Autore: Saverio Paletta

  • Simona Loizzo e quel dono ai bimbi mai nati

    Simona Loizzo e quel dono ai bimbi mai nati

    Un pensiero gentile per iniziare, e non perché chi lo ha avuto è stata seguace dei Gentile: la riqualificazione a proprie spese dell’ala del Cimitero di Colle Mussano destinata a bimbi non nati.
    È l’ultima notizia, in ordine cronologico, che riguarda Simona Loizzo.simona-loizzo-bambini-mai-nati-dono-loro-cimitero

    I bambini mai nati 

    Non buttiamola in politica, perché alla fine dei conti non l’ha fatto Loizzo, la quale si è limitata a una proposta via pec al Comune. Che ha approvato.
    Eppure, a prescindere da tante polemiche esplose un po’ dappertutto, resta un dato: il regolamento di polizia mortuaria prevede l’istituzione di aree per la sepoltura dei feti e di sicuro non è bello che quella del Cimitero di Cosenza sia non curata a dovere.
    Niente pubblicità né comunicati stampa roboanti, ma solo una testimonianza: la delibera pubblicata sull’albo pretorio del Comune.

    La carriera a zig zag di Simona Loizzo

    Simona Loizzo ha avuto una parabola politica curiosa: emerge alle cronache come responsabile provinciale del Pdl lo scorso decennio.
    E poi sembra inabissarsi con la creatura di Berlusconi.
    Torna alle cronache a inizio 2021 in seguito alla tragica morte del marito.
    Questa visibilità la rimette al centro dell’arena politica. Tant’è che nel totosindaci per le ultime Comunali, che inaugurano il dopo Occhiuto, spunta il nome dell’odontoiatra cosentina. Col relativo corredo di dietrologie.

    Simona Loizzo con Matteo Salvini

    Loizzo: un cognome che pesa

    Dirigente dell’Unità operativa complessa di Odontoiatria presso l’Annunziata di Cosenza, Loizzo ha una lunga storia, anche alle spalle.
    Ci si riferisce alla tradizione familiare: Simona è figlia di Bruno Loizzo, storico primario di Pediatria nel medesimo ospedale, e nipote di Ettore, big della massoneria non solo calabrese. Inutile ripercorrere le tappe della militanza massonica dello scomparso gran maestro aggiunto del Goi, tra l’altro rimbalzata abbondantemente su tutte le cronache dell’epoca.
    Però il fardello del cognome, che evoca sanità e politica, c’è e pesa. Soprattutto nel caso della Loizzo, che le fa entrambe.

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    Ettore Loizzo, ex gran maestro aggiunto del Goi

    La meteora

    Si può comparire e scomparire. E viceversa, come le meteore o le comete che seguono orbite tutte loro.
    Quella di Simona Loizzo è tutta particolare e fatta di numeri importanti e inaspettati.
    Nel 2021 non si candida a sindaca, forse anche perché nel centrodestra la lotta per Cosenza è considerata non proprio vincente.
    Ma performa lo stesso, grazie a scelte intelligenti: aderisce alla Lega di Salvini e ne tampona la perdita di voti con una  buona performance elettorale.
    Con le sue 5.360 preferenze diventa capogruppo dei salviniani a Palazzo Campanella. In più gestisce direttamente la lista della Lega alle Amministrative di Cosenza, che prende 1.500 voti.
    La prova delle urne è forte.

    Simona Loizzo alla Camera

    In nove mesi si fa un bambino. Nello stesso arco di tempo, Loizzo bissa e si candida alla Camera, dove entra sulla scia del successo del centrodestra.
    La permanenza della Loizzo a Palazzo Campanella si svolge tra qualche polemica ed è segnata da un’iniziativa forte: è suo il disegno di legge regionale per la città unica di Cosenza, su cui si dibatte in questo periodo.
    Da deputata, invece, si è mossa a tutto campo: ha promosso l’istituzione di un gruppo inteparlamentare per la Sanità digitale e una Commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid. In più è autrice di un ddl per inserire la Magna Grecia nel patrimonio dell’Unesco. Difficile dire se sia vera gloria, ma quantomeno è proattiva.

    Simona Loizzo durante il dibattito sulla città unica

    Il camposanto

    Il problema dei bambini mai nati potrebbe non essere il primo né l’unico del Cimitero di Colle Mussano.
    Il burocratese delle varie regolamentazioni di solito è crudo: non si parla di feti ma di “prodotti abortivi” e, solo nel caso dei parti, di “nati morti”.
    Comunque sia, nulla può giustificare la trascuratezza nei confronti di un’area la cui presenza è un atto di pietà che ha uno scopo minimo: dare dignità ai piccoli resti per distinguerli dai rifiuti ospedalieri.
    Una donazione privata per la riqualifica di quest’area, tra l’altro effettuata con molta riservatezza, resta meritoria. A prescindere da chi la faccia.

    Per concludere una riflessione: Simona Loizzo ha raggiunto la massima visibilità. Ci sarà un riflusso, magari dovuto ai malumori suscitati in Calabria dal ddl sull’autonomia differenziata oppure la Loizzo politica resterà una presenza fissa del panorama calabrese?

  • Arca di Noè: una terra amica dei disabili

    Arca di Noè: una terra amica dei disabili

    «Sono qui praticamente da sempre, ma da tre anni presto servizio tutti i giorni», spiega Sonia, ex capo scout. E prosegue: «Io non faccio servizio solo per dare, ma ricevo tantissimo a livello umano».
    Sonia parla di una realtà seminascosta, di cui le istituzioni si accorgono ancora poco (e non sempre bene): l’Arca di Noè.

    Natura e solidarietà ai disabili in Calabria

    L’Arca di Noè si è sviluppata attorno al vecchio giardino botanico dell’Aias, alle spalle dell’ex Pastificio Lecce di Vadue di Carolei, una reliquia semidemolita delle vecchie promesse di sviluppo industriale.
    Le due serre originarie si sono arricchite di un capannone, dove trenta persone in media al giorno socializzano e pranzano. Soprattutto, si riabilitano, attraverso il contatto con la natura e i lavori manuali.

    L’interno di una serra dell’Arca

    Sono disabili, i più. Ma non mancano soggetti con problemi più lievi, come i disturbi dell’attenzione. Qualcun altro, infine, si riabilita a livello legale: l’Arca accoglie anche persone che scontano le pene alternative.

    La storia dell’Arca dei disabili

    Aria un po’ hippie e modi molto semplici e diretti, Alessandro Scazziota è il Noè della situazione.
    «La nostra piccola realtà esiste da circa trent’anni», racconta Alessandro, figura storica del volontariato cosentino.
    «Abbiamo iniziato negli anni ’90 in una vecchia dimora del centro storico di Cosenza: eravamo solo quattro obiettori di coscienza». L’attività di accoglienza e integrazione promossa da Scazziota e dai suoi compagni di ventura ha avuto successo.
    Da qui la decisione di spostarsi a Vadue, sia per motivi di spazio sia per darsi davvero all’agricoltura.

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    Una messa all’ingresso dell’Arca

    L’Arca di oggi

    Franca, come Sonia, proviene dal volontariato cattolico: «Presto servizio qui da dieci anni. Vi sono entrata in un momento di forte smarrimento e l’Arca mi ha abbracciato senza travolgermi».
    L’Arca di Noè è una fattoria sociale e didattica. A livello legale è una cooperativa “a” e “b”, ovvero rivolta sia a soggetti svantaggiati sia a disabili.
    Gli operatori sono dieci, tra loro Antonio, che da settembre vi svolge per sua scelta il servizio civile.
    E c’è Leonard, un assistente sociale keniota, che presta la sua attività professionale su incarico del Moci, il Movimento della cooperazione internazionale.

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    L’interno di una serra dell’Arca

    I mezzi dell’Arca

    «Facciamo tutto da soli», prosegue Scazziota con un pizzico d’orgoglio.
    Detto altrimenti, l’Arca si autofinanzia attraverso le donazioni delle famiglie degli ospiti e, soprattutto. attraverso la propria produzione: gli ortaggi e le verdure che provengono dalle serre.
    Chi passa da Vadue ogni tanto nota i banchetti dove gli ospiti e gli operatori fanno i fruttivendoli. «Ma distribuiamo anche porta a porta», continua Alessandro.
    Come se non bastasse, l’Arca ha anche alcune pecore e degli asinelli per consentire un po’ di pet therapy.
    Il tutto, cosa assai importante, senza contributi pubblici. Segno che la solidarietà orizzontale e dal basso funziona anche da noi, dove generalmente si fa poco senza il gettone della Sanità o dell’ente locale.

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    Scazziota tra agli ospiti dell’Arca

    Gli affezionati, operatori e disabili

    C’è chi, grazie all’Arca, ha cambiato vita. È il caso di Gabriella che, prima di scommettere sull’avventura di Scazziota, era assicuratrice e opera in questa realtà piccola e solida dal ’97.
    Oppure di Giovanni, che dal 2001 gestisce la parte amministrativa. O di Katia, ex docente. Anche alcuni ospiti sono storici: come Francesco, che frequenta la struttura da 15 anni, o Giuseppe, che da 5 partecipa al laboratorio di ceramica. O come Giacomo, legato da sempre all’Arca («Sono un fondatore», dice con un sorriso).

    Gli ospiti e gli operatori dell’Arca

    Le serre

    Chi conosce la storia di Vadue, ricorderà senz’altro le vecchie serre, finite quasi in abbandono negli anni ’90.
    Alessandro e i suoi le hanno ripulite e ammodernate, con l’aiuto di alcune macchine agricole. E con qualche innovazione: ad esempio, le strutture pensili che consentono di coltivare ortaggi su più livelli.
    Fuori, poco dopo il vialetto sterrato a fianco dell’ex Pastificio, ci sono giostre e scivoli per bambini. Un segno di come le attività solidali possono contribuire a riqualificare il territorio.
    Nessuno dei volontari, a quel che risulta, ha bussato alle istituzioni, se non per un riconoscimento. Ma nulla vieta alle istituzioni di valorizzare come si deve l’Arca di Noè, una realtà piccola, solida e indipendente. E sì, anche bella.

     

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    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.

  • Lo Jonio s’illumina d’immenso: l’arte hi tech di Franz Cerami

    Lo Jonio s’illumina d’immenso: l’arte hi tech di Franz Cerami

    Uno show di luci ha concluso il 2022 a Corigliano-Rossano (o, per gli amanti dei campanili a Corigliano e Rossano).
    Tuttavia, «ho voluto celebrare anche questa unione tra due comunità, che hanno accantonato i loro campanilismi», spiega l’autore delle installazioni spettacolari che hanno abbellito la città jonica.
    È Franz Cerami, classe ’63, napoletano doc, artista specializzato nel mescolare tecniche classiche e hi tech e docente di Digital Storytelling presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”.
    Spettacolo multimediale e nuove tecnologie per celebrare monumenti antichi e persone comuni. Oppure per dare una bellezza inedita agli orrori urbanistici, come la centrale elettrica.
    Tanti modi per dire una cosa sola: l’arte è anche racconto…

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    Lighting Flowers: la centrale idroelettrica trasfigurata dai laser

    Partiamo dall’installazione più legata al territorio che hai celebrato: Denzolu.

    Mi ha colpito molto, al riguardo, un’antica leggenda, che esprime le rivalità tra i campanili. Si racconta che i rossanesi mettevano le lenzuola davanti al sole per oscurare Corigliano. E poi mi ha colpito il suono di questo termine dialettale: “denzolu” vuol dire senz’altro lenzuolo, però evoca anche suggestioni arcane, se si vuole un po’ esotiche.

    Cosa hai voluto rappresentare con l’uso del lenzuolo?

    Ho voluto trasformare un elemento divisivo, che ricorda troppo le rivalità tra comunità, che a volte hanno avuto esiti tragici, in un simbolo d’unione.

    Quel che colpisce è la tecnica utilizzata. Vogliamo approfondire un po’?

    Ho fatto una serie di riprese con due videocamere a varie persone, cittadini comuni, artigiani, pescatori, professionisti e autorità. E ne ho fatto un doppio uso. Il primo è multimediale: ho mescolato queste riprese “ritratto” a riprese dell’ambiente e le ho proiettate sulla Torre del Cupo a Schiavonea.

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    Denzolu: ritratti di cittadini sulla Torre del Cupo

    Ma c’è anche uno sviluppo più tradizionale, che poi dà il nome all’opera. O no?

    Esatto: ho estratto dei frame da queste riprese e ne ho ricavato varie serigrafie sviluppate su delle tele che ho appeso sulle facciate dei due palazzi municipali di Corigliano e Rossano. Ed ecco: le lenzuola non offuscano più il sole, ma vivono attraverso la luce e raccontano la fusione coraggiosa.

    Lighting Flowers, invece, segue un’ispirazione diversa.

    Quest’installazione fa parte di una serie di opere che ho sviluppato in diverse zone del mondo: San Paolo del Brasile, Napoli, San Pietroburgo e via discorrendo. A Corigliano-Rossano ho deciso di valorizzare a modo mio la centrale elettrica.

    Un compito non facile…

    In questo caso, ho deciso di trasformare il classico ecomostro in un’opera d’arte attraverso la proiezione di motivi colorati con potenti fasci di luce. Ho giocato un po’ sul doppio senso della parola “mostro”: in latino “monstrum” vuol dire sia “brutto” (e la centrale indiscutibilmente lo è) sia “appariscente”. Io ho tentato di estrarre l’aspetto meraviglioso da una cosa brutta.

    Un primo piano di Franz Cerami

    A giudicare dal risultato, ci sei riuscito.

    Anche De Andrè diceva: «Dal letame può nascere un fiore. O no?».

    Infine c’è Lumina, che si ispira a una poetica diversa: portare un elemento futuribile su una struttura antica…

    In questo caso, ho proiettato dei fasci di luce sulla facciata dell’Abbazia del Patire. Il risultato è stato molto forte, a livello visivo.

    Notevole anche l’uso delle colonne sonore.

    Merito, in questo caso, di Claudio Del Proposto, che le ha composte per l’occasione. E sono debitore anche al mio assistente Flavio Urbinati, il cui aiuto è stato fondamentale per la riuscita.

    Com’è nata quest’iniziativa?

    Sono stato contattato direttamente dall’Amministrazione comunale, per sviluppare un progetto celebrativo di questo municipio unico che fonde due comunità calabresi affini anche quando erano divise. I contatti sono iniziati nella tarda primavera del 2022. Ho iniziato i lavori a luglio e li ho terminati poco prima dell’autunno.

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    Il Patire vola nel futuro

    Come ti sei trovato?

    Direi benissimo. I cittadini sono stati collaborativi e ospitali. Ottima l’accoglienza, bellissimo il paesaggio e molto suggestive parecchie zone. In particolare, mi ha colpito Schiavonea. Ma in una realtà così ricca come quella in cui ho lavorato c’è l’imbarazzo della scelta.

    Ma cosa può trovare di tanto importante un napoletano in Calabria?

    Tante cose. Ma soprattutto quell’apertura e quella socialità tipica delle zone di mare. Forse la magia di queste zone è tutta in quest’orizzonte sconfinato e bello. A Napoli come sulle vostre coste. Un punto di partenza per sognare un futuro migliore.

    Anche grazie all’arte?

    Certo.

  • Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    «Ma è sicuro di quel che dice?», chiede Remo Smitti, pm della Procura di Venezia.
    «Sicurissimo dottore, sono ottant’anni che faccio la guerra al mio cognome», risponde il teste.
    L’interrogato è Pietro Buffone, vecchia gloria della Democrazia cristiana, non solo calabrese. È il 23 novembre 1999. Siamo sempre a Venezia, in Corte d’Assise, dove si svolge un dibattimento delicatissimo, su un mistero “minore”, ma non per questo meno tragico della storia repubblicana.
    Tra gli incriminati, c’è una figura eccellente: Zvika Zarzevsky, più conosciuto come Zvi Zamir, ex capo del Mossad. Sullo sfondo, un disastro areo: il caso Argo 16.

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    L’aereo Argo 16 sulla pista

    Argo 16: uno schianto a Marghera

    È l’alba del 24 novembre 1973. L’Argo 16, un bimotore Douglas C47-Dakota in dotazione al 306° gruppo del 31° stormo dell’Aeronautica Militare.
    L’aereo è decollato da poco dall’Aeroporto “Marco Polo” di Venezia per raggiungere la base Nato di Aviano. Ma poco sopra Porto Marghera, a Mestre, succede qualcosa.
    Il velivolo perde quota, urta un lampione e precipita verso le strutture della Montedison.
    Evita per un soffio gli enormi serbatoi di combustibile dello stabilimento petrolchimico e si schianta sull’ingresso del Centro elaborazione dati della Montedison: il muso dell’aereo sfonda l’atrio e devasta gli uffici. Un pezzo della fusoliera si stacca nell’impatto e finisce nel cortile, dove demolisce venti auto parcheggiate.

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    L’ex capo degli 007 israeliani Zvi Zamir

    Lo strano incidente di Argo 16

    In quest’incidente terribile perdono la vita i quattro membri dell’equipaggio: il colonnello Anano Borreo, capo-equipaggio, il tenente colonnello Mario Grande, secondo pilota, e i marescialli Aldo Schiavone e Francesco Bernardini rispettivamente motorista e marconista.
    Ma è davvero un incidente? Secondo l’Aeronautica Militare, che ordina un’inchiesta frettolosa, sì. Ma c’è chi nutre seri dubbi: il deputato missino Beppe Niccolai, che deposita un’interrogazione scritta al Ministero della difesa il 10 agosto 1974.
    Seconda domanda: cosa c’entra Pietro Buffone in questa vicenda?

    Pietro Buffone: il sottosegretario dei segreti

    In quel periodo terribile, Buffone è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo di Mariano Rumor, che gli conferma l’incarico rivestito nel precedente governo Andreotti.
    Il deputato calabrese non è un sottosegretario qualsiasi, ma vanta un piccolo record: è il primo a gestire la delega ai Servizi segreti, fino ad allora riservata ai presidenti del Consiglio.
    Sull’argomento, Buffone è un esperto, visto che ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sul Sifar, il Servizio militare, che in quegli anni si chiama Sid, e sa vita, morte e miracoli dei nostri 007. Soprattutto, ne conosce i peccati.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    L’antefatto: terroristi palestinesi in Italia

    Il 5 settembre 1973 emerge una strana notizia: i nostri Servizi segreti sventano un attentato contro un areo di linea della El Al, la compagnia di bandiera israeliana.
    Il bersaglio reale degli attentatori sarebbe Golda Meir, la premier israeliana in visita in Italia.
    Grazie a una soffiata del Mossad, gli agenti segreti ammanettano cinque arabi, legati a Settembre Nero, l’organizzazione terroristica palestinese interna all’Olp di Yasser Arafat. Due di loro hanno il passaporto algerino e, su pressione di Gheddafi, vengono messi in libertà provvisoria il 30 ottobre.
    Il giorno successivo vengono “esfiltrati” in Libia. Li trasporta l’Argo 16, che fa un breve scalo a Malta, prima di portarli a destinazione.
    Oltre ai due libici, a bordo ci sono quattro funzionari del Sid, tra cui il capitano Antonio Labruna e il colonnello Stefano Giovannone.

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    Il generale Gianadelio Maletti

    Intermezzo: rivalità nei Servizi

    Tra i peccati delle nostre barbe finte uno è particolarmente grave. Anzi mortale: la rivalità interna.
    Il capo del Sid, nella prima metà degli anni ’70, è il generale dei Bersaglieri Vito Miceli, che si distingue per uno spiccato filoarabismo e per la vicinanza a Gheddafi.
    Il numero due del Sid è il generale Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D e acerrimo rivale di Miceli.
    Maletti è il collegamento tra gli israeliani e il Sid. Questa schizofrenia dei nostri servizi trova un equilibrio nel 1973, grazie a una spregiudicata operazione condotta da Aldo Moro.

    Il lodo Moro

    Stefano Giovannone, uomo di fiducia di Moro e capocentro del Sid a Beirut, è l’uomo chiave del lodo Moro, un accordo di diplomazia parallela (cioè fuori dai canali diplomatici ufficiali) e asimmetrica (cioè tra uno stato e organizzazioni non statali).
    Il contenuto dell’accordo è semplice ed efficace: l’Italia avrebbe tutelato gli uomini dell’Olp e questi si sarebbero astenuti dal fare attentati sul nostro territorio. Come, ad esempio, quello del 17 dicembre del 1973.

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    Aldo Moro

    L’attentato di Fiumicino

    Sono quasi le 13 del 17 dicembre 1973. Cinque palestinesi entrano nel terminal di Fiumicino e si mettono a sparare all’impazzata.
    Uccidono due uomini e raggiungono un Boeing 707 della Pan Am. Vi gettano dentro una bomba al fosforo e due granate. L’esplosione uccide trenta passeggeri, tra cui quattro italiani.
    Poi, gli attentatori salgono a bordo di un altro aereo: un Boeing 737 della Lufthansa diretto a Monaco. Prendono sei ostaggi e lo dirottano. Dopo un volo rocambolesco, l’aero atterra a Kuwait City, dove i cinque tornano in libertà.

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    L’attentato di Fiumicino

    Argo 16: il processo

    L’Argo 16 è un areo che scotta: non trasporta solo agenti segreti e presunti terroristi arabi. Ma si occupa soprattutto dei membri di Gladio, l’organizzazione Stay Behind italiana: li porta periodicamente a Poglina in Sardegna, dove c’è il loro centro d’addestramento.
    Anche per questo particolare utilizzo dell’Argo 16, l’“incidente” di Porto Marghera è al centro di dietrologie dure a morire. Soprattutto perché su questa vicenda non ci sono chiare verità giudiziarie.
    Il primo magistrato a occuparsene è il giudice istruttore Carlo Mastelloni, che mette sotto inchiesta Zvi Zamir, il suo braccio destro Asa Leven e 22 ufficiali della nostra Aeronautica.
    Il teorema di Mastelloni è inquietante: sono stati gli Israeliani.

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    Il magistrato Carlo Mastelloni

    Buffone il superteste

    Illuminante, al riguardo la testimonianza di Buffone, che conferma le dichiarazioni del generale della Guardia di Finanza Vittorio Emanuele Borsi.
    L’ex sottosegretario traccia un nesso inquietante tra il fallito attentato di Ostia, il disastro dell’Argo 16 e la strage di Fiumicino.
    Secondo quanto gli avrebbe confidato Maletti, il responsabile di questo intrigo sarebbe stato Miceli.
    Miceli avrebbe liberato i due libici, nonostante il contrario avviso di Maletti. E l’Argo 16 sarebbe stato sabotato dagli israeliani per ritorsione.
    Sempre Miceli avrebbe dato l’assenso all’attentato di Fiumicino, come risposta agli israeliani.

    Il processo finisce in niente

    Alla fine, il processo naufraga dietro la classica sequenza di insufficienze di prove, che per il codice di Procedura penale, entrato in vigore poco prima di Tangentopoli, equivale alla formula piena.
    Zamir e gli altri imputati la fanno franca, anche perché il segreto di Stato massacra l’istruttoria di Mastelloni. Tutto questo sebbene Maletti e Cossiga confermino, l’anno successivo le dichiarazioni di Buffone.

    Argo 16 e i documenti distrutti

    Il 29 gennaio scorso si è celebrato in sordina il decimo anniversario di Buffone, spentosi ultranovantenne nella sua Rogliano.
    Il caso Argo 16 è solo uno dei dossier su cui l’ex big ha messo le mani. Di molti altri non si sa nulla perché, una volta ritiratosi a vita privata, Buffone ha distrutto ogni documento.
    Nulla da nascondere a livello personale, ci mancherebbe. Solo il senso dello Stato di cui ha dato prova una persona in guerra perenne col proprio cognome.
    Una guerra vinta.

  • Fenestrelle, i calabresi nelle prigioni dei Savoia

    Fenestrelle, i calabresi nelle prigioni dei Savoia

    È un episodio minore della grande Storia, di cui i calabresi non sono stati protagonisti. Eppure vari calabresi lo hanno vissuto in prima persona.
    Ci si riferisce alla storia dei reduci dell’Esercito del Regno delle Due Sicilie all’indomani della Seconda Guerra d’Indipendenza.
    Sbandati, prigionieri di guerra, riarruolati dal Regno d’Italia o disertori datisi alla macchia.
    Alle loro spalle troneggia, massiccia e a tratti sinistra, l’ombra di Fenestrelle, il forte che domina la Val Chisone, un angolo suggestivo del Piemonte ai confini con la Francia.
    Molti vi finirono prigionieri, altri vi arrivarono per completarvi la leva, alcuni vi finirono “in punizione” e qualcun altro (pochi per fortuna) vi morì.

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    Soldati borbonici del Sedicesimo battaglione cacciatori

    Due morti di Cosenza

    Prima di entrare nel dettaglio, è importante raccontare la storia di due prigionieri cosentini. Sono il contadino Domenico Visconti, nato nel 1837 a Belvedere Marittimo, e il tessitore Antonio Veltri, nato a San Pietro in Amantea nel 1835. Le loro storie sono tragicamente simili.
    Visconti (che nei ruoli matricolari è iscritto come “Viscondi”, probabilmente per un errore di pronuncia), arriva a Fenestrelle il 3 febbraio 1862 e vi muore di tifo il 16 aprile successivo.
    Veltri, invece, arriva a Fenestrelle l’8 luglio 1862 e vi muore il 7 novembre successivo di febbre reumatica.

    Ladri e disertori

    Ma come mai i due cosentini finiscono a Fenestrelle? “Viscondi” entra nell’Esercito borbonico nel 1858 come soldato di leva ed è arruolato in un battaglione di Cacciatori. Diventa quindi prigioniero di guerra a Caserta l’otto settembre 1860. Torna a casa, ma si riarruola a Napoli il 7 giugno del 1861 ed entra nei Bersaglieri. Il 17 settembre successivo lo arrestano per furto: sconta quattro mesi di carcere e poi lo mandano a Fenestrelle.

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    Una commemorazione neborbonica in divise d’epoca

    Veltri, invece, viene sorteggiato alla leva borbonica nel 1859 e finisce nel Secondo reggimento di linea. Alle fine delle ostilità tra Regno di Sardegna e Due Sicilie si riarruola nel Quarantatreesimo di fanteria il 5 giugno 1861. Tenta la diserzione e… finisce a Fenestrelle.

    Sbandati, prigionieri e disertori

    Un po’ di chiarezza è doverosa. Iniziamo dalla cosa più banale: gli obblighi di leva.
    Il Regno delle Due Sicilie aveva una leva militare in parte più leggera rispetto a quello dei Savoia: non venivano arruolati tutti gli appartenenti a uno scaglione, ma si procedeva con sorteggio.
    Per il resto era più pesante: chi ci incappava, doveva prestare servizio per quattro anni, contro i due e mezzo-tre dei “savoiardi”. Ma la scappatoia c’era: pagare una tassa oppure trovare un sostituto.
    Ancora: secondo il Diritto internazionale bellico, se uno Stato ne assorbiva un altro, ne ereditava anche gli obblighi. Quindi, il Regno di Sardegna doveva far finire la leva ai soldati borbonici. Questo spiega le vicende di Visconti e Veltri.

    Due parole su Fenestrelle

    E Fenestrelle, in tutto questo? Si può subito chiarire una cosa: non era un campo di concentramento. Nato come fortezza di confine, il forte fu adibito a carcere per un breve periodo subito dopo la Restaurazione. Poi divenne sede dei Cacciatori Franchi, un corpo “punitivo” (cioè caratterizzato dalla disciplina durissima) e, subito dopo la Seconda Guerra d’Indipendenza, fu usato come “deposito” per prigionieri di guerra in attesa di essere riassegnati o rispediti a casa.
    Il Forte, c’è da dire, non era un ambiente salubre: i suoi 1.600 e rotti metri di altezza lo rendevano proibitivo per molti meridionali. Ma nessuno vi fu torturato o passato per le armi.
    Per ricapitolare: si finiva a Fenestrelle come prigionieri di guerra, fino alla proclamazione del Regno d’Italia. Oppure, subito dopo, perché riottosi alla disciplina dell’Esercito e quindi da “correggere”.

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    Una manifestazione in costume nel forte di Fenestrelle (foto di Roberto Cagnina)

    Conforti, il folle di Catanzaro

    La storia più singolare è quella di Giuseppe Conforti, nato a Paterniti, nel Catanzarese, il 1830.
    Conforti, autore di un memoriale simpaticissimo, è un personaggio esuberante. Si dichiara, infatti, di famiglia nobile ma decaduta e perciò costretto a fare il falegname. Nel 1856 il Nostro incappa nel sorteggio e parte soldato. E passa subito i primi guai.
    Parrebbe che la moglie, giovane e bella, di un suo superiore «inservibbile a cortivare la sua…» lo corteggi spudoratamente. Così finisce in gattabuia.
    Lo liberano, ma solo per partecipare alla sfortunata campagna militare del 1860. Ripara col suo reparto nello Stato Pontificio, quindi torna a casa. E lì ricominciano i suoi guai.

    Le disavventure di un reduce

    La Guardia Nazionale di Cosenza, su indicazione del prefetto, inizia le sue retate tra i reduci sbandati. Conforti viene preso prima di arrivare a Catanzaro ed è spedito a Milano.
    Detenuto nel Castello Sforzesco, sulle prime dichiara fedeltà a Francesco II di Borbone, poi cambia idea e si riarruola a modo suo: dà un nome falso e scappa.
    Torna in Calabria e si rimette a fare il falegname, ma «quelli giudei» della Guardia Nazionale lo ribeccano e lo rispediscono al Nord. Non a Fenestrelle, ma a Genova.
    Lì accetta il riarruolamento, parrebbe per davvero, ma prima tenta un ricorso. In attesa del risultato entra nel reparto del Genio nel 1862.

    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicile

    Ma la vita militare non fa per lui: dopo un anno di punizioni disciplinari, diserta e si rifugia presso la Corte borbonica in esilio a Roma. Francesco II lo riarruola tra i briganti, non in Calabria ma a Benevento. Le tracce di Giuseppe Conforti si perdono qui. E la durezza delle repressioni nel Beneventano non fa sperare bene per lui.

    Undici fuggiaschi

    Cosa succede a chi si riarruola? Quel che capita sempre: i più si si adeguano, qualcuno no. E magari diserta. Al riguardo, finiscono sotto processo a Milano cinque soldati cosentini, originari di Luzzi e Rose. I cinque marmittoni, scappano il 25 maggio 1861 dal Ventinovesimo e dal Trentesimo fanteria di Savigliano nel Cuneense, a causa dell’eccessivo rigore della disciplina.
    Discorso simile per altri sei calabresi che il 6 luglio successivo disertano dal Quarantaduesimo fanteria di Racconigi, sempre nel Cuneense.

    Conforti il camorrista

    Nel 1861 la parola mafia non è ancora entrata nel linguaggio pubblico.
    Al suo posto si parla di “camorra”, come sinonimo di “criminalità organizzata”. E certi episodi si verificano anche a Fenestrelle, a partire dalle estorsioni.
    Al riguardo, finisce sotto processo Giovanni Coppola, un soldato originario di Rossano finito tra i Cacciatori Franchi di Fenestrelle. L’accusa è di aver tentato, il 26 luglio 1862, di ottenere un “pizzo” da un commilitone, che aveva vinto al gioco.
    Coppola, classe 1829, è un veterano dell’Esercito borbonico: ha finito la leva nel 1857 ed è richiamato subito dopo. Le nuove autorità non si fidano di lui. Infatti, lo spediscono a Fenestrelle come “disarmato”, cioè furiere. Un ruolo che si dava agli indesiderabili. Per lui il forte non basta e finisce in galera a Torino.

    La piazza d’armi del forte di Fenestrelle

    Un’altra estorsione

    Un altro episodio grave si verifica nel Forte di Exilles, sempre nel Torinese e sempre sede dei Cacciatori Franchi.
    I protagonisti sono tre meridionali, tutti pregiudicati, finiti nei Cacciatori per i soliti motivi “disciplinari”. Tra loro spicca un altro Conforti, Ferdinando, che ha una storia triste alle spalle.
    Orfano di Reggio Calabria, il Nostro è prigioniero di guerra a Capua. Ed è la sua prigionia più lieve, perché finisce in manette più volte per furto, ingiuria e minacce.
    Il 23 aprile 1862 viene spedito ad Exilles.
    Il 9 giugno successivo, assieme ai suoi due compari (un avellinese e un napoletano) chiede il pizzo a tre commilitoni piemontesi. Le vittime si rifiutano e vengono aggredite a colpi di baionetta. Anche per questo Conforti il carcere è una meta obbligata.

    Il dramma degli sconfitti

    I dati su questi ex soldati duosiciliani provengono da due testi documentatissimi: I Prigionieri dei Savoia di Alessandro Barbero (Laterza, Bari 2014) e Le Catene dei Savoia di Juri Bossuto e Luca Costanzo (Il Punto, Torino 2012).

    Lo storico Alessandro Barbero

    I tre autori hanno compulsato una mole impressionante di documenti d’archivio per raccontare le vicende di tanti soldati, soprattutto di quelli degli Stati preunitari sconfitti, subito dopo il Risorgimento.
    Queste ricerche rivelano uno spaccato sociale e umano impressionante e interessante allo stesso tempo. È il dramma dei reduci sospesi tra due mondi: quello che hanno perso e quello che non sentono ancora loro. Ciò vale anche per i calabresi.

  • Il Consiglio di Stato boccia Temesa: Amantea è salva

    Il Consiglio di Stato boccia Temesa: Amantea è salva

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    Non è la prima volta che il Consiglio di Stato azzera decisioni amministrative che sembravano scontate.
    Così è avvenuto per l’affaire Temesa, cioè il divorzio tra Amantea e la sua popolosa frazione di Campora San Giovanni, che tiene banco da mesi nelle cronache regionali e ha incuriosito anche la stampa “che conta”.
    Alla fine, Palazzo Spada ha accolto le contestazioni del Comune di Amantea, che invece il Tar aveva rigettato per due volte. Il referendum previsto per il 22 gennaio è bloccato e la città tirrenica, al momento, è salva. La parola torna al Tribunale amministrativo, che dovrà pronunciarsi nel merito.

    Tre contro uno

    Ma cosa contesta il Comune tirrenico al comitato Ritorno alle origini di Temesa, al Comune di Serra d’Aiello e alla Regione Calabria?
    Il ricorso al Consiglio di Stato batte su quattro punti, che si riepilogano per sommi capi.
    Il primo è il debito che obera le casse amanteane. Al riguardo, c’è già un’istanza di dissesto del commissario prefettizio che risale al 2017. La cifra, tuttora, non è quantificata con certezza. Ma i “si dice” sono inquietanti: il debito monstre oscillerebbe tra quaranta e cinquanta milioni.

    Che fine farà questo buco? Resterà tutto ad Amantea oppure sarà diviso in proporzione agli abitanti? La legge regionale che indice il referendum tace.

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    Consiglieri di Stato in seduta

    Il rebus degli abitanti di Amantea

    Sul secondo punto, le cose si complicano. Innanzitutto, perché c’è un balletto di cifre sull’attuale demografia amanteana.
    Secondo i dati provvisori dell’Istat, i residenti sarebbero 13.850. Nell’ultimo ricorso al Consiglio di Stato, il Comune ne dichiara 13.272. Questa battaglia si gioca sulle decine: nel primo caso, in seguito alla secessione di Campora, Amantea si terrebbe di poco sopra i 10mila residenti, nel secondo rischierebbe di scendere sotto soglia.
    Ciò renderebbe inammissibile il referendum, perché il Tuel vieta la costituzione di Comuni sotto i 10mila abitanti.
    Ma il problema non riguarda solo le cifre lorde.

    Lo scoglio degli stranieri

    La difesa di Amantea contesta, al terzo punto, che si debbano calcolare gli stranieri residenti, cioè iscritti all’anagrafe.
    Questo perché la legge parla di “cittadini residenti”.
    La cifra che balla, in questo caso, si aggira attorno ai 400 abitanti. Non proprio bruscolini.

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    Campora San Giovanni, panorama notturno

    Il problema dei votanti

    Quarto punto: per creare il nuovo Comune di Temesa, sono chiamati al voto gli abitanti di Campora, circa 3.100, quelli di Coreca e Marinella e i residenti di Serra d’Aiello.
    Sul primo aspetto, emerge una contraddizione: se Campora si staccasse, Amantea si fermerebbe alla foce del fiume Olivo, quindi manterrebbe Coreca e Marinella.
    Ma gli abitanti di queste due frazioni, a differenza del resto di Amantea, sono chiamati comunque a votare.

    E non finisce qui: considerato che a Campora sono ubicati il porto e il Pip, due strutture strategiche che riguardano tutta la città, perché è esclusa dal referendum la maggioranza dei cittadini?

    La salvezza dal Consiglio di Stato

    Il Consiglio di Stato ha ribaltato le decisioni del Tribunale amministrativo di Catanzaro e risolto per via burocratica un problema politico.
    Certo, occorrerà aspettare la sentenza del Tar per dire l’ultima. Ma tutto lascia pensare che i confini di Amantea resteranno intatti.

    È vero, infatti, che Amantea ha tentato due ricorsi d’urgenza, cioè di bloccare il referendum finché non si fosse chiarita la situazione legale. Ma è altrettanto vero che i motivi inseriti nei ricorsi sono, per dirla in avvocatese, “di merito”. Cioè toccano la sostanza del problema e quindi anticipano la sentenza.

    Scorcio del centro storico di Amantea (foto di Camillo Giuliani)

    Campora e Amantea: ora tocca ricucire

    Amantea ha trovato a Roma il giudice che i tedeschi cercavano a Berlino.
    Ma ciò non vuol dire che la situazione resti rose e fiori, perché, giova ripeterlo, alla base dei malumori dei camporesi c’è un problema politico.
    Infatti, perché due big regionali come Franco Iacucci e Giuseppe Graziano hanno sposato la causa di Temesa?
    Le dietrologie, al riguardo, si sprecano in riva al Tirreno. Ma salvarsi in Tribunale non basta. Ora è il momento di ricucire i rapporti.
    E questo Enzo Pellegrino, l’attuale sindaco di Amantea, lo sa benissimo.

  • Bonnie e Clyde alla calabrese: Ciccilla e Pietro Monaco, briganti

    Bonnie e Clyde alla calabrese: Ciccilla e Pietro Monaco, briganti

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    Una copia della foto che immortala Ciccilla è conservata nei documenti di Cesare Lombroso.
    Il papà dell’antropologia criminale è stato di sicuro incuriosito dalla brigantessa che, grazie al racconto di Alexandre Dumas, è entrata nelle cronache dell’Italia postunitaria da protagonista assoluta.
    La calabrese Maria Oliverio, alias Ciccilla (appunto…) vanta un primato: è l’unica donna che può vantare un ruolo di leader nel brigantaggio. Anche più, forse, della campana Michelina De Cesare.

    L’esordio splatter di Ciccilla

    È la sera del 27 maggio 1862. Maria Oliverio è uscita da poco dal carcere provvisorio, istituito nell’ex Convento di San Domenico a Celico, dov’è stata reclusa per oltre quaranta giorni assieme a Teresa, sua sorella maggiore.

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    Ruderi del Convento di San Domenico, il carcere di Ciccilla

    Maria, originaria di Casole Bruzio, cerca di rivedere suo marito Pietro Monaco, latitante da mesi. Lo incontra poco fuori Macchia di Spezzano, dove vive da quando è sposata. Lui non sembra affatto contento di vederla: prima prova a spararle con un fucile, poi di accoltellarla. La giovane fugge e, non potendo rientrare a casa (dove convive anche con la suocera e la cognata), si rifugia da Teresa.
    E lì succede l’irreparabile: le due sorelle litigano. Vengono alle mani e poi passano alle armi bianche. Maria ha la meglio: afferra un’accetta e colpisce Teresa 48 volte. Poi prende i nipoti, li affida a sua suocera e si dà alla macchia.

    Il retroscena passionale

    Perché Pietro tenta di uccidere Maria? E perché Maria uccide sua sorella, dalla quale si era rifugiata? Gli atti processuali, ricostruiti con precisione maniacale da Peppino Curcio nel suo Ciccilla (Pellegrini, Cosenza 2013) rivelano una realtà piuttosto torbida: Pietro è l’amante di Teresa.
    Quest’ultima, inoltre, avrebbe diffamato la sorella con Pietro: Maria, a sentir lei, si sarebbe concessa alle guardie durante la detenzione a Celico. Basta questo per scatenare tanta furia omicida? In quel tipo di società, povera e violenta, sì. Ma c’è anche dell’altro.

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    Scultura che ritrae Pietro Monaco “conteso” da Marie Oliverio e sua sorella Teresa

    Il retroscena politico

    Pietro nel 1862 non è ancora ufficialmente brigante, anche se scorre già la campagna nella banda di Domenico Straface di Longobucco, detto Palma.
    È ricercato perché ha disertato dall’ex esercito delle Due Sicilie per unirsi a Garibaldi e la sua situazione giuridica con gli obblighi di leva non è chiarita.

    Il motivo reale della carriera brigantesca di Monaco è la delusione: la distribuzione delle terre, promessa dal Generale, è rimasta sulla carta.
    Ciononostante, Monaco avrebbe mantenuto rapporti con Donato Morelli, notabile di Rogliano ed ex cospiratore filogaribaldino. A questo punto, entra in scena un altro personaggio: Pietro Fumel.

    Fumel l’ammazzatutti

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    Pietro Fumel

    Bestia nera dei revisionisti antirisorgimentali, il piemontese Pietro Fumel si è guadagnato una fama postuma di macellaio, a volte non immeritata. Militare di carriera e protagonista delle prime due guerre d’Indipendenza nell’Esercito sabaudo, arriva a Cosenza come braccio destro del prefetto Francesco Guicciardi, per conto del quale inizia una lotta spietata ai briganti.

    Lo fa con metodi spicci e non ortodossi: dà un’organizzazione militare ai reparti della Guardia Nazionale e mette a ferro e fuoco le campagne, anche con esecuzioni sommarie. I risultati arrivano, ma i mezzi sono discutibili, anche nella mentalità dell’epoca.
    È Fumel che fa arrestare Maria e Teresa e le tiene in carcere, per fare pressione su Pietro Monaco. Perché?

    Le due facce di Pietro Monaco

    Durante il processo del 1864, Ciccilla dichiara di essere stata incarcerata assieme alla sorella per costringere Pietro a costituirsi.
    Ma forse la verità è un’altra: Fumel e chi per lui (Morelli) vogliono usare la banda di Pietro, che in quel momento non ha una linea politica, per eliminare alcuni briganti filoborbonici. Tra questi, Leonardo Bonaro, che ha avuto contatti con il generale legittimista spagnolo José Borjes, e Pietro Santo Peluso, detto Tabacchera.
    A favore di questa tesi c’è un dato: i due vengono ammazzati poco prima della liberazione delle sorelle Oliverio. Che tornano libere senza che Monaco si sia costituito.

    Crimini in gonnella

    La carriera di Ciccilla inizia il 28 maggio del 1862 e termina nel febbraio del 1864, quando i bersaglieri la catturano a Caccuri, nel Crotonese, dopo due giorni di assedio, in cui perdono la vita due militari e un guardiaboschi del barone Barracco.
    In questi due anni, Maria accumula un curriculum spaventoso: trentadue capi d’imputazione per omicidio, violenze varie, rapine, estorsioni, danneggiamento ed uccisione di animali domestici.

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    Il castello di Caccuri sotto la neve

    La giovane (20 anni appena nel 1864), riconosce a suo carico solo il brutale omicidio della sorella. Per il resto afferma di essere stata costretta a delinquere dal marito e dagli altri briganti.
    Nessuno può smentirla: a partire da Pietro Monaco, sono tutti morti o in galera.

    Il colpo di Santo Stefano

    Facciamo un passo indietro. Anzi due. Il primo risale al 18 giugno 1863, quando la banda Monaco rapisce due cugini “che contano” a Santo Stefano di Rogliano: Achille Mazzei, ricco possidente e patriota vicino a Donato Morelli, e Antonio Parisio, sindaco di Santo Stefano e nobiluomo (tra l’altro discendente dell’umanista Aulo Giano Parrasio).

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    I due vengono liberati dopo il pagamento di 20mila ducati, una somma enorme per l’epoca (oltre i 200mila euro attuali). Cosa curiosa, Ciccilla non finisce sotto processo per questo rapimento. Ma dal dibattimento, a carico di altri superstiti della banda Monaco, emergono alcune ambiguità. Monaco, secondo alcuni pentiti, ha rapporti con Mazzei, che lo incarica di altri sequestri.
    Non solo: avrebbe colpito, parrebbe su commissione, la famiglia Spadafora, notoriamente filoborbonica

    Il rapimento del vescovo

    Il 31 agosto 1863, Pietro Monaco alza il tiro e, con un blitz spettacolare rapisce nove notabili ad Acri. Tra questi, Michele e Angelo Falcone, cioè il fratello e il papà dell’eroe di Sapri Giovan Battista e di Raffaele, maggiore della Guardia Nazionale.
    Ma il nome che spicca è un altro: Filippo Maria De Simone, il vescovo di Tropea, a domicilio coatto ad Acri perché antigovernativo. Ovvero, filoborbonico…
    Con vescovo sono rapiti due sacerdoti, i fratelli Francesco e Saverio Benvenuto. Ma, quel che è peggio, ci scappa il morto: Ferdinando Spezzano, eliminato subito dopo il sequestro. La misura è colma. Anche per i notabili che proteggono Monaco.

    Morte del boss

    Pietro muore la notte del 23 dicembre 1863, per mano del suo luogotenente Salvatore De Marco, alias Marchetta.
    Marchetta agisce con la complicità di Salvatore Celestino, detto Jurillu (fiorellino) e di Salvatore Marrazzo detto Diavolo. Quest’ultimo, c’è da dire, aveva tentato di avvelenare la banda due giorni prima…
    Il tradimento avviene in un essiccatoio per castagne di Jumicella, contrada di Serra Pedace, dove Monaco e Ciccilla si sono appisolati dopo il cenone. La dinamica è semplice e cruda: protetto dai compari, Marchetta spara al cuore del capo e colpisce anche Maria al polso.

    Il processo

    Le ambiguità del processo sono tantissime. Tra queste, la protezione del generale Giuseppe Sirtori e del giudice di Corte d’Appello Nicola Parisio.
    Attenzione ai dettagli. Sirtori, che guida la repressione del brigantaggio in Calabria, è stato un alto ufficiale garibaldino. In tale ruolo, ha guidato Pietro Monaco durante la battaglia del Volturno.
    Parisio, invece, è lo zio di Antonio, il sindaco rapito a Santo Stefano.

    Vittorio-Emanuele-II
    Il re Vittorio Emanuele II

    I due pezzi grossi chiedono la grazia per Ciccilla, condannata a morte dal Tribunale, e la ottengono dal re in persona. Quasi a voler completare un disegno tra notabili.

    La fine di Ciccilla

    Fin qui la storia della banda Monaco e di Ciccilla.
    Maria scampa il patibolo ma deve scontare l’ergastolo. Finisce in carcere a Torino, secondo alcuni nel forte di Fenestrelle, il presunto lager in cui i Savoia avrebbero internato (e, secondo alcuni, sterminato) molti soldati borbonici.
    In realtà, l’ipotesi di Fenestrelle come ultima dimora di Ciccilla non regge. Il forte, infatti, non era un carcere, ma un centro di raccolta per militari a cui far terminare la leva nel Regno d’Italia e sede di un corpo “disciplinare”, i Cacciatori Franchi, destinato ai militari più riottosi, anche piemontesi. Non un luogo adatto alla detenzione di donne.

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    Una scalinata nel forte di Fenestrelle

    Comunque sia, le tracce di Ciccilla si perdono dopo il processo. L’anno della morte presunta è il 1879.
    Maria porta nella tomba i tanti segreti e le ambiguità di due anni terribili, in cui da popolana è diventata, forse suo malgrado, protagonista.

  • Lombroso: il meridionalista che non t’aspetti

    Lombroso: il meridionalista che non t’aspetti

    È un pamphlet dal titolo secco ed evocativo, In Calabria, scritto da Cesare Lombroso nel 1897. Il libretto è stato riedito nel 2009 da Rubbettino e riproposto, in ristampa anastatica (cioè tal quale all’originale ottocentesco) da Local Genius alcuni mesi fa.
    Come mai ancora tanto interesse per uno studioso superato, che, al massimo, può sollevare qualche curiosità come pioniere della criminologia e poco nulla più?
    Soprattutto, come mai tanto interesse per Lombroso in Calabria e da parte di editori calabresi?

    Il precursore del meridionalismo

    La risposta è semplice ma non banale: In Calabria è l’edizione in libro del diario tenuto da Lombroso nel 1862, quando per alcuni mesi il papà dell’antropologia criminale visitò il Reggino.

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    Cesare Lombroso nel suo studio in una stampa d’epoca

    Il Lombroso dell’epoca è un medico di 28 anni specializzato in igiene e aggregato al Regio Esercito durante i primi anni di occupazione dell’ex Regno delle Due Sicilie. È inoltre un laico di orientamento socialista con una spiccata sensibilità sociale.
    Prima di arrivare in Calabria, il giovane studioso si era occupato dellapellagra, che tormentava i contadini del Nord. Anche da noi si sofferma tantissimo sulle condizioni della popolazione. Con un risultato: anticipa di almeno dieci anni la questione meridionale.

    Questione di date

    Un problema dei meridionali è non saper dare un nome ai propri guai.
    Infatti, l’espressione Questione Meridionale è stata coniata da Antonio Billia, giornalista e deputato lombardo, nel 1873.
    Invece, il rapporto con cui Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti inaugurano il filone classico del meridionalismo risale al 1876.
    Lombroso, che pubblica una prima versione dei suoi diari nel 1863 come reportage per Rivista Contemporanea, li precede di un bel po’: denuncia la pessima situazione degli strati bassi del Sud, l’abbandono dei territori e gli abusi delle classi dominanti.
    Niente più e niente meno di quel che avrebbe fatto Gaetano Salvemini più di cinquant’anni dopo.

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    Sidney Sonnino (a sinistra nella foto)

    L’indice puntato

    Il Lombroso del 1862 ancora non si occupa di criminali. Né coltiva pregiudizi contro i meridionali. Ma c’è da dire che neppure il Lombroso di dopo li avrebbe coltivati.
    Allora, di cosa parla il celebre scienziato veronese nel suo pamphlet?
    In pratica, denuncia l’arretratezza delle popolazioni, la forte disparità nella distribuzione delle ricchezze, la miseria e l’ignoranza diffusa. E dice e scrive tutto ciò che può scrivere un intellettuale progressista dell’epoca. Ma lo fa prima degli altri.
    Tuttavia, in Lombroso l’antropologo convive col medico. Perciò una buona fetta del suo diario è dedicata all’elogio della creatività dei calabresi e delle loro culture particolari, in particolare quella grecanica e quella albanese.

    Lombroso razzista?

    Pazienza se, qui e lì, ci scappa qualche espressione oggi politicamente scorretta (la vecchia contrapposizione, per capirci, tra “africani”, “ariani” e “semiti”): era la cultura dell’epoca, diffusa tra tutti gli antropologi.
    Ma una cosa è sicura: Lombroso (che tra l’altro era di origine ebrea) non è un razzista né, tantomeno, ha tentato di fornire basi scientifiche al pregiudizio antimeridionale.
    Questo esisteva già. E, per quel che riguarda il razzismo scientifico, bisogna cercare altrove.

    Ufficiali del Terzo Bersaglieri di stanza in Calabria nel 1

    L’equivoco

    Come ha chiarito l’antropologa Maria Teresa Milicia nel suo Lombroso e il brigante (Roma, Salerno 2014), il papà del razzismo antimeridionale con pretese scientifiche è il siciliano Alfredo Niceforo che, suggestionato dalla teoria lombrosiana, ne tenta una lettura in chiave “razziale”.
    Per Lombroso gli uomini possono essere delinquenti per nascita, a prescindere dall’etnia di appartenenza. Niceforo va oltre: secondo lui ci sono popoli geneticamente delinquenti: gli italiani del Sud e i sardi, per esempio.

    Un cranio made in Calabria per Lombroso

    È noto che Lombroso elaborò la propria teoria dopo aver esaminato il cranio di un pastore calabrese: Giuseppe Villella, morto di malattia nel carcere di Pavia, dov’era recluso in seguito a una denuncia per furto.
    Ma (e lo ha confermato anche un discendente di Villella), dalla calabresità di Villella non si può derivare in alcun modo l’equazione calabrese uguale ladro o assassino.
    Villella, in altre parole, poteva essere anche nordamericano, slavo o cinese: ciò che secondo Lombroso lo rendeva delinquente era una piccola malformazione cranica (la fossetta occipitale mediana), non la “razza”.

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    Il cranio di Giuseppe Villella

    La teoria di Lombroso e la Calabria

    L’uomo delinquente, uscito in più edizioni e ristampato nel 2013 da Bompiani, è l’opera più importante e più indigeribile di Lombroso: un mattone di 2.138 pagine, che diventano 4mila e rotte nell’edizione digitale. Il classico libro più citato che letto.
    Eppure, a scavarvi un po’ dentro, ci si accorge che la Calabria non è in cima alle preoccupazioni criminologiche dello scienziato.
    Al contrario: la parola Calabria appare solo 27 volte e mai per “inchiodare” il territorio a pregiudizi.

    Prostitute, assassini e promiscui

    Nelle pagine de L’uomo delinquente, c’è, ad esempio, la comparazione tra le caratteristiche anatomiche di una prostituta di Reggio Calabria con quelle di una collega di Milano (che risultano simili).
    Oppure si scopre che il numero di infanticidi commessi in Calabria è uguale a quello del Piemonte.
    Ancora: a proposito di omicidi, si scopre che i calabresi accoltellano di più e i piemontesi preferiscono l’avvelenamento. Poi c’è un dato curioso: Cosenza, secondo le ricerche di Lombroso, era in cima alla lista per i comportamenti illeciti a sfondo sessuale, inclusa la prostituzione.
    In tutto questo, il pregiudizio antimeridionale dov’è?

    Il Museo Lombroso di Torino

    Niceforo, un allievo imbarazzante

    Lombroso ripubblica nel 1897 il suo diario militare giovanile con l’aiuto di Giuseppe Pelaggi, un medico di Strongoli.
    Il perché di questa tardiva operazione editoriale è chiaro: Lombroso, preso di mira dai meridionalisti, deve un po’ sbarazzarsi dell’ingombrante paragone con Niceforo, che a fine Ottocento impazza col suo La delinquenza in Sardegna.
    Ed ecco che il professore di Torino riscopre il suo passato di meridionalista, tra l’altro mai rinnegato né sconfessato dalla sua produzione matura.

    Il pregiudizio antilombrosiano

    Semmai, il pregiudizio vero resta quello contro Lombroso, riesploso all’inizio del decennio scorso, in seguito all’apertura di un Museo a lui dedicato presso l’Università di Torino.
    Sull’argomento è tornato di recente Dino Messina. La firma storica del Corriere ripercorre, nel suo La storia cancellata degli italiani (Solferino, Milano 2012), la vicenda un po’ comica di alcuni gruppi di revisionisti “antirisorgimentali” che hanno tentato di far chiudere il Museo.
    Ma tant’è: ognuno ha la sua cancel culture. Chi ha subito il colonialismo prende di mira la cultura occidentale. Chi, invece, è stato vittima della propria arretratezza, parla a vanvera. A ciascuno il suo.

  • Campora contro Amantea: conto alla rovescia per il divorzio

    Campora contro Amantea: conto alla rovescia per il divorzio

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    La Befana ha portato un comizio agli abitanti di Campora San Giovanni, in vista del referendum previsto per il 22 gennaio.
    Sempreché, beninteso, il Consiglio di Stato, a cui il Comune di Amantea ha fatto ricorso il 19 dicembre scorso, non ci metta lo zampino.
    Infatti, dopo il secondo rigetto del Tar, la parola decisiva spetta a Roma. Toccherà ai magistrati amministrativi di Palazzo Spada decidere se il referendum si farà o meno.
    Intanto, le cose ad Amantea procedono come se nulla fosse.
    Ma andiamo con ordine.

    Graziano e Iacucci in piazza

    I consiglieri regionali Giuseppe Graziano e Franco Iacucci sono stati i mattatori del comizio indetto da Ritorno alle origini di Temesa, il comitato che gestisce la parte “politica” del divorzio tra Campora e Amantea e il conseguente matrimonio con Serra d’Aiello.
    Jonio e Tirreno, centrodestra e centrosinistra, ma core a core, i due hanno arringato il pubblico che ha riempito la piazza della chiesa di Campora.
    A prescindere dai mal di pancia, più o meno tardivi, della politica cittadina. Tra questi, le esternazioni del Pd amanteano, supportate da un tweet della ex deputata Enza Bruno Bossio.

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    Campora San Giovanni by night

    Le contraddizioni del referendum

    E Amantea? Tolta la lamentela dei Dem, per il resto non si batte quasi colpo. Forse si ipotizza un “contro comizio”, che tuttavia non si terrà a Campora, dove le eventuali opinioni contrarie alla “secessione” non sono rappresentate.
    E la partita sembra già chiusa: al referendum voteranno solo i camporesi più i residenti di Coreca e Marinella. E qui emerge una contraddizione non proprio irrilevante: in caso di scissione, le due frazioni resteranno con Amantea, tuttavia i loro elettori parteciperanno al referendum da cui è escluso il resto dei cittadini.
    L’inghippo si chiarisce subito: Campora non voterà solo come territorio (cioè dal fiume Oliva in giù) ma anche come collegio elettorale, che include gli altri due territori.
    Ma non è questa l’unica contraddizione.

    Amantea vs Campora: il ricorso in pillole

    Le altre contraddizioni sono evidenziate nel ricorso confezionato dagli avvocati Mariella Tripicchio e Andrea Reggio d’Aci, che si sono finora misurati davanti al Tar coi loro colleghi Gianclaudio Festa, Oreste Morcavallo e Giovanni Spataro. Cioè, i difensori, rispettivamente, della Regione, del Comune di Serra d’Aiello e di Ritorno alle origini di Temesa.
    Le elenchiamo sbrigativamente.

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    Amantea al tramonto (foto Giovanni Gigliotti)

    Non votano gli amanteani

    Il grosso della popolazione, è noto, non voterà. Per il Tar l’esclusione del resto di Amantea non è un problema.
    Anzi, come recita l’ultima ordinanza di rigetto, «non appare contraria alla legge».
    Ma, a prescindere dall’analisi giuridica, restano sul piatto problemi non proprio secondari.

    Il primo: alcune strutture importantiche servono tutta la città, il porto e il Pip, ricadono in Campora e andrebbero via con essa. Come sarà regolata la futura gestione?
    Secondo problema: il debito. Forse, più delle continue accuse di infiltrazioni mafiose, la vera debolezza della città è il buco nelle casse, stimato approssimativamente in quaranta milioni. Come saranno ripartiti? Resteranno tutti in pancia ad Amantea o Campora se ne porterà una parte pro quota? La legge regionale che istituisce il referendum non risolve il problema.
    Come si vede, si tratta di problemi comuni, su cui deciderà una parte.

    La furbata di Graziano

    La proposta di Graziano, c’è da dire, è piuttosto sofisticata a livello normativo. Infatti, l’idea di accorpare Campora e Serra in un nuovo Comune, Temesa, camuffa con abilità la sostanza dell’operazione: ovvero la secessione di Campora.
    Ma soprattutto elude alla grande l’articolo 15 del Tuel, secondo il quale non sono ammissibili scissioni che generino Comuni al di sotto dei 10mila abitanti e, più che le scissioni, sono incoraggiate le fusioni.

    L’eventuale nascita di Temesa sarebbe una fusione di territori, da cui comunque deriverebbe un Comune con una popolazione di poco maggiore a quella di Campora (in totale poco meno di quattromila abitanti). Amantea, al contrario, resterebbe con 10mila e rotti abitanti.
    Ma siamo sicuri che i numeri siano questi?

    Il consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano (foto Alfonso Bombini/ICalabresi)

    Quanti sono gli amanteani?

    Sulla popolazione di Amantea, c’è un balletto di cifre. Il Tuel dà comunque un’indicazione precisa: i numeri devono derivare dall’ultimo censimento valido.
    Al riguardo, i difensori del Comune forniscono un dato, ovviamente quello che fa più comodo al municipio: 13.272 cittadini residenti. Tolti i 3mila e rotti di Campora, ci si avvicinerebbe alla parcellizzazione del territorio e il referendum sarebbe inammissibile.
    Tuttavia, gira un’altra cifra che supera i 14mila ma include gli stranieri residenti.
    Allora occorre specificare: cosa significa “cittadini”? I cittadini italiani o anche i non italiani iscritti all’anagrafe? Non è sovranismo né xenofobia, intendiamoci.
    Sull’interpretazione di questo punto può aprirsi un dibattito infinito con tante posizioni ciascuna di per sé giusta.

    Altri problemi

    Amantea dista da Campora circa dieci km, ma di strada costiera per percorrere i quali bastano dieci minuti.
    Serra d’Aiello, al contrario dista da Campora otto km, ma sono percorribili (si fa per dire) su una vecchia strada tutta curve. In pratica, sono territori non ancora integrati.
    Né sarebbero integrati, riferiscono i bene informati, gli altri territori che dovrebbero entrare in Temesa nel prossimo futuro: Aiello, dove Iacucci è stato sindaco per quarant’anni, e Cleto.
    Non tutti questi motivi hanno rilevanza giuridica, ma pesano a livello politico.

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    Franco Iacucci

    Di nuovo al voto?

    Resta un ultimo problema sul tappeto: il comma 2 dell’articolo 8 della legge 570 del 1962. Questa norma prevede che i consigli comunali si debbano rinnovare integralmente quando, in seguito a variazioni come quella in corso ad Amantea, i territori varino di un quarto della popolazione.
    Sarebbe così per Amantea, che comunque perderebbe un quarto della popolazione; sarebbe così per Serra d’Aiello, la cui popolazione aumenterebbe almeno di sette volte.
    La norma è stata abrogata o superata? Non risulta.

    Il problema è politico

    Iacucci ha ragione su una cosa: i camporesi si sono sentiti trascurati e hanno agito di conseguenza. Anche, si perdoni il bisticcio, senza guardare le conseguenze.
    Già: Serra è reduce da un dissesto esploso nel 2014 e potrebbe ricascarci assieme a Campora.
    Ancora: la pianta organica del futuro Comune di Temesa potrebbe risultare insufficiente per assumere il personale necessario a gestire il nuovo territorio.
    Sono cose che né il referendum né il riassetto burocratico potrebbero gestire.

    Reperti del Museo di Temesa

    I dolci avvelenati

    Non è solo un problema burocratico, quello che affronterà il Consiglio di Stato. Né lo risolverà il referendum.
    Tra Amantea e quella parte di Campora che vuole la secessione c’è una differenza: gli amanteani stanno trangugiando ora tutti i veleni possibili. Per i camporesi, invece, il veleno verrà dopo, ben nascosto nei dolci della conquistata autonomia.
    Il conto alla rovescia è iniziato e la partita ancora aperta.

  • Da Bruxelles alla Calabria: tutti gli uomini di Cozzolino

    Da Bruxelles alla Calabria: tutti gli uomini di Cozzolino

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    L’Europa è grande e il Qatar è lontano, verrebbe da dire con una battuta.
    Che, tuttavia, non vale nella società globale, come dimostra il recente scandalone che ha colpito l’eurogruppo socialista.
    Riformuliamo: l’Europa è grande e il Qatar è più vicino di quanto non si pensi. E questa vicinanza lambisce anche la Calabria. Per fortuna, la lambisce soltanto.

    Un Cozzolino è per sempre

    Le ultime notizie sul Quatargate riguardano, com’è più che noto, il napoletano Andrea Cozzolino, rieletto per la terza volta all’Europarlamento nel 2019, con 81.328 preferenze.
    Il suo ruolo nello scandalo delle mazzette islamiche non è definito, stando a quanto trapela dalle cronache. E, per elementare garantismo, ci si augura che risulti estraneo ai fatti, che comunque lo sfiorano.
    Ma gli inquirenti belgi, pensano che sotto ci sia qualcos’altro. Altrimenti non avrebbero chiesto la revoca dell’immunità parlamentare, che tra l’altro il Pd è prontissimo a votare.

    Eva Kaili

    Il cerchio magico

    Cozzolino è finito nel tritacarne essenzialmente per il suo rapporto con Francesco Giorgi, uno dei principali indagati e compagno di Eva Kaili, la ex vicepresidente del Parlamento Europeo finita per prima nei guai.
    Giorgi vanta una lunga carriera nel sottobosco dorato dei portaborse europei: ha iniziato come segretario di Antonio Panseri, anche lui tra i principali indagati, ed è passato, dal 2019 in avanti, alla corte di Cozzolino col ruolo di assistente accreditato.
    Tradotto in parole povere: non come collaboratore del gruppo ma della persona.
    Resta legittima una domanda: basta una vicinanza a rendere sospetta una persona? Forse no. E, in effetti, il teorema per cui Cozzolino potrebbe essersi sporcato di fango solo perché datore di lavoro di chi il fango lo maneggiava regge male.
    Ma c’è da dire che l’inchiesta belga non è partita da una “normale” operazione di polizia, ma è la traduzione giudiziaria dei rapporti degli 007.

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    Francesco Giorgi, assistente di Cozzolino e compagno di Kalili, anche lui nei guai

    Cozzolino e la Calabria

    L’eventuale allargarsi dell’inchiesta su Cozzolino chiarirà i reali sospetti sull’eurodeputato.
    Dai dubbi giudiziari alle certezze della politica, sono invece palesi i rapporti tra Cozzolino e la vecchia dirigenza del Pd Calabrese, che nel 2019 è ancora un gruppo forte di potere.
    Lo provano anche i consensi ottenuti da Cozzolino in Calabria: 21.570, circa un quarto degli 81mila e rotti complessivi.
    Ancora: questi 21mila e rotti diventano più vistosi se paragonati a quelli ottenuti da Cozzolino in Campania: 37mila circa.
    Non occorre essere esperti in statistica per capire che il Pd calabrese si sia mobilitato alla grande in favore dell’eurodeputato napoletano.

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    Cozzolino durante una recente visita in Calabria

    I grandi elettori

    Parliamo del Pd calabrese del 2019, che ancora amministra e tiene ben saldi i cordoni della borsa.
    Tra i grandi sostenitori di Cozzolino figurano ex big del livello di Carlo Guccione e Nicola Adamo. E, sostengono i bene informati, anche Mario Oliverio avrebbe fatto la sua parte. A scorrere l’elenco, si ha l’impressione di un partito di fantasmi, perché il potere di allora è semplicemente evaporato.

    L’altro segretario

    La forza del rapporto tra Cozzolino e la Calabria, in particolare il vecchio zoccolo duro del Pd cosentino, emerge da un altro nome: Vittorio Pecoraro, l’attuale segretario provinciale dei Dem cosentini.
    Pecoraro, formatosi a Roma, inizia la sua carriera come renziano al seguito di Stefania Covello. Poi prende la via di Bruxelles. Manco a farlo apposta, sulle ginocchia di Cozzolino, con il medesimo ruolo di Giorgi. Cioè come segretario accreditato.
    Nel 2021, tuttavia, il giovane cosentino lascia la struttura europea e passa a Invitalia.
    Siccome Roma è più vicina a Cosenza di Bruxelles, Pecoraro si mette a disposizione del partito, che punta su di lui per mettere fine al commissariamento con un congresso travagliato (e un po’ bizzarro).

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    Vittorio Pecoraro

    Largo ai giovani

    Quella di Pecoraro non è una scelta della base. Ma è dovuta, in buona parte, all’esigenza politica di curare il legame con l’eurodeputato, che in proporzione agli elettori, ha preso più voti da noi che a casa sua.
    Infatti, i risultati elettorali del giovane segretario sono stati piuttosto deboli: i suoi 28mila e rotti consensi ottenuti alle ultime politiche grazie alla coalizione a quattro guidata dal Pd, lo hanno piazzato terzo dopo la grillina Anna Laura Orrico e l’azzurro, anzi gentiliano, Andrea Gentile. E c’è di peggio: Gentile jr non si è limitato a superare Pecoraro ma, addirittura, lo ha doppiato coi suoi 65mila e rotti voti.

    Il legame vacilla

    A questo punto è lecito chiedersi: che succederà, ora che Letta ha scaricato Cozzolino? A livello giudiziario, niente.
    A livello politico, invece, emerge un paradosso: un ex uomo di Cozzolino guida una segreteria importante di un partito pronto a considerarsi parte lesa anche dall’eurodeputato, se del caso.
    Non resta che aspettare, con una buona dose di garantismo e di scaramanzia gli sviluppi del pasticciaccio europeo. Che, forse, non travolgerà politicamente il Pd calabrese solo perché è già travolto di suo.