c’è: nero e irregolare a Cosenza

    Il lavoro quando c’è: nero e irregolare a Cosenza

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    La polemica è stagionale come certi lavori: non appena arriva l’estate partono le lamentele di vari imprenditori contro il Reddito di cittadinanza.
    Alle quali si sono aggiunte, quest’anno, le perplessità sul Salario minimo, approvato da poco dall’Ue e a cui l’Italia dovrà adeguarsi.
    La domanda vera è: queste misure servono? E quanto?
    Di sicuro i dati che vengono dall’altro fronte, quello dell’impresa, non sono il massimo.

    Calabria maledetta?

    I casi eclatanti non mancano, da noi. E di alcuni I Calabresi hanno già dato ampio resoconto.
    Mancano, semmai, statistiche complete attendibili che diano il polso della situazione.
    Detto altrimenti: quanti sono i casi di sfruttamento, di lavoro nero “totale” o di lavoro “grigio”?
    Ancora: quanti sono i casi di evasione, assicurativa e contributiva, ai danni dei lavoratori? Ottenere questi dati è difficilissimo, per una serie di ragioni.
    La prima si chiama omertà: spesso il lavoratore è “colluso” col suo capo. E non sempre perché ne subisce il ricatto: la vita del “padrone”, in Calabria, può essere difficile come quella dei suoi dipendenti.

    I cantieri edili sono spesso luoghi-simbolo dello sfruttamento

    La seconda è dovuta all’inefficienza: gli uffici che dovrebbero vigilare, il più delle volte, non sono attrezzati a dovere, soprattutto a livello di organico.
    Tuttavia, qualche numero da cui partire c’è . Poco, ma quanto basta per mettere un piccolo punto fermo. E capire se siamo o no una terra maledetta.

    Lavoro nero e non solo: un anno di evasioni

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    La sede dell’ispettorato

    I dati dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza sono piuttosto parziali. Innanzitutto perché riguardano il solo 2021.
    Poi perché riflettono l’attività dell’ufficio, cioè tutti i casi che i funzionari conoscono in seguito a denunce o ispezioni.
    Eccoli.
    In tutto il territorio provinciale di Cosenza lo scorso anno ci sono state 492 richieste d’intervento, cioè denunce dei lavoratori.
    Sempre nello stesso periodo, sono emersi 434 casi di lavoro irregolare. Ovvero il cosiddetto lavoro “grigio”.
    I casi di lavoro completamente nero sono, invece, più ridotti: 273.
    A questo punto, arriviamo al girone peggiore: i lavoratori in nero che percepiscono il Reddito di cittadinanza. I casi denunciati nel 2021 sono solo 14.
    Ancora: nello stesso periodo, l’Ispettorato ha emesso 236 Diffide accertative (in pratica l’equivalente dei decreti ingiuntivi) per crediti vantati dai lavoratori.
    Il dato più grosso riguarda l’evasione assicurativa e contributiva, che arriva a 2.101.721, 94 euro.
    I casi risolti sono 737. Come valutare questi dati?

    La pagella di Cosenza

    Per quanto parziali, i dati sono gravissimi, perché incidono su un territorio enorme e problematico.
    La terza provincia d’Italia ha un tasso di disoccupazione altissimo (si parla di circa 58mila disoccupati per il 2021 e un tasso del 50% tra gli under 30), che di suo spinge alla fuga.
    Di più, questi dati emergono da un sistema economico essenzialmente terziario, in cui anche il bar sotto casa a gestione familiare è un’azienda.
    Ciononostante, i casi emersi nel 2021 restano pochi, come ammettono per primi proprio dall’Ispettorato.
    È il momento di specificare meglio ciò che si è detto prima sulle inefficienze, reali e presunte, di chi dovrebbe tutelare i lavoratori.

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    Lavoratori in protesta contro lo sfruttamento

    Ispettorato azzoppato

    Si è già detto che i dati raccolti sono il frutto delle denunce dei lavoratori oppure delle ispezioni.
    Ma che verifiche può fare un ufficio spaventosamente sotto organico? Il fabbisogno di personale dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza oscilla attorno alle cento unità, tra ispettori e funzionari.
    La disponibilità effettiva è quasi la metà, quindi del tutto insufficiente. Peggio ancora se si considerano anche le attività di polizia giudiziaria (ad esempio nell’infortunistica) che gravano sull’ufficio.
    Non a caso, la scorsa primavera i dipendenti dell’Ispettorato sono scesi in piazza per denunciare che tra le tante emergenze del lavoro c’è anche la loro.
    I dati sono veri, ma stimati in difetto: quelli reali potrebbero arrivare a quattro volte tanto.

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    La manifestazione degli ispettori del lavoro a Cosenza

    Il Reddito è un rimedio?

    Un rimedio no, fanno sapere gli addetti ai lavori, che ammettono per primi che il Rdc è stato un mezzo fallimento.
    Tuttavia, resta un palliativo.
    Stesso discorso per il Salario minimo, di cui desta perplessità il fatto che è pensato su base oraria.
    Si prepara un’altra estate di polemiche. Poi, finite le esigenze stagionali, tutto tornerà più o meno a posto.
    Resta una domanda: quante saranno le irregolarità o le evasioni del 2022?

  • Quando le lucciole si presero Cosenza

    Quando le lucciole si presero Cosenza

    Una macchina del tempo speciale, la stampa d’epoca, restituisce un’immagine originale della storia e del costume della Cosenza ottocentesca.
    Entrambi rivisti da un’ottica particolare: la prostituzione. Un’attività che la dice lunga sulle abitudini dei cosentini.
    I protagonisti di questa storia, in cui le lucciole stanno in primo piano, sono Francesco Martire, avvocato di grido e sindaco, e Luigi Miceli, deputato radicale allora all’apice del potere.
    Le voci narranti appartengono, invece, ai giornali Il Fanfullino e La Tribuna.

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    Una lucciola d’epoca

    Una città noiosa

    La Cosenza degli anni ’70 del XIX secolo è una città piccola (quindicimila anime circa) e noiosa.
    Quel po’ di borghesia che vi resiste si ritrova al Gran Caffè o al Baraccone, un teatro ligneo che l’amministrazione comunale demolisce per far posto all’ara dei fratelli Bandiera.
    L’opera, che tuttora incide nell’immaginario cosentino, è commissionata allo scultore bolognese Giuseppe Pacchioni, già sodale dei fratelli veneziani e scampato per un soffio al disastro della loro spedizione.

    Lucciole e tariffe

    Tolti questi due locali, ridotti a uno, resta un’alternativa per gli uomini che possono permettersela: le casupole di via Sant’Agostino, piccoli lupanari dove circa cinquanta lucciole esercitano il mestiere più antico del mondo. I più esigenti, invece, possono rivolgersi al bordello vicino a piazza Carmine.

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    La targa di un bordello d’epoca

    È solo una questione di tariffe, che comunque non sono alla portata di tutti: una “marchetta” a Sant’Agostino costa due lire, a piazza Carmine si sale a cinque.
    Per capire meglio, si pensi che le leggi dell’epoca davano il diritto al voto ai maschi venticinquenni che si dimostravano in grado di pagare 40 lire di imposta all’anno.
    Ad ogni buon conto, le casupole di Sant’Agostino restano frequentatissime fino al 1876, quando Francesco Martire le sgombera.

    Via le lucciole da Sant’Agostino

    La morale pubblica non c’entra, perché la prostituzione è legale, grazie ai decreti Cavour che ne regolano l’esercizio sin dal 1861.
    Lo sgombero di via Sant’Agostino è dovuto ai lavori di rifacimento della zona, in particolare all’allargamento della strada che deve collegarsi all’ara dei fratelli Bandiera.
    Questi lavori, che fanno parte di un pacchetto cospicuo di interventi, implicano la demolizione delle casupole.

    Il ribaltone e il sindaco

    A monte di queste iniziative, c’è un ribaltone di palazzo, che avviene proprio nel 1876, quando il sindaco Raffaele Conte, avvocato e patriota risorgimentale moderato, è costretto alle dimissioni.

     

    Luigi Miceli

    Conte, che ha programmato quasi tutte le opere allora in realizzazione, è gradito a quell’élite (poco più del 2% della popolazione) che determina col voto il destino della città. Infatti, la sua lista rivince.
    A questo punto interviene Luigi Miceli, il deputato di Longobardi, prossimo a una carriera ministeriale importante nei governi della Sinistra e uomo forte della Provincia. Miceli impone un suo uomo, Francesco Martire, approfittando del fatto che i sindaci sono nominati direttamente dal re.
    L’escamotage è un inciucio di rara raffinatezza: Martire diventa sindaco ma gli uomini di Conte entrano in giunta.

    Il giornalista e le lucciole

    E le lucicole? Per loro non cambia nulla: lo sgombero previsto da Conte lo farà Martire.
    L’onere (e il piacere) del racconto spettano a una penna di rara efficacia: quella di Alessandro Lupinacci.
    Scrittore, poeta e giornalista, Lupinacci è un moderato dall’ironia graffiante. Editorialista della Tribuna di Roma, fonda a Cosenza, nei primi ’70 dell’Ottocento, Il Fanfullino, un periodico di satira e cronaca che gli somiglia tantissimo.
    Sarebbe improprio definire Lupinacci un conservatore (come appare agli occhi di chi lo legge oggi): secondo i criteri dell’epoca, sarebbe un riformista.
    I passaggi che, con lo pseudonimo di Sandor, dedica allo sgombero sono gustosissimi.

    Il racconto

    «La strada che si sta costruendo lungo il quartiere di S. Agostino e la demolizione di quelle casupole, albergo infelice delle infelicissime generose, ha ricacciato molto più in dentro alla città quelle vittime della prostituzione con grave scandalo della onesta gente che abita in quella contrada, e della morale pubblica».
    Così, il 17 giugno del 1876, Sandor tira la sua brava staffilata sulla situazione.
    Non senza un sottinteso: prima, quando c’erano le casupole, si sapeva anche dove stavano le lucciole. Ora, dopo lo sgombero non lo si sa più.

    Il complesso monumentale di Sant’Agostino

    Ma tutto lascia pensare che la “colonizzazione” di Santa Lucia, che per decenni è stato il “cordone sanitario” della città (e tale è rimasto, anche dopo la legge Merlin) sia iniziato proprio allora.

    Le lamentele

    Dopodiché, Lupinacci si fa carico di una lamentela: «Io vorrei (per essere appagati i giusti reclami che mi giungono), dalla Pubblica Sicurezza, o da chi deve occuparsi di questo ramo di pubblico servizio, che si provvedesse opportunamente e con sollecitudine», prosegue l’articolo del Fanfullino.
    Ma anche il quartiere, dopo lo sgombero, non è messo bene, perché una cosa è demolire le casupole, un’altra bonificare la zona.

    L’Avanguardia, uno dei giornali che raccontarono la vicenda delle lucciole

    Infatti, denuncia ancora Lupinacci: «Nello stesso quartiere vi è dell’acqua stagnante che non trova scolo a causa del materiale gittato dalle demolizioni, acqua che nuoce colle sue fetide esalazioni alla salute degli abitanti».
    Il destinatario delle lamentele (e delle relative esortazioni) è Martire: «Giro questo reclamo all’onorevole sindaco».

    Un esercito di “laide Circi”

    Un anno dopo, la situazione non è risolta. Stavolta lo denuncia L’Avanguardia, il settimanale fondato dal giornalista e scrittore Mario Bianchi proprio nel 1877.
    Già, le lucciole si sono “disperse” in città e alcune di loro sono approdate a Santa Lucia. Ma altre sono tornate nel quartiere, dove danno un po’ troppo nell’occhio.
    Non a caso, L’Avanguardia del 17 giugno 1877 parla di «un esercito di laide Circi» che avrebbe invaso Sant’Agostino.
    Alla faccia della riqualifica…

  • Ospedale a Vaglio Lise: il fantasma prende corpo?

    Ospedale a Vaglio Lise: il fantasma prende corpo?

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    Ormai è una non notizia: il nuovo Ospedale di Cosenza si dovrebbe fare a Vaglio Lise.
    A otto mesi dal suo insediamento, la giunta a guida Franz Caruso ha provato a mettere un punto fermo al dibattito sul nuovo Hub.
    È solo un mezzo passo, intendiamoci, perché l’ultima parola spetta al Consiglio comunale.
    Tuttavia resta un segnale forte, sebbene l’idea non sia proprio originalissima.
    La scelta di Caruso, infatti, riesuma la vecchia proposta di Mario Oliverio.
    Ma meglio una riesumazione che niente.

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    Quel che resta dalla stazione di Vaglio Lise a Cosenza

    La rivincita di Cosenza?

    L’ipotesi di Vaglio Lise è un compromesso tra le esigenze della città e quelle della provincia, comunque costretta a far capo all’Annunziata.
    Ma soprattutto è una risposta forte all’ipotesi opposta, coltivata a Rende in piena era Principe e rilanciata di recente dall’attuale sindaco Marcello Manna.
    Secondo questo progetto, il nuovo ospedale di Cosenza sarebbe dovuto sorgere nei pressi dell’Unical, magari per stimolare la realizzazione della tanto vagheggiata Facoltà di Medicina.
    E c’è da dire che questo progetto aveva ripreso quota con la recente istituzione, ad Arcavacata, di un Corso di laurea di Medicina e tecnologia digitale.
    Realizzare l’hub nei pressi di una delle Stazioni ferroviarie più inutili d’Italia è quindi un punto segnato nella trentennale contesa con Rende per la leadership della futura (e ipotetica) città unica. Un puntello più a Sud, che dovrebbe limitare le pretese di centralità d’oltre Campagnano.

    Uno schiaffo a Mario Occhiuto

    Un Mario (Oliverio) resuscita un po’, un altro Mario (Occhiuto) affonda un altro po’.
    La scelta di Vaglio Lise implica il rigetto più totale dell’ipotesi formulata dall’ex sindaco: tirare su l’Ospedale nuovo sulle macerie del vecchio.

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    La giunta Caruso delibera in merito alla sede del nuovo Ospedale

    Qualcosa a metà tra il restyling l’opera nuova, che avrebbe dovuto coinvolgere in maniera più organica anche il Mariano Santo di Mendicino.
    A dirla tutta, un progetto ultracampanilista, basato soprattutto su esigenze urbanistiche: puntellare a oltranza la parte sud di Cosenza che, priva dell’Annunziata, rischia la desertificazione.

    Nuovo ospedale di Cosenza: anni di chiacchiere

    Fin qui, in pillole, la lunga storia della contesa sul nuovo Hub, che dovrebbe prendere il posto dell’attuale struttura, realizzata negli anni ’30 e prossima al secolo.
    Da quando fu elaborata la proposta di Vaglio Lise, sono passati due sindaci e un commissario a Cosenza, altrettanti più un commissario a Rende, due presidenti di Regione più un facente funzioni.
    Il problema non è il luogo, del quale a dispetto della decisione presa si continuerà a discutere. Ma il tempo.
    Meglio tardi che mai, si potrebbe dire se ci si ostinasse a vedere il bicchiere mezzo pieno. Peccato che per tanti aspetti sia tardi un bel po’.

    Medici scettici

    Per i medici ha parlato non senza un po’ di ironia maligna, il presidente dell’Ordine Eugenio Corcioni.
    Il quale ha lanciato qualche tempo fa un affondo che parte da un paragone ingeneroso tra Cosenza e Avellino, quando non era ancora orfana di Ciriaco De Mita.

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    Il presidente dell’Ordine dei medici di Cosenza, Eugenio Corcioni (foto Alfonso Bombini)

    Due ex capitali politiche, sosteneva il presidente dei Medici, di cui una, quella campana, ha realizzato quattro strutture sanitarie, l’altra, Cosenza, trentacinque ologrammi.
    Il tempo ci dirà se la delibera della giunta Caruso, tra l’altro il primo atto forte dell’attuale amministrazione, è il primo passo verso la solidificazione dell’ologramma.
    Tanto più che i soldi per il gigantesco maquillage urbanistico-sanitario ci sono.
    Ma, anche in caso di realizzazione, il problema sarebbe risolto a metà, come aveva rilevato lo stesso Corcioni: mancano i medici.
    Fatto l’ospedale toccherà fare anche i camici. Ma questa è davvero un’altra storia.

  • Giustizia: tutti i referendum, quesito per quesito

    Giustizia: tutti i referendum, quesito per quesito

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    Per i radicali, in prima fila da sempre, i referendum sulla giustizia non sono proprio una novità.
    Tuttavia, ora c’è un elemento politico inedito: la convergenza della Lega, che ha sostenuto la raccolta delle firme per i quesiti,
    Ancora: rispetto agli anni ’80 l’opinione pubblica è mutata profondamente.
    Non c’è più l’effetto choc della vicenda di Enzo Tortora.

    Enzo Tortora, l’uomo simbolo dei referendum sulla giustizia

    In compenso, le recenti controversie sull’Ordine giudiziario hanno avuto una fortissima esposizione mediatica. Testimoniata, tra l’altro, dal successo dei libri dell’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara e da Alessandro Sallusti, direttore di Libero.
    I cittadini dovranno votare i cinque quesiti sulla giustizia approvati dalla Corte Costituzionale lo scorso 22 febbraio.
    Cosa accadrà se vinceranno i sì?

    Referendum Giustizia vs riforma Cartabia

    Prima di procedere, occorre chiarire un passaggio: in caso di vittoria dei sì, il sistema della giustizia subirà comunque delle modifiche incisive.
    Tuttavia, il Parlamento e il governo sono già all’opera su un progetto di riforma complessiva della giustizia (la riforma Cartabia).
    Come si rapporta questo progetto coi quesiti referendari?

    La ministra della Giustizia Marta Cartabia, impegnata nella riforma della Giustizia

    In alcuni casi, la riforma ignora i problemi posti dai quesiti. In altri, li affronta ma con minore durezza e solo in uno replica la richiesta dei referendari.
    Vediamo come.

    Primo quesito: incandidabilità (scheda rossa)

    La scheda rossa affronta in maniera diretta i rapporti tra magistratura, politica e pubbliche amministrazioni.
    Il quesito mira all’abolizione delle norme che vietano di candidarsi o, se eletti, di restare in carica (o comunque continuare a ricoprire incarichi pubblici) ai condannati in via definitiva per gravi reati dolosi.
    Inoltre, si propone di abolire la sospensione dagli incarichi pubblici prevista nei confronti dei condannati in primo grado per i medesimi reati.
    Che succede se vince il sì?
    In questo caso, decadenza, incandidabilità e sospensione non avverrebbero più “in automatico”, ma sarebbero decise dal giudice caso per caso.

    Scheda del primo quesito referendario: l’incandidabilità

    I sostenitori del sì citano soprattutto i casi (a dire il vero non pochi) di amministratori locali condannati, quindi sospesi, in primo grado e poi prosciolti nei livelli successivi.
    I sostenitori del no, al contrario ventilano il pericolo che i condannati per gravi reati, soprattutto di mafia, continuino a fare politica.
    Il problema reale, forse, è dato dal “caso per caso”. Ovvero, dalla discrezionalità lasciata nelle mani del giudice.
    Comunque, in caso di vittoria del sì non resterebbe il vuoto perché il codice penale, prevede per vari reati l’interdizione dai pubblici uffici.
    Sull’argomento la riforma Cartabia non prevede niente.

    Secondo quesito: limiti alle misure cautelari (scheda arancione)

    La proposta incide sui rapporti tra magistratura e cittadini indagati.
    A questi le misure cautelari si applicano in tre casi, disciplinati dal Codice di procedura penale: pericolo di fuga, alterazione delle prove e ripetizione del reato.
    Se vince il sì, sarà eliminata l’ipotesi di ripetizione del reato.
    I referendari mirano, con il quesito, a eliminare gli abusi nell’applicazione delle misure cautelari, soprattutto della carcerazione preventiva.
    I sostenitori del no, invece, citano alcuni reati costituiti da comportamenti ripetuti: stalking ed estorsione, per esempio, o alcune forme di truffa.

     

    Scheda del secondo quesito: le misure cautelari

    Il tentativo di riforma, comunque, si legittima su un dato numerico forte: negli ultimi trent’anni circa trentamila cittadini sono stati sottoposti ingiustamente a misure cautelari. E tutt’oggi un terzo dei detenuti è tale perché in attesa di giudizio.
    Anche su quest’argomento la riforma Cartabia tace.

    Terzo quesito: separazione delle carriere (scheda gialla)

    La separazione delle carriere è un altro cavallo di battaglia dei radicali.
    Se vince il sì, i magistrati non potranno più passare dai ruoli inquirenti a quelli giudicanti. Dovranno scegliere all’inizio della carriera se fare i pm o i giudici.
    I sostenitori del quesito sostengono che la carriera bloccata in un ruolo sia una garanzia di imparzialità.
    I sostenitori del no temono, invece, che i pm finiscano sotto il controllo diretto del Ministero della Giustizia.
    Attualmente, un magistrato può cambiare ruolo fino a quattro volte nella propria carriera.
    La riforma Cartabia va nella stessa direzione del quesito ma è leggermente più morbida, perché consente un solo passaggio.

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    Scheda del terzo quesito: separazione delle carriere

    Quarto quesito: chi valuta i magistrati? (scheda grigia)

    La legge, attualmente, prevede che i magistrati siano valutati ogni quattro anni da consigli giudiziari costituiti presso tutte le corti di appello.
    I pareri dei consigli devono essere motivati ma non sono vincolanti.
    I consigli, inoltre, sono costituiti da tre categorie di giuristi: magistrati, avvocati e docenti universitari. Al momento, solo i magistrati possono valutare i loro colleghi.
    Se vince il sì, anche avvocati e accademici potranno valutare i magistrati.
    I difensori del sì considerano il quesito una misura anticasta.

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    Scheda del quarto quesito: valutazione dei magistrati

    I sostenitori del no, al contrario, temono che i membri laici, soprattutto gli avvocati, facciano pesare nelle valutazioni i propri pregiudizi professionali. O, peggio ancora, che i magistrati possano essere influenzati nel loro operato dal fatto di essere valutati da avvocati.
    Anche in questo caso, la riforma Cartabia va nella stessa direzione, ma un po’ meno: estende la valutazione ai soli avvocati.

    Quinto quesito: elezioni del Csm (scheda verde)

    Con questa proposta, i referendari vorrebbero limitare il potere delle correnti.
    La legge, al momento, prevede che i magistrati che vogliono candidarsi al Consiglio superiore della magistratura devono raccogliere almeno venticinque firme dei loro colleghi.
    Se vince il sì, quest’obbligo viene meno.

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    Scheda del quinto quesito: candidature al Csm

    I sostenitori del quesito sono convinti, in tal modo, di eliminare gli accordi politici e i negoziati che accompagnano, di solito, le candidature al Csm.
    I sostenitori del no reputano che il quinto quesito non cambi di molto la situazione o non considerano le correnti quel gran male.
    La riforma Cartabia prevede la stessa cosa.