Autore: Saverio Paletta

  • «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    L’autonomia differenziata? «Se passasse, sarebbe la rovina del Sud». E, fin qui, è un luogo comune.
    Ma in questo caso è nobilitato da chi lo esprime: Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e sostenitore originale di una teoria economica importante e anticonformista sul ritardo storico del Sud. Questo sarebbe dovuto non tanto a fattori contingenti o a handicap politici quanto a un elemento fisiologico: la posizione geografica, a causa (o per colpa) della quale il Mezzogiorno è fuori dai traffici economici più importanti.
    Daniele ha sostenuto questa teoria in due volumi: Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (2011), scritto assieme a Paolo Malanima, e Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (2019), editi entrambi da Rubbettino.
    Al che sorge un dubbio: se il Meridione è condannato alla subalternità dalla posizione, a che serve insistere sul problema delle autonomie?
    La risposta è sofisticata ma non incomprensibile: «Lo Stato e la politica hanno dei ruoli importanti, tra cui il dovere di incidere sull’economia. Quindi, anche di correggere e attenuare i gap territoriali».

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    L’Italia smembrata dagli egoismi politici

    Autonomie differenziate: è un tormentone tornato di moda quasi a ridosso delle ultime politiche. Se passasse questa riforma, avanzata tre anni fa, che succederebbe?

    «Il Sud regredirebbe di brutto, perché i trasferimenti pubblici calerebbero in misura consistente. Si consideri che le regioni meridionali, la Calabria in particolare, dipendono molto da questi trasferimenti, in cui lo Stato fa da mediatore».

    È opportuno chiarire meglio questo meccanismo, su cui si sono creati tanti equivoci.

    «Nessuna Regione del Sud prende soldi direttamente da quelle del Nord. Il Meridione riceve da ciò che lo Stato preleva dal gettito fiscale di tutte le Regioni in base a una ripartizione elaborata sulla base di un criterio: assicurare servizi uguali a tutti i cittadini italiani».

    E quindi?

    «Le tre Regioni del Nord che desiderano l’autonomia sono grandi contribuenti, dati i loro livelli di reddito. Si pensi che la Lombardia pesa per il 22% del Pil nazionale, cioè quanto l’intero Meridione. Se aggiungiamo Emilia Romagna e Veneto arriviamo al 40%.
    Alla base di queste richieste c’è un malcontento generato da un meccanismo economico: le Regioni settentrionali ricevono dallo Stato meno di quel che versano. Viceversa quelle del Sud, la Calabria in particolare, ricevono più di quel che versano. Questa differenza di trattamento si giustifica per garantire l’eguaglianza dei cittadini, che hanno diritto a ricevere cure, istruzione e infrastrutture di eguale valore».

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    Il vecchio spot della Milano “da bere”, simbolo del primato economico lombardo

     

    Un importante fattore politico, che rischia di venir meno.

    «Anche a dispetto del comma due dell’articolo tre della Costituzione, che come sappiamo impone allo Stato di rimuovere gli ostacoli che impediscono o limitano la piena eguaglianza».

    Sorge un dubbio: tutti i Paesi europei hanno divari interni, anche importanti. Possibile che le autonomie siano solo un problema italiano?

    «Le disparità e i relativi malumori esistono dappertutto. Ma i divari economici non implicano affatto differenze nei servizi pubblici. Non è così in Germania, dove il dislivello tra Est e Ovest continua a pesare. Non è così in Spagna, dove pure è avvenuto, circa quattro anni fa, un tentativo di secessione della Catalogna. Non è così neppure nel Regno Unito, nonostante i significativi divari economici regionali. Si noti che in Spagna e Germania, i Länder e le Comunità autonome hanno notevole autonomia, anche finanziaria, e competenze in numerose materie. Ma sono previste efficaci forme di perequazione che assicurano un’uniformità dei servizi».

    «Per esempio, in Spagna il Fondo di garanzia dei servizi pubblici fondamentali ha il fine di assicurare alle diverse Comunità le medesime risorse per abitante, con riguardo a servizi pubblici fondamentali come l’istruzione, la sanità e i servizi sociali essenziali. Il modello tedesco di federalismo è, invece, un modello cooperativo ben funzionante».

    Ciò implica un calo nella qualità della vita.

    «Esattamente. E invito a una riflessione: in altre nazioni europee avanzate, sarebbero tollerate le disuguaglianze nei servizi pubblici che caratterizzano l’Italia? Penso che le funzioni essenziali, soprattutto la Sanità, dovrebbero essere riaccentrate. In un paese disuguale, l’autonomia, a ogni livello, nella sanità come nella scuola, tende ad accrescere le disuguaglianze. E ciò anche per un’evidente differenza nel grado di efficienza delle Regioni nella gestione dei servizi pubblici: si pensi alla sanità in Calabria e in Emilia Romagna. Non è solo una questione di risorse, ma di capacità. In Calabria, la gestione dei servizi pubblici è stata spesso piegata a spicciole logiche politiche e clientelari».

    ».

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    Una protesta contro la Sanità calabrese

    Ma questo non cozza con la sua teoria? Se i nostri territori sono naturalmente depressi perché marginali, a che serve assicurare servizi che non avrebbero comunque ricadute economiche significative?

    «Economia e politica sono interdipendenti. Quindi, ridurre il gap nei servizi significa anche rendere più appetibili i territori a livello economico. In ogni caso, lo Stato ha il dovere di assicurare uguali servizi in tutto il suo territorio e ciò, indipendentemente, dal livello di reddito dei cittadini».

    Il Paese andrebbe davvero in pezzi se passasse l’autonomia differenziata?

    «Non credo ci sarebbe alcuna secessione, neppure “mascherata”. Si esaspererebbero le disparità e i dislivelli, già notevoli. Ma l’Italia continuerebbe a esistere, coi problemi di sempre: un Sud sempre più ridotto a serbatoio di forza lavoro e un Nord produttivo».

    La soluzione?

    «Dubito che i meccanismi di perequazione per le regioni con minore capacità fiscale, siano in grado di garantire uniformità dei servizi con la realizzazione dell’autonomia differenziata. Non solo per una questione di risorse, ma anche per le differenze nelle capacità gestionali delle Regioni meridionali. Penso che le politiche nel campo della sanità, dell’istruzione e delle infrastrutture di collegamento dovrebbero essere centralizzate: se ne dovrebbe occupare lo Stato. Per il resto, ognuno faccia da sé. Ma questi servizi devono essere uguali dappertutto».

    L’Istruzione: un altro settore che soffre il decentramento

    Secondo le teorie che ha aggiornato ed esposto in due libri diventati classici, il divario Nord-Sud non è l’effetto di patologie storiche ma è fisiologico. Cioè, è dovuto alla posizione geografica.

    Q«ueste riflessioni hanno un precedente illustre nel grande economista cosentino Antonio Serra, che agli inizi del Seicento indicava chiaramente come la situazione territoriale del Regno di Napoli, una penisola nel centro del Mediterraneo, quindi lontana dai grandi traffici, fosse un oggettivo svantaggio. Attenzione: quando scriveva Serra il processo storico che avrebbe reso le rotte mediterranee secondarie rispetto a quelle atlantiche era ancora agli inizi. Purtroppo, i fatti continuano a dargli ragione».

    Il Sud, quindi, non ha potuto o non è riuscito a svilupparsi?

    «Il Nord è stato avvantaggiato dalla dimensione del suo mercato interno e dalla vicinanza ai grandi mercati del centro-Europa con cui si è economicamente integrato. Il Sud, distante oltre mille chilometri da quei mercati e a lungo penalizzato dalla carenza di infrastrutture, è rimasto periferico. La geografia non è stata l’unica causa, ma ha contato molto nel determinare il ritardo del Sud e, seppur meno che in passato, conta ancora».

    Quanto c’è di vero nella tesi che il ritardo del Sud si debba a scelte politiche delle classi dirigenti settentrionali?

    «È innegabile che l’industrializzazione del Nord, specie nella prima fase, sia stata sostenuta dall’azione statale. Il Sud, per lungo tempo, è stato trascurato. Il divario tra le due aree, inizialmente piccolo, è aumentato in tutta la prima metà del Novecento. Poiché il processo di sviluppo tende ad autoalimentarsi, quel divario, storicamente accumulatosi, non è stato più colmato».

    Una vecchia immagine-simbolo della questione meridionale

    E le classi dirigenti meridionali che colpe hanno?

    «Hanno tante colpe, sebbene non tutte quelle che gli sono attribuite. C’è un dato fondamentale, evidente da almeno venti anni: le classi dirigenti meridionali hanno molto peso sul proprio territorio, sia perché sono mediatrici di risorse pubbliche sia per l’assenza di contropoteri sociali ed economici, ma sono modeste su scala nazionale e irrilevanti a livello europeo. E questo ha pesato, va da sé, anche per le autonomie differenziate».

    Come?

    «Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono state esaudite non appena hanno alzato la voce perché il Sud era sguarnito. Non c’è praticamente un leader meridionale di peso in grado di contrastare le tentazioni autonomiste».

    Eppure, il partito maggioritario della coalizione di governo ha nel suo bagaglio culturale una tradizione nazionalista che dovrebbe contrastare certe spinte centrifughe.

    «Se ci si riferisce a Fratelli d’Italia, sarei molto cauto: il partito di Giorgia Meloni ha preso il 26% su una percentuale di votanti pari al 64% degli elettori (percentuale molto più bassa al Sud). Quindi, siamo al 16% degli italiani. Ancora: Fdi ha riscosso molto più consenso nel Centronord che al Sud. E si consideri che i ministeri chiave, cioè Affari Regionali e Autonomie, Infrastrutture ed Economia, sono in mano alla Lega. Siamo sicuri che gli eredi della Fiamma Tricolore abbiano la forza e la determinazione necessarie per difendere le prerogative dello Stato e le esigenze del Sud?».

  • Duonnu Pantu e il monsignore: l’irriverente blasfemia di un prete pornografo

    Duonnu Pantu e il monsignore: l’irriverente blasfemia di un prete pornografo

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    In questa storia sono certi due elementi: lo scenario e uno dei due protagonisti.
    Il primo è la Cosenza della seconda metà del ’600. Cioè il capoluogo di una provincia importante del vicereame di Napoli.
    Cosenza non è ricca, ma è una meta ambita dei nobili smaniosi di far carriera, che l’hanno trasformata in un loro quartiere-dormitorio. Soprattutto, ha un filo diretto con Napoli e Madrid, perché è città demaniale. Cioè è protetta dalla corona e non è sotto il dominio del solito principe o duca.

    Il secondo elemento certo è Gennaro Sanfelice, che diventa arcivescovo di Cosenza nel 1661.
    Il terzo elemento è incerto, perché avvolto tuttora in un mito popolare in cui realtà e immaginazione si intrecciano fino a diventare indistinguibili: è Duonnu Pantu, l’altro protagonista.

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    Il palazzo Sanfelice (Napoli)

    Sanfelice, un nobile in carriera

    Gennaro Sanfelice è un nobile napoletano di grande blasone. È il fratello minore di Giovanni Francesco, duca di Lauriano.
    Ma, soprattutto, è il cugino di Giuseppe Sanfelice, che fa una gran carriera nella Chiesa dell’epoca.
    Gennaro, forte di una preziosissima laurea in “Utroque” (Giurisprudenza, che allora era il passepartout per il potere e quasi un obbligo per gli aristocratici), arriva a Cosenza nel 1650, come vicario del potente cugino, nominato arcivescovo da papa Alessandro VII.
    Poi Giuseppe diventa nunzio apostolico in Germania e Gennaro regge l’arcidiocesi fino al 1661, quando il cugino muore.
    A questo punto, il papa formalizza l’attività di Gennaro e lo fa restare a Cosenza come arcivescovo.

    Un vescovo progressista

    Giuseppe Sanfelice arcivescovo di Cosenza

    Non c’è troppo da scandalizzarsi per tanto nepotismo, che allora era una prassi socialmente accettata.
    Anzi, il nepotismo dell’epoca, esplicito e sfacciato, dà i punti a quello attuale, giustificato con le formule più ipocrite.
    Tuttavia, l’arcivescovo Gennaro non è solo un figlio di papà. È un uomo di carattere, che dimostra di essere tagliato per il ruolo a cui l’hanno destinato gli studi e il blasone.
    Appena ha le mani libere, Sanfelice mette ordine nella diocesi. Soprattutto, difende le prerogative del vescovo (cioè le sue) e mette un freno alle ingerenze della Santa Inquisizione.
    Il suo merito più grande è lo stop alle persecuzioni dei valdesi, che dopo il pogrom di Guardia Piemontese erano proseguite per circa un secolo a San Sisto e a Vaccarizzo.
    Come mai uno così tosto diventa una macchietta? Chiediamolo a Duonnu Pantu.

    Il prete pornografo

    Di Donnu Pantu sono certe due cose: i versi pornografici in vernacolo e la sua zona d’origine, Aprigliano, un paese tra Cosenza e la Sila.
    Sulla sua identità storica restano parecchi dubbi, alimentati dalle solite contese tra studiosi, a partire da Lugi Gallucci (il primo interprete che nel 1833 ha messo ordine nella produzione pantiana) per finire con Oscar Lucente, raffinatissimo intellettuale e storico dirigente del Msi, entrambi di Aprigliano.
    Per convenzione, Duonnu Pantu è il nome d’arte di Domenico Piro, sacerdote apriglianese morto poco più che trentenne a fine ’600.

    Antica veduta di Aprigliano

    Un trio di preti

    A riprova che il nepotismo è un doc dell’Italia di allora, anche don Domenico appartiene a una famiglia di sacerdoti: nel suo caso gli zii materni Giuseppe e Ignazio Donato.
    I tre, oltre che somministrare sacramenti, sono specializzati in pasquinate. Infatti, sono conosciuti con un nomignolo: gapulieri, ossia criticoni.
    Piro, a differenza degli zii, si specializza nella pornografia, che racconta in alcuni poemi (la Cazzeide e la Cunneide) pieni di riferimenti colti e volgarità estreme e caratterizzati da un uso virtuosistico dei versi in dialetto.
    Ma c’è di più: Piro è un gaudente e un goliarda a tutta forza, come prova la sua polemica con l’arcivescovo.

    Contestatore avant la lettre

    Alla base del dissidio tra Piro e Sanfelice – che, da buon napoletano, è piuttosto tollerante – ci sarebbe stato un piccolo tumulto nel collegio del Seminario di Cosenza, raccontato tra l’altro nel poemetto La briga de li studienti.
    In pratica, alcuni studenti poveri, costretti ad accontentarsi della mensa, rubano le vettovaglie ai ricchi. Un “esproprio proletario” in piena regola.
    Piro resta coinvolto nella bagarre e finisce in cella di rigore proprio per ordine dell’arcivescovo.

    La poesia: un’arma per la libertà

    La poesia è un’arma potente, sia quando commuove sia quando ridicolizza.
    Duonnu Pantu, dopo alcuni giorni di gattabuia, indirizza una supplica (Lu mumuriale) a Sanfelice. L’arcivescovo convoca il giovane prelato e gli annuncia l’imminente liberazione.
    Ma la tentazione di fare un’ennesima burla è forte. E Piro non è tipo che sa resistere: infatti, mette sulla porta della cella un cartello con la dicitura “si loca”, cioè affittasi.
    Sanfelice non si fa volare la mosca al naso, riconvoca Piro e gli chiede il perché della scritta. «Monsignore, visto che me ne vado, resta vuota, quindi si loca», è la risposta beffarda.
    «Bene», replica l’arcivescovo, «ci resterete voi finché non arriverà il nuovo inquilino».

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    Versi sparsi di Duonnu Pantu

    La sfida: prete trasgressivo vs arcivescovo

    A questo punto, la sfida entra nel vivo e Pantu gioca un’altra carta. Il prigioniero si è accorto che nel cortile davanti alla cella si radunano tutti i giorni dei ragazzini.
    Li chiama, gli insegna dei versi e gli affida un compito: recitarli ogni sera sotto casa dell’arcivescovo.
    Eccoli: «Bonsegnù, Bonsegnù, fùttete l’ossa/ lu vicariu allu culu e tu alla fissa/ vi ca si nun me cacci de sta fossa/ iu dicu c’hai prenatu la patissa» (Monsignore, monsignore… se non mi tiri fuori dico che hai ingravidato la badessa).
    Dopo alcuni giorni di questo battage, l’arcivescovo cede. Ma non vuole capitolare. E fa una proposta a Duonnu Pantu.

    La tentazione più forte

    La libertà in cambio di una poesia dedicata alla Madonna. Ma, per cortesia, niente volgarità.
    La leggenda narra che Pantu abbia eseguito il compito più o meno alla lettera. Ma di questa poesia resta solo un verso, in cui il Nostro racconta a modo suo la verginità della Madonna: «E nzinca chi campau la mamma bella/ de cazzu nun pruvau na tanticchiella» (ossia: «Finché campò la mamma bella…»). Già: alle tentazioni Pantu non sa resistere.
    Ma c’è da dire che l’arcivescovo mantiene comunque la promessa. Ciò fa pensare che, sotto sotto, anche lui sia stato al gioco.

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    La targa commemorativa sulla casa di don Domenico Piro

    L’ultima tentazione di Pantu

    La leggenda attribuisce a Pantu una morte degna della sua vita. O, almeno della sua poesia.
    Malato di tisi e agonizzante, il giovane sacerdote sente gli amici e i parenti bisbigliare in attesa del suo trapasso.
    Piro si risveglia di botto e chiede beffardo: «Si parrati ’i cunnu miscatiminnici puru a mia» (cioè: se parlate di… fatemi partecipare),
    Poi chiude gli occhi e raggiunge Sanfelice, morto due anni prima.

  • Vecchie armi e petrolio fresco: come Buffone fregò Gheddafi

    Vecchie armi e petrolio fresco: come Buffone fregò Gheddafi

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    L’unica certezza nei rapporti tra l’Italia del dopoguerra e il mondo arabo è l’ambiguità.
    Di questa ambiguità, che fu un comportamento necessario, uno degli interpreti più abili è Pietro Buffone, storico esponente della Dc calabrese, che gli estimatori e gli amici chiamavano Pierino.
    Gli ispiratori di questa “ambiguità” sono essenzialmente due: Enrico Mattei e Aldo Moro.
    Tuttavia, non serve soffermarsi troppo su questi due giganti dell’Italia contemporanea, perché i protagonisti di questa storia sono altri: oltre Buffone, Roberto Jucci, ex generale dei carabinieri ed ex 007. E con loro, Mu’ammar Gheddafi, vittima di un “pacco” paragonabile alla vendita della Fontana di Trevi nel mitico Totòtruffa.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    Filoarabi e nazionalisti

    Grazie a Mattei e Moro, l’Italia riprende, nel dopoguerra, le linee di politica estera iniziate in età giolittiana ed esasperate dal fascismo: un’attenzione ammiccante verso il mondo arabo, declinata in chiave ora antibritannica, ora antifrancese.
    Con una differenza fondamentale, rispetto al ventennio: questi rapporti non sono più diretti né godono della grancassa della propaganda. Al contrario, sono gestiti dall’intelligence. E, in questo settore, ha un ruolo di primo piano Stefano Giovannone, ufficiale dei carabinieri e agente segreto di fiducia di Moro.
    Giovannone è l’uomo chiave della diplomazia parallela imbastita dal leader Dc, che culmina nel cosiddetto “Lodo Moro”, un accordo con l’Olp di Arafat che preserva l’Italia dagli attentati dei palestinesi.

    Filoisraeliani ma non troppo

    Grazie a questo modo di fare, l’Italia è riuscita a conciliare l’inconciliabile. Cioè l’appoggio ufficiale agli israeliani, imposto dalla Nato, con una simpatia verso il nascente nazionalismo arabo, neppure troppo dissimulata.
    E c’è da dire che questa è l’unica politica mediterranea possibile per l’Italia dell’epoca: un Paese in sviluppo vertiginoso e affamato di energia. Di petrolio in particolare.

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    Il generale Roberto Jucci (a sinistra) con l’ex presidente Francesco Cossiga

    Gheddafi e noi

    Gheddafi è un leader sui generis: antitaliano e panarabista nella forma, è italianissimo nella sua cultura militare, perché si è formato nella Scuola di Guerra di Civitavecchia e in quella di artiglieria contraerea di Brecciano.
    Quando spodesta re Idris, cavalca i malumori contro l’Italia, espelle molti lavoratori italiani, nazionalizza i giacimenti petroliferi, ma si tiene l’Eni, a cui lascia tutte le concessioni e gliene dà qualcuna di più.
    Il tutto a danno della Gran Bretagna, l’ex protettrice della monarchia libica.

    L’amante necessaria

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    Il generale Ambrogio Viviani

    L’Italia lascia fare, perché la Libia di Gheddafi è un’amante necessaria. Quel tipo di amante di cui si dice male in pubblico ma di cui non si può fare a meno.
    Di questo rapporto c’è una testimonianza significativa. Proviene da Ambrogio Viviani, l’ex capo del controspionaggio.
    Viviani rilascia delle dichiarazioni inequivocabili: «Dal ‘70 al ‘74, nel periodo in cui diressi il controspionaggio italiano, la parola d’ordine fu “salvare i nostri interessi in Libia” e impedire che l’Eni fosse buttato fuori. Fu così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime, a rifornirlo di armi, a organizzargli un servizio di intelligence, a circondarlo di consiglieri per l’ammodernamento delle forze armate».

    Lo shock petrolifero

    Negli anni in cui opera Viviani il boom economico subisce un arresto fisiologico e il centrosinistra, che ha accompagnato la crescita degli anni ’60, entra in agonia.
    Il problema energetico, affrontato brillantemente da Mattei e comunque gestito dal suo successore Eugenio Cefis, torna a farsi sentire.
    In seguito alla guerra dello Yom Kippur, combattuta da Egitto e Siria contro Israele (1973), i Paesi arabi produttori di petrolio alzano i prezzi di botto. È il cosiddetto shock petrolifero, che spinge le economie occidentali nella stagnazione.
    L’Italia gioca l’unica carta possibile per sfuggire alla morsa: Gheddafi.

    Petrolio contro armi

    L’uomo chiave della delicata trattativa col leader libico è Jucci, che tiene i contatti. Dietro di lui c’è Pietro Buffone, che in quel frangente delicatissimo è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo Rumor.
    Grazie ai buoni uffici dello 007, il politico calabrese incontra Gheddafi in pieno deserto. E i tre stringono un accordo: l’Italia avrebbe fornito carri armati alla Libia e questa, a dispetto dell’embargo occidentale, avrebbe aumentato le forniture di greggio.

    Enrico Mattei, il papà dell’Eni

    Armi e tangenti

    Affare fatto? Mica tanto, perché mentre l’Italia diventa il principale importatore di petrolio libico, a Gheddafi non arriva neppure un temperino.
    Ma la Dc preme perché l’affare vada in porto, per un motivo in cui opportunismo e patriottismo vanno a braccetto. Come rivela il generale Michele Correra, ex capo delle relazioni industriali del Sid, l’Eni in quegli anni paga alla Balena Bianca una tangente che va dallo 0,5 allo 0,6% su ogni singola fornitura.
    Tuttavia, nella Dc ci sono al riguardo differenze di vedute, che risalgono al ’72. C’è chi, come Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri, vorrebbe fornire armi italiane, tra l’altro nuove di zecca. E chi, al contrario, teme reazioni americane.

    Aldo Moro negli anni del potere

    La patacca italiana

    Buffone riesce a trovare la quadra: niente carri armati, ma autoblindo corazzate vecchio tipo.
    Per la precisione, uno stock di M113, mezzi blindati risalenti agli anni ’50 e prodotti in Italia su concessione americana.
    Queste blindo, ormai vecchiotte, sono praticamente dismesse dall’Esercito, che le ha cedute ai carabinieri. L’idea di Buffone è semplice ed efficace: requisire i mezzi, riverniciarli e cederli ai libici.
    La trovata riesce e tutti sono contenti: le industrie italiane, che fanno il pieno di petrolio, la Dc, che si rimpinza di tangenti, e i libici, che comunque ottengono dei mezzi di trasporto truppe meno antiquati delle reliquie italiane e britanniche della Seconda guerra mondiale.

    Una vecchia blindo M113

    Buffone? Solo un cognome

    Niente male per un politico poco vistoso e, in apparenza, non troppo brillante. Pietro Buffone non è un militare di carriera né un grande accademico come Moro.
    Ha sì e no la scuola dell’obbligo, ma riesce a trovarsi a suo agio sia nei corridoi di Montecitorio sia in quelli del Comune di Rogliano, di cui è sindaco a lungo.
    Su di lui, resta un giudizio significativo di Jucci: «Nei governi i politici si dividono in due categorie: c’è chi appare e chi, invece, produce risultati nell’ombra».
    A riprova, nel suo caso, che Buffone è solo un cognome.

  • Borbone contro Massoni: una storia calabrese

    Borbone contro Massoni: una storia calabrese

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    Dell’arretratezza dei Borbone si parla spesso e troppo.
    Tuttavia, senza per questo voler dare ragione ai neoborbonici e ai revisionisti alla Pino Aprile, non sempre era così. Anzi, in alcune cose l’ex dinastia napoletana era piuttosto avanti. Ne citiamo due: le opere pubbliche in project financing e l’autocertificazione.
    Un esempio delle prime fu la ferrovia Napoli-Portici, realizzata col concorso di un imprenditore francese che sostenne buona parte delle spese.
    Ma questa non riguarda la Calabria.
    L’“autocertificazione”, invece, fu un’idea di Ferdinando I, ’o Re Nasone, per stanare massoni e carbonari dai ruoli di comando. E ci tocca da vicinissimo.

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    Ferdinando I di Borbone, ‘o Re Nasone

    Borbone e Massoni: lo strano rapporto

    È il caso di fare chiarezza su un punto: il rapporto tra i Borbone di Napoli e la massoneria non è mai stato chiaro e lineare, ma molto condizionato dalla politica pontificia.
    All’inizio, cioè sotto don Carlo, il primo, illuminato esponente della dinastia, c’è una certa tolleranza, come ovunque.
    Anzi, molti pezzi grossi della nobiltà napoletana si dilettano nelle logge. Come, ad esempio, Raimondo di Sangro, il principe di Sansevero, il quale prende piuttosto sul serio la “grembiulanza”, al punto di riempire la celebre cappella di famiglia di simboli esoterici.
    Certo, esistono già le prime bolle papali (In eminenti apostolatus specula, del 1738, e Providas romanorum, del 1751).
    Ma i regnanti (e le varie chiese nazionali) le interpretano con larghezza. Poi, a fine secolo, le cose cambiano.

    Una “catena d’unione” massonica

    La grande paranoia dei Borbone

    La rivoluzione francese, col suo carico di novità esplosive, è all’origine della rottura.
    I Borbone si adeguano, anche per via di uno choc familiare enorme: l’esecuzione di Maria Antonietta di Francia, sorella maggiore di Maria Carolina, moglie di Ferdinando e Regina di Napoli.
    I traumi successivi, cioè la Repubblica Partenopea e il decennio napoleonico, cementano un’equazione d’acciaio nella nobiltà lealista napoletana: massone uguale a giacobino e giacobino uguale a carbonaro.
    Dopo la repressione dei moti costituzionali del 1821, la situazione precipita del tutto: lo staff borbonico vede davvero massoni e carbonari ovunque. E quindi jacubbine.

    La “vendetta massonica”: un dettaglio del rito del Cavaliere Kadosh

    I Borbone alla riscossa: le Giunte di scrutino

    Una scoperta consente di ricostruire la persecuzione borbonica contro i grembiuli del Regno delle Due Sicilie.
    L’ha fatta Lorenzo Terzi, giornalista e funzionario dell’Archivio di Stato di Napoli. Terzi, noto al pubblico per varie ricerche specialistiche, ha trovato i documenti dell’attività delle cosiddette Giunte di scrutinio.
    Queste Giunte borboniche erano commissioni d’inchiesta istituite con un decreto del 12 maggio 1821.
    In origine erano quattro e avevano il compito di esaminare «la condotta degli ecclesiastici, pensionisti e funzionarj pubblici; come anche quella degli autori di opere stampate e le massime in esse insegnate».
    Ad esse se ne aggiunsero una quinta (decreto del 16 aprile 1821), che si occupava dei militari, e una sesta (decreto del 24 maggio successivo) destinata alla Marina.

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    Un interrogatorio della polizia borbonica (con relativa tortura)

    Grembiuli di Calabria

    Nel fondo del Ministero di Grazia e Giustizia custodito dall’Archivio di Stato di Napoli c’è un documento importante che riguarda la Calabria Citra, cioè il Cosentino.
    Contiene gli scrutini (cioè i controlli) della Camera notarile di Cosenza.
    I membri della Camera notarile setacciati dalla Giunta borbonica sono il presidente Pasquale Rossi, il cancelliere Tommaso Maria Adami, gli ufficiali di prima classe Giovan Battista Adami e Francesco Rossi, gli ufficiali di seconda classe Francesco Memmi e Giovanni Litrenta, i componenti Pasquale Gatti e Nicola Del Pezzo e il bidello Giuseppe Pettinati.

    L’autocertificazione

    Come funzionavano le Giunte di scrutinio? Nessun interrogatorio pesante né torture. Niente sbirri né inquisitori.
    Più semplicemente, la Giunta competente per territorio inviava dei questionari ai funzionari sotto scrutinio. Questi, a loro volta, dovevano rispondere entro un mese, pena la decadenza dal ruolo e la perdita di stipendio o pensione.
    Solo in caso di dichiarazioni false si passavano i guai, che potevano essere seri.
    In pratica un’autocertificazione.

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    Il verbale dell’interrogatorio di Pasquale Rossi

    Le domande dei Borbone

    Il questionario era composto da sei domande.
    In primo luogo, si chiedevano allo scrutinato informazioni sulla sua carriera. Poi si entrava più nel dettaglio: si chiedeva, quindi, al soggetto sotto esame se fosse o fosse stato massone o carbonaro e, se si, con che ruoli e quando.
    Ancora: gli si chiedeva se avesse fatto attività o propaganda sovversiva, dentro o fuori le logge (o, nel caso dei carbonari, le vendite).

    L’insidia massonica

    Tanta paura non era proprio immotivata. Durante il decennio francese, Gioacchino Murat aveva potenziato il Grande Oriente di Napoli e se ne era proclamato gran maestro.
    Murat, che di sicuro non era un intellettuale in vena di finezze esoteriche, usava la massoneria per raggruppare i liberali e fidelizzare quel po’ di borghesia che faceva carriera negli uffici pubblici. In pratica, aveva creato una specie di “Partito della Corona”.
    Tornato a Napoli, re Ferdinando evitò la ripetizione dei pogrom orribili seguiti alla caduta della Repubblica Partenopea e limitò le epurazioni.

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    Gioacchino Murat

    Al contrario, adottò nel Regno delle Due Sicilie il nuovo modello di amministrazione creato dai francesi, funzionari e impiegati inclusi.
    Ma ciò non risolveva, dal suo punto di vista, il problema della sicurezza, perché i ranghi della burocrazia e dell’esercito pullulavano di carbonari o massoni e il Regno borbonico era costretto a tenerseli in pancia, soprattutto per mancanza di alternative.

    Pochi massoni, molti carbonari

    In realtà, dopo la cacciata dei francesi i massoni non erano tantissimi. Il motivo è facile da intuire: le epurazioni e le repressioni, rafforzate dalle scomuniche, incutevano timore.
    Inoltre la massoneria non aveva scopi eversivi.
    Perciò, chi aveva voglia di trescare o menare le mani, preferiva la carboneria, che invece questi scopi li aveva. Rischio per rischio, tanto valeva osare sul serio.
    Non è il caso di approfondire troppo i rapporti tra carbonari e liberi muratori. Basta dire solo che la carboneria nacque come costola scissionista della Libera Muratoria e aveva strutture e riti simili. Direbbero quelli bravi: la stessa sociabilità.

    Una congiura carbonara

    E che i Borbone temessero i carbonari, lo prova un fatto curioso. Cioè la costituzione dei Calderari, una specie di carboneria reazionaria legata alla Corona e che, tra le varie cose, curava i rapporti con la parte filoborbonica della camorra.

    Massone a chi?

    Nel caso dei giuristi cosentini, è facile intuire che gli scrutinati fecero a gara a negare tutto.
    Anzi, Pasquale Rossi rivendicò di essere stato maltrattato dai Francesi quando faceva il magistrato a Lago. Discorso simile per Nicola Del Pezzo, che parlò del suo ruolo di consigliere giudiziario, ovviamente a favore della monarchia borbonica.
    Occorre notare un dettaglio: il Pasquale Rossi della Camera notarile di Cosenza non è antenato diretto dell’illustre intellettuale cosentino, sebbene la cronologia e l’omonimia gettino qualche suggestione.
    Il Pasquale Rossi “nonno” fu in effetti carbonaro, massone e, quindi cospiratore. Ma era di Tessano, mentre il presidente Rossi era di Cavallerizzo.

    Iniziazione massonica (scena tratta da “Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli)

    Repressione napuletana

    Non esistono dati precisi sulle epurazioni borboniche. Di sicuro, l’autocertificazione aveva uno scopo diverso dal punire massoni e carbonari.
    Semmai, l’obiettivo era tenere per le parti basse i presunti cospiratori, con dichiarazioni verificabili sulla base delle soffiate e dei metodi poco ortodossi dell’occhiuta polizia borbonica.
    In realtà le epurazioni furono poche. E poche pure le condanne. I Borbone usarono le Giunte di scrutinio per prevenire un pericolo potenziale, ma per il resto non avrebbero potuto fare a meno dei funzionari “impiantati” dai napoleonici.
    Una soluzione alla napoletana, insomma, con cui ’o re Nasone scaricò le grane sui suoi eredi. E che grane.

  • Agricoltura, è allarme rosso: milioni di fondi europei a rischio

    Agricoltura, è allarme rosso: milioni di fondi europei a rischio

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    Milioni stanziati e agricoltori trepidanti, dopo aver presentato progetti e aver anticipato spese.
    Ora un erroraccio rischia di mandare parecchie aspettative in fumo, a dispetto di alcuni proclami trionfali della Regione. L’allarme e il potenziale scandalo finora sono rimasti sottotraccia. Forse perché le associazioni di categoria sperano che il problema rientri al più presto. O forse perché ai piani alti della cittadella di Germaneto si tenta di correre ai ripari senza troppi clamori.

    Calabria e agricoltura, tanti fondi in ballo

    L’acronimo più di moda è Pnrr. Come tutti gli outfit all’ultimo grido, ha messo in secondo piano tutto il resto, compresi i fondi Por e, per quel che riguarda l’agricoltura, Psr.
    Quest’ultimo acronimo sta per Piano di sviluppo rurale e ha uno scopo ben preciso: iniettare liquidità nell’agricoltura attraverso vari progetti a cui gli imprenditori del settore partecipano in cofinanziamento.

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    La cittadella regionale di Germaneto

    In parole povere, anticipano parte dei finanziamenti per essere compensati dalla Regione non appena si mettono all’opera.
    Ma quanti soldi ballano attorno ai Psr? Non proprio spiccioli.
    Lo confermano i comunicati con cui l’Assessorato all’agricoltura della Regione ha diramato i pagamenti più recenti

    Pagamenti milionari

    Il primo pagamento, di fine novembre, riguarda il Kit (così in burocratese si chiama la tranche di pagamento) 3 del 2022.
    Ben 44.283.348, 31 euro distribuiti a più di 46mila agricoltori calabresi.
    Anche dicembre sembra partito bene: il Kit 4 ha erogato 33.535.212, 41 euro a 13.754 beneficiari.
    Altri Kit di dicembre hanno sbloccato fondi vari. Pure in questo caso non sono spiccioli.
    Il primo liquida 6.607.219, 09 euro a 513 imprese, per bandi che risalgono a prima del 2022.
    Il secondo distribuisce altre due sostanziose tranche, entrambe anticipazioni per il 2022.
    La prima è di 8.925.470, 47 euro che vanno a 2.071 aziende beneficiarie. La seconda, 1.075.853, 45 euro, va a 175 imprenditori.

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    I fondi Psr hanno un peso enorme per l’agricoltura in Calabria

    A cosa servono davvero i Psr

    È il momento di tirare le somme, da cui si ricavano alcuni elementi utili.
    Il primo: ogni kit di pagamento oscilla, in media, da 20 a 40 milioni complessivi.
    Il secondo: le cifre sono senz’altro milionarie, ma divise per il numero di beneficiari, si riducono a spiccioli. Detto altrimenti, sono la classica boccata d’ossigeno per la sopravvivenza di imprese di dimensioni medio-piccole.
    Terzo elemento: l’elevato numero di beneficiari è indice di un’economia, quella calabrese, che si basa un po’ troppo sull’agricoltura, più che altro per la latitanza degli altri settori.

    Detto altrimenti: laddove, anche nel resto del Sud, l’agricoltura è il 2% del Pil, da noi pesa più del doppio.
    Tutto ciò fa capire come questi fondi siano vitali e come la loro mancata o ritardata distribuzione rischi di mettere a repentaglio la Calabria. Il pericolo, purtroppo, si è verificato.

    Agricoltura: i controlli sui fondi in Calabria

    Per distribuire i fondi Psr, la normativa prevede un meccanismo articolato di controlli, che sono affidati a società specializzate in base a una gara.
    La società privata, esternalizza l’assistenza tecnica. In pratica, esegue i controlli sulle aziende già riconosciute meritevoli di finanziamento e dà parere favorevole. In altre parole: le varie aziende comunicano lo stato di avanzamento dei lavori relativi ai progetti finanziati, la società verifica e invia il “visto si paghi” al Dipartimento agricoltura della Regione che, a sua volta, ordina all’Arcea, l’ente pagatore, di liquidare le somme.
    Ma che succede se la società non è in regola? La domanda non è astratta, perché in Italia l’inghippo c’è sempre. E in Calabria è capitato.

    La raccolta delle fragole

    Il controllore

    L’inghippo è emerso grazie al decreto 16193 dello scorso 10 dicembre, firmato da Antonio Giuseppe Lauro, il responsabile del procedimento di selezione della società incaricata dei controlli, e da Giacomo Giovinazzo, il dirigente del Dipartimento agricoltura della Regione.
    Ad approfondire la vicenda, viene da ridere. Vediamo perché.
    Per individuare il controllore, la Regione indice una prima gara, la numero 8182941 dell’8 luglio 2021. Ma questa gara non si svolge, perché nell’agosto successivo il Dipartimento agricoltura si riorganizza, probabilmente in vista delle imminenti elezioni regionali. Quindi è tutto da rifare.

    La gara è indetta l’11 febbraio scorso. L’11 luglio successivo escono i partecipanti. Sono una società, Cogea Srl con sede a Roma, e due Ati (associazioni temporanee d’impresa). La prima è costituita da Deloitte Consulting Srl più Consendin Spa. La seconda raggruppa tre società: Lattanzio Kibs Spa, Meridiana Italia Srl e Ptsclass Spa.
    Lo spiegamento di forze si giustifica per il tanto lavoro da fare e per il compenso: poco meno di dieci milioni (9.799.462 euro) per cinque anni. Vince Cogea lo scorso 19 ottobre. Praticamente, in zona Cesarini. Ma non passa un mese che Deloitte fa ricorso al Tar. E iniziano i guai.

    Il pasticcio e lo scandalo

    Le accuse di Deloitte non sono proprio irrilevanti. Secondo la società perdente, Cogea avrebbe creato gli atti della precedente gara annullata e poi li avrebbe riproposti tal quali alla Regione.
    Quest’ultima, quindi, non avrebbe fatto il bando da sé, ma sulla base di un documento di un privato.
    E, ad analizzare il documento, regolarmente pubblicato sul sito della Regione, le cose risulterebbero come sostiene Deloitte: nelle proprietà del file si apprende che l’autore è Cogeco. Di più: la data di creazione del file e quella di ultima modifica coincidono.

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    Galeotto fu un pc…

    La risposta della Cittadella è ferma, ma non forte abbastanza: il file, sostiene il responsabile unico del procedimento, è stato formato su un pc della Regione, ma convertito in pdf su un pc di Cogea, che si trovava in un ufficio delle Regione.
    Cogea, a sua volta, risponde che di quel pc non sa nulla perché l’aveva dismesso.
    Non è il caso di approfondire, anche perché col decreto del 10 dicembre la Regione ha provveduto ad annullare la gara vinta da Cogea in autotutela.
    Quindi nessuno risponderà a una domanda banale: visto che tutti i programmi Word prevedono la conversione dei documenti in pdf, possibile che solo la Regione non abbia un programma di videoscrittura aggiornato?

    Il problema

    Ancora la situazione non è esplosa. Ma l’annullamento del bando può provocare molti problemi. Vediamone alcuni.
    Innanzitutto, che succede ai pagamenti in corso o da approvare? Ora che il controllore non c’è, chi prende il suo posto? In teoria, dovrebbero farlo gli uffici della Regione. Ma sono attrezzati?
    Secondo problema: che succede ai pagamenti già approvati da Cogea e non ancora liquidati? Vengono congelati fino a nuova gara? Oppure verranno sanati in qualche modo?
    Terzo problema: che accadrà ai pagamenti già liquidati?
    La contestazione è dietro l’angolo, perché se il Tar dovesse confermare il ricorso di Deloitte, emergerebbe un solo dato: Cogea non doveva trovarsi lì.

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    Gianluca Gallo, assessore regionale all’Agricoltura

    Fondi fermi, il pericolo per l’agricoltura in Calabria 

    In ogni caso, si annuncia un pessimo Natale per tutti gli imprenditori che hanno anticipato somme per avviare i progetti.
    In attesa di capire che pesci prenderà la Regione, in particolare l’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo, è sicuro che si accumuleranno ritardi, che colpiranno tutto il settore agricolo con danni di non pochi milioni di euro a migliaia di aziende.
    L’allarme, al momento, è strisciante. Ma, fanno capire alcune associazioni di categoria (ad esempio la Cia) potrebbe esplodere da un momento all’altro. E quando certi allarmi esplodono, vuol dire che la catastrofe è vicina.

  • Campora addio: il Tar boccia Amantea

    Campora addio: il Tar boccia Amantea

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    Niente da fare: il Tar ha bocciato il secondo ricorso con cui Amantea voleva bloccare il referendum che chiede agli abitanti di Campora San Giovanni se vogliono staccarsi per creare un nuovo Comune assieme alla vicina Serra d’Aiello.
    I giochi sono fatti e l’esito della consultazione è scontato, visto che voteranno solo i camporesi e i serresi,
    La “nuova” Amantea sarà mutilata, perché i suoi confini si fermeranno alla foce del fiume Oliva. Sull’altra sponda nascerà Temesa, un nuovo Comune in cui si fonderanno Serra e Campora.

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    Scorcio del centro storico di Amantea (foto di Camillo Giuliani)

    Campora e Amantea, una scissione mascherata

    Non è la prima volta che Campora vuole divorziare da Amantea. Al riguardo, i promotori dell’attuale referendum ricordano che già negli anni ’70 i camporesi avevano tentato il distacco con una raccolta di firme che finì in niente.
    Stavolta, invece, la manovra è riuscita meglio, perché gli organizzatori hanno presentato la scissione sotto le mentite spoglie di un’annessione.

    Ovvero: non è Campora che vuole andar via, ma la vicina Serra d’Aiello che vuole annettersela per creare un nuovo Comune.
    L’operazione, a prima vista, sembra ineccepibile, perché Campora è abitata essenzialmente da serresi e da persone provenienti da Aiello Calabro.
    In più, c’è la presunta eredità dell’antica città greca, Temesa appunto, a nobilitare il tutto.

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    Reperti del Museo di Temesa

    I numeri non mentono

    Ma se si guarda ai numeri, le cose non stanno proprio come le hanno presentate il Comune di Serra e il comitato promotore.
    Serra d’Aiello, nota nel recente passato per lo scandalo dell’Istituto Papa Giovanni XXIII, ha appena 516 abitanti ed è prossima all’irrilevanza demografica.
    Campora, al contrario, è il boccone grosso, grazie ai suoi 3.047 abitanti.
    Temesa, quindi, sarebbe un Comune di 3.516 abitanti, in cui i camporesi farebbero la parte del leone.

    Tuttavia, secondo i bene informati, Temesa non si fermerebbe qui, ma dovrebbe, nei prossimi anni, inglobare anche Aiello Calabro (1.388 abitanti) e Cleto (1.176 abitanti).
    I numeri, in questo caso cambiano, perché il nuovo Comune arriverebbe a 6.127.
    Non cambia, però, il problema giuridico: il Testo unico degli Enti locali vieta la costituzione di nuovi Comuni al di sotto di 10mila abitanti.
    Ma la perla vera di questa storia è un’altra.

    Il Tirreno come i Balcani

    La delibera del Consiglio Regionale 82 del 6 giugno 2022, che approva il referendum consultivo con cui i serresi e i camporesi dovranno dar vita a Temesa, contiene dei passaggi strani. Inquietanti, nella peggiore delle ipotesi, o involontariamente comici nella migliore.
    A pagina 4 del documento, infatti, si apprende che amanteani e camporesi apparterrebbero quasi a etnie diverse: arabi gli uni e magnogreci gli altri.
    Leggere per credere: «la diversa terminologia e la cadenza della lingua dialettale comunemente parlata dai Camporesi, è quasi identica a quella parlata dai Serresi e simile al dialetto parlato dai cittadini di Aiello Calabro».
    Perciò «palese è la netta diversità dal vernacolo amanteano che identifica innegabilmente la propria etnia, che a tutt’oggi fa risaltare l’influenza araba degli invasori».

    Ustascia croati durante la guerra civile jugoslava

    L’argomentazione ricorda alcuni ragionamenti deliranti degli etnonazionalisti balcanici durante la guerra civile della ex Jugoslavia. Solo che allora si confrontavano per davvero popoli diversi, con culture e lingue diverse (serbi, croati, sloveni, albanesi ecc).
    Non è il caso dell’attuale basso Tirreno. Fermiamoci qui, perché anche al trash c’è un limite. Con tutto il rispetto per storia e archeologia.

    Amantea: una città in ginocchio

    Il referendum per l’accorpamento di Campora e Serra è l’ennesima pugnalata ad Amantea, che oggi non se la passa bene, ma che la scorsa primavera, quando tutto è iniziato, era addirittura in ginocchio.
    La cittadina tirrenica, infatti, era priva di sindaco perché commissariata per mafia (la seconda volta in poco più di dieci anni). Ma Amantea ha un problema peggiore della ’ndrangheta: le casse, oberate da un debito difficile da quantificare e comunque enorme.
    Secondo i bene informati, il “buco” oscillerebbe tra quaranta e cinquanta milioni. Se si considera che il bilancio cittadino dovrebbe pareggiare attorno ai 15 milioni, la situazione è border line. E ricorda assai da vicino quella di Cosenza, fatte le debite proporzioni tra popolazione, gettito fiscale e territorio.

    I manovratori del Referendum: Graziano il “legislatore”

    Diamo un nome ai protagonisti di questa storia. Il primo è Giuseppe Graziano, consigliere regionale già in quota Forza Italia e tornato a Palazzo Campanella in quota Udc. Graziano è famoso per aver presentato la legge regionale 2 del 2018, che fondeva i Comuni di Rossano e Corigliano.
    Graziano, la scorsa primavera, è stato autore della proposta di legge 54-112 che promuove la nascita di Temesa.
    Domanda: come mai il “ginecologo” della nascita del più grande Comune del Cosentino, oggi promuove la mutilazione di una città?

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    Giuseppe Graziano

    Cuglietta: il sindaco frontman

    La proposta non è farina del sacco di Graziano. Ma proviene dall’amministrazione di Serra d’Aiello, guidata da Antonio Cuglietta, diventato sindaco in seguito a un ricorso andato a segno contro la ex prima cittadina Giovanna Caruso. Cuglietta è il frontman dell’operazione, che tuttavia lascerebbe piuttosto tiepidi i suoi concittadini.
    Già: Serra, travolta dal crack del Papa Giovanni, è uscita da poco dal dissesto finanziario. Se si fondesse con Campora, rischierebbe di ripiombarci, perché forse erediterebbe la parte del debito amanteano che la frazione porterebbe con sé.

    Iacucci: l’utente finale

    I bene informati, ancora, riferiscono della presenza di Franco Iacucci nella Commissione affari costituzionali della Regione durante i lavori preparatori del referendum.
    Una presenza curiosa, visto che Iacucci non fa parte di questa commissione. Tuttavia, l’ex presidente della Provincia di Cosenza sarebbe il beneficiario principale della nascita di Temesa e della sua ulteriore espansione.
    Già storico sindaco di Aiello, Iacucci è molto radicato nella zona. Non è da escludersi perciò un suo interesse politico diretto. Il quale motiva anche il ruolo defilato tenuto dal consigliere.

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    Franco Iacucci guarda con interesse alla separazione di Campora da Amantea

    Campora via, Amantea sulle barricate

    Ciò ha causato qualche imbarazzo al Pd di Amantea, in particolare al consigliere comunale Enzo Giacco, che ha chiesto al suo partito di intervenire in maniera energica.
    Cosa non avvenuta, visto che la delibera del Consiglio regionale è passata con 23 voti su 25 votanti e 6 assenti. Il Pd, evidentemente, o non si interessa troppo di Amantea o non vuole pestare i piedi a un suo big.

    La resistenza amanteana, praticamente bipartisan in Consiglio comunale, è guidata dal sindaco Vincenzo Pellegrino, insediatosi lo scorso giugno. Pellegrino ha tentato due ricorsi al Tar.
    Il primo, con cui chiedeva la sospensione del referendum, è stato rigettato con un’ordinanza. Col secondo, l’amministrazione è entrata nel merito e ha chiesto l’annullamento del referendum.

    Vincenzo Pellegrino

    Cala il sipario. Per ora

    Ancora non è detta l’ultimissima parola, che potrebbe spettare al Consiglio di Stato.
    Ma al momento Amantea subisce l’ennesima batosta.
    Già: non bastavano le infiltrazioni criminali, non bastavano i debiti. Ora la sua frazione più grossa se ne va. E porta con sé molte attività commerciali e produttive. E, soprattutto, il porto e il Pip, i due asset strategici che forse sono il vero motivo di tutta l’operazione. Più povera e adesso mutilata, l’ex regina del Tirreno scende un altro gradino in direzione di un declino che sembra inesorabile.
    A meno che non ci sia un giudice a Roma meglio disposto nei suoi confronti.

  • Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

    Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

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    Una citazione colta per iniziare: Orazio, riferendosi a certe abitudini dei Bruzi, parlava di «amores insanes caprini», cioè amori insani con le capre.
    Segno che lo sfottò terribile, «noi avevamo le terme quando voi vi accoppiavate con le bestie», non era solo un modo di dire.
    Anzi, certe forme di zoofilia sarebbero sopravvissute all’antichità e alle proibizioni del cristianesimo fino a poco tempo fa.

    Lo scrittore e i pastori

    Il protagonista di questa vicenda, che risale a una fredda serata d’inverno di fine’800, è Giovanni de Giacomo, scrittore originario di Cetraro e pioniere degli studi sul folklore.
    Lo studioso, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo fu forse tra gli ultimi testimoni oculari di una farchinoria, ovvero di un’orgia tra i pastori e le loro pecore. Un nome bizzarro per una pratica bizzarra: parrebbe che farchinoria derivi dal latino farcino, riempire.

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    Percore al pascolo (olio su tela, XIX sec)

    Ma in che modo de Giacomo apprese di questa strana abitudine? Lo scrittore cita le testimonianze di Domenico Bascio e Nicola Svago, due anziani pastori che vivevano sulle pendici del Monte Cocuzzo. I due, in una serata di novembre 1891, gli avrebbero raccontato, anche con una certa nostalgia, dei loro svaghi di gioventù. Soprattutto della farchinoria…

    Monte Cocuzzo

    Coi suoi 1.541 metri, il Monte Cocuzzo è la vetta più elevata della Catena Paolana, la prima fascia dell’Appennino Calabro.
    È una montagna dalla classica forma di cono, che fa pensare a un’origine vulcanica. Per gli antichi, il Cocuzzo, coi suoi boschi fitti e oscuri, non era un luogo rassicurante. Lo fa capire lo stesso nome, che deriverebbe dal greco kakos kytos, pietra cattiva.
    Ma per i pastori calabresi di fine ’800 quei boschi erano un rifugio, dove agivano indisturbati.
    Al riparo di quelle stesse fronde, si sarebbe appostato anche de Giacomo, per spiare una farchinoria, nella notte di un 6 gennaio agli albori del ’900.

    Il festino

    I pastori riuniti attorno al fuoco cenano con una pecora arrostita, che hanno macellato in maniera a dir poco particolare.
    Le hanno infilato un palo nel retto e le hanno dilaniato le viscere per simulare un incidente. Così potranno dare una spiegazione al padrone, quando gli restituiranno la pelle dell’animale.
    Finito il pasto, innaffiato da abbondanti bevute, quattro giovani vestiti di pelli bianche e nere danno il via al festino, che comincia con una specie di corrida.

    Il dio Pan e la capra (gruppo marmoreo esposto nel Museo Nazionale di Napoli)

    I pastori fanno entrare un montone che, spaventato e infuriato, inizia a caricare i giovani. Stavolta non c’è nulla di cruento: i quattro provocano la povera bestia e ne schivano le cornate. Poi l’animale crolla sfinito e il gioco finisce.
    Anzi no: entra nel vivo.

    Amplessi bestiali sul Monte Cocuzzo

    A questo punto iniziano a suonare le zampogne e un pastore fa entrare sette pecore, agghindate con nastri e fiori.
    Alla corrida segue una specie di maratona: i quattro giovani possiedono ripetutamente le povere bestie. Come tutte le maratone, anche questa è una gara di resistenza: vince l’ultimo che cede. Per citare Highlander, ne resterà solo uno.
    Anche il pubblico, più che avvinazzato, si scatena. Alcuni si lasciano andare con le proprie compagne, altri fanno da sé.
    Infine, dopo tanta “fatica”, la stanchezza prende il sopravvento, protagonisti e spettatori si addormentano e la festa termina.

    Un giallo letterario

    Fin qui, la vicenda di cui Giovanni de Giacomo asserisce di essere stato testimone.
    Tuttavia, il pubblico ha appreso questa storia molti anni dopo.

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    Giovanni de Giacomo

    Infatti, risale al 1972 La Farchinoria. Eros e magia in Calabria, il libro in cui lo studioso racconta la sua esperienza di voyeur per amor di scienza. Intendiamoci: il Nostro aveva finito il manoscritto nel 1914, cioè quindici anni prima della morte (1929).
    Quindi parliamo di un testo rimasto inedito per 43 anni, che è riuscito a vedere la luce solo grazie all’interessamento di Paride de Giacomo, figlio di Giovanni e generale dei carabinieri, il quale consegnò il testo a un altro studioso, Raffaele Sirri.

    Come mai questo ritardo nella pubblicazione di una storia così interessante?
    A pensar male, si potrebbe ipotizzare che la farchinoria sia in buona parte una fake d’epoca. Oppure, con più credibilità, si può ritenere che forse gli ambienti scientifici dell’epoca non fossero pronti per questa scoperta.
    Ma quest’ultima ipotesi è davvero difficile: parliamo degli stessi anni in cui Lombroso teorizzava il delinquente e la prostituta per nascita e in cui la psicanalisi freudiana, piena di sesso fino all’orlo, si faceva strada nel dibattito scientifico.
    Oppure, più semplicemente, l’autore ha lasciato questo manoscritto nel classico cassetto per il timore di non essere creduto.

    Solo per amore

    Delle farchinorie, che si svolgevano tutti gli anni tra l’Epifania e la Quaresima, oggi si parla poco. Al riguardo, c’è chi si rifà al mondo arcaico. E c’è chi, invece, richiama le vecchie letture gramsciane, in una sorta di marxismo pecoreccio. Non mancano, ovviamente, i riferimenti alla psicanalisi.
    Ma forse la verità è più semplice: i pastori calabresi amavano il loro duro lavoro. Molto e intensamente, più di quanto non si creda.

  • Dal Galles alla Calabria: John Trumper, il prof superperito degli anni di piombo

    Dal Galles alla Calabria: John Trumper, il prof superperito degli anni di piombo

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    È il 1972. Siamo a Gorizia, uno dei confini caldi con l’ex Jugoslavia.
    Come tutto il Friuli, anche questa provincia è militarizzata. Ma la vicinanza al regime titino è solo uno dei problemi di questa zona. L’altro, non secondario, è costituito dalla presenza massiccia dei movimenti extraparlamentari di destra, soprattutto Ordine Nuovo. Questi gruppi vivono un rapporto ambiguo con il Msi di Giorgio Almirante, che nello stesso periodo assorbe i monarchici e vara la Destra nazionale.
    Infine, in Friuli opera Gladio, l’organizzazione paramilitare che gestisce la Stay Behind in Italia. Gladio non è solo un gruppo anticomunista, che agisce sotto le direttive (e la copertura) della Nato. È anche un ambiente potenzialmente esplosivo, in cui convivono ex partigiani bianchi, reduci di Salò e neofascisti.

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    I resti della Fiat 500 usata per la strage di Peteano

    Antefatto: Trumper, un professore curioso

    Negli stessi anni inizia la sua carriera un giovane linguista gallese, arrivato in Italia per studiarne l’incredibile varietà di dialetti e suoni.
    John Trumper, all’epoca non ha ancora trent’anni: è fresco di laurea e si alterna tra la neonata Università della Calabria e, quella, ben più antica, di Padova.
    Trumper, che si occupa di fonetica e linguistica, allora non immagina che grazie a queste sue specialità avrà un ruolo importante nelle tragedie giudiziarie degli anni’70, appena iniziati.

    Il boato di Peteano

    La sera del 31 maggio del ’72 i carabinieri di Gorizia ricevono una telefonata anonima.
    Il “telefonista” segnala una strana presenza a Peteano, una frazione del piccolo Comune di Sagrado: una Fiat 500 abbandonata in una stradina. L’auto ha un particolare inquietante: dei fori di pallottola sul parabrezza.
    Una pattuglia si reca subito sul luogo. La guida il sottotenente Angelo Tagliari, che, dopo aver ispezionato la zona, apre il cofano della vettura.
    La serratura è collegata a una forte carica esplosiva, che si attiva in maniera devastante: il boato sbalza Tagliari di parecchi metri. L’ufficiale si salva solo perché la portiera gli fa da scudo, ma perde una mano e riporta ustioni e altre ferite gravissime.

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    Le vittime della strage: da sinistra, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni

    Invece, muoiono sul colpo tre carabinieri, tutti meridionali. Sono il brigadiere Antonio Ferraro, un 31enne siciliano, che lascia la moglie incinta, e i militari Donato Poveromo, un lucano di 33 anni, e il leccese Franco Dongiovanni, di appena 23 anni.
    Nessuno rivendica l’eccidio, che resterà avvolto nel mistero per oltre dieci anni: solo nel 1984 il neofascista Vincenzo Vinciguerra se ne assumerà la responsabilità dopo una lunga latitanza all’estero.

    Una strage “minore”

    La strage di Peteano vanta due sinistri primati. Innanzitutto, è l’unica strage su cui sia stata fatta piena chiarezza. Ed è l’unica strage fascista che ha per vittime dei militari.
    Ma quella di Peteano è una strage “minore”, che passa quasi in secondo piano rispetto a quelle, mostruose, di piazza Fontana a Milano (1969) e piazza della Loggia a Brescia (1974).
    Tuttavia, c’è un tratto sinistro che accomuna questi tre massacri: la difficoltà delle indagini, dovuta a una serie di depistaggi.

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    I funerali dei tre carabinieri caduti

    Il dirottatore

    È il 6 ottobre 1972. Siamo a Ronchi dei Legionari, una cittadina del Goriziano dove c’è l’aeroporto del Friuli Venezia Giulia.
    Un uomo sale a bordo di un piccolo aereo civile diretto a Bari. Questi, subito dopo il decollo, minaccia l’equipaggio con una pistola e lo costringe a tornare indietro.
    Il dirottatore chiede la liberazione di Franco Freda, leader veneto di Ordine Nuovo, in quel momento accusato per la strage di piazza Fontana.

    Le forze dell’ordine tentano prima di trattare. Poi fanno l’irruzione, a cui segue una sparatoria. L’uomo resta ucciso.
    È l’ex paracadutista Ivano Boccaccio, noto per la sua militanza in Ordine Nuovo e per lo stretto legame politico con Vinciguerra, ex militante missino di origine siciliana passato a On, e con l’udinese Carlo Cicuttini.
    Quest’ultimo non è solo un ordonovista, ma è stato anche segretario della sezione missina del suo paese, San Giovanni al Natisone.

    La pistola fumante

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    Vincenzo Vinciguerra durante il processo per la strage di Peteano

    Se gli inquirenti avessero repertato subito i bossoli trovati vicino alla 500 di Petano, che avevano provocato i fori nel parabrezza, si sarebbero accorti che i colpi provenivano dalla pistola ritrovata addosso a Boccaccio.
    E non ci avrebbero messo molto a fare il classico uno più uno, perché quella pistola apparteneva a Cicuttini.
    Cicuttini finisce sotto processo assieme a Vinciguerra per il dirottamento di Ronchi. Ma nessuno pensa ai due per Peteano.

    I depistaggi

    Le indagini su Peteano iniziano in maniera a dir poco strana. Non le coordina la Polizia giudiziaria di Gorizia, ma le gestisce il colonnello Dino Mingarelli, che guida la Legione carabinieri di Udine, su ordine diretto del generale Giovanni Battista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano e piduista.
    La quasi totalità delle stragi fasciste è stata coperta da depistaggi sistematici, che funzionavano con lo stesso meccanismo: attribuire alla sinistra estrema i delitti della destra. Così per piazza Fontana, così per Peteano.
    Infatti, gli inquirenti provano ad affibbiare a Lotta Continua la 500 esplosiva.

    Ma la pista non regge e ne emerge un’altra, non più “rossa” ma “gialla”. Cioè non una pista politica ma indirizzata alla delinquenza (più o meno) comune.
    Inizia così un’odissea giudiziaria per sei giovani goriziani, accusati di aver fatto saltare in aria i quattro carabinieri di Peteano per vendicarsi di torti subiti dall’Arma.
    I sei scontano un anno di galera. Vengono prosciolti in primo grado, ma sono costretti a giocarsi la partita vera in Appello, dove interviene Trumper.

    Trumper il superperito

    Secondo la difesa degli imputati goriziani, è decisiva la telefonata anonima che aveva attirato i carabinieri a Peteano.
    Trumper, che nel 1976 è già un’autorità nella fonetica, viene incaricato delle perizie e perlustra il Goriziano armato di registratore.
    Il risultato è inequivocabile: la parlata del telefonista non è goriziana ma udinese. Per la precisione, il telefonista del ’72 parlava un dialetto tipico della bassa valle del Natisone. Manca solo il nome: Cicuttini.
    Ma è quanto basta per scagionare i sei. Ma che fine aveva fatto Cicuttini?

    Almirante: tra doppiopetto ed eversione

    Finiti sotto processo per il dirottamento di Ronchi, Cicuttini e Vinciguerra sono assolti in primo grado nel 1974.
    Ma scappano proprio mentre si prepara l’Appello e gli inquirenti stanno per incarcerarli.
    Cicuttini, in particolare, si rifugia nella Spagna franchista, grazie a un doppio canale: l’Aginter Press, l’organizzazione semiclandestina che gestiva gli estremisti di destra di tutt’Europa, e il Movimento sociale italiano. In particolare, finisce nei guai Giorgio Almirante, che copre la latitanza dell’ex segretario friulano, mentre i Servizi segreti e alcuni inquirenti depistano alla grande. Perché?
    Sul ruolo ambiguo dei Servizi e di settori interi delle forze dell’ordine è inutile soffermarsi: al riguardo continuano a scorrere i classici fiumi d’inchiostro.

    Giorgio Almirante nei primi anni ’70

    Per il leader missino, invece, si può fare un’ipotesi minima. Cicuttini, infatti, era un personaggio a due facce: da un lato era un ordinovista, anche piuttosto pericoloso, dall’altro restava legato al Msi. Cioè a un partito che in quegli anni aveva sposato una linea di destra conservatrice e legalitaria.
    Perciò Almirante lo avrebbe coperto per evitare che il suo partito finisse coinvolto in una strage, tra l’altro a danno dei carabinieri. Ma, come ha ricostruito alla perfezione Paolo Morando nel suo recente L’ergastolano (Laterza, Roma-Bari 2022), non sapremo mai la verità. Formalmente incriminato per favoreggiamento, Almirante si sottrae al processo grazie a un’amnistia. Tuttavia il cerchio attorno a Cicuttini e Vinciguerra si stringe lo stesso.

    Trumper e Toni Negri

    Grazie anche alla vicenda di Peteano, la reputazione di Trumper cresce a dismisura. Una fama meritata, di cui il glottologo gallese dà prova in un altro celebre processo: quello sul delitto Moro.
    Anche in questo caso, la perizia di Trumper è fondamentale per scagionare un sospettato illustre: Toni Negri, accusato di essere il telefonista che aveva segnalato la Renault rossa col cadavere di Moro in via Caetani (in realtà, il “messaggero” era Valerio Morucci).

    Toni Negri

    L’intervento del prof di Arcavacata, in questo caso, è cruciale per confutare un teorema, accarezzato allora da non pochi inquirenti, secondo cui tra Potere Operaio – di cui Negri era stato leader assieme a Franco Piperno – e le Br ci fosse una continuità assoluta.
    Scagionare Negri, come ha fatto Trumper, ha evitato una pista falsa anche se non ha chiarito tutti i dubbi.
    Giusto una suggestione per concludere: Trumper è stato collega sia di Negri a Padova sia di Piperno all’Unical. Ma è inutile, al riguardo, aggiungere altro: sarebbe solo l’ennesima dietrologia.

  • Junio Valerio Borghese: un golpista piccolo piccolo

    Junio Valerio Borghese: un golpista piccolo piccolo

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    Sporco fascista, golpista, pericolo per la democrazia: questo è Junio Valerio Borghese secondo una lettura molto diffusa, di sicuro maggioritaria.
    Invece, per altri Borghese è stato un grande eroe, coinvolto in giochi di potere pericolosi e spericolati per amor di patria o in seguito a richieste impossibili da rifiutare.
    Ma questa divisione, scontata in un dibattito storico che continua a dividersi tra destra e sinistra (quindi tra ammiratori e detrattori, entrambi a oltranza), non aiuta a rispondere a una domanda.
    Eccola: perché Borghese prese la guida di un golpe che forse lui stesso per primo sapeva impossibile?

    Antefatto: le bombe e le stragi

    Il tentato golpe dell’Immacolata, svoltosi appunto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, per alcuni è il primo tentativo di capitalizzare le tensioni sociali che scuotono l’Italia all’inizio di quel decennio.

    Junio Valerio Borghese a Salò

    Il suo antefatto più importante è la strage di piazza Fontana, avvenuta poco meno di un anno prima (12 dicembre 1969). Questa strage fu preceduta e accompagnata da attentati dinamitardi, con e senza vittime, e fu seguita da altri atti eclatanti. In particolare, dalla strage di Peteano, l’unica strage fascista rivolta contro carabinieri e militari, e dalla strage di piazza della Loggia (29 maggio 1974), dopo la quale lo stragismo di destra inizia a declinare.
    A questo punto, è lecita un’altra domanda: perché un golpe così piccolo, tentato con mezzi palesemente insufficienti, di fronte a stragi così crudeli?

    La X Mas tra crimini e ambiguità

    Memento audere semper: questo motto, nato prima del fascismo e prima che Borghese entrasse nel vivo della sua carriera militare, è costato un brutto incidente a Enrico Montesano.
    I guardiani della memoria, anziché storicizzare hanno preferito esasperare gli animi. Tant’è: la leggenda nera della X Mas resiste oltremisura, rafforzata dalla memoria dei feroci rastrellamenti e delle esecuzioni sommarie nel periodo di Salò.

    Questa leggenda impedisce la storicizzazione del principe nero, passato da eroe di guerra a criminale in men che non si dica. E dunque: criminale il Borghese fascista, che fucila partigiani a raffica. Criminale anche l’Oss (Office of Strategic Services, l’antenata della Cia) e il suo capo in Italia, James Jesus Angleton, che salvarono Borghese. Criminali, infine, quei settori deviati dei servizi, civili e militari, che protessero il principe e ne sponsorizzarono il tentativo di golpe.
    Possibile che sia tutto un crimine?

    James Jesus Angleton, capo dell’Oss in Italia e fondatore della Cia

    Tora Tora: Junio Valerio Borghese e Pansa

    La recentissima ristampa di Borghese mi ha detto (Rizzoli, Milano 2022), un vecchio libro intervista di Giampaolo Pansa, consente di aprire uno spiraglio sul golpe.
    Il giornalista piemontese aveva intervistato il principe il 4 dicembre 1970, cioè quattro giorni prima del tentato colpo di Stato. L’intervista uscì su La Stampa il 9 dicembre, cioè ventiquattro ore dopo l’operazione Tora Tora, di cui in quel momento il pubblico non sapeva niente.

    Pansa rimase affascinato dalla lucidità e dalla schiettezza di Borghese, che sembrava tutto tranne che un golpista. Infatti, la notizia del golpe sarebbe emersa il 17 marzo del ’71, grazie a uno scoop di Paese Sera.
    Riavvolgiamo il nastro: possibile che una cosa tanto grave, un pericolo per la democrazia, finisse tanto sottogamba?
    C’è da dire che parecchie avvisaglie di golpe erano già emerse sulla stampa, come ha riscostruito con grande efficacia Fulvio Mazza nel suo Il Golpe Borghese (Pellegrini, Cosenza 2021). E allora: perché Borghese ha potuto agire quasi indisturbato?

    Golpe Borghese: un Putch inconsistente

    Nel golpe Borghese c’era tutto il cattiverio. C’era Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e il Fronte Nazionale (il partito personale del principe).
    Poi c’erano i Servizi e la P2. Insomma, non mancava nulla per creare il colpevole quasi perfetto: un militare fascista, potenzialmente stragista, i Servizi, per definizione deviati, e ambienti inconfessabili. E non dimentichiamo le mafie.
    Peccato che tutta questa attrezzatura abbia sostenuto un golpe gestito solo da paramilitari di destra, un pugno di poliziotti, nemmeno cinquecento carabinieri più il vecchio Corpo forestale dello Stato.

    C’è una cosa corretta sul golpe Borghese: non fu un conato neofascista ma un tentativo di destabilizzazione atlantista, a cui Borghese si prestò. Ergo: al principe andava bene roba sul modello portoghese, cileno o greco. Nulla di più.
    Il principe non era un rivoluzionario nero ma un uomo d’ordine e un anticomunista sfegatato. E questo spiega sia la gestione di un golpe rientrato alle battute iniziali sia i legami più o meno inconfessabili, per i fascisti e per gli antifascisti.

    Borghese e Licio Gelli: una relazione pericolosa

    Iniziamo dalla cosa più pornografica per una certa mentalità politicamente corretta: i rapporti tra il principe e il venerabile della P2.
    È noto che Gelli riuscì ad accreditarsi come campione dell’atlantismo. Più complicato il discorso per Junio Valerio Borghese. Tuttavia, sulla base dei documenti disponibili, ci sono alcune certezze.
    Le espongono Jack Greene e Alessandro Massignano ne Il principe nero (Mondadori, Milano 2008): Borghese non fu un piduista ma era vicino a Gelli, che lo aveva favorito in momenti di crisi finanziaria. Ancora: sia gli ambienti dei Servizi sia gli extraparlamentari di destra erano infiltrati o condizionati dalla P2.

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    Licio Gelli

    Il tutto ha un corollario: di Gelli si può mettere in discussione ogni cosa, tranne l’atlantismo. Quanto bastava a creare una comunione d’interessi col principe.

    Borghese e la resistenza

    Col principe nessuno era al sicuro: neppure i partigiani.
    C’è una differenza fondamentale tra la Decima di Borghese e le milizie di Salò: la prima era un corpo autonomo, con uno statuto simile alla Legione Straniera; le altre un tentativo di creare un esercito regolare.
    Questa differenza fu riconosciuta dalle corti militari del dopoguerra, che trattarono meglio i militi della X Mas rispetto agli altri repubblichini. Ma la apprezzarono anche i comandi e l’intelligence alleati, che negoziavano sottobanco più con Borghese che col resto della Rsi. Inoltre, la apprezzarono i vertici delle brigate partigiane Osoppo, cioè i partigiani bianchi, che temevano e detestavano i “garibaldini”, cioè i partigiani comunisti.

    Due studiosi di vaglia, Giacomo Pacini e Giuseppe Parlato concordano su un punto: a partire dalla fine del ’44 ci furono abboccamenti tra la Decima e la Osoppo per concordare un’azione comune contro i partigiani di Tito. La proposta, avanzata dai partigiani fu fatta cadere. Non per l’antifascismo ma perché i seguaci di Borghese erano praticamente bolliti, dopo oltre un anno di guerra civile.
    Ancora: Pacini parla della vicinanza, nell’immediato dopoguerra tra vari reduci della Decima e gli ex partigiani bianchi. E allude alla possibile militanza di alcuni ex marò in Gladio, che era comunque una struttura di ex partigiani.

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    Partigiani della brigata Osoppo

    Borghese e Israele

    È il capitolo più piccante della vicenda.
    Tuttavia, ci sono dei dati certi sui rapporti tra Borghese e i gruppi da cui sarebbe sorto lo Stato di Israele. A dispetto di tutto quel che era capitato prima, leggi razziali incluse.
    Il partito di punta del movimento sionista era l’Irgun Zvai Leumi, un gruppo di estrema destra, che in Italia s’intese alla perfezione coi leader del nascente neofascismo (tra questi, Pino Romualdi) in nome dell’odio comune verso la Gran Bretagna.

    Borghese contribuì a modo suo: mise in contatto i rappresentanti dell’Irgun col suo braccio destro Nino Buttazzoni, che nel ’46 era latitante in Vaticano.
    Quest’ultimo, che non poteva esporsi, convinse i sionisti a ingaggiare due ex marò per addestrare gli incursori della futura Marina israeliana e impiegarli in funzione antibritannica. Dio stramaledica gli inglesi? Lo dicevano i fascisti, ma gli ebrei erano d’accordo. Non a caso, il corpo degli incursori della Marina israeliana si chiama XIII flottiglia. Manca solo Mas.

    Borghese e la Calabria

    Durante il maxiprocesso a Cosa Nostra, Luciano Liggio parlò dei suoi colloqui con Borghese in occasione dei preparativi del golpe. Le coppole siciliane, per bocca sua, declinarono l’invito.
    Molti picciotti calabresi, invece, l’accolsero. Almeno fu così per il clan De Stefano.
    Mafia o meno, occorre ricordare che Borghese era di casa in Calabria, grazie anche ai buoni uffici di Maria de Seta, la moglie di un altro principe nero: Valerio Pignatelli di Cerchiara, leader della resistenza fascista al Sud.
    I rapporti con la ’ndrangheta, di cui all’epoca non si percepiva la pericolosità, erano una conseguenza.

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    I funerali di Junio Valerio Borghese

    Per concludere

    I rapporti di Borghese con un certo estabilishment atlantista sono storicamente accertati.
    Il principe era stimato dai britannici, a cui aveva dato filo da torcere in guerra, era apprezzato dagli americani e dagli israeliani. E Gelli lo teneva in considerazione. Insomma, era l’ideale pedina anticomunista.
    C’è da dire che Borghese interpretò il ruolo alla grande. Anche nella curiosa ritirata finale. Cioè nel contrordine dato quando il golpe stava per entrare nel vivo.
    Al riguardo, in tanti evocano complotti. Ma forse la verità è più semplice, come racconta Miguel Gotor nel suo recentissimo Generazione Settanta (Einaudi, Torino 2022).
    Borghese aveva intuito che il golpe avrebbe potuto avere una sola riuscita: spaventare l’opinione pubblica e propiziare un governo autoritario di destra, che tuttavia, per prima cosa avrebbe represso proprio i “camerati”.

    Il dietrofront sarebbe dovuto essenzialmente a questa preoccupazione.
    Certo, se le cose stanno così, non serviva uno storico stellare come Gotor. Ma basta un regista geniale come Mario Monicelli, che nel suo Vogliamo i colonnelli (1973) racconta più o meno la stessa cosa.
    Già: non c’è nulla di meglio di una commedia, per raccontare il golpe da operetta di un ex eroe in declino…

     

     

     

  • Meno di mille voti per eleggere un deputato

    Meno di mille voti per eleggere un deputato

    Si fa presto a criticare (magari non a torto) l’attuale sistema elettorale, che, grazie al taglio dei parlamentari, limiterà tantissimo la rappresentanza calabrese.
    Ma in passato era decisamente peggio, perché la democrazia era un affare di élite, riservato a borghesi, possidenti e “altolocati”.
    Fatta l’Italia, si prese subito atto che gli “italiani” (cioè i cittadini che avevano partecipato ai moti risorgimentali o erano comunque in grado di partecipare alla vita pubblica) erano pochini.
    E il sistema elettorale funzionava di conseguenza. Vediamo come.

    Le prime elezioni

    Le prime elezioni politiche della storia d’Italia si svolsero il 27 gennaio 1861.
    Il clima non era dei più facili: i resti dell’esercito duosiciliano ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta e di Messina, che si sarebbero arrese l’11 febbraio e il 13 marzo di quell’anno.

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    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie

    Ancora: re Francesco II di Borbone avrebbe abdicato al trono e al titolo reale solo dieci anni dopo circa. La sua rivendicazione politica avrebbe ispirato a lungo le bande dei briganti, particolarmente diffuse nella Calabria Citra e in parte del Catanzarese.
    Ma questa è un’altra storia.

    Chi poteva votare

    L’Italia e la Calabria dell’epoca sono realtà rurali, con larghe sacche di analfabetismo e povertà diffusa.
    La legge utilizzata per eleggere il primo Parlamento italiano è quella del Regno di Sardegna, adattata a un territorio grande poco più del 70% di quello attuale: ancora mancano alla conta il Lazio e il Veneto.
    Per votare occorrono quattro requisiti: il sesso maschile, l’età superiore a venticinque anni, essere alfabetizzati e poter pagare almeno quaranta lire annue di tasse.
    Questa regola ha delle eccezioni. La prima, più vistosa, riguarda i sardi, ammessi al voto anche se analfabeti.
    La seconda, invece, è relativa ad alcune categorie, che possono votare anche a prescindere dalla capacità fiscale.
    Sono i “colti” e i professionisti. Cioè i membri delle accademie e degli ordini cavallereschi, i professori universitari, i laureati, i dipendenti dei tribunali e delle procure, i professionisti della Sanità e quelli legali, i funzionari pubblici, civili e militari, in servizio.

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    Camillo Benso conte di Cavour

    La legge elettorale

    Occorre ricordare che nel 1861 il Senato è nominato dal re e tale rimarrà fino alla caduta del fascismo.
    Dunque, si vota solo alla Camera, dove sono in palio 443 collegi uninominali, che diventeranno 493 con l’annessione del Veneto e 508 con quella del Lazio.
    Il meccanismo elettorale è un uninominale su due turni potenziali. Detto in pillole, se nessuno prende il 50% più uno, si va al ballottaggio. Se si libera qualche posto durante la legislatura, si va alle elezioni suppletive. Fin qui, il sistema politico italiano degli esordi è in linea con quelli europei, dove gli elettori effettivi sono di più solo perché è maggiore il benessere diffuso.

    Gli elettori

    Quanti sono gli italiani in grado di votare al momento dell’Unità? La risposta non è proprio consolante: l’1,9% dei cittadini residenti.
    Infatti, i singoli collegi elettorali sono costituiti da mille elettori al massimo.
    In Calabria, la situazione è peggiore. Al momento dell’Unità i calabresi al voto sono poco più dell’1% . Questa percentuale sale all’1,63% nel 1870 e tocca l’1,82% nel 1880. In pratica, votano circa diciannove persone ogni mille abitanti.
    La percentuale è sconfortante anche nel quadro complessivo del Paese.
    I privilegiati sono soprattutto i proprietari (60%), le “pagliette bianche” (cioè i professionisti: 10%), i funzionari civili e i sacerdoti (15%).
    In pratica, tutti i pochissimi benestanti di una società basata sul latifondo.

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    Contadini calabresi di fine ‘800

    Calabria in controtendenza

    Ma questi pochissimi votano di più rispetto alla media nazionale e a quella del Mezzogiorno.
    Le prime Politiche, infatti, sono caratterizzate da un forte astensionismo: a livello nazionale vota solo il 56,4% degli aventi diritto. Nel Sud la percentuale si alza di un po’ e arriva al 63,2%. La Calabria batte tutti col suo 65,7%.
    Di più: la regione è in controtendenza anche per le scelte politiche: mentre il Paese premia la Destra cavouriana, da noi vince la Sinistra storica, sebbene in un quadro di lotte e intrighi piuttosto complesso.

    I cosentini al Parlamento

    Particolarmente interessante risulta la pattuglia dei deputati cosentini, eletta dai dieci collegi della provincia.

    Vincenzo Sprovieri

    Il primo è Giuseppe Pace, esponente della Destra, eletto a Cassano con 301 voti su 774 aventi diritto e 551 votanti effettivi.
    Il collegio di Castrovillari, dove votano 973 aventi diritto, esprime l’indipendente Antonio La Terza, che prende 329 preferenze su 761 elettori effettivi.
    Corigliano, invece, esprime Vincenzo Sprovieri delle Sinistra storica, che prende 468 voti su 622 votanti effettivi (gli aventi diritto sono 801).
    A Cosenza la Destra si prende la sua rivincita: passa Donato Morelli, che ottiene 276 voti su 557 votanti effettivi in un collegio costituito da 909 aventi diritto.
    A Paola gli aventi diritto sono decisamente meno: 689. Il collegio esprime Giuseppe Valitutti della Sinistra storica, che prende 339 voti su 550 votanti.
    Ancora meno, 624, gli aventi diritto a Rogliano, dove vince Gaspare Marsico della Sinistra storica con soli 173 voti su 345 votanti.
    Rossano ha 625 aventi diritto. Gli elettori effettivi sono 466 e 285 di questi eleggono Pietro Compagna della Destra.
    A San Marco, che ha 606 aventi diritto, la spunta Giovanni Mosciaro della Sinistra storica con 288 voti su 519 votanti.
    Spezzano Grande elegge Gabriele Gallucci della Destra, con soli 164 voti. I votanti sono 278, gli aventi diritto 472.
    A Verbicaro vince Francesco Giunti della Sinistra storica, che prende 348 voti su 568 votanti. Gli aventi diritto del collegio sono 757.

    Giovanni Nicotera

    I trombati

    La maggior parte degli eletti proviene dal notabilato locale, che ha fatto le sue fortune sulle grandi proprietà, ottenute prima dell’Unità nazionale e non sempre in maniera cristallina.
    Tra i grandi trombati, invece, ci sono altri protagonisti del Risorgimento.
    Tra questi, alcune figure di prima grandezza della storia regionale e non solo: il patriota e intellettuale Domenico Mauro, il futuro ministro Luigi Miceli e Giovanni Nicotera, anche lui futuro protagonista dei governi della Sinistra storica.
    I tre, battuti in casa dai notabili, rientrano alla Camera grazie a candidature mirate in collegi fuori regione.
    La Calabria entra nella storia unitaria con il suo solito vizio: boccia i migliori e preferisce i notabili.