Autore: Saverio Paletta

  • Mendicino contro la Regione: quattrini pubblici e palazzi in avaria

    Mendicino contro la Regione: quattrini pubblici e palazzi in avaria

    Il ministero fa, il ministero disfa. E il Comune rischia.
    È il riassunto di un lungo braccio di ferro tra Mendicino, un paesone di 9mila abitanti alle porte di Cosenza, e la Regione Calabria, in cui sono stati coinvolti due sindaci e quattro amministrazioni regionali. Anzi sei, se si considerano gli “interregni” di
    Morale della favola: Mendicino dovrebbe restituire alla Regione circa mezzo milione.
    Se lo facesse, rischierebbe di compromettere il bilancio, che non è tragico come quello del capoluogo, ma neppure troppo allegro.
    L’alternativa è il ricorso, annunciato dal sindaco e ribadito dal responsabile dell’Ufficio tecnico. L’oggetto del contendere è un progetto di edilizia agevolata.

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    Antonio Palermo, l’attuale sindaco di Mendicino

    Il progetto della discordia

    Andiamo con ordine. Tutto inizia in piena era Berlusconi. Per la precisione con il decreto 2295 del 26 marzo 2008, attraverso il quale il Ministero delle Infrastrutture attiva un programma di riqualificazione urbana per alloggi a costo sostenibile.
    L’idea è notevole, come tante cose italiane: riqualificare catapecchie semiabbandonate, col concorso dei quattrini pubblici, e trasformarle in alloggi per i cittadini più deboli senza espropriare nessuno.
    Secondo il ministero, avrebbe dovuto funzionare così: lo Stato mette una parte dei soldi, la Regione un’altra e il Comune, a cui spetta comunque il ruolo di passacarte e controllore, un’altra ancora. Il proprietario mette il resto.
    Chiariamo di più: il pubblico (Stato, Regione e Comune) paga gli oneri di urbanizzazione (allacci fognari, strade da fare o rifare ecc) più parte della ristrutturazione (il 35% del costo di tutti i lavori). Il proprietario dell’immobile ristrutturato, in cambio, si impegna a far gestire il bene per vent’anni al Comune perché lo affitti a chi a bisogno a un canone di assoluto favore. Facile no?

    I quattrini per Mendicino

    Per quel che riguarda la Calabria, a questo progetto non ha aderito solo Mendicino. Lo prova

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    Ugo Piscitelli, l’ex sindaco di Mendicino

    la somma stanziata da Ministero e Regione dal Pollino allo Stretto: 21 milioni, di cui 12.369.217,31 a carico dello Stato e 8.630.782,69 a carico della Regione.
    Mendicino, all’epoca amministrata dallo scomparso Ugo Piscitelli, decide di partecipare. E ottiene l’approvazione di un progetto dal valore di 1.500mila, divisi come segue: 852.900,00 a carico di Stato e Regione, 159.600,00, a carico del Comune, il resto (487.500) a carico dei privati.
    Fin qui tutto bene: il Comune invia i documenti alle amministrazioni superiori, anche in tempi accettabili, e si parte.
    E, nel 2015, Mendicino incassa 481.574,94 euro per le prime due tranche di finanziamento pubblico.

    Iniziano i guai per Mendicino

    Troppo bello per essere vero: il Comune procura case a costi stracciati ai cittadini più bisognosi e, allo stesso tempo, recupera zone del suo centro storico (tra l’altro molto bello, come tanti borghi antichi della Calabria) aiutando i proprietari a ridar vita a immobili altrimenti trascurati.
    Il “ma” è dietro l’angolo: i privati devono anticipare tutto per recuperare il 35% delle somme. Siccome il Ministero tarda (l’approvazione del progetto è del 2012, ma i quattrini arrivano tre anni dopo), alcuni privati si sfilano. E non sono pochi: cinque su undici che avevano aderito.
    A questo punto inizia il braccio di ferro. La Regione chiede chiarimenti, il Comune risponde con documenti e richieste di dilazione.

    Un dettaglio del centro storico di Mendicino

    Il balletto delle cifre

    L’inghippo è questione di numeri. Infatti, la Regione sostiene che, visto che il Comune ha speso troppo in urbanizzazione e troppo poco per gli alloggi, ci sono somme da restituire.
    L’amministrazione di Mendicino, invece, replica che quelle spese di urbanizzazione sono state comunque necessarie (se si rifà una fognatura questa copre tutta la zona, a prescindere se un proprietario si sia o meno tirato indietro).

    La botta

    La Regione agisce in autotutela e, lo scorso 5 aprile, ordina al Comune di Mendicino di restituire i 481.574,94 euro già finanziati.
    In tutto questo, si sono succeduti due sindaci: lo scomparso Piscitelli e l’attuale Antonio Palermo, rimasto col cerino in mano.
    Il duello giudiziario, che si terrà con tutta probabilità al Tar, sta per iniziare. E dal suo risultato dipende la salvezza finanziaria di un’amministrazione che ha essenzialmente una responsabilità: aver aderito a un progetto per avere di più e ora, tra una disfunzione e un’altra, rischia di restare nelle classiche braghe di tela.

  • James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un suddito di Sua Maestà Britannica in Aspromonte. Oggi non farebbe quasi notizia, come tutte le presenze anglosassoni nell’era del turismo di massa.
    A fine anni ’60 le cose erano diverse.
    La Calabria affrontava una transizione importante e sofferta verso la modernità. E uno come Scott, che ne attraversò a piedi le parti interne, poteva fare strani incontri e vivere qualche avventura ancora più strana.
    Per lui tutto questo non era un problema: infatti, era un esploratore di lunga esperienza.
    Che volete che fosse la ’ndrangheta per uno come Scott?

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    James Maurice Scott

    James Maurice Scott in Calabria prima di Montalto

    «C’erano jeep piene di carabinieri armati dappertutto», racconta l’esploratore nel suo diario.
    E prosegue, con tono divertito: «Era stato allestito quello che appariva a tutti gli effetti un quartier generale con le antenne radio e tutto il resto, mentre un elicottero ci girava letteralmente intorno». Di più: «Ero l’unico uomo disarmato e non in uniforme nel raggio di diverse miglia».
    Qualche tempo dopo, Scott apprende il motivo dello spiegamento di forze: «I carabinieri avevano ricevuto una soffiata sul fatto che la Mafia siciliana e quella locale avrebbero tenuto una specie di meeting sull’Aspromonte».
    Non può mancare, a corredo, un tocco di ironia british: «Non posso fare a meno di confessare che io stesso avrei tanto desiderato d’essere arrestato. Avrei potuto tenere banco per anni con quella storia». Già: «Ero rimasto deluso anche perché ero stato già arrestato un’altra volta sui Pirenei». Evidentemente, le Forze dell’ordine italiane erano di tutt’altra pasta rispetto a quelle della Spagna franchista.

    L’appostamento

    Scott non è un mostro di precisione sulle date e nella descrizione dei luoghi. Ma due elementi di questo racconto sono certi.
    Il primo: James Maurice Scott arrivò sull’Aspromonte nell’estate del ’69. Il secondo: in quell’estate le Forze dell’ordine tentavano in effetti di stringere il cerchio.
    Tutto lascia pensare che l’esploratore britannico si sia imbattuto in uno di quei tentativi di retata, coordinati dal questore Emilio Santillo, che avrebbe fatto il colpo grosso qualche mese dopo, con la retata del summit di Montalto, condotta con meno uomini (solo ventiquattro poliziotti) e mezzi.

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    Il questore Emilio Santillo

    Il summit di Montalto

    Il summit di Montalto è in parte una leggenda metropolitana, perché il processo che seguì al blitz si ridusse a poca cosa.
    E si sgonfiò in appello con assoluzioni importanti.
    Eppure le premesse erano golose, almeno per gli inquirenti e per i cronisti.
    Infatti, al megaraduno avrebbero partecipato i capibastone della ’ndrangheta di tutta la Calabria, ad esempio Antonio Macrì, Mico Tripodo, Giovanni De Stefano e Antonio Arena di Isola Capo Rizzuto.
    Più due big della destra, allora extraparlamentare, ma prossima a importanti conati eversivi: Junio Valerio Borghese e Stefano delle Chiaie.
    Non a caso, nell’ordine del giorno del summit c’era l’ipotesi di allearsi con l’estrema destra, che all’epoca era in prima fila nei moti di Reggio.

    Dal summit alla guerra di ‘ndrangheta

    Giusto due suggestioni per gli amanti dei “Misteri d’Italia” e delle relative dietrologie.
    L’ipotesi di alleanza con l’estrema destra, che in parte si realizzò, fu uno dei punti di rottura degli equilibri mafiosi e portò alla prima, terribile guerra di ’ndrangheta.
    Inoltre, il fremito eversivo destrorso prese corpo per davvero: ci si riferisce all’operazione Tora Tora. Ovvero al tentativo di golpe ideato da Borghese. E sul ruolo di Delle Chiaie e della sua Avanguardia nazionale c’è una letteratura corposissima.
    In tutto questo, resta una domanda: cosa ci faceva Scott in Aspromonte in quello scorcio di fine anni ’60?

    Al centro nella foto, Junio Valerio Borghese

    James Maurice Scott l’esploratore di Sua Maestà

    Tornato in Inghilterra, Scott affidò il suo diario di viaggio all’editore Geoffrey Bles, il quale ne ricavò un volume simpaticissimo, stando agli addetti ai lavori, intitolato A Walk Along the Appennines e uscito nel ’73.
    Il libro non è mai uscito in Italia. Solo di recente, Rubbettino ha tradotto e pubblicato la parte calabrese del viaggio di Scott, col titolo Sull’appennino calabrese.
    Ma chi era James Maurice Scott? Le sue biografie danno l’idea di un folle geniale.
    Figlio di un magistrato coloniale, Scott nasce in Egitto nel 1906, si laurea a Cambridge e poi si dà alla sua vera passione: la vita spericolata.
    Le sue bravate sono epocali: nel’36 si propone di scalare l’Everest, ma è escluso per un soffio dal corpo di esploratori britannici. Ma si rifà in guerra, durante la quale è istruttore dei corpi speciali. E gli resta un primato: l’esplorazione del circolo polare artico, per cercare un collegamento rapido tra Gran Bretagna e Canada.
    Poi, nel ’69, praticamente a fine carriera (sarebbe morto nell’86) decide di attraversare l’Italia a piedi. Ma, dopo questo popò di esperienza, il Belpaese per lui è la classica passeggiata…

    Un’immagine di Reggio Calabria durante i moti

    L’ultimo viaggiatore romantico

    James Maurice Scott, una volta varcato il Pollino diventa l’ultimo dei viaggiatori britannici che hanno girato la Calabria in epoche improbabili, con mezzi di fortuna o addirittura a piedi. È il caso di citarne due assieme a lui: Craufurd Tait Ramage (che ci visitò nel 1828) e Norman Douglas.
    Zaino in spalla, bastone in mano e pipa in bocca, Scott ha attraversato l’Italia dalle Alpi a Reggio.
    E si è divertito non poco, soprattutto nel nostro entroterra, dove allora iniziava lo spopolamento. Infatti, nella parte finale del suo viaggio, l’esploratore di Sua Maestà Britannica, racconta aneddoti gustosi e spara sentenze originali e, a modo loro, “affettuose”. Ne basta una sulla Sila.
    Dopo aver paragonato i paesaggi montani calabresi a quelli norvegesi o britannici, Scott spara un giudizio fulminante sulle montagne che sono diventate sinonimo di Calabria: «La Sila non è intrinsecamente italiana, e se imita altre terre tende a farlo meno bene». Una boutade in linea col personaggio.

  • Una villa romana fantasma nel cuore di Rende

    Una villa romana fantasma nel cuore di Rende

    Se nel lontano 1887 le autorità avessero proseguito la ricerca sui resti romani trovati a Rende, forse la storia della città del Campagnano sarebbe stata diversa.
    Quei resti appartenenti a un’antica villa, che risaliva al primo secolo dopo Cristo, si trovano a contrada Molicelle, grosso modo tra il Centro Polifunzionale dell’Università della Calabria e via Settimio Severo.
    Li avessero scavati allora, l’intera zona sarebbe stata musealizzata e forse l’Unical non sarebbe sorta (o sarebbe sorta altrove).
    Di questa villa “fantasma”, scoperta e dimenticata nel classico battito di ciglia, resta un’importante documentazione, conservata negli archivi di Stato di Roma e Cosenza. Vecchi fascicoli che hanno raccolto polvere per decenni, anch’essi a loro modo “rovine” della memoria collettiva.

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    L’archeologa Rossella Schiavonea Scavello

    La riscoperta della villa romana di Rende

    Queste rovine le ha scavate un’archeologa, Rossella Schiavonea Scavello, fresca di dottorato presso l’Unical.
    La studiosa ha dato un primo resoconto della sua particolare ricerca, fatta con macchina fotografica e scanner anziché con pala e piccone, in La scoperta di una villa romana in contrada Molicelle, un saggio pubblicato nel 2015 nella raccolta Note di archeologia calabrese, edito da Pellegrini.
    Ma veniamo al racconto di questa vicenda archeologica a dir poco bizzarra.

    Il cavaliere, i contadini e le oche

    Oggi Magdalone è un toponimo, che indica una zona a cavallo tra Rende e Montalto Uffugo.
    Nel 1887 era un cognome importante: quello del cavalier Giovanni Magdalone.
    Nato nel 1833 e imparentato per parte di madre con Donato Morelli, patriota e supernotabile di Rogliano, il cavaliere possedeva praticamente tutta Arcavacata e una buona fetta del centro storico di Rende.
    I suoi contadini, diretti da un tale Francesco Pellegrini, menzionato come «custode delle oche», fecero la scoperta e la comunicarono a Magdalone, che a sua volta la comunicò al prefetto di Cosenza.

    La planimetria di contrada Molicelle a fine ‘800

    La villa romana fantasma

    Cos’avevano trovato, probabilmente per caso, i contadini di Magdalone? Innanzitutto i resti di un muro esterno, lungo 12 metri e largo 50 centimetri, che doveva essere l’edificio principale di questa struttura.
    Poi, vicinissimi, i residui di un colonnato e dei capitelli in stile jonico, più la prima chicca: un pavimento a mosaico fatto di tanti quadratini bianchi e neri.
    A tre metri di distanza, un trapetum, con due anfore interrate, simili a quelle ritrovate a Pompei. Infine, delle monete con l’effige di Augusto, delle statuine di marmo e un satiro in bronzo.
    Più una seconda chicca, che “apparenta” questa villa fantasma a quella di piazzetta Toscano, nel centro storico di Cosenza: dei tubi in ceramica con un marchio: Clemes Gauri, che probabilmente portavano l’acqua calda in un bagno termale.
    Questo logo d’epoca, secondo Scavello, potrebbe riferirsi a una famiglia importante di San Pietro in Guarano, che gestiva una fabbrica di materiali per l’edilizia. E quindi forniva tutti i ricchi intenzionati a costruire nel Cosentino.

    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall'attuale struttura
    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall’attuale struttura

    Villa o monastero?

    Il tutto, a cinquanta centimetri sotto terra. Per secoli ci si era coltivato sopra e nessuno si era accorto di nulla, o quasi.
    Fatto sta che Giovanni Magdalone, eccitato per la scoperta, si rivolge alle autorità. E queste affidano le ricerche a un big dell’archeologia dell’epoca: Luigi Viola, direttore del Museo di Taranto impegnato nello stesso negli scavi di Torre Mordillo a Spezzano Albanese.

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    L’archeologo Luigi Viola

    Viola visita gli scavi di Molicelle assieme al prefetto il 16 giugno del 1887 e certifica che quei resti sono di età romana. In questo modo, mette la parola fine a un piccolo giallo, scatenato da Fedele Fonte, sacerdote e scrittore dell’epoca.
    Secondo Fonte, quelle rovine sarebbero appartenute al monastero dei Santissimi Pietro e Paolo, andato distrutto nel 1500. Questa notizia, riportata dai giornali dell’epoca, fa un certo scalpore. Soprattutto, attira a Molicelle torme di popolani convinti di assistere a un miracolo.
    In realtà, di questo monastero esistono tracce storiche che indicano una zona diversa: contrada Rocchi. Molto rumore per nulla, quindi.

    Una scoperta minore?

    Partita col botto, la scoperta di Magdalone si arena e, pian piano, perde d’interesse. Forse perché la Calabria di allora ha un altro scoop archeologico che attira tutte le attenzioni (e le risorse). Si tratta di Sibari, di cui in quegli stessi anni entrano nel vivo gli scavi.
    In fin dei conti, quella di Molicelle è “solo” una delle tante villae di cui si sospetta l’esistenza nel Cosentino. Alcune sono state più “fortunate”: ad esempio, quella di Muricelle, a Luzzi, scavata nel 1989, e quella di Squarcio, a Bisignano, scoperta nel 2014.
    Di Rende, invece, nessuna notizia. Tranne quelle trovate da Scavello che ha ricostruito con pazienza tutto il carteggio ottocentesco.
    Viola promette una relazione, almeno per consentire la pubblicazione della scoperta. Tuttavia, sollecitato dalle autorità nel 1894, fa un passo indietro: non ha il personale, si giustifica, che possa scriverla. E la storia finisce qui.

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    La pianta della villa “fantasma”

    I reperti perduti della villa Romana di Rende

    E che fine hanno fatto le monete, i tubi di ceramica e le statue? Persi, o meglio privatizzati: sono finiti agli eredi del cavalier Magdalone.
    E cosa resta degli scavi? Quasi nulla: se li è ripresi la terra. Tutto da rifare.
    «Le uniche tracce provengono dalle riprese aeree dell’aeronautica militare contenute in Google Earth, nelle quali si notano ancora le planimetrie», spiega Rossella Scavello. Inoltre, ci sono «le testimonianze di alcuni anziani del luogo».

    Ma riprendere a scavare è un’altra cosa. Soprattutto, presenta altre difficoltà: «Con la nascita dell’Università, l’area si è parecchio urbanizzata, quindi occorrerebbe sapere dove scavare di preciso». Allo scopo, si dovrebbe iniziare «con metodi non invasivi: le riprese dei droni, il magnetometro e il georadar».
    Nulla di infattibile o di troppo costoso. Certo, servirebbe la classica buona volontà. Ma questa è un’altra storia…

  • Tavernise: una querela a cinque stelle al cantante populista

    Tavernise: una querela a cinque stelle al cantante populista

    C’è sempre uno più puro che ti epura: stavolta non lo dice Pietro Nenni e non si riferisce agli ultrà sinistra vintage.
    Si applica, più prosaicamente, al Movimento 5Stelle e, in questo caso, a Davide Tavernise, capogruppo pentastellato in Consiglio regionale.
    Tavernise, per farla breve, ha querelato il trentenne Michele Amantea per diffamazione. E fin qui la storia non fa notizia. Le cose cambiano se ci mettiamo di mezzo una canzone carica di satira e vernacolo, entrambi al vetriolo.

    Tavernise vs Amantea: le note della discordia

    Querelante e querelato hanno dei tratti comuni: sono coetanei e di Mirto Crosia. Dopodiché le similitudini si fermano.
    Tavernise è rimasto in Calabria e ha fatto una carriera politica lampo (in perfetto stile grillino), Amantea vive e lavora a Milano da anni, dove si dedica anche alla sua grande passione: la musica.
    Al riguardo, gli addetti ai lavori lo conoscono come No Sfondo & Volp Fox, il nome d’arte con cui produce le sue canzoni, piene di rabbia e di denuncia, appena stemperate dall’ironia.
    L’ultimo brano di No Sfondo, Chiné (cioè “Chi è?”), è finito nel mirino di Tavernise, che si è identificato nei versi e ha reagito con le carte bollate.

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    Michele Amantea, in arte No Sfondo & Volp Fox

    Sfida tra populisti

    Che ha detto, anzi cantato, di tanto grave No Sfondo da meritare una querela?
    Nelle rime di Chiné, in effetti, ci sono affermazioni piuttosto dure. Eccone una: «’u vi chi ara fine/sei un disonesto/hai censurato gli ultimi/e con me fai lo stesso».
    Oppure: «Il primo gesto/per il bene collettivo/è stato di comprarti/un macchinone suggestivo».
    Il tutto rappato su un motivo ska, che culmina in un coretto strafottente: «Chiné, chiné/stu consigliere regionale chiné». E via discorrendo.
    Nulla di più e nulla di meno di quel che normalmente ci si rinfaccia nei comizi delle campagne elettorali, che nei nostri paesi sono aspre e pittoresche in egual misura.
    Ma, soprattutto, nulla di diverso dalle accuse che fino a non troppo tempo fa erano il carburante della comunicazione grillina. Accuse che ora vengono spesso rivolte agli ex seguaci di Grillo.

    Ma è davvero Tavernise?

    Classe’91 e laurea in Lettere all’Unical, Tavernise proviene da una lunga gavetta nel M5S più “tradizionale”: per capirci, quello dei Vaffa Day e delle denunce online e non solo.
    Difficile dire se il target di No Sfondo sia proprio il capogruppo pentastellato. E, soprattutto, se sia solo lui: in questi versi ognuno può identificare il politico che vuole.
    Ma questo lo decideranno i giudici, a cui eventualmente toccherà pronunciarsi anche sulla diffamazione, finora solo presunta.

    Chi di populismo ferisce…

    Chiné è uscita a inizio 2023, Amantea ha ricevuto di recente la notifica di querela, depositata lo scorso undici gennaio.
    In attesa degli esiti giudiziari (si spera favorevoli al cantautore, per puro garantismo), resta una considerazione: Tavernise si è arrabbiato perché convinto di aver ricevuto accuse tipicamente grilline.
    Chi di populismo ferisce, di populismo muore, insomma.
    E che dire ai due protagonisti di questa vicenda curiosa, cantautore e politico, se non: canta che ti passa?

  • Volontari in azione: il 2023 ruggente del Csv di Cosenza

    Volontari in azione: il 2023 ruggente del Csv di Cosenza

    Cosenza capitale nazionale della solidarietà per il 2023? «Una scommessa un po’ folle», dice Gianni Romeo, figura storica del terzo settore in Calabria e non solo e, da sette anni, presidente del Centro servizi per il volontariato (Csv) della provincia di Cosenza.
    I numeri sono lusinghieri e a favore dell’iniziativa: 160 associazioni per circa 1.200 volontari sono una base sociale di tutto rispetto. E garantiscono alla città di non sfigurare rispetto agli altri due capoluoghi che l’hanno preceduta nel ruolo: Padova e Bergamo.
    Un risultato così non si improvvisa. Anzi, è il frutto di una lunga storia.

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    Un primo piano di Gianni Romeo

    I Csv: cosa sono

    Iniziamo dal Csv. Esiste dai primi anni ’90 e, come i suoi omologhi nel resto d’Italia, anche quello di Cosenza si rapporta a una “casa madre”: Csv Net.
    Prima della riforma del 2017 esisteva un Centro in ogni provincia, ora ne è previsto uno ogni milione di abitanti.
    Con due eccezioni vistose: Reggio Calabria e Cosenza, che a rigore non coprono il dato numerico.
    E tuttavia, spiega Romeo, «la particolarità del territorio cosentino e la forte presenza di volontari giustificano l’eccezione e il riconoscimento».

    I Csv: come funzionano

    Il Centro servizi per il volontariato è un Ente di terzo settore, che fornisce servizi alle associazioni e promuove la cultura del volontariato.
    Questi servizi sono di varia natura: «Aiutiamo le associazioni a fare convegni o le dotiamo delle attrezzature di cui hanno bisogno», spiega ancora Romeo a titolo d’esempio.
    Quello di Cosenza è piuttosto strutturato: «Abbiamo quattro sportelli: per la precisione, a Fuscaldo, Corigliano, Castrovillari e San Marco Argentano e disponiamo di undici dipendenti part time che, assieme a una coordinatrice, costituiscono la parte tecnica».

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    Gianni Romeo e i suoi volontari

    Servizio civile e lavoro: i nuovi gol del Csv

    Servizio civile e inserimento nel mondo del lavoro. Sono gli ultimi step del Csv di Cosenza.
    Ecco come li racconta Romeo: «Il servizio civile è un settore che conosco molto bene, perché a suo tempo fui obiettore di coscienza. Col Centro di Cosenza abbiamo deciso di inserirci in questo discorso, tra l’altro già praticato da molte associazioni importanti».
    Quest’inserimento è propiziato dalla trasformazione del vecchio Servizio civile in Servizio civile universale. Infatti, prosegue il presidente, «stiamo operando una selezione tra 500 domande di servizio civile».
    Per la formazione lavorativa, «abbiamo avviato un dialogo con la Camera di commercio di Cosenza e siamo in contatto con aziende interessate alla nostra proposta: formare, attraverso il volontariato, dei giovani, immigrati ma anche italiani in difficoltà (penso ai ragazzi delle case famiglia) che possano inserirsi nel circuito produttivo». Una partnership che potrebbe dimostrare «come il terzo settore, tradizionalmente no profit, sia in grado di interagire con l’economia reale senza usurparne le funzioni».

    Due parole su Gianni Romeo

    I Csv non si improvvisano. Ma neppure Gianni Romeo ci si improvvisa, e non è un modo di dire.
    Reggino di origine, classe ’60 e cattolico di formazione, Romeo ha trascorso la quasi totalità della propria vita professionale nel terzo settore, a partire da quando non si chiamava ancora così. «Iniziai nel 1979, quando ancora ero studente all’Unical, come volontario in una storica casa-famiglia: La Terra, che si occupava di minori. Ne divenni presidente e, grazie all’impegno dei volontari, siamo riusciti a dare servizi anche ai migranti e a creare un centro polifunzionale».
    Poi il passaggio successivo, sicuramente più importante, almeno dal punto di vista quantitativo.

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    La premiazione del volontario dell’anno

    Il Banco alimentare

    «Nel 1996 fui tra i promotori del Banco alimentare della Calabria, con cui aiutiamo circa quarantamila persone». Come a dire: il lavoro è tanto, il malessere pure.
    Il Banco alimentare, di cui Romeo è diventato direttore generale, si interfaccia sia coi privati, da cui raccoglie le eccedenze, sia con le associazioni e gli enti no profit accreditati. «Che sono oltre seicento di vario tipo: si va dalle Caritas diocesane alle case famiglia e per ragazze madri per finire con le sezioni locali della Croce Rossa».
    L’impegno di Romeo è tanto e i problemi non mancano.

    Volontari e istituzioni: un dialogo difficile

    I volontari del Banco Alimentare

    A partire dal dialogo, tutt’altro che facile, con le istituzioni. «A livello regionale, purtroppo, non c’è nulla di organico», lamenta Romeo. Che incalza: «Il Csv e le associazioni sono interpellati solo per attività di “supplenza”, cioè per cose che il personale, amministrativo e non solo, che gravita attorno alla Regione, non riesce a fare».
    Con la Provincia, «che è fortemente ridimensionata, anche a livello finanziario», il rapporto è minimo, mentre col Comune di Cosenza «per via della situazione finanziaria tragica» si è prossimi all’assenza.

    L’impegno e la speranza

    «C’è molto bisogno di volontariato, soprattutto in gravi momenti di crisi come l’attuale. E purtroppo non è una frase fatta», chiosa Romeo.
    La ricetta è una: «Strutturarsi a rete col minimo di gerarchia funzionale che serve».
    È opportuno chiarire anche questo concetto: «Per gerarchia non intendo rapporti di “potere” ma responsabilità operativa. Significa soprattutto coordinare e, ripeto, dare servizi».
    Ma ciò non esclude altre forme di organizzazione: «Di recente abbiamo promosso un meeting tra i Csv del Sud, per elaborare progetti comuni su aree più vaste di quelle di stretta competenza dei singoli centri».
    Morale della favola: «Soli non si va da nessuna parte. E, a proposito del volontariato e delle sue difficoltà quotidiane, mi si creda: neanche questa è una frase fatta»

  • Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    A Cutro alcune cose erano scontate. Ad esempio, la protesta pittoresca e ben orchestrata delle sigle autonome e delle associazioni più o meno antagoniste.
    Il lancio dei peluche contro le auto blu e i cartelli esibiti nei pressi della sala comunale che ha ospitato il Consiglio dei ministri, sono stati più che eloquenti.
    Facciamo una sintesi prima di procedere: Giorgia Meloni ha dato la sua versione, anche se con qualche “stecca” di troppo, e i giornalisti l’hanno contestata.
    Ora riavvolgiamo il nastro.

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    Una contestazione a Cutro contro il governo Meloni

    Meloni a Cutro: lancio di peluche e cartelli di protesta

    Le immagini, riportate da tutti i media che contano con perfetto tempismo, sono chiare: lancio di peluche con chiara allusione ai dettagli più struggenti della tragedia, e slogan eloquenti.
    Ne citiamo due, uno più inflazionato dell’altro: «Basta morti in mare», «Non in nostro nome». Retorica a parte, entrambi esprimono l’indignazione di chi chiede una risposta.
    Ed esprimono una parafrasi di certo Sessantotto, in questo caso più addolorato che rabbioso. E ci sta.
    Soprattutto, esprimono l’ansia di territori marginali – e perciò trascurati – che si ritrovano in primo piano solo quando capitano vicende eccezionali per la loro bruttezza.

    Un’immagine simbolo della spiaggia della tragedia

    Cutro protagonista

    Cutro è protagonista e tutta la Calabria è Cutro: quella che si indigna, ma anche quella che vuole risposte. E le chiede in maniera dura.
    Non era, va da sé, risposta quella di Matteo Piantedosi, che ha esibito un’empatia inesistente. Non sono risposte i rimpalli e i balbettii dei vertici amministrativi di chi avrebbe dovuto agire con più efficienza e velocità, magari calpestando i vincoli burocratici e legali che partono dall’Europa (in questo caso, Frontex), continuano nei corridoi dei ministeri e finiscono nei Comandi e nelle Capitanerie più periferici.
    Sono risposte quelle della premier?

    Meloni e il Cdm a Cutro

    Il Cdm di Cutro è servito a due cose: diramare le prossime decisioni sulla questione migranti e difendere il proprio operato politico. Anzi, governativo.
    Il contenuto dei primi è noto: superpene agli scafisti (trent’anni quando i migranti ci rimettono la pelle), superpoteri e superdoveri alle autorità italiane (cioè la possibilità di indagare anche in acque internazionali) e allargamento dei flussi migratori, giusto per bilanciare un po’ a sinistra cose dette a destra ma pensate altrove: cioè ai piani alti dell’Ue.
    E l’autodifesa?

    Le stecche di Giorgia 

    Una domanda di Virginia Piccolillo, tiratrice scelta del Corriere della Sera, scatena la polemica. Era una situazione di soccorso o di sicurezza?
    Il problema è tutto qui. La presidente del Consiglio dà la risposta più comoda: Frontex ha fatto una segnalazione di polizia. Cioè: il caicco non era in difficoltà, poi è rimasto fermo a quaranta metri dalla riva per ore (ma non erano cento, i metri?) perché gli scafisti non volevano farsi beccare.
    Alla fine è naufragato per colpa degli scafisti che volevano darsela a gambe.
    Meloni ha recitato come un mantra l’ordinanza del gip di Crotone e il verbale di fermo dei presunti nocchieri della morte.
    Peccato le stecche, non proprio leggere: la presidente prima dice che Frontex ha avvistato il caicco nelle acque costiere, poi si corregge, richiamata anche dal moderatore. Quaranta chilometri dalle acque costiere, il dato esatto, fa una bella differenza.

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    Il governo al completo durante la conferenza stampa

    La risposta che manca

    Ancora: ma voi credete che il governo non volesse intervenire? Chiede all’uditorio con la classica domanda difensiva. Già: solo che non riferisce quel che è successo tra la segnalazione di Frontex e le prime ore del 26 febbraio.
    Non è una lacuna piccola. Innanzitutto per la tempistica: l’avvistamento è avvenuto alle 22,40 del 25 febbraio, il naufragio tra le 3 e le 4 del mattino del 26. Più di tre ore di differenza.
    In seconda battuta, la lacuna è grossa proprio nei termini della sicurezza che sta tanto a cuore al governo: possibile che in tre ore nessuno si sia mosso di fronte all’ipotesi di uno “sbarco”, per dirla in burocratese?

    Un primo piano di Giorgia Meloni

    Una targa non basta

    Apporre sul municipio una targa commemorativa della tragedia non basta. E non basta trasformare Cutro in Capitale simbolica per poche ore.
    Andrò al PalaMilone, avrebbe promesso Giorgia alla fine della conferenza stampa. Poi la retromarcia: un invito a Palazzo Chigi ai familiari delle vittime.
    Il che tradisce qualcosa di troppo: la considerazione della Calabria come territorio marginale che, in fin dei conti, porta troppe rogne e, persino, un po’ sfiga.
    Infatti, hanno ribadito la premier e Salvini, «oggi abbiamo fatto venticinque salvataggi in mare». Solo in Calabria si muore, quindi.
    E, a proposito di considerazioni: che dire del moderatore che chiede “professionalità” ai giornalisti ma poi dice “Curto” anziché Cutro?

  • Piombo e sangue in Iraq: Calipari, la tragedia eroica di uno 007

    Piombo e sangue in Iraq: Calipari, la tragedia eroica di uno 007

    Nicola Calipari. Un eroico funzionario dello Stato. Oppure la persona giusta nel luogo e momento sbagliati.
    Morto nel compimento del proprio dovere oppure vittima di una tragica fatalità.
    Il calendario scorre e segna, oggi, diciotto anni dalla morte dello 007 originario di Reggio e cosentino adottivo. Ma anche poliziotto cosmopolita, con esperienze all’estero, iniziate nel 1988 in Australia presso la National Crime Authority alla quale fornì la propria collaborazione su un argomento che ogni sbirro calabrese sa a menadito: la ’ndrangheta.
    Ma riavvolgiamo il nastro.

    Il rapimento

    L’Iraq non è una zona sicura. Non lo è, soprattutto, nei primi mesi del 2005, un anno e mezzo dopo la fine della fase principale della Seconda guerra del Golfo, che ha cancellato il regime di Saddam Hussein e destabilizzato il Paese.
    L’Iraq di quegli anni, insicuro per i militari, è addirittura pericolosissimo per i civili.
    Funzionari, volontari o giornalisti.
    Di questa pericolosità fa le spese Giuliana Sgrena, firma storica de Il Manifesto e collaboratrice di Die Zeit.
    La giornalista piemontese, nel febbraio 2005 è a Baghdad, per scrivere dei reportage sulla guerra. Il 7 febbraio 2005 viene rapita vicino alla zona universitaria.
    Poco meno di un mese prima, il 5 gennaio 2005, viene rapita un’altra giornalista: la francese Florence Aubenas, inviata e firma di primo piano di Liberation.

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    La giornalista Giuliana Sgrena

    Terra pericolosa

    Calipari è l’uomo giusto al momento e nel posto sbagliati.
    Lo 007 calabrese si trova in Iraq alle dipendenze del Sismi, il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, di cui fa parte dal 2002, dopo una brillante carriera in Polizia.
    E c’è da dire che opera bene: gestisce alla grande le trattative per la liberazione di Simona Parri e Simona Torretta, due giovani cooperanti italiane. Fa altrettanto bene nei casi di Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, tre vigilanti italiani, anch’essi sequestrati da sedicenti jihadisti.
    Le cose, invece, vanno meno bene per il vigilante Fabrizio Quattrocchi, rapito il 13 aprile 2004 e ucciso in favore di telecamera il giorno successivo. E per il giornalista e blogger Enzo Baldoni, rapito il 21 agosto 2004 e ucciso presumibilmente cinque giorni dopo.

    A tu per tu con la Jihad

    Per Calipari l’affaire Sgrena è praticamente routine.
    Con una variante: di tutti i rapiti, la giornalista piemontese è la figura più nota. Per lei, infatti, si mobilita una buona parte dell’Italia “che conta”, a partire dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
    Non solo: anche una fetta dell’Islam sunnita scende in campo.
    Ma cos’hanno in comune tutti questi rapimenti?

    Un’immagine dell’Iraq post Saddam

    Terroristi farlocchi

    C’è un sospetto pesantissimo: tutte le sigle, più o meno “integraliste”, sarebbero in realtà gruppi criminali comuni.
    Le richieste, dopo i rapimenti, sono praticamente simili: via le truppe italiane. Ma tutto si sarebbe risolto col classico pagamento di un riscatto. Anche, secondo alcune fonti, per la Sgrena. Il problema si complica: come fa un Paese occupante a trattare senza perderci la faccia? Per questo la parola passa ai Servizi segreti.
    E non si sarebbe saputo niente, se Nicola Calipari non ci avesse rimesso la pelle.
    Ma riavvolgiamo ancora il nastro.

    Il supersbirro odiato dalla ’ndrangheta

    Classe ’53, formazione cattolica e laurea in Giurisprudenza, Nicola Calipari entra in Polizia nel 1979, dove fa una carriera fulminante, prima a Genova poi a Cosenza, dov’è capo della Squadra mobile negli anni terribili della guerra di mafia.
    Di lui ha parlato il pentito Dario Notargiacomo, già “notabile” della cosca Perna-Pranno. A suo dire, proprio Franco Perna lo avrebbe voluto morto.
    E forse la trasferta in Australia è dovuta alla necessità di sottrarre Calipari ai killer, che avevano fatto già fuori Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza.
    Tornato in Italia, il superpoliziotto riprende la carriera a Roma, dove scala di nuovo i gradini fino a lambire incarichi governativi. Resta un interrogativo: come mai un poliziotto diventa uno 007 per il Sismi anziché per il Sisde (i Servizi segreti civili)?
    Mistero. O forse no. Forse aveva ragione Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati a dire che i militari sono pessimi agenti segreti. Ed ecco che i Calipari prestano aiuto. Anche a prezzo della vita.

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    Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati

    L’epilogo

    La sera del 4 marzo 2005 Nicola Calipari è in auto. Siede sul sedile posteriore, vicino a Giuliana Sgrena, appena liberata. Alla guida c’è Andrea Carpani, maggiore dei carabinieri, anche lui in forza al Sismi.
    L’auto è diretta all’aeroporto di Baghdad e, per arrivarci, passa per la Route Irish, dove c’è un check point statunitense.
    L’autista e i due passeggeri non hanno il tempo di capire cosa sta succedendo: prima li abbaglia un potente fascio di luce, poi diventano bersaglio di raffiche di proiettili.
    Sgrena e Carpano restano feriti. A Calipari, che si getta addosso alla giornalista, va peggio: un proiettile lo colpisce alla nuca e muore sul colpo.

    Il mistero della Seconda repubblica

    La morte dello 007 apre un braccio di ferro militar-diplomatico tra Italia e Usa.
    L’inchiesta appura che a sparare le pallottole fatali è Mario Lozano, un mitragliere dei marines, che finisce sotto processo nel suo Paese e in Italia.
    Americani e italiani litigano come possono, cioè nei limiti consentiti dal comune impegno militare che costa tante vite a entrambi.
    Secondo gli americani, l’auto su cui viaggiano Calipari e Sgrena era in eccesso di velocità e non si sarebbe fermata all’alt. Secondo gli italiani, invece, il veicolo viaggiava a velocità contenuta (circa 50 chilometri orari) e, ha aggiunto Sgrena, non ci sarebbe stato alcun check point visibile.

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    Mario Lozano, il marine che uccise Calipari

    Il sospetto atroce

    Tra le due versioni si insinua un sospetto: gli americani non gradiscono la facilità con cui l’Italia paga i riscatti alle sedicenti sigle jihadiste autrici dei rapimenti e dei relativi ricatti.
    E non a caso si è ipotizzato il pagamento di 5 milioni di euro per la liberazione della giornalista.
    La vicenda giudiziaria, iniziata tra mille polemiche e coi riflettori puntati, si è risolta in nulla: gli Usa assolvono Lozano dall’accusa di omicidio, ma l’Italia non può procedere, perché la competenza giudiziaria sulla vicenda, verificatasi in Iraq, è americana.

    Cosa resta dell’eroe

    Il ruolo e l’attività di Nicola Calipari sarebbero dovute restare anonimi, come da tradizione dei Servizi segreti, non solo italiani.
    E invece no: Calipari muore da eroe e, col suo sacrificio, riabilita i Servizi, bersaglio fino ad allora di una letteratura giornalistica a dir poco avversa e spesso a ragione.
    Secondo Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di intelligence, la morte di Calipari segna uno spartiacque. E probabilmente accelera la riforma dei nostri Servizi. Ma questa è un’altra storia.
    Calipari ha lasciato due figli e una vedova, Rosa Villecco Calipari, diventata poi senatrice del Pd, cioè in quell’ambiente postcomunista che, tranne poche eccezioni, aveva preso di mira i Servizi. Anche questa è un’altra storia.

  • Tragedia di Crotone: l’apocalisse vista dai superstiti

    Tragedia di Crotone: l’apocalisse vista dai superstiti

    Una manovra sbagliata e poi lo schianto.
    Il mare non perdona, specie quando è molto agitato. A forza 7, come abbiamo appreso dai primi lanci di agenzia, subito rimbalzati sui tg.
    Foce è una spiaggia di Steccato, a sua volta frazione di Cutro, poco meno di 10mila anime in provincia di Crotone. Uno di quei luoghi che qualcuno ogni tanto ricorda come meta turistica e qualcun altro associa a un campione di scacchi del XVI secolo.
    Ma dal terribile 26 febbraio questa zona sarà ricordata anche come teatro di una strage di migranti. Di cui emergono alcuni dettagli inquietanti: sessantaquattro persone sono morte non per un incidente, ma per “presunta” colpa degli scafisti. E, ciò che è peggio, vicino a quella meta pagata cara: ottomila euro per migrante.

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    Soccorritori e forze dell’ordine in azione

    Strage di Cutro: gli indagati

    Tre turchi, due pakistani di cui un minorenne, e un siriano: sarebbero loro gli scafisti responsabili del viaggio della speranza finito in tragedia.
    E questa tragedia sarebbe dovuta al panico scatenato non dalla tempesta ma da alcune luci a riva: pensavano che fosse la polizia e avrebbero tentato una folle inversione di rotta. Proprio questa manovra avrebbe causato l’incidente.
    Usiamo i condizionali per mero garantismo. E per lo stesso garantismo non facciamo nomi: queste cose spettano all’autorità giudiziaria.
    Ma quattro superstiti, interrogati dalla polizia il 27 febbraio, non hanno dubbi. Identificano gli scafisti e ricostruiscono nel dettaglio quei minuti concitati.

    Strage di Cutro: il caicco marcio

    I primi testimoni sono tre stranieri: due bielorussi e un romeno. Pescatori che si trovavano sulla spiaggia alle 4 del mattino e hanno visto tutto: gli sos lanciati con le luci dei cellulari, la barca che si rovescia e si spacca e le persone che finiscono in mare.
    Nel gergo nautico si chiama caicco: è un’imbarcazione di medie dimensioni, nata come peschereccio e poi usata per le crociere.
    Ma il caicco, piuttosto comodo per un numero di passeggeri ridotto, può diventare una trappola quando a bordo ci sono dalle 140 alle 180 persone, a seconda delle ricostruzioni. Ed è pericoloso quando è in pessime condizioni. E quello naufragato a Crotone era addirittura marcio, come ha riportato qualche media.

    Il relitto visto dall’alto

    Strage di Cutro: la partenza

    Non si scappa solo dai drammi epocali, come le guerre. Ma anche dai drammi quotidiani, come la miseria e la mancanza di prospettive.
    Le storie di questi migranti sono simili: partenza dal paese di origine. Arrivo e permanenza in Turchia con un solo desiderio: raggiungere l’Italia, il primo approdo in quell’Europa considerata da molti la salvezza.
    Uno di loro è rimasto a Teheran un anno. Vi ha lavorato alla meno peggio e poi ha tentato la sorte in Turchia. La prima volta gli va male: le autorità lo arrestano e lo costringono a restare in un campo. Poi, dopo il terremoto, i controlli saltano, lui riesce a scappare e si imbarca.
    Un altro proviene dall’Afghanistan, altro teatro tragico. Resta in Turchia un anno, dove lavora come può. Poi si imbarca.
    I soldi del “biglietto” sono versati, di solito, a qualche agenzia compiacente che attiva l’organizzazione.

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    Una tutina da neonato: l’immagine simbolo della tragedia

    La parte finale dell’imbarco è uguale per tutti: permanenza in una “safe house”, un covo lontano da occhi indiscreti, in questo caso nei pressi di Istanbul. Poi un viaggio via terra a bordo di pick up e finalmente l’imbarco a Cesme: è il 22 febbraio.

    Strage di Cutro: il contrattempo

    La nave, racconta uno dei testimoni, sembra bella: è rivestita di vetroresina di color bianco. E sarebbe persino confortevole.
    Peccato solo che il motore sia andato. Infatti, dopo poche ore, gli scafisti sono costretti a chiedere aiuto. Arriva la seconda imbarcazione, il caicco, su cui salgono lo scafista siriano e i migranti. E il viaggio riprende, da una bagnarola all’altra.
    Ma queste bagnarole sono preziose, per gli scafisti e per chi li manovra. Infatti, racconta un testimone, i quattro accompagnatori si sarebbero impegnati solo a “sbarcare in sicurezza” i migranti. Quindi non a chiedere soccorso se le cose si fossero messe male.
    Di più: gli scafisti avrebbero dovuto portare indietro la barca. Questi dettagli, se confermati, spiegherebbero tanto. Troppo, forse.

    Strage di Cutro: vietato comunicare

    Gli scafisti, per fortuna, non sono violenti. Ma rigidi sì: vietato fare filmati a bordo. Vietato, soprattutto, comunicare finché non si arriva a destinazione.
    Per precauzione, l’equipaggio della bagnarola utilizza uno Jammer, un disturbatore di frequenze che blocca i segnali dei cellulari.
    I migranti potranno telefonare solo per dire che tutto è andato bene e, quindi, per sbloccare le somme che finiranno nelle casse dell’organizzazione.
    È successo anche questo, a cento metri dalle coste di Cutro: vocali lanciati dai migranti poco prima del naufragio. Una beffa nella beffa: la costa vicina ma impossibile da raggiungere e il messaggio rassicurante (ai parenti rimasti in patria e all’organizzazione) e, pochi minuti dopo, il disastro.

    Un momento dei soccorsi

    Strage di Cutro: il linciaggio

    Sono le prime ore del mattino del 26 febbraio. Impossibile sbarcare in sicurezza. Ma impossibile anche restare in mare.
    I passeggeri vedono la costa e protestano. Gli scafisti hanno paura e tentano di tornare al largo. Poi, quando si accorgono che la bagnarola imbarca acqua, gonfiano un gommone e mollano i migranti alla loro tragedia.
    I carabinieri del Nucleo radiomobile arrivano alle 4,30, soccorrono i primi superstiti e portano a riva i primi cadaveri.
    Un migrante li avvicina e identifica uno degli scafisti: un turco, che è il principale indiziato. Occhio agli orari: una pattuglia di terra della Guardia Costiera arriva alle 5,30, circa un’ora dopo. Giusto in tempo per consentire ai militari di sottrarre lo scafista al linciaggio dei superstiti.
    Siamo garantisti, d’accordo: ma si può pretendere altrettanto da chi ha visto annegare i propri cari a pochi metri dalla costa? E cosa si può provare nei confronti di chi non ha lanciato l’allarme perché una bagnarola è più importante della vita dei passeggeri?

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    I detriti del caicco in spiaggia

    Strage di Cutro: gli interrogatori

    Tutti i testimoni concordano su quel che è avvenuto in quelle ore terribili. E tutti riconoscono gli scafisti dalle foto.
    Già: i migranti non potevano scattare foto a bordo. Ma loro, gli scafisti, si riprendevano con la massima tranquillità.
    Ancora: i carabinieri hanno trovato addosso al primo indiziato – quello sottratto al linciaggio – passaporto, carta d’identità, patente, cinquecento dollari in banconote e quattro carte di credito. Bastano a distinguerlo dal resto dei passeggeri?
    Per tre persone gli inquirenti hanno emesso il fermo. Gli altri sono ricercati. E il resto è cronaca e polemica. E lacrime.

  • Autonomia differenziata, parla Esposito: Bonaccini? È come Calderoli

    Autonomia differenziata, parla Esposito: Bonaccini? È come Calderoli

    L’autonomia differenziata? «Ci spingerà ancor più verso la desertificazione».
    Parola di Marco Esposito, firma storica de Il Mattino, esperto di economia (esordì con Milano Finanza) e osservatore attento delle politiche nazionali più pericolose per il Sud.
    Lo ribadiscono due saggi, diventati instant classic: Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e Fake Sud (Piemme, Milano 2020), nel quale fa il punto, con grande acume critico, sui pregiudizi antimeridionali ma anche sugli eccessi di certo meridionalismo.
    Il primo obiettivo polemico di Esposito è stato il federalismo fiscale. Quello attuale è l’autonomia differenziata. Su cui ha parlato di recente a Cosenza.
    Ma, specifica il giornalista napoletano, «io non ho pregiudizi verso l’autonomia differenziata in sé».

    Allora dov’è il problema?

    «Nella sua applicazione, ovviamente. Non ho alcun pregiudizio nei confronti delle autonomie. Semmai, occorre capire che non si può parlare di decentramento o accentramento in astratto: dire a priori che un sistema accentrato alla francese sia meglio di un sistema federale, come quello tedesco, è una sciocchezza»

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    Marco Esposito

    Però sei in prima fila nel contrasto al ddl del governo Meloni…

    «Certo, ma questo contrasto è anche critica allo status quo. Noi ci opponiamo all’autonomia differenziata perché, così com’è concepita, aumenterà i divari nel Paese, che invece vanno colmati»

    Calderoli e vari esponenti dell’attuale coalizione di governo negano o minimizzano questo rischio.

    «È scontato che l’oste difenda il proprio vino, in questo caso ben fermentato in cantine leghiste. Mi permetto di ricordare che, dietro questo ddl ci sono i referendum promossi in Veneto e Lombardia nel 2017. Entrambi su iniziativa di Roberto Maroni e Luca Zaia, che provengono dalla vecchia Lega di Bossi»

    Ma non si può gettare la croce solo sulla Lega. Anche la sinistra, a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione ha calpestato qualcosa…

    «Per l’autonomia differenziata, ricordo una foto del 28 febbraio 2018. Questa foto ritrae Stefano Bonaccini assieme a Maroni e Zaia durante la firma dei tre accordi sulle autonomie assieme a Gianclaudio Bressa, allora sottosegretario in quota Pd del governo Gentiloni»

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    Tutti assieme appassionatamente: da sinistra, Maroni, Bressa, Zaia e Bonaccini

    Vogliamo ricordare il contenuto di quegli accordi?

    «Fissano i fabbisogni standard delle Regioni sulla base di due elementi: la demografia e il gettito fiscale. Se i requisiti sono questi, è ovvio che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che sommate sono più di un terzo della popolazione nazionale, faranno la parte del leone». Teniamo presente inoltre, che l’autonomia differenziata include Sanità, Scuole e Infrastrutture, che riceveranno più o meno finanziamenti a seconda dei territori»

    E quindi, per tornare a Bonaccini?

    «Quando Bonaccini afferma che non saranno toccati i Lea (Livelli essenziali di assistenza) e i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) dice una fake, né più né meno di Calderoli»

    Insomma, questa riforma sembra fatta apposta per danneggiare il Sud

    «Questa riforma riflette la volontà di dare maggiori diritti lì dove ci sono maggiori ricchezze. Che il Sud sia danneggiato da tutto questo, è una conseguenza. Ma non solo il Sud: l’Italia presenta, anche nel Centro-Nord, una geografia economica a macchie di leopardo. Quindi alcuni territori settentrionali, penso al Piemonte, subiranno dei danni»

    Stefano Bonaccini

    Ma il problema non è solo economico…

    «No. Questo ddl mette a repentaglio la coesione del Paese. Se i residenti della Lombardia ricevono più cure o cure migliori rispetto a chi vive in Calabria o in Campania, il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione va a farsi benedire»

    Non che ora questa situazione non ci sia…

    «Sì, ma l’autonomia differenziata la istituzionalizza. E lo fa senza interpellare gli amministratori più a contatto coi territori e i loro problemi»

    Cioè?

    «I sindaci e gli amministratori locali. L’autonomia differenziata, così com’è concepita, si basa sulla dialettica tra governo centrale e Regioni. Quindi, il sindaco di Napoli o quello di Reggio Calabria, due città metropolitane importanti, non hanno diritto di parola?»

    A proposito di sindaci: la “rivolta” contro l’autonomia differenziata ne vede molti sulle barricate, almeno al Sud

    «Sì e per due motivi: conoscono i problemi del territorio e sono eletti direttamente dai cittadini. Ricordo che quando sollevai il problema dei finanziamenti agli asili nido, presero posizione molti amministratori locali»

    Roberto Calderoli

    Però è strano che un giornalista debba dire ai politici come risolvere i problemi

    «Il giornalista che riesce a smuovere le coscienze fa il suo dovere. Non altrettanto si può dire dei politici che non prendono iniziative forti»

    È solo colpa dei politici?

    «Diciamo che il metodo di selezione della classe politica nazionale non aiuta. I parlamentari sono letteralmente cooptati dalle segreterie, quindi obbediscono a logiche di scuderia in cui le esigenze dei territori pesano poco. Inoltre, la tendenza ad allinearsi è dovuta anche a un certo meccanismo mediatico: se si sostengono certe tesi, si finisce sulla stampa e nelle tv che contano. Quando ci si lega ai territori, invece, si ottiene al massimo una visibilità di tipo locale»

    Tuttavia neppure i sindaci sono immuni da questo rischio

    «Più il Comune amministrato è grande, più i sindaci tendono ad allinearsi a logiche partitiche. Ma la dimensione locale e il contatto coi territori fanno da freno. Non è un caso che proprio i sindaci costituiscano oggi una sorta di opposizione civica»

    E i presidenti di Regione?

    «Il loro ruolo è più politico, quindi la tentazione di allinearsi per salire di gradino nella carriera è maggiore»

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    Una manifestazione contro l’autonomia differenziata

    Torniamo all’autonomia differenziata. C’è un aspetto del ddl su cui insistono in pochi: l’impatto sulla struttura costituzionale

    «è una vera e propria riforma dello Stato, operata al di fuori della Costituzione e in cui il Parlamento ha un ruolo marginale»

    Chiariamo di più

    «Allora, l’Italia è un Paese a regionalismo unitario. Tuttavia, le Regioni a statuto speciale hanno più poteri dei Lander tedeschi, che fanno parte di un sistema federale. Per capirci la piccola Valle d’Aosta ha più autonomie dalla Baviera, che è la zona più ricca d’Europa. Con le autonomie differenziate si arriverà al paradosso per cui alcune Regioni a statuto ordinario avranno, nei fatti, più potere di gestione delle Regioni a statuto speciale. Se questa non è una riforma costituzionale…»

    Che tuttavia esclude le istituzioni che dovrebbero farla…

    «Appunto. Il ddl minimizza il ruolo del Parlamento e degli attori istituzionali e “vola” sulle teste dei cittadini. Non proprio quello che dovrebbe accadere in una democrazia»

  • Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe poi l’abbandono. E nessuna soluzione in vista per il castello di Amantea, un rudere maestoso che domina la collina a strapiombo sul mare.
    Il castello e la torre – o meglio, i resti di entrambi – sono solo una parte, la più vistosa, di un problema più ampio: il pianoro su cui sorge l’antica roccaforte, circa 36mila metri quadri di terreno agricolo.
    L’insieme è un’unica proprietà privata, divisa tra tre eredi: Giuseppe, Giovanni e Giacinto Folino, che ne hanno quote diseguali.
    Dov’è il problema?

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    Il rudere della torre sullo sfondo del mare

    I problemi del castello di Amantea

    Ricapitoliamo: una grossa proprietà limitata da due vincoli pesanti. Il primo è la sua natura agricola, che consente un’edificabilità molto limitata.
    Il secondo è dovuto alla presenza dei ruderi, che ovviamente sono classificati come beni d’interesse storico-culturale.
    Mantenere questo popò di roba senza metterla a frutto è un problema per chiunque.
    A tacere dei costi di manutenzione, effettuata poco o nulla nell’ultimo ventennio e non per responsabilità dei proprietari. Cosa si aspetta ad acquisirla nel patrimonio pubblico?
    Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, un po’ di storia.

    Il castello e l’assedio di Amantea

    Il castello è legato a una vicenda storica importante: l’eroica resistenza dei manteoti, guidati dal capitano Rodolfo (o, secondo alcune fonti, Ridolfo) Mirabelli, alle truppe napoleoniche.
    L’assedio dura poco più di un anno tra alterne vicende.
    Alla fine i francesi, comandati dal generale Jean Reynier, espugnano il castello in maniera spettacolare.
    Dapprima, a fine gennaio 1807, bombardano a tappeto le mura e la cittadella interna con due cannoni pesanti e un obice, posizionati nelle colline circostanti.
    Poi, il 5 febbraio, arriva il colpo di grazia: una mina da 1.900 libbre (633 kg) di polvere da sparo esplode sotto una parete del castello, che crolla. A questo punto, chi può scappa e Mirabelli tratta con gli assedianti. Amantea capitola due giorni dopo. Tuttora la zona di questa prima breccia si chiama ‘a Mina.

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    I resti delle mura difensive

    Un lungo declino

    Tutto questo spiega perché il castello è un rudere. Ma non aiuta a capire come mai sia finito in mani private.
    Il motivo è semplice: già c’era. Infatti, i terreni protetti dalla rocca sono in origine proprietà, in larga parte, dei Frati Minimi che li coltivano addirittura a grano.
    Le successive espropriazioni favoriscono il passaggio di mano in mano del pianoro, ruderi inclusi, fino alla famiglia Folino. Ed eccoci di nuovo al XXI secolo.

    L’esproprio infelice del castello di Amantea

    Il primo che prova a espropriare è Franco La Rupa. Il votatissimo (e poi discusso e infine plurinquisito) ex sindaco di Amantea, ordina l’occupazione dell’area del castello il due ottobre del 2000.
    Per il Comune, l’occupazione è il primo step di un processo più complesso, che dovrebbe finire con l’espropriazione, per realizzare il rifacimento del centro storico della cittadina. Peccato solo che la procedura non sia a prova di bomba.
    Infatti, la famiglia Folino impugna il provvedimento e stravince.
    La prima volta al Tar di Catanzaro, nel 2001, e la seconda al Consiglio di Stato, nel 2006.
    Dalla duplice vittoria emerge un dato: il Comune ha occupato illegittimamente una proprietà privata.

    Il rudere della torre in primo piano

    Il duro negoziato

    Questa vittoria non comporta l’automatica restituzione del bene.
    L’era La Rupa è finita. Al suo posto c’è Franco Tonnara, che tenta un negoziato con la proprietà attraverso il proprio assessore ai Lavori pubblici: Sante Mazzei, che tra l’altro conosce bene il problema, perché è stato sindaco poco prima di La Rupa.
    Il Comune propone non l’acquisto, bensì l’acquisizione del castello ai proprietari.
    La differenza tra questi due concetti non è proprio leggera: l’acquisto è una normale compravendita, l’acquisizione, invece, è un esproprio soft. In parole povere: il Comune prende il bene con un decreto, ma lo paga secondo una stima effettuata da uno o più esperti.
    L’esperto ingaggiato dal municipio è Gabrio Celani, che valuta tutto. Ma, pare, in maniera insoddisfacente per i proprietari.

    Riprende il duello sul castello

    A questo punto, la faccenda, già non semplice di suo, si complica di brutto.
    Innanzitutto, per le vicissitudini politiche della giunta Tonnara, che subisce un commissariamento per mafia e torna in carica dopo un lungo duello giudiziario. Il quale, tuttavia, non serve granché: gravemente malato, il sindaco muore e si torna a una gestione provvisoria.
    Anche l’aspetto giuridico non è da meno, perché i Folino propongono un compromesso: il Comune acquisisca pure, loro faranno un ricorso solo per il prezzo.
    Ma anche quest’ipotesi salta.

    Le erbacce infestano il pianoro del castello

    La vittoria inutile

    Si arriva al 2021, un anno decisivo nella storia contemporanea del castello. Il 10 marzo 2021, la famiglia Folino, difesa dall’avvocato Stanislao De Santis, ottiene la sua terza vittoria contro il Comune, difeso dall’avvocato Gregorio Barba.
    Stavolta il Tribunale amministrativo mette nero su bianco che l’occupazione iniziata nel 2000 è illegittima.
    E mette il municipio con le spalle al muro: o acquisisce il bene oppure lo restituisce e paga i danni, che verranno quantizzati dal giudice, e i canoni, stimati nel 5% del valore commerciale del pianoro, del castello e della torre. Il risarcimento non si annuncia leggero, perché il valore commerciale non è piccolo.
    Nel frattempo, il rudere perde qualche pezzo e il terreno stesso denuncia un immediato bisogno di manutenzione. Che però i proprietari non possono assicurare, perché il bene risulta tuttora occupato.

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    Altri resti del bastione

    I nuovi negoziati

    I bene informati riferiscono di una ripresa dei contatti tra i proprietari e il Comune, che nel frattempo è uscito dal recente commissariamento per mafia ed è amministrato da Vincenzo Pellegrino, eletto lo scorso giugno.
    Non si sa a che punto sia l’abboccamento. Quel che è certo è che c’è un bene di grande valore culturale che dev’essere messo in sicurezza e – magari attraverso un restauro conservativo – potrebbe essere messo a frutto e restituito alla comunità.
    Certo, la situazione finanziaria di Amantea non è florida e i problemi politici sono all’ordine del giorno, come dimostra il recente tentativo di “secessione” di Campora, la frazione ricca e popolosa che confina con Falerna. Ma si apprende pure che i proprietari sarebbero disposti ad accontentarsi.
    La parola, a questo punto, dovrebbe passare al buonsenso.

    (Le foto dei ruderi del castello sono opera di Giuliano Guido. Le pubblichiamo su sua gentile concessione)