Autore: Saverio Paletta

  • Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è commissariata. Ed è il caso di dire, senza troppi “forse”: finalmente.
    E non perché si ritiene lo scioglimento per mafia una salvezza. Al contrario, la città del Campagnano subirà quel che di solito subiscono i Comuni in situazioni simili: la paralisi.
    Tuttavia, lo scioglimento ha un pregio politico non proprio trascurabile: cala il sipario su un’esperienza amministrativa finita almeno da un anno, travolta dai problemi giudiziari personali dell’ex sindaco Marcello Manna e dalle inchieste, antimafia e non.
    Le quali hanno colpito non solo i vertici politici, ma hanno danneggiato in profondità anche l’amministrazione.
    I problemi non finiscono qui: Rende non è una città piccola né secondaria. E il suo scioglimento rischia di avere conseguenze oltre i confini municipali.
    Ma andiamo con ordine.

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    La Prefettura di Cosenza (foto C. Giuliani) – I Calabresi

    Scioglimento di Rende: come vola la notizia

    Il tam tam è iniziato dopo le 22 del 27 giugno: prima sono volati gli screenshot del sito del Ministero dell’Interno (o della Presidenza del Consiglio), via What’s App o social. A bomba, è arrivato qualche articolo, arronzato alla meno peggio o preimpostato come i “coccodrilli” più classici: segno che varie redazioni attendevano lo scioglimento.
    In realtà, l’annuncio è stato meno spettacolare è più mesto: un comunicato del governo affogato tra varie note, dedicate agli argomenti più disparati, tra cui le nuove regole del Codice stradale, l’abolizione di normative ottocentesche e un altro commissariamento, stavolta a Castellamare di Stabia. Anche questo è un segno: fuori dalla Calabria, Rende è una cittadina che pesa solo i suoi 35mila abitanti. In Calabria, le cose vanno altrimenti: silenzi imbarazzati dai vertici regionali, dichiarazioni più o meno di circostanza. Più qualche posa giustizialista e l’annuncio, fatto da quel che resta dell’attuale ex amministrazione, di un ricorso al Tar.
    Fin qui siamo negli atti dovuti e nelle ipotesi. Torniamo al presente.

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    L’ex sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il collasso della città unica

    C’è poco da essere garantisti sullo scioglimento per mafia. Questa procedura segue criteri di pubblica sicurezza, anche sganciati dagli esiti dei procedimenti giudiziari.
    Un esempio lampante è il recente scioglimento per mafia di Amantea, operato in assenza di inchieste della magistratura. Rende, oggetto di inchieste tuttora in corso ma non concluse, non fa eccezione, anzi.
    Finora hanno fatto tutti più o meno a gara a ricordare quell’autentico mostro, a metà tra il vespaio e il labirinto, che è Reset, l’operazione della Dda da cui è partito tutto.
    E qualcun altro, anche correttamente, ha raccontato che questa non è la prima volta che Rende è finita nel mirino di una commissione d’accesso. Oltre dodici anni fa era toccato alla vecchia guardia riformista. Ma Rende aveva evitato il commissariamento e il vecchio nucleo dirigente, che pure aveva passato qualche guaio, è uscito finora intero dalle attenzioni della Dda.
    Con Manna le cose cambiano: la città è sotto torchio e rischia di travolgere il processo politico-amministrativo predisposto dalla Regione, da cui dovrebbe nascere la Grande Cosenza. Vediamo come.

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    L’aula bunker di Lamezia, dove si svolge Reset

    Ordinaria amministrazione

    Sappiamo alcune cose. Innanzitutto, i nomi dei commissari che gestiranno Rende per i prossimi diciotto mesi: il prefetto a riposo Santi Gioffrè, la viceprefetta di Cosenza Rosa Correale e Michele Albertini, dirigente di seconda fascia della prefettura di Brindisi.
    Questa terna avrà due compiti: certificare la presenza mafiosa nel Comune di Rende e quindi metterla in condizioni di non nuocere; gestire l’ordinaria amministrazione.
    E qui casca l’asino.
    Riavvolgiamo il nastro: il disegno di legge regionale da cui dovrebbe derivare la fusione di Cosenza, Rende e Castrolibero in un Comune unico, prevede due passaggi e un termine finale.
    I passaggi, ricordiamo, sono: referendum consultivo tra i residenti delle tre città e gestione guidata da un commissario che dovrebbe portare la nuova città alle sue prime elezioni.
    La deadline è prevista a febbraio 2025. In pratica alla scadenza più o meno secca dei diciotto mesi di commissariamento di Rende.
    Andiamo di nuovo con ordine. Per il referendum consultivo, che dovrebbe tenersi a breve, non ci sarebbero troppi problemi: il voto sarebbe legato all’area urbana e non ai singoli municipi. Quindi la terna di commissari rendesi dovrebbe preoccuparsi, al massimo, dei seggi e della loro sicurezza.
    Il problema è lo step successivo.

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    La sede del Comune di Rende

    Scioglimento di Rende: mostri in arrivo

    Si è già detto: nel secondo passaggio, un commissario dovrebbe guidare i sindaci di Cosenza, Rende e Castrolibero alle elezioni della nuova città, dopo aver fuso gli uffici dei tre Comuni ed elaborato le linee guida urbanistiche, finanziarie e politiche.
    Per Cosenza e Castrolibero non ci sarebbero problemi perché, si scusi il bisticcio, ci sono i sindaci. Recalcitranti ma ci sono.
    Per Rende c’è il problemone: i commissari antimafia potrebbero gestire l’autoscioglimento di un Comune in un ente più grande?
    Quasi di sicuro no. Anzi, in tutto questo c’è una cosa certa: lo scioglimento totale di un Comune non è un atto di ordinaria amministrazione. Altrettanto sicuri sarebbero i mostri giuridici che uscirebbero da questa situazione.
    Primo mostro: la coesistenza tra due commissari, quello della città unica e quello antimafia, che dovrebbe sciogliere del tutto un Comune “inquinato”.
    Secondo mostro: la fusione tra un Comune sciolto per mafia, ancora in predissesto, e uno in dissesto spinto.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Sandro Principe, ex sindaco di Rende e leader dell’opposizione (foto Alfonso Bombini)

    La tempesta perfetta

    Si può far finta di non capire i problemi che nasceranno dall’attuale situazione di Rende e, quindi, si può andare avanti verso la città unica. Lo hanno fatto, ad esempio, alcune associazioni nel corso di un dibattito all’Unical.
    Le opposizioni di Rende, nel frattempo, vanno alla carica e accusano Manna: lo scioglimento è colpa sua, recitano varie note stampa, perché non si è dimesso.
    Su tutto, resta un rebus difficile da interpretare: lo scioglimento toglie dall’imbarazzo il Pd, che pure aveva sostenuto l’ex sindaco e forse riporta numeri nell’area riformista, che ha finora fatto opposizione in Consiglio comunale e si prepara a opporsi, praticamente da sola, al progetto di città unica.
    Rende non è l’unica città importante di Cosenza ad aver subito il commissariamento per mafia: prima di lei è toccato (come già detto) ad Amantea. Ma anche a Cassano e, prima ancora a Corigliano Calabro.
    Ma nessuno di questi centri ha il peso economico e culturale della città del Campagnano. Soprattutto, nessuno ha il suo ruolo geografico di tassello importante per la città unica. Che ora traballa vistosamente.
    La tempesta è alle porte. E i primi lampi fanno capire che non sarà un acquazzone estivo: si annuncia perfetta.

  • Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Nobile, benestante quindi con possibilità di studiare cose “astratte” e “inutili”. E sarebbe un modo per liquidare Sertorio Quattromani in poche battute.
    Ma oltre che ingenerosa, questa liquidazione sarebbe inutile: non spiegherebbe perché una via importante del centro storico di Cosenza è dedicata a lui. E non spiegherebbe perché questo umanista cosentino riceve ancora tanto interesse fuori dalla Calabria dagli addetti ai lavori.
    Filologo e filosofo, Quattromani ha diviso la maggior parte dei suoi 62 anni di esistenza tra la critica letteraria e la divulgazione del pensiero del suo maestro: Bernardino Telesio. E ha un altro merito: aver tolto l’ego dall’Accademia della sua città, nata come Parrasiana, diventata poi Telesiana e, solo sotto la sua gestione, Cosentina.
    Un modo per dire che l’Accademia è della città. Ma anche per affermare che i cosentini che l’avevano fondata erano una élite coi controfiocchi.

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    Il frontone dell’Accademia Cosentina

    Quattromani: un notabile del ’500

    Sertorio Quattromani non è un pioniere come Aulo Giano Parrasio. Le sue biografie, che si basano essenzialmente su un epistolario professionale degno di dieci grafomani longevi, lo raccontano come un personaggio pignolo, metodico e zelante.
    Come uno di quei professori di cui si subiscono i metodi e l’antipatia da studenti ma che non si finisce mai di ringraziare dopo.
    Non è neppure un pensatore della statura di Telesio, il primo grande rinascimentale. Anzi, tutto lascia pensare che Quattromani non abbia osato troppo anche perché schiacciato dalla mole intellettuale del filosofo cosentino. Che tra l’altro figura tra i suoi maestri e nella sua parentela.
    Notabilato e cultura: sono i primi due elementi utili per inquadrare il Nostro.

    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Quattromani e la Cosenza che conta

    Come per molti notabili, anche nel caso di Quattromani le date sono incerte.
    Nasce, comunque, a Cosenza nel 1541. E vale subito la pena di spendere due paroline sulla genealogia che, per lui, fa tutt’uno con l’araldica.
    Suo padre Bartolo, feudatario della Sila Grande cosentina, è a sua volta rampollo di una famiglia di nobiltà “privilegiata” (cioè di borghesi nobilitati) originaria di Aprigliano e piena zeppa di giuristi, soprattutto notai, e vescovi. Una volta nobilitati, i Quattromani si stabiliscono a Cosenza e fanno parte in maniera stabile del Sedile, cioè il Senato cittadino. Dove siedono spesso assieme ai Telesio, con cui si imparentano. Infatti, Elisabetta D’Aquino, la mamma di Sertorio, è lontana parente di Bernardino Telesio. Ma non finisce qui: la moglie di Bernardino Telesio, nonno del filosofo, è Giovanna Quattromani.
    Fin qui, non c’è una vera differenza tra il patriziato cosentino e le altre nobiltà di provincia della Penisola, perché tutte le famiglie che “nascono” tendono a legarsi fino all’endogamia. La vera differenza è il livello culturale, decisamente alto, dell’élite bruzia dell’epoca, che si divide tra le cariche e le biblioteche e, soprattutto, ha un ruolo sociale davvero forte.
    Già: Antonio Telesio, figlio di Bernardino senior e quindi zio del filosofo e parente in doppia linea di Sertorio, è un accademico di grido, che lascia il Sedile solo per far carriera a Roma.

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    Sertorio Quattromani

    Una provincia cosmopolita

    Non c’è nulla di meglio che acculturarsi in famiglia. Per Sertorio Quattromani l’espressione vale alla lettera: appena quindicenne, frequenta le lezioni che il cugino Telesio tiene periodicamente all’Accademia.
    È in buona compagnia: tra gli uditori ci sono Agostino Doni, medico e filosofo che avrebbe fatto carriera a Basilea, e, giusto per restare in famiglia, il filosofo (un po’ oscuro e decisamente dimenticato) Giovan Paolo d’Aquino, cugino di Sertorio per parte di madre.
    Da buon intellettuale cosentino, il giovane Quattromani ha un imprinting progressista (quasi cattocomunista, secondo gli standard dell’epoca): prima di ascoltare il grande Telesio, ha come precettore Onorato Fascitelli, un benedettino molisano dalle simpatie valdesi che, tuttavia, fa carriera. Infatti, diventa vescovo di Isola Capo Rizzuto a metà ’500 e a dispetto delle sue idee.
    Con questo popò di bagaglio, che la Cosenza bene non avrebbe mai più raggiunto, al Nostro non resta che cambiare aria, per migliorare. Infatti, va a Roma.

    Quattromani supertopo di biblioteca

    A Roma, Quattromani dimostra il suo talento eccezionale di topo da biblioteca. Si esercita nella Biblioteca Vaticana, dove divora di tutto, dai classici greci e latini ai grandi poeti italiani, Petrarca in particolare.
    Su quest’ultimo, il cosentino ha un’intuizione geniale, con cui riscrive la storia, allora nascente, della letteratura italiana. Secondo lo studioso, infatti, Petrarca si sarebbe ispirato ai poeti provenzali e volgari per comporre il suo Canzoniere.
    Per provare la propria intuizione, Quattromani non esita a ricorrere alle “pastette”. Quelle dei compatrioti, come l’alto prelato e nobile Vincenzo Bombini, allora impegnato nel Concilio di Trento assieme a Tommaso Telesio, arcivescovo e fratello del filosofo.
    E quelle, forse più efficaci, dell’editore Paolo Manuzio, che convince papa Pio IV a mettere a disposizione di Quattromani tutte le biblioteche capitoline. Dopo aver ingurgitato questa impressionante mole di opere, il Nostro decide di raggiungere Bernardino Telesio, che nel 1565 si trova a Napoli per divulgare e difendere la sua opera.

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    Papa Pio IV

    Telesio nei guai con la Chiesa

    Si è già capito che la Chiesa ha avuto un’influenza determinante anche nella nascita dell’umanesimo più laico.
    Tuttavia, la Chiesa dell’epoca di Telesio e Quattromani, non è più quella cosmopolita e, a modo suo, progressista della generazione precedente.
    È una Chiesa irrigidita e incalzata dalla Riforma, che sceglie, col Concilio di Trento, il razionalismo e punta tutte le sue fiches su Aristotele. Non proprio l’ideale per i nuovi filosofi alla Telesio, che invece si ispirano ai presocratici per costruire i propri sistemi di pensiero, più o meno “rivoluzionari” e comunque di rottura proprio con l’aristotelismo.
    Nello stesso periodo, il pensatore cosentino inizia la riedizione delle sue opere e tutto lascia pensare che Quattromani sia andato a Napoli per aiutare il maestro.
    Ma stavolta le amicizie e le parentele che contano possono poco: i libri di Telesio, ripubblicati nella Capitale nel 1570, finiscono all’Indice. Quattromani si dà da fare per evitare la condanna e fa pressioni su Bombini, diventato nel frattempo protonotaro apostolico della Curia romana sotto Pio V e Gregorio XIII.
    Ne esce un compromesso superclericale: le opere restano all’Indice dei libri proibiti, ma con la formula ambigua “Donex expurgentur”, cioè fino a quando non saranno ripuliti. Da vietati, i libri telesiani diventano “vietatini” (quindi leggibili più o meno sottobanco). Analoga fortuna non l’avranno gli altri grandi pensatori dell’epoca, Bruno e Campanella, molto più espliciti del cosentino e, soprattutto, molto meno protetti.

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    La statua del filosofo Bernardino Telesio a Cosenza in piazza XV Marzo

    Quattromani torna a Cosenza

    Finalmente il Nostro rientra a Cosenza per restarvi, salvi vari viaggetti a Roma e Napoli, puntualmente registrati nelle sue lettere.
    Da buon rinascimentale, Quattromani coltiva un epistolario monumentale, dove racconta sé stesso e i suoi studi. Scrive a tutti e dappertutto: da Roma, Cosenza, Cerisano ecc. E fa l’intellettuale a tempo pieno. Traduce (o “volgarizza”, come si diceva allora) i classici latini in quantità industriali, come se non ci fosse un domani.
    E si dà un gran da fare nell’Accademia Telesiana (già Parrasiana), dov’è braccio destro del suo maestro.
    Alla morte di Telesio (1588), che aveva trasformato l’Accademia in un club filosofico, Quattromani prende le redini dell’istituzione, la riorganizza e le dà un’impronta più letteraria, forse meno rischiosa della filosofia.
    Ma la filosofia comunque non sparisce: né dall’Accademia né dalle preoccupazioni di Sertorio, che omaggia il suo maestro con La filosofia di Bernardino Telesio ristretta in brevità, un “bignamino” del pensiero telesiano, dedicato per l’occasione a Ferrante Carafa, il duca di Nocera.

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    Immagine di Cosenza all’epoca di Sertorio Quattromani

    La fine e l’eredità

    La biografia di Sertorio Quattromani non è particolarmente emozionante. L’intellettuale cosentino non è un “rivoluzionario” né un “riformista”: è solo uno studioso acuto e capacissimo, che ha fatto (bene) il proprio mestiere al riparo del notabilato a cui apparteneva e non ha mai messo in discussione il “sistema”. Non in maniera pubblica, almeno.
    La data precisa della morte, causata dai soliti acciacchi dei benestanti (tra cui l’immancabile gotta) è incerta. Lo studioso Luigi De Franco ipotizza il 10 novembre 1863, che è poi la data del testamento.
    A dispetto di un’immagine piuttosto polverosa, Quattromani ha un merito serio: aver contribuito all’affermarsi della lingua italiana, che identifica nella parlata dell’alta Toscana (per capirci, la stessa utilizzata dagli speaker più bravi).
    L’eredità fisica più importante è costituita dalla sua biblioteca, lasciata alla nipote, figlia della sorella Giulia: la poetessa e accademica cosentina Lucrezia della Valle.
    Ma questa è un’altra storia.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Di Aulo Giano Parrasio si sa molto. Ma non tutto quel che si sa è preciso.
    Ad esempio, il luogo di nascita, che di solito è autorevolmente indicato in Figline Vegliaturo, un paese di poco più di 1.200 abitanti a sud-est di Cosenza.
    Tuttavia c’è chi ipotizza che il luogo di nascita dell’intellettuale cosentino fosse, invece, Serra Pedace, che ora fa parte di Casali del Manco e non confina neppure con Figline. E non manca chi pensa a Cosenza.
    Più certi il giorno di nascita, 28 dicembre 1470, e i dati familiari, che forniscono un identikit socio-economico piuttosto dettagliato di Parrasio.
    Nato come Giovanni Paolo Parisio, il Nostro era figlio di Tommaso, un giurista molto apprezzato e discendente dei feudatari di Figline, e della nobildonna Bernardina Poerio.
    Si tratta, nel suo caso, di una nobiltà decaduta, in seguito alle lotte feroci tra angioini e aragonesi, e costretta a riciclarsi nelle professioni liberali.

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    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Parrasio umanista mediterraneo

    Per papà Tommaso la scappatoia è la laurea “in Utroque”, per Giovanni Paolo, invece, è la filologia.
    Infatti, va a lezione di latino e greco da Crassio Pedacio e da Tideo Acciarino Piceno, un illustre studioso marchigiano arrivato a Cosenza nel 1880 al servizio dei Sanseverino e rimastovi per dieci anni.
    Poi, come tutti i rampolli delle famiglie bene, cambia aria e va prima a Lecce e poi a Corfù, per approfondire il greco. Quindi ritorna a Cosenza, dove prova ad aprire una scuola sull’esempio dei suoi maestri. Ma, evidentemente, le cose non vanno troppo bene. Ed ecco che Parisio, il quale nel frattempo ha latinizzato il suo nome in Parrasio, cambia di nuovo aria e nel 1491 va a Napoli. E lì scopre un mondo.

    La cultura al Sud

    A questo punto, serve una piccola operazione verità. Innanzitutto, non è vero che nel medioevo la cultura classica fosse scomparsa.
    Si era, più semplicemente, inabissata la letteratura greco-romana. Ma il latino e il greco sopravvivevano, anche a livello di massa, perché i due più grandi best seller dell’epoca erano scritti in latino e greco. Ci si riferisce alla Bibbia e al Corpus Juris Civilis.
    Ancora: nel Sud Italia il greco restava piuttosto diffuso, sia nelle classi colte sia a livello religioso. Si pensi, giusto per fare un esempio, al ruolo del monaco basiliano Barlaam di Seminara (che, tra le varie, fu anche maestro di Boccaccio).
    Il Sud, a cavallo tra medioevo e rinascimento, è ancora un territorio importante e conteso: è il centro del Mediterraneo, ancora non “scavalcato” dalle rotte atlantiche. Napoli e Palermo sono due capitali di tutto rispetto che surclassano Roma e non hanno nulla da invidiare a Firenze. Le élite meridionali sono in genere aperte e cosmopolite e scommettono non poco sulla cultura. Parrasio è uno degli ultimi esponenti di questa nobiltà che lancia le ultime fiammate prima di declinare.

    Il monaco Barlaam di Seminara

    Parrasio nella Napoli degli Aragona

    Vuoi per le origini nobili, vuoi per sensibilità culturale della nobiltà napoletana, vuoi perché Napoli è accogliente, Parrasio si sente subito a casa.
    Si lega a Giovanni Pontano, un umanista umbro al servizio degli Aragona. Pontano vuol dire senz’altro cultura: riscuote un grande successo nei circoli “dotti” ed è il fondatore dell’Accademia Pontaniana. Ma significa anche politica.
    Parrasio approfitta di entrambi gli aspetti: entra nell’Accademia e, soprattutto, a corte, dove riceve la protezione di re Ferdinando II di Aragona, che lo riempie di riconoscimenti e quattrini.
    Troppo bello per essere vero? Forse. Soprattutto, troppo bello per durare: Ferdinando muore nel 1496 senza eredi. Gli succede lo zio Federico, che di sicuro non simpatizza con lo staff del nipote. Infatti, l’intellettuale cosentino abbandona Napoli e si rifugia a Roma. Ci resta giusto il tempo di farsi notare dal clero-che-conta e, soprattutto da Pomponio Leto, un umanista che lavora per il papa ma vuole restaurare la religione imperiale. Leto iscrive Parrasio nella sua Accademia Romana. Per fortuna sua, quest’ultimo lascia la città dei pontefici per tempo, cioè nel 1498. Altrimenti sarebbe finito nella retata dei papalini contro l’Accademia.
    La meta successiva di Parrasio è Milano. Un must per i calabresi di tutti i tempi…

    Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli e duca di Calabria

    Parrasio e i veleni tra intellettuali

    Il cosentino arriva nella Milano degli Sforza, dove domina Ludovico il Moro, a inizio 1499.
    Qui conosce Alessandro Minuziano, un foggiano di origini oscure, che fa l’editore. In realtà, Minuziano è un superfaccendiere. Filologo geniale e – secondo i critici – un po’ arronzone, il pugliese gestisce una biblioteca e un pensionato di studenti. Ha buone entrature a corte, ma fa troppe cose. Perciò ha bisogno di un collaboratore.
    Assume quindi Parrasio, di cui nota l’estrema abilità nella scrittura latina, e lo usa come ghost writer.
    Tuttavia il rapporto tra i due si incrina, a causa di un terzo incomodo: il cattedratico Emilio Ferrario, che disistima Minuziano e non lo nasconde affatto. Anzi, arriva ad accusare il pugliese di aver stravolto Cicerone e si fa beffe di lui con dei versi micidiali.
    Parrasio, all’inizio si schiera con Minuziano.

    Una carriera in ascesa

    L’arrivo dei francesi a Milano cambia le carte in tavola. Ferrari, legatissimo agli Sforza, deve lasciare la città e la cattedra di Eloquenza. Parrasio, che gode del favore dei francesi, ne prende il posto. E inizia a far concorrenza al suo ormai ex mentore.
    Minuziano, che evidentemente è la classica malalingua, mette in giro calunnie pesantissime. A suo dire, Parrasio sarebbe scappato da Napoli perché colpevole di omicidio. E non basta: lo accusa anche di pederastia.
    Ma il cosentino, per quanto amareggiato, tira dritto. Anzi, si lega all’ateniese Demetrio Calcondila, una specie di Machiavelli dei Balcani rifugiatosi a Milano in seguito a gravi problemi politici, e ne sposa la figlia Teodora. E ottiene la protezione di Étienne Poncher, vescovo di Parigi e membro influente del Senato meneghino.

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    Demetrio Calcondila

    I meriti di Parrasio

    Un piccolo intermezzo per rispondere a una domanda banale: quale fu l’importanza vera di questa generazione di umanisti, di cui Parrasio fu la classica punta di diamante?
    Con non poca retorica, parecchi storici attribuiscono a questi intellettuali il merito di aver recuperato il meglio della cultura classica.
    In realtà, le cose sono più complicate, perché quella cultura non era mai andata persa. L’aveva salvata la Chiesa, in particolare i monaci, che per secoli avevano copiato e conservato manoscritti.
    Parrasio e i suoi colleghi hanno, semmai, un altro merito: la divulgazione di questa cultura in chiave laica. E attenzione: a questo processo non è estranea la stessa Chiesa, che si serve volentieri dell’opera di questi umanisti.
    Lo prova il rapporto tra Parrasio e Poncher. Grazie ai buoni uffici del vescovo francese, il cosentino cura le riedizioni di Ovidio e Claudiano ed entra nei giri politici che contano. Ovviamente, questo tipo di rapporti tra Chiesa e intellettuali contiene il classico boccone avvelenato: questi filologi laici sono più spregiudicati e pubblicano di tutto, a partire dai presocratici e proseguendo con opere esoteriche.
    Questa spregiudicatezza darà le basi al pensiero filosofico successivo, che prenderà direzioni di rottura con il sistema ecclesiastico (Telesio) o sconfinerà nell’eresia e nell’anticlericalismo (Campanella), con conseguenze a volte tragiche (Bruno). Ma questa è un’altra storia.

    L’odierna piazza Parrasio, nel centro storico di Cosenza

    Parrasio intellettuale girovago

    A Milano l’aria diventa pesante per Parrasio: Poncher è richiamato in Francia. Gli subentra Jeoffroy Charles, che prende a benvolere il cosentino, ma ha meno potere per tutelarlo.
    Per questo, Parrasio decide di tagliare la corda. Girovaga tra Vicenza, Pavia e Venezia. Poi, stanco e acciaccato dalla gotta, nel 1511 torna a Cosenza con molti libri e pochi quattrini. Perciò, per sbarcare il lunario fonda una scuola privata: è l’Accademia Parrasiana. Questa istituzione ha un bel successo che, forse, va oltre le intenzioni del fondatore: una generazione dopo la prende in mano Telesio e la ribattezza Accademia Telesiana. Poi la gestione passa a Sertorio Quattromani, che le dà il nome con cui è tuttora nota: Accademia Cosentina.
    Ma i quattrini scarseggiano e il Nostro deve rimollare Cosenza. Stavolta per Roma, dove papa Leone X gli affida una cattedra di eloquenza.
    Stavolta Parrasio non ha nemici, tranne la salute, che lo costringe a tornare a Sud, prima a Napoli, dove gode della protezione di Isabella d’Este, infine a Cosenza, dove arriva moribondo e si spegne il 6 dicembre 1821.
    Ha cinquantuno anni portati malissimo e, alle spalle, un’esistenza passata tra biblioteche e politica che ne vale almeno quattro.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Il ricordo più visibile che gli ha dedicato Cosenza è una strada abbastanza importante, di cui condivide l’intestazione con suo padre Francesco. I più la conoscono perché c’è la sede dell’Azienda sanitaria provinciale e perché la sera ci si ritrovano i ragazzi, come si faceva una volta a piazza Kennedy.
    Altri ne ricordano il nome per averlo incrociato nella Parte generale di qualche manuale di Diritto penale, ma non ricordano il perché, tranne qualche giurista più anziano e colto. In realtà, Bernardino Alimena meriterebbe di più. Anche della retorica con cui lo celebra in qualche circolo .
    Per capire perché, partiamo da alcune domande banali (e basilari): delinquenti si nasce o si diventa? Perché si delinque? È vero che la tentazione fa l’uomo ladro?

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    Bernardino Alimena

    Emergenza criminale fin de siècle

    Rispondere, più che impossibile, sarebbe ridicolo: tuttora i criminologi si scervellano su questi argomenti. Ma a fine Ottocento, quando Alimena elaborava le sue teorie giuridiche, questi problemi erano ancora più pressanti: l’Italia non aveva fatto a tempo a nascere, che subito fu costretta ad affrontare la sua prima emergenza criminale.
    Il banditismo, già endemico in parecchie zone, si politicizza ed evolve in brigantaggio, la prima forma di criminalità organizzata. Soprattutto al Sud, ma anche in alcuni ex territori pontifici (Emilia e basso Lazio) e in Toscana.
    Anche il resto del Paese non scherza: le grandi città (Napoli, Milano e Palermo) sono insicure, i centri di provincia pullulano di microcriminalità e le carceri si riempiono.

    A complicare il tutto, c’è l’enorme pressione demografica: dall’Unità al 1890 gli italiani aumentano del 40%.
    Quel che è peggio, il Paese non ha strumenti adatti per affrontare quest’emergenza. Si pensi che per avere il primo Codice penale italiano ci vuole il 1871. Stesso discorso per l’omologazione del sistema carcerario e della Pubblica sicurezza.
    Questo basta a far capire l’importanza della generazione di giuristi (e non solo) di cui Bernardino Alimena fu un elemento di spicco.

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    Maria Oliverio detta Ciccilla, celebre brigantessa calabrese

    Bernardino Alimena figlio di patriota

    Alimena, classe 1861, nasce praticamente con l’Italia e respira da subito il Diritto penale: suo padre Francesco, oltre che patriota risorgimentale e deputato per tre legislature (dal 1882 al 1892), è un avvocato famosissimo, dall’oratoria travolgente. Il tipico principe del foro, insomma.
    Dopo aver studiato Giurisprudenza a Napoli (un classico per gli aspiranti giuristi dell’epoca) ed essersi laureato a Roma nel 1885, Bernardino prende un’altra strada. Frequenta poco i Tribunali, a cui preferisce la ricerca e si dà alla politica, dove, grazie anche al peso del suo cognome, ottiene risultati apprezzabili: diventa prima consigliere comunale di Cosenza e poi, nel 1889, sindaco. Il primo non di nomina regia ma eletto direttamente dai cittadini.

    Ma la teoria giuridica resta il suo pallino, come testimoniano le tante pubblicazioni e, soprattutto, gli incarichi accademici. Nel 1889 ottiene la libera docenza di Diritto penale a Napoli a cui aggiunge, l’anno successivo, quella in Procedura penale. Ma, a causa degli impegni della ricerca e (soprattutto) della politica, inizia i corsi solo nel 1894, con una prolusione dal titolo significativo: La scuola critica di diritto penale. Non la citiamo a caso: sin dal titolo, contiene l’abc dell’Alimena-pensiero.
    Il salto di qualità avviene nel 1898, quando il giurista cosentino ottiene la docenza straordinaria in Diritto penale all’Università di Cagliari e, infine, quella ordinaria nella medesima materia a Cagliari.
    Nel mezzo, c’è un popò di pubblicazioni dai titoli (e dai contenuti) pesanti. Più una serie di polemiche che hanno un bersaglio ben preciso: la Scuola positiva del Diritto penale, che in quel momento va per la maggiore, e, soprattutto, il suo fondatore, Cesare Lombroso.

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    Il monumento a Cesare Lombroso

    Il primo fu Lombroso

    La tradizione penale italiana ha avuto almeno tre grandi iniziatori: i milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri e il napoletano Gaetano Filangieri.
    Sono i capicorrente della Scuola classica, che concepisce il diritto penale come un sistema di difesa dell’individuo dal potere. A fine ’800 le loro tesi non servono più, se non a motivare le arringhe degli avvocati.
    Di fronte alla criminalità di massa, occorre altro. Vi provvede per primo, appunto, Cesare Lombroso, che formula la celebre tesi dell’atavismo criminale.

    Lombroso, che è un medico e non un giurista, ha essenzialmente un merito: sposta l’attenzione dal reato al reo. In altre parole, studia i delinquenti e mette in secondo piano i delitti. Il delinquente, secondo la teoria lombrosiana, è tale o perché costretto dalle circostanze, o perché ha tendenze naturali (innate ed ereditarie) a delinquere.
    Il primo è una persona normale, a cui si può applicare il diritto; il secondo è un deviante per nascita, che al massimo può essere isolato dalla società per il suo stesso bene.

    E qui arrivano gli aspetti più “piccanti” e controversi del pensiero lombrosiano. Innanzitutto, l’atavismo criminale, che si riconosce da alcuni difetti fisici del reo (la fronte bassa, gli arti tozzi, la celebre “fossetta occipitale mediana”, gli zigomi pronunciati, il mento troppo sfuggente o troppo prominente, ecc.).
    Da qui al rischio di un razzismo sotto mentite spoglie il passo sarebbe breve. Ma, ad onor del vero, va detto che Lombroso non l’ha mai fatto: non ha mai detto che un popolo o una razza è potenzialmente più criminale di un’altra.

    Il Museo Lombroso di Torino

    I limiti del positivismo

    I limiti di questo pensiero, semmai sono altri. Il positivismo, innanzitutto, minimizza il ruolo della volontà e del libero arbitrio: il delinquente nato non può che delinquere per vocazione. Poi riduce la funzione della pena a una sola cosa: la difesa sociale.
    In questa visione determinista, quasi meccanica, il ruolo del giurista è ridimensionato a favore di quello dell’antropologo.
    Il giurista, in altre parole, serve a punire o ad assolvere la persona normale, che è punibile (e quindi rieducabile) perché dotato di volontà e capacità di scelta. Lo scienziato serve a identificare il delinquente nato che, ripetiamo, può solo essere isolato. Fine della storia.
    Le teorie lombrosiane, per quanto celebri e dibattute, hanno inciso poco nel mondo giuridico. La loro vera utilità è stato lo stimolo alla polizia scientifica, inaugurata in Italia da Salvatore Ottolenghi, allievo di Lombroso. A questo punto, torniamo a Bernardino Alimena.

    Bernardino Alimena e la Terza scuola

    Reprimere i reati non è roba da medici o antropologi. Tocca ai giuristi. È, in parole povere, il concetto sostenuto da Alimena che, assieme a Emanuele Carnevale e Giovanni Battista Impollimeni, fonda la Terza scuola o Scuola critica.
    Questa è un mix tra le due correnti precedenti. In pratica, Alimena&Co saccheggiano qui e lì ed elaborano una visione più avanzata e meno rigida sia del garantismo settecentesco sia del positivismo lombrosiano.
    Il primo concetto su cui agisce Alimena è il libero arbitrio, che per lui è la capacità di fare ciò che si vuole. Per Lombroso, al contrario il libero arbitrio è capacità di volere una cosa anziché un’altra. Nello specifico di delinquere o meno, cosa che è preclusa al delinquente nato.

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    Salvatore Ottolenghi

    Bernardino Alimena vs Cesare Lombroso

    Ancora: per i positivisti lombrosiani, il comportamento antisociale del delinquente è tale solo in rapporto alle regole della società. Per Bernardino Alimena, invece, i comportamenti antisociali sono valutabili in due modi: filosofico e morale, perché esiste comunque un senso assoluto del bene e del male, e sociale. Di questo aspetto, appunto, si occupa il Diritto penale.
    Ma quando un delinquente è davvero imputabile? Per Lombroso sono imputabili, cioè possono rispondere dei reati ed essere puntiti, solo le persone sane. Per Alimena, invece, sono imputabili tutte le persone capaci di autodeterminarsi e suscettibili di essere dirette anche attraverso la pena. In altre parole: chi teme la pena può sempre essere punito (e, se possibile, recuperato). Ciò vale anche per le persone con tendenze naturali a delinquere. Quindi i criminali atavici, secondo Alimena, sono una minoranza borderline e non la maggioranza dei delinquenti, come invece sostengono i lombrosiani.

    Un duello internazionale

    Tutto questo, oggi sembra facile perché è acquisito. Ma nella seconda metà del XIX secolo è una novità dirompente.
    Non a caso, il dibattito tra lombrosiani e terza scuola si svolge dappertutto: in particolare all’estero. Bernardino Alimena partecipa a vari congressi che si svolgono a Parigi (1889 e 1895), San Pietroburgo (1890), Bruxelles (1892 e 1900) e a Budapest (1905).
    In questi dibattiti, l’intellettuale cosentino non si limita a criticare Lombroso e la sua scuola. Ma formula proposte pratiche interessanti: tra queste l’istituzione delle giurie popolari e la riforma delle carceri minorili. Tra i tanti altri impegni di Alimena, val la pena di segnalare la partecipazione alla commissione incaricata di redigere il Codice penale del Regno del Montenegro, che nel 1910 proclama l’indipendenza dall’Impero Ottomano.

    Nicola I del Montenegro

    Un notabile in carriera

    La parte più conosciuta della vita di Bernardino Alimena è essenzialmente la carriera politica, che tuttavia è poca cosa rispetto all’attività intellettuale.
    Oltre alla presenza di lungo corso nel consiglio comunale di Cosenza – che Alimena non ha mai mollato, nonostante la sua attività frenetica in giro per il Paese e in Europa – si segnalano due sue candidature alla Camera.
    La prima è del 1909. Alimena vince nel collegio della sua città con l’appoggio dei cattolici, che gli assicurano 999 voti al primo turno e 1.598 al secondo. Tuttavia, il neodeputato non fa in tempo a sedere alla Camera che la giunta per le elezioni gli contesta presunte irregolarità elettorali e annulla il voto.
    Ci riprova nel 1913 e becca più voti: 3.737, che però non gli bastano, perché nel frattempo il corpo elettorale si è allargato.

    Rapporti che contano

    Tanta popolarità deriva da due fattori: l’attaccamento alla città e l’impegno culturale, profuso con l’Accademia cosentina, di cui diventa presidente, e attraverso il Circolo di cultura, fondato assieme a Pasquale Rossi.
    Anche l’appartenenza al notabilato dell’epoca ha il suo peso. Al riguardo, non è certa l’appartenenza di Bernardino Alimena alla massoneria. Ma i rapporti che contano li ha tutti. Ad esempio, con Luigi Fera e Bonaventura Zumbini, di cui sposa la nipote Maria nel 1897.
    Muore nel 1915, poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
    Lascia uno stuolo di ammiratori, tra cui Alfredo Rocco, astro nascente della scienza penale e futuro autore dei codici penale e di procedura penale. Rocco definirà Alimena «soprattutto un cultore di psicologia e sociologia criminale, non giureconsulto in senso stretto». Come dire: troppo colto per essere solo un giurista. Mica male come complimento.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Grande Cosenza: quanto fa paura la città unica?

    Grande Cosenza: quanto fa paura la città unica?

    Iniziamo dall’ultimo capitolo del dibattito sulla Grande Cosenza. Per la precisione, dal convegno, intitolato senza troppa fantasia Fusione dei Comuni, svoltosi a Rende il 31 maggio. Cioè nella città che più teme di confluire nel Comune unico assieme a Cosenza e Castrolibero perché considera la fusione un’annessione tout court al capoluogo.
    E forse e così e i timori non sono infondati. Tuttavia, nel dibattito, promosso dai gruppi di opposizione, non è emerso un no secco. Ma il classico “ni”: un disegno di legge regionale alternativo a quello proposto da Pierluigi Caputo e approvato a Palazzo Campanella il 23 maggio.
    Ni, in questo caso non è “sì ma”, bensì un altro modo per dire no. Infatti, il ddl, elaborato dal demagistrisiano Andrea Maria Lo Schiavo e dal grillino Davide Tavernise, rimette dalla finestra ciò che la legge Omnibus aveva cacciato dalla porta: il ruolo centrale (ovvero il potere decisionale) dei Comuni e, soprattutto, dei cittadini. Che possono dire sì o no alle fusioni anche a discapito delle delibere dei loro municipi.
    Tutto il contrario di quel che prevede la recente, criticatissima, normativa della Regione, che invece bypassa Consigli e Giunte e dà un valore consultivo ai referendum popolari.

    Pierluigi Caputo, il primo firmatario della legge Omnibus

    Grande Cosenza: c’è chi dice nì

    Facciamo una carrellata del tavolo rendese: tolti i due consiglieri regionali, che non hanno rapporti diretti con l’area urbana, sono tutti protagonisti di primo piano della politica Rendese. A partire da Sandro Principe, che incarna la memoria storica della città, a finire a Massimiliano De Rose. Passando per l’evergreen Mimmo Talarico.
    Nessuno di loro può dire no all’idea della grande Cosenza. Soprattutto per un motivo: il progetto fu lanciato negli anni ’80, in piena golden age del socialismo rendese, dall’allora sindaca Antonietta Feola. E, per quel che riguarda Principe, è doveroso ricordare i dibattiti (e i bracci di ferro) col vecchio Giacomo Mancini sull’area urbana e, in prospettiva, sulla città unica.
    Durante il dibattito rendese le associazioni hanno dichiarato guerra e si preparano alle carte bollate per stoppare il referendum. Parrebbe, così ha confermato il docente Unical Walter Nocito, con buone possibilità di successo.
    Ma il problema reale non è giuridico né tecnico (anche se diritto e amministrazione hanno un peso non proprio secondario): è politico.

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    Sandro Principe

    Le leggi? Pesano ma…

    Il dibattito sulla fusione, variamente definita “a freddo” o autoritaria, si può dividere in due fasi: prima e dopo il 22 maggio, giorno della contestata approvazione della legge Omnibus.
    Nel prima, si sono sentiti tutti in dovere di impartire lezioni di Diritto costituzionale. Sulle quali non è il caso di impegnarsi troppo. Giusto una battuta per dire che la legge Omnibus è costituzionale solo perché il Titolo V della Costituzione, riformato nel 2000, è piuttosto ambiguo e permette queste e altre soluzioni. Meglio ancora: la fusione a freddo è legittima come lo è l’autonomia differenziata.
    Il dato più importante della legge per la città unica è la deadline: 1 febbraio 2025. Venti mesi in cui organizzare i referendum (di cui la Regione può non tener conto), predisporre il nuovo organigrammi amministrativi. E, infine, andare al voto in un quadro mutato del tutto, con aggregazioni politiche diverse e leadership storiche che saltano. Mettiamo da parte (per ora) le dietrologie e andiamo al succo: i numeri.

    Il grande massacro a Cosenza

    Per Cosenza, sulla carta, non cambia nulla. Quindi cambia tutto. Il Consiglio comunale della nuova città avrà 32 componenti. Gli stessi dell’attuale capoluogo.
    Ma questi consiglieri saranno spalmati su 109.149 abitanti, in pratica la somma delle anagrafi dei tre Comuni in fusione.
    Caliamo questi numeri nella realtà politica delle tre città. Franz Caruso è diventato sindaco di Cosenza nel 2021 con 14.413 voti. Cioè col 57,6% dei votanti.
    A questo punto calcoliamo in maniera ipotetica gli aventi diritto al voto della città unica, che con una certa prudenza sarebbero il 75% degli abitanti. Cioè 81mila e rotti. Quindi, per diventare sindaco della città unica Caruso dovrebbe prendere 48mila voti e rotti. Più di tre volte tanto.

    Franz Caruso (foto Alfonso Bombini)

    Manna è stato confermato sindaco di Rende nel 2019 con 9.217 voti, ovvero il 57,13% dei votanti. Nella nuova città dovrebbe prenderne più o meno come Caruso. Ma per lui lo sforzo sarebbe enorme: sei volte tanto i voti del 2019.
    La situazione più estrema è quella di Orlandino Greco, tornato sindaco di Castrolibero alcuni giorni fa con 4.143 voti, ovvero il 77,7% dei votanti. Proiettare il suo dato sulla città unica è una cattiveria inutile…
    Ma il vero gioco al massacro riguarderebbe i consiglieri. Sui quali si può fare un calcolo grossolano, astratto ma semplice: la divisione degli aventi diritto per 32. In parole povere, ci vorrebbero 2.531 elettori per fare un consigliere.
    Questa soglia, grossolana e astratta metterebbe in serie difficoltà tutti i mattatori del voto delle tre città, a partire da Francesco Spadafora, il consigliere cosentino più votato. O, sempre per restare a Cosenza, un altro big delle urne come l’immarcescibile Antonio Ruffolo, alias Mmasciata, alias Lampadina.

    Una strana legge

    I sostenitori della legge Omnibus hanno quindi ragione su un punto: chi contesta lo fa anche per il timore di perdere la poltrona. Comprensibile in chi è sindaco da poco e gestisce una situazione finanziaria pesante (Caruso) o in chi è tornato primo cittadino da pochissimo, con tante voglie di rivalsa (Greco),
    Anche i critici hanno la loro buona fetta di ragioni: il meccanismo della legge Omnibus non è quel modello di democrazia. A dirla tutta, innesca un processo senz’altro dirigista (direbbero quelli bravi), che funziona davvero dall’alto verso il basso e dà alla Regione (o meglio, a chi ne controlla la sala dei bottoni) un potere di impulso notevole, praticamente inedito in Italia.
    Per di più, questo meccanismo sarebbe replicabile su tutto il territorio, con i dovuti adattamenti, se l’esperimento cosentino andasse bene. E ciò scatena le critiche più tardive, ad esempio quella di Fausto Orsomarso, che ha steccato nel coro del centrodestra all’ultimo momento utile.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    I maligni (e bene informati) sussurrano due cose. La prima riguarda il rapporto tra il senatore di Fdi e Orlandino: quest’ultimo avrebbe sostenuto il Faustone di Calabria nella corsa a Palazzo Madama e SuperFausto si sarebbe “disobbligato”. La seconda tocca, invece, i rapporti tra il senatore meloniano e vari sindaci di Comuni bonsai, che potrebbero cessare di esistere in seguito a fusioni più o meno “coatte”. I soliti maligni riferiscono di solidi legami, maturati durante gli assessorati regionali di SuperFausto.
    Ovviamente nessuno ce l’ha con Orsomarso: il suo, se confermato, è solo un esempio ripetibile sulla totalità dei consiglieri regionali attuali. In pratica, le fusioni biturbo potrebbero devastare la cinghia di trasmissione del potere e dei relativi consensi dal Pollino allo Stretto. Di più: potrebbero diventare uno strumento particolarmente acuminato e low cost in mano ai vari inquilini dei piani alti di Germaneto per disegnare il territorio regionale a proprio uso e consumo.

    Fausto Orsomarso (foto Alfonso Bombini)

    Cosenza, grande ma zoppa (e artritica)

    Torniamo al presente più immediato. L’area urbana che si appresta a diventare città è una zona in crisi grave. Politica, amministrativa e di leadership.
    Andiamo con ordine. Il dissesto di Cosenza è più che noto. E sono altrettanto note le attuali difficoltà finanziarie del capoluogo, che proprio non riesce a smaltire il suo passivo. Detto questo, Rende sta meglio ma non troppo: nonostante gli annunci dell’attuale amministrazione, la città del Campagnano non è ancora fuori dal predissesto. Nei fatti, la situazione è uguale a quella cosentina (sebbene con prospettive meno gravi): tasse a palla.
    Passiamo al livello politico. Al momento, il Comune più stabile è Cosenza. Rende, al contrario, è decapitata a livello politico e decimata a livello amministrativo dalle inchieste della magistratura. E la situazione potrebbe peggiorare: i soliti maligni, che coincidono coi bene informati, considerano prossimo lo scioglimento per mafia.
    Dalle vicissitudini giudiziarie emergono i problemi di leadership. Sotto quest’aspetto, l’unico a non avere guai è Franz Caruso. Il quale, tuttavia, a dispetto di una lunga militanza nell’area socialista, non ha il peso necessario per guidare l’eventuale amalgama tra le tre città.

    Sindaci nei guai

    Sul caso di Marcello Manna, che da sindaco alla fine del secondo mandato (quindi non ricandidabile a Rende), avrebbe potuto coltivare altre ambizioni, sono necessarie considerazioni più complesse. È vero che Manna, “nato” col centrodestra, ha goduto in realtà di un appoggio bipartisan. Tuttavia, i suoi incidenti giudiziari (per i quali è doveroso il massimo garantismo) azzoppano non poco ogni ipotesi, reale o virtuale.

    Orlandino Greco

    Più sfumato il discorso su Orlandino Greco (per il quale vale il medesimo garantismo). Il neo ri-sindaco di Castrolibero affronterà entro la fine dell’estate alle porte l’ultima udienza del processo di primo grado in cui è imputato per presunti fatti di mafia. È un primo cittadino sub iudice, le cui vicende potrebbero condizionare non poco, nell’ipotesi peggiore, la stabilità amministrativa del suo Comune.
    Discorso simile, ma non troppo, per il convitato di pietra del dibattito furioso che ha accompagnato l’approvazione della legge Omnibus: Mario Occhiuto. Secondo molti, l’ex sindaco di Cosenza è il potenziale primo-cittadino “ombra” della città unica. Tuttavia, la recente condanna in primo grado, frena le ambizioni, che il diretto interessato non ha confermato (ma neppure smentito in pubblico).

    Rende l’anello debole della grande Cosenza

    In tutto questo, come già detto, l’anello debole è Rende, di cui ancora non è certa l’uscita dal predissesto ed è invece probabile, così dicono i malevoli, lo scioglimento per presunte infiltrazioni mafiose.
    Se ciò avvenisse, Rende arriverebbe alla fusione senza alcuna guida politica, neppure quella supplente dell’attuale facente funzioni Marta Petrusewicz. Ma, anche a prescindere dai terremoti giudiziari, la città del Campagnano rischierebbe di perdere non poco del proprio peso socio-economico. Vediamo come.
    Innanzitutto, perché diventerebbe la periferia est della nuova città unica, che nella versione attuale non include Montalto Uffugo. In seconda battuta, perché rischierebbe di perdere non pochi servizi, che finirebbero inghiottiti dal dissesto del capoluogo. Infine perché la mancata inclusione di Montalto esaspererebbe la competizione, già in corso, tra i due territori ad est dell’area urbana.

    Marta Petrusewicz

    Montalto contro Rende?

    Questa competizione, in primo luogo è fiscale: le zone industriali di Rende e Montalto hanno una perfetta continuità geografica. Ma Montalto costa meno a livello di tasse e ciò, nel recente passato, ha provocato l’“emigrazione” di varie attività da Rende.
    A questo si deve aggiungere l’attrattiva delle nuove infrastrutture, progettate nel territorio montaltese: la stazione ferroviaria per l’alta velocità e il nuovo svincolo dell’autostrada. Tutto ciò potrebbe trasformare la concorrenza, già aggressiva, in dumping vero e proprio. Fuori dalla città unica, Montalto continuerebbe a crescere a danno di Rende.

    La mappa politica della città unica (senza Montalto)

    Inizia la battaglia

    I tre sindaci interessati dalla fusione promettono guerra. E le associazioni iniziano a muoversi con una certa cattiveria.
    Tutti i pronostici, al momento, sono prematuri. Giusto una considerazione per chiudere: da oggetto del desiderio, la grande Cosenza è diventata motivo di discussioni infinite. Che però non spostano di una virgola la portata del problema: l’anomalia di una delle province più grandi d’Italia che fa capo a una città sempre più piccola e frazionata in 150 Comuni, di cui solo 14 superano i 10mila abitanti. Qualcuno, prima o poi, dovrà metterci mano. O no?

  • Dalla tonaca al grembiule: vita spericolata di Francesco Saverio Salfi

    Dalla tonaca al grembiule: vita spericolata di Francesco Saverio Salfi

    C’è un modo particolare con cui i massoni si definiscono da sempre (oltre al gettonatissimo Liberi Muratori): Figli della Vedova.
    Nel caso di Francesco Saverio Salfi, l’espressione calza a pennello. Non (solo) per la sua conclamata militanza massonica. Nato il Capodanno del 1759 da una famiglia cosentina umile, Salfi fu adottato e allevato per davvero da una vedova, che lo fece studiare da prete
    Probabilmente risale a questa formazione l’innesco delle contraddizioni di Salfi: la formazione rigorosa, appresa dai gesuiti, e l’anticlericalismo stimolatogli, forse, dalla rigidità di quel tipo di insegnamento.
    Nel quale c’è un’eccezione vistosa, che passa ancora attraverso la Chiesa: l’illuminismo, appreso dal canonico Francesco Saverio Gagliardi, e da Pietro Clausi, suo prof di matematica e filosofia. Clausi, a sua volta, è allievo di un altro illustre prelato: Antonio Genovesi, filosofo e pioniere dell’Economia politica.
    La personalità complessa di Salfi, che inizia la sua carriera di prete nel segno della ribellione, è il prodotto delle contraddizioni della sua epoca. Contraddizioni della società, della Chiesa e della monarchia, in questo caso borbonica.

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    Francesco Saverio Salfi

    Il Re Nasone e le riforme mancate

    I Borbone avevano cominciato piuttosto bene, a Napoli e al Sud. Salfi nacque un anno dopo che don Carlo di Borbone aveva lasciato il Regno per ereditare la corona di Spagna.
    Al suo posto era salito al trono Ferdinando IV (per capirci, ’o Re Nasone), che prometteva niente male per i riformatori dell’epoca. Infatti, sulla scia paterna, re Ferdinando posava a protettore della laicità dello Stato e degli intellettuali. Questo atteggiamento formalmente illuminista divenne esplicito nel 1878, col rifiuto del re di pagare la chinea, un tributo di sottomissione feudale, allo Stato Pontificio.
    Tutta (o quasi) l’intelligentsia napoletana si schierò con la Corona. E il fatto che in questa élite ci fossero molti religiosi, non deve meravigliare: l’attrito tra dinastia borbonica e papato rifletteva la rivalità tra l’alto clero napoletano, di antica tradizione e geloso delle sue prerogative, e l’estabilishment pontificio.
    Discorso simile per l’illuminismo. Questo filone, oggi considerato dal solo punto di vista rivoluzionario, ebbe un ruolo importantissimo nell’Ancien Regime: in Prussia come in Austria e, ovviamente, nella vivacissima Napoli dell’epoca. L’illuminismo nasce in salotto e, solo in seguito al trauma della Rivoluzione, finisce sulle barricate.
    Viceversa, i Borbone furono inizialmente tolleranti e solo la rottura rivoluzionaria li spinse ai terribili giri di vite per cui sono passati alla storia.

    Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo

    Un pensiero che nasce tra le scosse

    Gli intellettuali seguono, più o meno, lo stesso tragitto. Nascono riformisti e fidano nella forza della Corona per realizzare le proprie idee. Una volta delusi, si danno alla fronda e poi entrano in rottura, fino a farsi tentare dall’esperimento tragico della Repubblica Napoletana.
    E Salfi? Il suo pensiero nasce maturo, grazie a una tragedia senza pari: il terremoto che sconvolge Messina e il sud della Calabria nel 1783.
    Tre anni dopo, il giovane sacerdote, che tiene banco all’Accademia dei Costanti (l’antenata dell’Accademia Cosentina), scrive il Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, in cui stigmatizza il comportamento superstizioso delle autorità religiose e invoca invece politiche urbanistiche, pubbliche e private, di prevenzione.
    È quanto basta per attirare su Salfi l’ostilità dei vertici ecclesiastici, che vorrebbero mandarlo sotto processo. La fa franca, grazie alla protezione di Carlo de Marco, magistrato e ministro degli Affari ecclesiastici di re Ferdinando.
    Ma per lui l’aria a Cosenza si è fatta pesante. Perciò nel 1787 molla le rive del Busento e si trasferisce a Napoli. E lì inizia a fare davvero sul serio.

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    Le devastazioni del terremoto del 1783 in una stampa d’epoca

    Napule è

    Ancora i rigori (e gli eccessi) controrivoluzionari sono lontani a Napoli. Al contrario, c’è un bel giro di intellettuali.
    Tra questi, i giuristi Gaetano Filangieri e Mario Pagano e due religiosi inclini alle tesi liberali: il calabrese Antonio Jerocades e il partenopeo Nicola Pacifico. Tutte teste belle, ma un po’ calde. L’ideale per uno come Salfi. Che subito si fa notare: difende la casa reale di fronte alla Chiesa. E, per tutta risposta, re Ferdinando promuove la sua nomina ad abate.
    Poi le cose cambiano con la Rivoluzione francese, che segna una profonda rottura tra i Borbone e il ceto intellettuale napoletano, e l’intellettuale cosentino si mette a trescare alla grande.

    Salfi e la superloggia di Posillipo

    Un’invasione francese e una cena a Posillipo.
    Nel 1792 il Regno di Napoli e la Francia sono ai ferri corti. E quest’ultima manda una flotta a bloccare il porto e il Golfo per regolare dei gravi incidenti diplomatici. La comanda il francese Luis de Latouche-Treville, eroe dell’indipendenza americana e massone.
    La prova di forza tra la giovane Repubblica e il Regno è impari e la regina Maria Carolina, sebbene odi i jacubbine (responsabili della morte di sua sorella Maria Antonietta di Francia), è costretta a cedere. Latouche resta a Napoli un mese buono, a cavallo tra 1792 e 1793. E ne approfitta per mettere assieme un bel gruppo cospirativo assieme al matematico Carlo Lauberg: la Società patriottica napoletana, costituita durante una cena a Posillipo, in cui confluiscono tutte le logge massoniche della città e a cui si uniscono Salfi, Jerocades, Pagano e via discorrendo. Poi i francesi vanno via e i Borbone iniziano la repressione, che disarticola il gruppo nel 1794. Molti giacobini finiscono in galera (ben 52) e qualcuno al patibolo (8). Chi può scappa: è il caso di Lauberg e Salfi, il quale decide di svernare in Calabria.

    Il contrammiraglio Luis de Latouche-Treville

    Salfi al seguito dei “franzosi”

    In Calabria, Francesco Saverio Salfi resta un annetto buono, giusto il tempo di scampare all’inchiesta. Poi rientra a Napoli, ma è isolato e rischia grosso: la polizia borbonica ha riaperto il dossier e stavolta è uscito il suo nome.
    L’espatrio diventa un obbligo: grazie all’aiuto del diplomatico François Cacault trova lavoro al Consolato francese di Genova. Lì si spreta e riprende a trescare assieme a teste ancora più calde di quelle lasciate a Napoli. Tra queste, il toscano Filippo Buonarroti. I due raggiungono Milano, nel frattempo occupata dai francesi, e si danno al giornalismo e ai complotti, dentro e fuori le logge, assieme a tutti gli esuli del Sud.
    Questa lobby meridionale scommette su un astro nascente: Napoleone Bonaparte e spera, per la prima volta, che le armate rivoluzionarie uniscano l’Italia. Forse la parola Risorgimento nasce in questo ambiente. Di sicuro la usa molto Salfi, negli articoli che redige per il Termometro politico della Lombardia e nelle missive che invia alle autorità francesi.

    Salfi torna a Napoli

    Vedi Napoli e puoi muori, dice l’adagio. E per molti intellettuali che scommisero sull’esperienza esaltante, ma effimera, della Repubblica Napoletana, fu così.
    Salfi, invece, scampò per il rotto della cuffia.
    Ma è il caso di ricostruire con ordine.
    Il rivoluzionario cosentino torna nel Regno, stavolta non da solo, ma al seguito dell’Armata di Napoli, cioè la divisione dell’esercito francese guidata dal generale Jean Étienne Championnet, che sbaraglia i napoletani sotto Roma e poi invade la Capitale del regno.

    Mario Pagano

    Ferdinando IV abbandona Napoli il 21 dicembre 1798. Il 20 gennaio successivo, è proclamata la repubblica a Napoli, che sopravvive grazie alle truppe francesi ed è minacciata da subito dai Sanfedisti del Cardinale Ruffo.
    I francesi, privi della guida di Napoleone, bloccato in Egitto con le sue truppe, sono costretti ad arretrare e, alla fine, abbandonano Napoli, che capitola il 30 giugno 1799.
    In questi sette mesi, tuttavia, la classe dirigente giacobina dà il meglio di sé. Stimola a fondo la vita culturale, grazie al Monitore Napoletano, diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, e progetta riforme radicali, tra cui l’abolizione del feudalesimo e una Costituzione, simile a quella francese del 1793, ma con una novità: l’Eforato, una specie di Corte costituzionale avant la lettre.
    Di questa élite, in cui spicca il giurista Mario Pagano, fa parte una nutrita pattuglia di calabresi, tra i quali il grecista Pasquale Baffi e, appunto, Salfi che vi svolge la delicata mansione di segretario.

    Pericolo (di nuovo) scampato

    È nota la tragica fine della Repubblica Napoletana: i giacobini capitolano. E i Borbone si comportano malissimo. Prima danno ampie garanzie di equità e mitezza, poi si rimangiano la parola e scatenano una rappresaglia che assume le forme di un pogrom.
    Processi sommari, esecuzioni in piazza e cadaveri esposti.
    Ma, quel che è peggio, via libera agli eccessi, dei lazzari e dei “calabresi” al seguito di Ruffo. Questi scatenano una caccia all’uomo per le vie di Napoli ai sostenitori, reali o presunti, della fallita rivoluzione. La situazione sfugge al controllo di Ruffo, già contrario elle esecuzioni sommarie, e la città finisce in preda ad orrori di vario tipo, inclusi atti di cannibalismo.
    Anche Salfi finisce nelle retate borboniche, ma dà false generalità e viene liberato. E scappa, stavolta in Francia.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Pimentel ne “Il resto di niente”

    Di nuovo in Italia

    Francesco Saverio Salfi rimette piede in Italia l’anno successivo. Dapprima a Brera, dove insegna storia e diritto al Ginnasio, e poi a Brescia e a Milano, dove si dà un gran da fare nelle logge locali.
    Infatti, milita nell’“officina” Amalia Augusta ed è maestro venerabile della loggia Gioseffina. In questa fase, l’intellettuale calabrese si lega a Gioacchino Murat, di cui diventa consigliere. E ne segue le sorti: la disfatta dei napoleonici lo costringe a tornare in Francia, dove trascorre gli ultimi anni della vita insegnando e scrivendo.
    Il suo ultimo gesto rivoluzionario è il Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna, firmato da tutti i fuorusciti, a partire da Filippo Buonarroti.
    In questo documento compaiono tre parole chiave: unità nazionale, libertà, repubblica.
    Le farà proprie un astro nascente del Risorgimento: Giuseppe Mazzini. Ma stavolta Salfi non ha alcun ruolo. Il patriota genovese, infatti, esclude i “vecchi” dalla sua Giovane Italia. Nel farlo, manda una lettera di scuse a Salfi. Ma il calabrese non la leggerà mai, perché muore poco prima che gli arrivi. È il 2 settembre 1832.

    Gioacchino Murat

    Una grandezza misconosciuta

    Celebrato in vita dai circoli rivoluzionari, Francesco Saverio Salfi ha avuto una fortuna postuma “di nicchia”, di sicuro inferiore ai suoi meriti.
    Oggi non c’è comunione massonica che non abbia almeno una decina di logge dedicate a lui e continua a essere oggetto di attenzione degli specialisti.
    Tuttavia, l’intellettuale cosentino non ha mai avuto una fama “pop”.
    Giusto per fare un esempio, si pensi che Salfi è citato solo tre volte e sempre di sfuggita in Il resto di niente, il bel romanzo storico di Enzo Striano (1986) dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, ed è tagliato fuori dal film ad esso ispirato (2004).
    Eppure il cosentino ebbe un ruolo di primo piano nella Repubblica Partenopea e in tutti i movimenti prerisorgimentali. Salfi e la sua generazione scontano una “maledizione” particolare.
    Loro sono gli ultimi esponenti dell’illuminismo in una fase in cui la cultura (rivoluzioni comprese) parlava e pensava con i canoni del romanticismo. Sono intellettuali convertiti alla rivoluzione perché delusi dall’incapacità (e dalla cattiva volontà) riformatrice delle vecchie dinastie. Ma finiscono comunque stritolati dalla Francia rivoluzionaria, che si serve di loro ma li controlla e, quando può, li censura.
    Le rivoluzioni di fine ’800 cambiano registro e velocità di marcia. E per i superstiti come Salfi non c’è più posto.
    Il cosentino è morto rimosso e dimenticato. Al punto che anche della sua tomba si era persa traccia per oltre 150 anni. Finché un altro cosentino, lo storico Luca Addante, l’ha ritrovata a inizio millennio.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Amantea contro Campora: Serra d’Aiello vota per la secessione

    Amantea contro Campora: Serra d’Aiello vota per la secessione

    Camporexit, continua la suspense: Antonio Cuglietta, il sindaco uscente di Serra d’Aiello, è stato confermato alle urne col 62% dei voti.
    Gioisce il comitato Ritorno alle origini di Temesa, radicato a Campora San Giovanni e a Serra. Non gioisce affatto una buona fetta di amanteani che ha atteso il risultato delle Amministrative serresi con comprensibile ansia.
    Infatti, avesse vinto l’avversario, cioè Vincenzo Paradiso, l’ipotesi di Temesa sarebbe finita in archivio prima ancora di andare al vaglio del Tar. Al quale ora, invece, spetta davvero almeno la prossima parola.
    A questo punto occorre riavvolgere un po’ il nastro.

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    Campora San Giovanni, panorama notturno

    Le elezioni di Serra d’Aiello

    Un vero e proprio paradosso: un Comune piccolo, prossimo al collasso demografico, decide il futuro di uno parecchio più grande con qualche carta da giocare.
    In estrema sintesi, è la vicenda del braccio di ferro tra Amantea e Campora, la sua frazione a sud, che ha deciso di andar via per creare un nuovo Comune, Temesa, fondendosi con la piccola Serra.
    Intendiamoci: non sono grandi numeri, visto che questa nuova cittadina, appena nobilitata da un nome antichissimo, non toccherebbe i 4mila abitanti.
    E tuttavia è quanto basta per cambiare le grandezze nel basso Tirreno cosentino. Un territorio importante mutilato (Amantea) e una cittadina che dovrebbe, in prospettiva, inglobare altri due Comuni: Aiello Calabro e Cleto.
    Possibile che i quattrocento e rotti elettori di Serra d’Aiello siano stati così importanti in questo processo, a modo suo rivoluzionario, sebbene condotto con metodi che il Consiglio di Stato ha riconosciuti capziosi nella sostanza?
    La risposta è sì: l’istanza che dovrebbe portare alla nascita di Temesa è partita da Serra d’Aiello e quindi la campagna elettorale si è giocata solo su quest’aspetto.

    Reperti del Museo di Temesa a Serra d’Aiello

    La posta in gioco

    Facciamo una piccola simulazione per far capire cosa accadrebbe a Serra se il progetto Temesa andasse in porto.
    Coi suoi 518 abitanti d’anagrafe, il paesino dell’entroterra tirrenico, diventerebbe la frazione più piccola della nuova città. Di più: disterebbe da Campora, il blocco più grosso, circa sette chilometri. Quindi rischierebbe di perdere alcuni servizi essenziali, tra cui l’ufficio postale e la guardia medica (essenziali in una comunità presumibilmente anziana). Su quest’aspetto, Vincenzo Paradiso ha impostato la propria propaganda.
    Al contrario, un nuovo Comune, comunque più grande e popoloso, implicherebbe una pianta organica più grande, cioè posti di lavoro negli uffici e, magari, nelle immancabili cooperative. E magari darebbe a Serra lo sbocco al mare. Ma con un problema, in questo caso: le infrastrutture, di cui nessuno ha parlato finora.
    Non è il caso di entrare nel merito, perché la volontà popolare è sovrana.

    Franco Iacucci, uno dei supporter della Camporexit

    A che punto è la Camporexit?

    La partita vera, ovviamente, non si gioca a Serra, che pure ha proposto l’iniziativa, né ad Amantea, che l’ha subita. Ma a Campora.
    Infatti, è camporese la stragrande parte degli elettori che dovrebbero votare al referendum da cui dovrebbe sorgere la nuova città. Solo che una frazione non poteva prendere l’iniziativa. Inutile, comunque, tornare su un argomento dibattuto a lungo.
    Semmai, è importante fare il punto sulla situazione del referendum.
    La quale è ferma a metà gennaio. Cioè da quando il Consiglio di Stato ha accolto la richiesta di sospensiva del referendum, avanzata dal Comune di Amantea, e ha chiesto al Tar di intervenire.
    Non senza una serie di precisazioni importanti: secondo i magistrati di Palazzo Spada, i giudici amministrativi di Catanzaro dovranno valutare alcuni importanti rischi di incostituzionalità. Tra questi, il fatto che la maggior parte degli amanteani sarà esclusa da voto e i metodi di conteggio della popolazione residente.

    I resti dell’Istituto Papa Giovanni XXIII

    Una partita difficile per Serra d’Aiello

    Se Atene piange Sparta non può ridere, recita un adagio che piace tanto agli amanti della retorica.
    Ma in questo caso, il proverbio è inappropriato: potrebbero ridere, al massimo, gli sponsor regionali di Temesa. Cioè l’ex destro e neocentrista Giuseppe Graziano, e il dem Franco Iacucci. Che però non esternano da tempo sull’argomento.
    Sul territorio, la situazione è diversa: Amantea, uscita da un anno da un commissariamento per mafia, ha un importante debito in pancia che rischierebbe di portarla al dissesto. Campora, se ottenesse la secessione, porterebbe con sé una quota di questo debito. E questo si sommerebbe alla situazione finanziaria non bellissima di Serra d’Aiello, che a malapena esce da un altro dissesto e ha alle spalle il crack dell’Istituto Papa Giovanni XXIII.
    Salvo miracoli, Temesa nascerebbe dissestata.

    Ipotesi virtuali

    L’eventuale vittoria di Paradiso avrebbe messo la parola fine alla Camporexit perché il primo impegno della sua amministrazione sarebbe stato il ritiro della delibera di giunta che lanciava l’idea di Temesa.
    Così, ovviamente, non sarà. L’ultima risposta tocca al Tar, che presumibilmente dovrà pronunciarsi prima dell’estate ormai alle porte.

  • Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Un’intuizione geniale, ripescata a partire da inizio millennio, e una vita avvolta nel mistero, su cui si sono accaniti decine di studiosi.
    Di Antonio Serra si sanno pochissime cose. Si sa senz’altro che fu un giurista per formazione, come testimonia il pomposo titolo di doctor in Utroque (cioè nei diritti Civile e Canonico).
    Si sa, inoltre, che Serra fu cosentino, probabilmente di Dipignano. Tuttavia, senza certezze. E si sa che visse a cavallo tra XVI e XVII secolo. Ma da un dettaglio non proprio irrilevante: pubblicò il suo capolavoro, nel 1613, mentre era imprigionato nel carcere della Vicaria a Napoli.
    Per il resto, ci sono solo indizi e illazioni.

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    Il ritratto di Serra e il frontespizio del suo trattato

    L’attualità del pensiero di Antonio Serra

    Partiamo dall’aspetto, forse più importante dell’opera di Antonio Serra: l’eccezionale longevità del suo pensiero, riemerso di prepotenza nel dibattito dello scorso decennio sul Mezzogiorno.
    L’artefice di questa attualizzazione è Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
    Nei suoi saggi, Daniele lancia una tesi che anima tuttora il dibattito sorto in seguito al centocinquantenario dell’Unità nazionale e suscita qualche entusiasmo negli ambienti culturali e politici legati a certo revisionismo antirisorgimentale. Prima dell’Unità, sostiene Daniele assieme a Paolo Malanima, non esisteva un grande divario economico tra Nord e Sud. Le cose cambiano dopo, col decollo industriale del Settentrione.
    In seguito, il prof di Catanzaro approfondisce i motivi di questo divario: il Mezzogiorno è rimasto indietro non per (sola) colpa delle scelte politiche ma (soprattutto) a causa della sua posizione geografica svantaggiosa. In altre parole, e a dispetto di tanta retorica sulla “centralità mediterranea”, il Sud è un territorio marginale che, comunque, non può sviluppare più di tanto. Cosa c’entra Serra in tutto questo?

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    Vittorio Daniele

    In fondo al Mediterraneo

    Daniele riprende di peso un’intuizione forte contenuta nel Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e argento, scritto in carcere dall’economista cosentino.
    L’intuizione di Serra si riferisce allora al Regno di Napoli, che versa in difficoltà economiche.
    Schiacciato in fondo al Mediterraneo e quasi isolato, il Regno, spiega lo studioso, è «un sito pessimo», perché «non bisogna mai passare da quello ad alcuno per andare in altro paese. Sia di qualsivoglia parte del mondo, e voglia andare in qualsivoglia altra, non passerà mai per il Regno se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada».
    Insomma, a distanza di cinque secoli, il Serra-pensiero tiene banco.

    Antonio Serra pioniere dell’economia politica

    Ovviamente il pensiero di Serra non si limita solo a questa intuizione longeva, che comunque getta le basi della geografia economica.
    In realtà, secondo l’economista cosentino, le caratteristiche che possono generare ricchezza sono sette, divise in due grandi gruppi: cause naturali e cause accidentali. Serra considera come cause “naturali” solo la presenza di miniere.
    Le cause accidentali, a loro volta, si dividono in due sottogruppi: “accidenti proprii” e accidenti “communi”. I primi sono peculiari di ciascun Paese e si riducono a due: la posizione geografica, appunto, e la produzione agricola. I secondi, invece, sono tipici di tutti gli Stati e cambiano solo per quantità e qualità. E sono: la diffusione di manifatture, il volume dei commerci, l’intraprendenza e la qualità dei popoli e, infine, la politica. In pratica, il capitale umano. Secondo Serra, proprio la politica fa la differenza, perché può dare gli impulsi necessari alla vita civile e (quindi) allo sviluppo economico.
    Considerato il periodo storico, si può affermare che il Breve trattato di Serra stia all’economia come Il principe di Machiavelli sta alla politica.

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    Un busto di Antonio Genovesi

    L’economia dopo Antonio Serra

    Di economia, prima di Serra, avevano scritto in tanti, ma nessuno l’aveva mai considerata un ramo a sé dello scibile.
    Un po’ di cronologia può aiutare a capire meglio l’importanza di questo pensatore.
    La nascita dell’Economia politica ha una data convenzionale: il 1776, l’anno in cui Adam Smith licenzia il suo La ricchezza delle nazioni.
    Smith ha, essenzialmente, un precursore: Antonio Genovesi, che ottiene la prima cattedra italiana di Economia a Napoli nel 1754.
    L’intuizione dell’Università di Napoli è preceduta di poco dai re di Prussia, che patrocinarono, ad Halle, una cattedra di Ökonomische, Polizei und Kameralwissenschaft (1727).
    Antonio Serra precede questo processo scientifico e accademico di almeno 114 anni. Se non è pionierismo il suo…

    Vita misteriosa di Antonio Serra

    Nonostante ciò, di Serra si sa davvero poco. Ad esempio, non si sa con certezza dove sia nato e quando.
    Anche la sua origine a Dipignano è un’ipotesi, magari più forte delle altre. Infatti, spiega lo storico Luca Addante, gli unici dati certi sono stati a lungo quelli riportati dal frontespizio del Breve trattato, dove l’economista appare come «dottor Antonio Serra di Cosenza». Il che potrebbe non voler dire molto: tutti i notabili dell’epoca si dichiaravano abitanti dei capoluoghi, sebbene fossero nati fuori dalle mura.
    Questo vale anche per Cosenza e i suoi casali (tra questi, appunto, Dipignano).
    Sulle origini di Serra c’è stata, in realtà, una lunga disputa: secondo alcuni (Gustavo Valente in particolare) l’economista era originario di Celico, secondo altri (è la tesi di Augusto Placanica) di Saracena. Mentre Davide Andreotti lo fa nascere a Cosenza. Ma prende una stecca clamorosa sul presunto anno di nascita: 1501.
    Fosse vera questa data, Serra avrebbe dovuto avere 112 anni di età nel 1613, quando era in galera e scriveva il Breve trattato.
    L’ipotesi di Dipignano è avallata dalla recente scoperta di un documento notarile del 1602, che parla di un Antonio Serra di Dipignano. E sarebbe confermata da un altro documento notarile, stavolta napoletano, del 1591, nel quale si parla di un Antonio Serra, dottore in Utroque e proprietario di un fondo e case a Dipignano.
    In questo caso, i conti tornano: nel 1591 Serra avrebbe avuto almeno vent’anni e nel 1612 aveva fatto quel po’ di carriera sufficiente a ficcarlo nei guai e a ispirargli il Breve trattato.

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    Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli

    Un capolavoro dalla galera

    Con un certo amore per la retorica rivoluzionaria, Francesco Saverio Salfi provò a legare la vicenda umana di Antonio Serra a quella di Campanella, che negli stessi anni era finito nei guai per aver ideato un tentativo di “rivoluzione” in Calabria.
    In pratica, Serra sarebbe stato tra i congiurati e sarebbe finito in galera per questo.
    Ancora una volta, i documenti smentiscono l’ipotesi. Serra finì alla Vicaria, come ha ricostruito tra gli altri Luigi Amabile, perché sospettato di falso monetario. In altre parole, gli avrebbero trovato dei pezzi d’oro, probabilmente grezzo. Per questo reato, per cui all’epoca si poteva finire al patibolo, il carcere era il minimo.
    Serra dedicò il Breve trattato a Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli, probabilmente per cacciarsi dai guai. Ma inutilmente. Riuscì, invece, a incontrare Pedro Téllez-Giron, il successore di Fernàndez nel 1617. Ma l’incontro si risolse in chiacchiere e Serra tornò in galera. Considerando l’età presumibile (forse sessant’anni) e la durata media della vita dell’epoca (poco sopra i cinquant’anni), tutto lascia pensare che l’economista sia morto alla Vicaria, anche se non si sa quando.

    L’economista Erik Reinert

    Antonio Serra: sfigato in vita, eroe da morto

    È una regola tutta italiana, ancor più meridionale: riconoscere la grandezza di qualcuno solo dopo la vita. Infatti, perché si prendesse sul serio Antonio Serra è dovuto passare un secolo dalla morte presunta.
    Oltre a Salfi, si accorse di Serra l’abate Ferdinando Galiani, altro grande pioniere dell’economia, che lo citò nel suo Della Moneta (1751),
    Poi altro silenzio, interrotto da Benedetto Croce, che non lesina elogi all’economista cosentino.
    Antonio Serra deve la sua seconda giovinezza a un big dell’economia contemporanea: il norvegese Erik Reinert, che lo cita come massima fonte d’ispirazione assieme al piemontese Giovanni Botero, coevo e forse coetaneo dello studioso calabrese.
    Questa rinascita del pensiero “serriano” ha un valore particolare, perché avviene all’interno di un filone di pensiero che si pone come alternativo all’attuale liberismo.
    Non è davvero poco, per un calabrese che ebbe il colpo di genio in galera.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Eroismo e crimine: la tragedia del gobbo del Quarticciolo

    Eroismo e crimine: la tragedia del gobbo del Quarticciolo

    Roma, 16 gennaio 1945. La Capitale non è più in mano tedesca da circa sei mesi.
    Ora la occupano le truppe inglesi e americane. E quel che resta dello Stato italiano fa il possibile per recuperare una parvenza di vita civile tra le macerie.
    Al civico 12 di via Fornovo, nel quartiere Prati, c’è un uomo in fuga. O meglio, un ragazzo: Giuseppe Albano, che ha quasi diciannove anni, molti dei quali trascorsi tra la piccola delinquenza e la Resistenza clandestina.

    L’appuntamento fatale di Giuseppe Albano

    Albano si nasconde dalle forze dell’ordine e dalle truppe Alleate, che lo cercano per l’uccisione del caporale britannico Tom Linson. Ha un appuntamento con Umberto Salvarezza detto er Guercio, il segretario di Unione proletaria, una formazione di ultrasinstra.
    Il ragazzo aspetta Salvarezza, ma invano. Quindi se ne va. O meglio, ci prova. Poco dopo, lo trovano steso davanti al palazzo dove avrebbe dovuto incontrare il “compagno” Salvarezza con un proiettile conficcato nella nuca.
    Che sia Albano non ci sono dubbi: lo tradiscono l’immancabile borsalino nero, la pistola e la gobba vistosa, che lo ha reso famoso in tutta Roma, dove lo chiamano Peppino il gobbo o il gobbo del Quarticciolo, il suo quartiere di provenienza.

    Un reparto di granatieri affronta i tedeschi a Porta San Paolo

    Calabrese, bandito e partigiano

    Riavvolgiamo il nastro. Giuseppe Albano non è romano de Roma. E neppure burino, che significa provinciale. È un calabrese trasferitosi nella Capitale coi genitori nel ’36 da Gerace Superiore, dov’è nato il 23 aprile del 1926.
    Albano, come tanti immigrati, è un soggetto borderline che campa come può: spesso di piccoli lavori e, in certi casi, infrangendo la legge.
    Infatti, Peppino il gobbo mette su una banda di coetanei, anch’essi originari della Calabria o del Sud.
    Con l’occupazione tedesca della Capitale, Peppino fa il salto di qualità. Il 10 settembre del ’43 affronta una pattuglia tedesca in perlustrazione. Pochi mesi dopo disarma e malmena da solo due avanguardisti, cioè fascisti “juniores” (tra i 14 e i 17 anni di età) che lo minacciano con un pugnale.
    Sono solo due episodi, neppure troppo eclatanti, della carriera resistenziale di Albano, che in pochi mesi diventa un mito nelle borgate e negli ambienti di sinistra.

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    Al centro nella foto, Giuseppe Albano

    Il cadavere che scotta di Giuseppe Albano

    Torniamo alla scena del delitto. Il comunicato ufficiale parla di conflitto a fuoco con i carabinieri. E qui c’è la prima discrepanza: un colpo alla nuca sembra più l’opera di un sicario che l’esito di una sparatoria.
    Ancora: a quel che risulta Albano non avrebbe sparato neppure un colpo.
    Pure la testimonianza di Salvarezza è un capolavoro di ambiguità: il segretario di Unione proletaria sostiene di aver chiamato lui stesso i carabinieri, perché intimorito dal Gobbo. Quest’ultimo, sempre secondo Salvarezza, sarebbe andato a via Fornovo per recuperare dei documenti su incarico di Togliatti.
    Solo successivamente emergerà una versione diversa, quasi opposta: Salvarezza avrebbe incaricato il gobbo di fare un attentato a un comizio comunista. Albano non solo si sarebbe rifiutato, ma avrebbe spifferato tutto al servizio d’ordine del Pci.
    Questo conflitto di versioni non è la sola stranezza di questo delitto e della vicenda del gobbo.

    Giuseppe Albano capopopolo

    C’è Resistenza e Resistenza. Al Nord, le formazioni partigiane ingaggiano i tedeschi e i repubblichini in operazioni di guerriglia, in cui valgono ancora le regole militari.
    A Roma le cose cambiano: le azioni contro gli occupanti somigliano ad atti terroristici. Questo non vuol dire che i partigiani del Nord fossero “buoni” rispetto a quelli romani. Più semplicemente, significa che la Resistenza si adegua al contesto urbano, dove un combattimento tradizionale è semplicemente inconcepibile.
    Logico, allora, che un personaggio come Peppino il gobbo diventi un leader ideale di questo tipo di resistenza: è duro, coraggioso e animato da un particolare senso di giustizia sociale. Che lo fanno notare subito.
    Abilissimo a organizzare raid, attentati e colpi di mano, Albano rende inaccessibili il Quarticciolo e Centocelle a tedeschi e squadristi. «È il più leggendario, il popolo ne racconta le gesta fremendo», scrive di lui Italia libera, l’organo del Partito d’azione.

    La targa celebrativa dei partigiani del Quarticciolo

    Il Robin Hood de’ noantri

    Albano e i suoi mescolano background delinquenziale, ottima conoscenza del territorio e capacità militari.
    E hanno una specialità, che li rende popolari: rapinano treni e depositi per redistribuire viveri e beni di prima necessità agli abitanti delle borgate, ridotti alla fame dalla guerra e dalla borsa nera. Il comando tedesco lo teme al punto di adottare una misura bizzarra e atroce: il fermo di tutti i gobbi di Roma.
    Ma Peppino resta inafferrabile, protetto dalla complicità dei borgatari e, soprattutto, da una grotta riscoperta solo di recente.

    Giuseppe Albano nell’inferno di via Tasso

    Il gobbo è molto politicizzato, ma è il classico cane sciolto: stringe rapporti con Pietro Nenni ed esponenti di spicco del Pci. Tuttavia, non è organico a nessuno, e questo spiega anche alcuni rapporti discutibili, come quello con Salvarezza.
    Albano alza la posta ad ogni giro di vite tedesco. E rischia brutto.
    Il 10 aprile 1944 irrompe in un’osteria del Quadraro e ammazza tre soldati tedeschi come rappresaglia alla strage delle Fosse Ardeatine. La reazione germanica è durissima: Herbert Kappler ordina un maxi rastrellamento della zona, al termine del quale settecento romani sono deportati nel Reich. Metà di loro muore in prigionia.
    Alla fine, le Ss beccano anche il gobbo nei locali di un’azienda dove si era rifugiato. E lo portano nel famigerato carcere di via Tasso, dove subisce le torture dell’altrettanto famigerata banda Koch.
    Ma, ulteriore fortunato paradosso, nessuno riconosce Albano, che resta in galera fino al 4 giugno di quell’anno. Poi, mentre i tedeschi si ritirano, la popolazione libera i prigionieri di via Tasso.

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    Il rastrellamento del Quadraro

    Infiltrati, spie e provocatori

    Torniamo al delitto e, soprattutto a Umberto Salvarezza. Sedicente segretario di Unione proletaria, Salvarezza è un complice delle attività più estreme del gobbo.
    Non ci si riferisce alle azioni contro i fascisti e i tedeschi, ma ai reati comuni della banda di Peppino (omicidi, estorsioni e rapine), in cui l’aspetto politico è davvero labile.
    Il regime è crollato ma la Repubblica non è ancora nata. E Roma non riesce a trovar pace neppure sotto il controllo alleato.
    Anzi, la Capitale diventa un crocevia di traffici e rapporti – politici e non – quantomeno strani. Nei quali uno come Salvarezza sguazza alla grande.
    Infatti, come sa bene la questura di Roma, il segretario di Unione proletaria è una ex spia fascista che tenta di rifarsi la verginità. È un uomo a cavallo di più mondi, inclusi forse i servizi segreti, italiani e Alleati, che tentano di recuperare i fascisti meno compromessi per usarli in funzione anticomunista. Anche Albano finisce in questo gioco complesso.

    Vendicatore e di nuovo bandito

    Dopo l’arrivo degli Alleati, il gobbo del Quarticciolo si mette a disposizione della questura, dove tra gli altri si fa notare Federico Umberto D’Amato, astro nascente dell’intelligence italiana.
    Ufficialmente, Albano dà la caccia ai torturatori della banda Koch e agli ex fascisti. Ma, allo stesso tempo, intensifica le sue attività criminali, appena nobilitate dall’ideologia: le vittime predilette del gobbo sono gli ex fascisti e gli speculatori arricchiti.
    E tra le vittime figura una star: il tenore Beniamino Gigli, considerato un collaborazionista dei tedeschi, che subisce una pesante rapina in casa.

    Beniamino Gigli, la vittima più illustre di Peppino il gobbo

    A tu per tu coi fascisti

    Nella Roma liberata non ci sono solo gli Alleati e i partigiani. Vi operano anche parecchi fascisti, spesso latitanti, che creano varie organizzazioni, tra cui il famigerato Gruppo Onore.
    Che c’entra Albano con questi reduci che lui stesso aveva contribuito a sconfiggere?
    Il collegamento è indiretto e ruota attorno a un altro personaggio, che per ambiguità dà i punti a Salvarezza: il fiorentino Umberto Bianchi, ex deputato socialista convertitosi al fascismo ma finito nei guai per sospetto spionaggio in favore dell’Urss.
    Riabilitato da Mussolini, alla fine della guerra Bianchi si lega a Salvarezza. E i due si danno a doppi e tripli giochi che risulterebbero divertenti se non fossero inquietanti.
    Nella rete di relazioni tessute dalle menti di Unione proletaria c’è davvero di tutto: gli ambienti monarchici e massonici, l’Oss (l’antenata della Cia) gli ex fascisti e l’ultrasinistra. In quest’ultimo caso, va da sé, il collegamento è Albano.

    L’ultima retata

    Il corpo del gobbo è ancora caldo quando la notizia dell’uccisione fa il giro di Roma e, ovviamente, arriva al Quarticciolo.
    A questo punto, la questura decide di liquidare il resto della banda e ordina un blitz nel quartiere che si trasforma in un assedio, con tanto di mezzi blindati. La retata ha successo e tra gli arrestati figura anche Iolanda Ciccola, la fidanzata di Albano.
    Un modo di tappare la bocca a potenziali testimoni scomodi?
    Forse. Per aggiungere ambiguità ad ambiguità, c’è anche la testimonianza di un informatore degli Alleati, che – come riporta lo storico Giuseppe Parlato – definisce il fratello di Albano una spia tedesca. Ultimo, non irrilevante dettaglio: il gobbo si sarebbe avvicinato a Salvarezza su indicazione di Nenni, per tenere sott’occhio Unione proletaria.

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    Gérard Blain e Anna Maria Ferrero ne “Il gobbo”

    Giuseppe Albano dalla storia al mito

    Il Giuseppe Albano reale è dimenticato nel giro di pochi anni. Gli sopravvive il mito, con tutte le sue ambiguità e i suoi paradossi romantici.
    Versione riveduta e più o meno corretta dei leader dei briganti, il gobbo è immortalato nel cinema due volte.
    La prima da Carlo Lizzani, nel suo Il gobbo (1960), in cui il francese Gérard Blain presta il proprio volto ad Alvaro Cosenza, incarnazione su celluloide di Albano. Il film riprende, in maniera molto romanzata la storia di Peppino il gobbo, con un linguaggio a cavallo tra il noir e il neorealismo. Giusto un dettaglio per i cinefili incalliti: nel film esordisce Pier Paolo Pasolini nel ruolo di Leandro er Monco.
    La seconda incarnazione cinematografica di Albano è ne La banda del gobbo (1977) un cult del genere poliziottesco diretto da Umberto Lenzi e interpretato dal mitico Tomas Milian.

    Pier Paolo Pasolini e Carlo Lizzani sul set de “Il Gobbo”

    L’epilogo

    Sulla fine di Peppino il gobbo le tesi e le dietrologie si sprecano.
    Quella della questura (che pure si è servita di certi servizi di Albano e forse ha chiuso il classico occhio su tutto il resto) sembra un depistaggio, ma forse non troppo: regolamento di conti tra bande rivali. Come dire: liberata Roma, il gobbo e i suoi non servono più. O, per parafrasare Shakespeare: il gobbo ha servito, il gobbo può andare.
    Più interessanti gli esiti della controinchiesta condotta da Franco Napoli, già braccio destro del gobbo e mente operativa della banda: Albano, secondo lui, sarebbe stato ucciso a tradimento da Giorgio Arcadipane, ex spia dei tedeschi a Regina Coeli e poi infiltrato in Unione proletaria. Il che riporta a Umberto Salvarezza.
    Anche quest’ultimo finisce nel dimenticatoio: viene arrestato con l’accusa di vari reati da faccendiere (truffa, millantato credito ecc). Subisce una condanna a sette anni. Poi se ne perdono le tracce.
    Nessun abitante del Quarticciolo e del Quadraro riceve riconoscimenti per meriti esistenziali. E solo Iolanda Ciccola tiene viva la memoria di Peppino con l’impegno politico. Ovviamente nella sinistra rivoluzionaria.
    E a questo punto cala per davvero il sipario sull’unico calabrese che ha avuto una leadership forte nella Resistenza.

  • Girolamo De Rada: il papà calabrese della Grande Albania

    Girolamo De Rada: il papà calabrese della Grande Albania

    Forse fu un equivoco della storia. O forse l’effetto di un limite trasformato in forza artistica.
    In ogni caso, Girolamo De Rada resta l’intellettuale italo-albanese di maggiore impatto a livello internazionale. Forse senza volerlo (o senza volerlo del tutto), De Rada è diventato il padre di due patrie, a cui ha fornito un immaginario e una lingua: l’Albania, che nell’Ottocento lottava per l’indipendenza dall’Impero Ottomano, e l’Arbëria, la comunità degli immigrati albanesi, stanziatisi nel Sud Italia a partire dalla metà del Quattrocento.
    Ma perché tanta influenza? E, soprattutto, quali sono questi limiti?

    Il Kossovo anni ’90

    Tre nomi per una terra: i serbi, che l’hanno governata (e dominata) a lungo, la chiamano Kosovo, gli albanesi Kosova e, per non scontentare nessuno, la comunità internazionale la chiama Kossovo, che in tutti i casi significa merlo.
    Questo fazzoletto di terra, a cavallo tra Albania, Serbia e Montenegro, è tuttora l’oggetto di una contesa fortissima tra gli albanesi, che la sentono loro, e i serbi, che la considerano la culla della loro civiltà.
    Il Kossovo è stato il teatro iniziale della crisi che, a partire dagli anni ’90, ha travolto nel sangue la Jugoslavia di Tito ed è stato il territorio in cui si è consumata la fine della Federazione di Jugoslavia di Slobodan Milosevic, sotto le bombe della Nato.

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    Hashim Thaçi, presidente del Kossovo, in visita a Macchia

    La Grande Albania

    In quel frangente tragico di fine millennio, quasi tutta la comunità internazionale ha criminalizzato l’etnonazionalismo serbo. Solo in pochi si sono accorti delle aquile bicipiti nere su sfondo rosso dell’Uck (il movimento di liberazione kossovaro), che riflettono tuttora un orientamento ideologico ben preciso: la Grande Albania, che dovrebbe includere, oltre al Kossovo, un pezzo di Montenegro e un po’ di Macedonia.
    Quasi nessuno, infine, si è accorto che questa ideologia “panalbanese”, altrettanto pericolosa in quel contesto del “panserbismo”, non era autoctona. Ma era un’elaborazione Made in Italy, promossa da Crispi e poi sposata da Mussolini.
    Torniamo a De Rada.

    De Rada: il papà della patria

    Girolamo De Rada non è mai stato in Albania. Ha trascorso tutta la sua vita tra Makj (cioè Macchia di San Demetrio Corone), dove nasce nel 1814, e Napoli, dove si laurea in legge ed è in prima fila nei moti liberali.
    A Niccolò Tommaseo, che lo invita a visitare la madrepatria, risponde: lì non conosco nessuno. Ma, in compenso, nelle classi colte albanesi della seconda metà dell’Ottocento De Rada è un poeta di successo. Già: è il primo poeta a scrivere in albanese e non in greco.
    Di più: per scrivere in albanese, De Rada inventa un alfabeto, che ricava da grafemi greci e latini. Basta questo per consegnarlo alla storia come il Dante degli albanesi (al di qua e al di là dell’Adriatico).rivista-de-rada

    Ma questo primato è, appunto, il prodotto di un limite: De Rada, come racconta lo studioso Domenico Antonio Cassiano (Risorgimento in Calabria, Marco Editore, Lungro 2003), impara tardi l’italiano e lo userà sempre male.
    Cosa ben diversa per l’arbëresh, all’epoca lingua essenzialmente orale (gli albanesi colti usavano il greco) che gli ispira i versi – e il patriottismo – del suo capolavoro: I canti di Milosao.
    Il quale non è solo un poema: è il vagito della letteratura albanese moderna.

    De Rada: il figlio del prete

    Servono quattro “r” per capire Girolamo De Rada: religione, romanticismo, ribellione e retaggio.
    Girolamo De Rada è un esponente tipico della media borghesia rurale. È figlio di Michele, il papàs (ovvero il parroco di rito greco-bizantino) di Macchia. La religiosità greco-bizantina di derivazione ortodossa è un dop dell’identità italo-albanese. Attenzione: solo di quella, perché gli albanesi d’oltre Adriatico sono invece islamizzati da secoli. Ma anche negli arbëreshë l’identità greca subisce smottamenti e tende a occidentalizzarsi.
    La cultura romantica ha una grande influenza non solo su De Rada, ma su tutti gli intellettuali italo-albanesi della sua generazione. Per quel che riguarda la Calabria, questa cultura filtra alla grande, assieme al pensiero liberale, negli insegnamenti del collegio italo-greco di Sant’Adriano, istituito da papa Clemente XII a San Benedetto Ullano e poi trasferito a San Demetrio Corone. Nel caso di De Rada, una delle massime influenze è Byron, almeno secondo alcuni studiosi (Cassiano e Costantino Marco).

    La targa commemorativa sulla casa natia di Girolamo De Rada

    Il collegio di San Adriano, inoltre, è un focolaio di aspiranti rivoluzionari. Non è un caso che molti arbëreshë formatisi nel collegio italo-greco siano stati in prima fila in tutti i moti risorgimentali. Per formazione e anagrafe, De Rada appartiene alla stessa generazione di Agesilao Milano, l’attentatore di Ferdinando II, e, soprattutto, di Domenico Mauro, elemento di punta di quel microcosmo intellettuale e futuro esponente politico di primo piano.
    Girolamo De Rada, infine, pesca a piene mani nella cultura orale e nelle leggende popolari dell’Arbëria, a cui dà per la prima volta dignità letteraria. Soprattutto, elabora un’immagine mitica della terra delle origini, l’Epiro.

    I canti di Milosao

    C’è sempre un poema alla base di una cultura. Ciò vale anche per gli albanesi moderni, che hanno ne I canti di Milosao una specie di Iliade 2.0.
    Come da tradizione balcanica, I canti sono il classico drammone basato sul binomio amore-morte. Per la precisione, l’amore contrastato di Milosao, il figlio del despota di Scutari, per la figlia di un contadino.
    E poi la morte del protagonista, nel frattempo rimasto vedovo, che avviene rigorosamente sul campo di battaglia contro gli Ottomani.

    De Rada reazionario?

    Dopo aver partecipato a più riprese ai moti liberali (e aver rischiato grosso), De Rada ha una conversione religiosa. O meglio, si riavvicina alla tradizione cristiana appresa tra le pareti di casa.
    Il suo è, quindi, un patriottismo sui generis, piuttosto diffidente verso le istituzioni rappresentative e più legato alle tradizioni popolari. Alla Kultur, direbbero oggi quelli davvero bravi. Però è un nazionalismo in linea con il filone romantico (quindi i risorgimenti nazionali) e soprattutto, molto adatto alle culture balcaniche. Che proprio a fine Ottocento guardano all’Italia e alla Germania come modelli.

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    Francobolli albanesi dedicati a Girolamo De Rada

    L’Italia fa scuola

    Il caso italiano ha fatto scuola due volte. La prima in maniera indiretta con la Serbia, che ottiene l’indipendenza dall’Impero Ottomano nel 1878 e inizia a considerarsi come una specie di Piemonte, capace di unire gli slavi del Sud.
    Non è proprio un caso che il quotidiano di riferimento dei nazionalisti serbi tra il 1911 e il 1915 si chiamasse Pijemont.
    Per l’Albania, invece, il rapporto è diretto e voluto e si basa su due elementi: le opere di De Rada e il collegio di San Adriano, che diventa una specie di Università per stranieri dei rampolli dell’Albania bene.
    Il mito della Grande Albania è un’idea poetica che diventa propaganda. E su questa propaganda “grandalbanese” farà leva il fascismo per usare l’Albania in chiave antijugoslava, facendo perno proprio sul problema del Kossovo, come sostiene, tra gli altri, Marco Dogo nel suo Kosovo (Marco Editore, Lungro 1992).

    Fascisti albanesi (dall’archivio dell’Istituto Luce)

    Imperialismo

    Ovviamente De Rada non ha alcuna responsabilità nell’uso politico, diretto e indiretto, della sua poetica. Né queste pratiche sono solo tipiche del fascismo, visto che tutti gli imperialismi le hanno utilizzate ampiamente.
    Il nazionalismo altrui, inventato o adeguatamente stimolato, può far sempre comodo alle potenze imperiali o aspiranti tali. Come l’Italia a cavallo tra le due guerre, che posava a maschio alfa nell’Adriatico, o l’Urss e la Cina, che hanno ispirato – e sfruttato – non poco le rivolte anticoloniali del dopoguerra.
    Con l’Albania, c’è da dire, il gioco italiano ha funzionato alla grande. Al punto che nessuno si scandalizzò né mosse un dito quando le nostre truppe occuparono il piccolo Paese balcanico. Anzi, ci fu chi commentò: è l’uomo che rapisce la moglie.

    Enver Hoxha

    La fine

    È il 28 febbraio 1903. Il corteo funebre che accompagna De Rada per l’ultimo viaggio fa sosta vicino alla casa dell’amico di sempre, Domenico Mauro.
    Al riguardo, c’è una leggenda popolare, mai confermata (me neppure smentita): proprio in quel momento, un mandorlo del giardino dei Mauro perde i petali, che si depositano sul feretro dell’illustre scomparso, il quale ha terminato la propria esistenza povero e solo, dopo aver rinunciato a una cattedra all’Orientale di Napoli.
    Ma l’ispirazione dell’opera deradiana continua. Anche oltre il fascismo. Tra quelli che hanno apprezzato di più l’idea della Grande Albania c’è il dittatore Enver Hoxha, che ci ha giocato alla grande per tutelare il suo stato bunker dalle mire jugoslave.
    Infatti, tra le poche aperture dell’Albania di Hoxha all’Occidente c’è l’invio di un busto commemorativo a San Demetrio Corone, nel 1986.
    E allora nessuna meraviglia che in tutte le città calabresi ci siano quasi più dediche a De Rada che al mitico Skanderberg.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.