Autore: Saverio Paletta

  • Cosenza, quartieri popolari alla conquista del Palazzo

    Cosenza, quartieri popolari alla conquista del Palazzo

    L’attuale balcanizzazione del quadro politico di Cosenza, ha un aspetto curiosamente nuovo: su sei aspiranti sindaco, tre provengono da via Popilia, che con i suoi oltre 20mila abitanti è un terzo della città. Di questi pretendenti allo scranno di Palazzo dei Bruzi, uno solo ha percorsi politici di rilievo (e conseguenti numeri potenziali): Francesco De Cicco, già vicino al notabile Ennio Morrone e poi sostenitore di Mario Occhiuto. Ora De Cicco balla da solo, con un programma minimale e “tutto cose”, probabilmente concepito sugli stessi marciapiedi in cui viene diramato prima che inizi la campagna elettorale. 

    Gli altri due sono Luigi Bevilacqua, self made man di origine rom che vanta un’ascesa culturale non scontata (da operaio ha conseguito il diploma di maturità e ora fila come un treno a Scienze politiche all’Unical), e Francesco Civitelli, che gareggia in pragmatismo (ma non in consensi) con De Cicco.

    I tre hanno un tratto comune: la voglia di dare una voce autonoma ai quartieri popolari, a partire da quello più rilevante, anche a livello simbolico.
    Sempre a proposito di quartieri popolari: se si sommano gli oltre ventimila “popiliani” ai circa diecimila cosentini sparsi tra via degli Stadi e San Vito Alto si arriva a metà abitanti della città. Se a questi si sommano gli oltre cinquemila che resistono nel Centro storico, che ha perso il suo carattere interclassista ed è in fase di “popolarizzazione” avanzata, fare i conti è facile: i quartieri popolari predominano. 

    Una demografia in declino

    Questa trasformazione è dovuta alla demografia e alle mutate condizioni economiche della città, che si è impoverita tutta.
    C’è un’espressione non bellissima che gira tra alcuni addetti ai lavori, che forse l’hanno ripresa dagli intellettuali: “città policentrica”, che, riferita a Cosenza, non è proprio un complimento. 

    Al più, è un modo di indorare la pillola: i cosentini si sono sparsi in tutta l’hinterland, hanno colonizzato Rende e Montalto a Est, determinandone crescita demografica ed economica, Vadue, Mendicino, Laurignano a Ovest e, praticamente, il municipio del capoluogo ne rappresenta solo una parte. Quindi, è un’espressione soft per spacciare il dimagrimento demografico del capoluogo per un’espansione urbana, visto che di realizzare la Grande Cosenza – che fu un sogno urbanistico fascista prima e socialista poi – se ne parla a pezzi e bocconi.

    Quarant’anni, 40mila abitanti in meno

    Ma il dimagrimento demografico, iniziato negli anni ’80 avanzati, ha acquisito due aspetti tragici: quello tipicamente meridionale dell’emigrazione, ripreso alla grande a partire dagli anni ’90, e quello più global (almeno per quanto riguarda l’Occidente) della denatalità.

    Ed ecco che Cosenza, dopo aver raggiunto il massimo della popolazione residente nel 1981 con 106mila e rotti abitanti (dato Istat), si è ridotta agli attuali 65mila e rotti (dato del 2019). In pratica, è sprofondata nella sua stessa Provincia, dove l’ha battuta la nuova città Corigliano-Rossano, con i suoi oltre 70mila abitanti. Ed è diventata una città di peso secondario nel contesto regionale, visto che viene anche dopo Lamezia Terme, che non è capoluogo e non vanta importanti tradizioni storico-urbane. Ma ha quasi 70mila abitanti e l’unico aeroporto funzionante della Regione. 

    Chi sono i cosentini?

    A dirla tutta, Cosenza non è mai stata una città di grandi numeri. Si presentò all’Unità d’Italia con poco più di 18mila abitanti, raggiunse un primo picco demografico nel Ventennio, quando superò i 40mila ed ebbe il boom urbanistico a partire dal dopoguerra.

    La crescita di Cosenza si è basata su un fenomeno tipico delle aree marginali: l’inurbazione, che in questo contesto riguardò gli abitanti del contado e della provincia, attratti dalle maggiori opportunità offerte dalla città e la minoranza rom, che crebbe in maniera forte a partire dagli anni ’50. I cosentini “puri”, che potevano vantare più di quattro generazioni nel perimetro urbano, sono diventati minoranza in una popolazione che si è rimescolata più volte.

    Alla crescita artificiale, stimolata dalle opere pubbliche e dalle assunzioni più o meno clientelari nelle amministrazioni e negli enti pubblici nati come i funghi durante la Prima Repubblica, è seguita una decrescita naturale, che tuttavia prosegue a rilento perché, mentre i rampolli del ceto medio emigravano per studiare o lavorare, i quartieri popolari hanno tenuto a livello demografico. E ora, giustamente, presentano il conto.

    È il caso di chiarire un passaggio: l’aggettivo “popolare” è anche sinonimo di “povero” e “disagiato”. Questo chiarimento aiuta a capire un altro aspetto amaro della realtà: dal 2001 in avanti è andato via soprattutto chi ha potuto, in cerca di prospettive di vita e di lavoro migliori.

    Sono i migranti col trolley e col laptop a tracolla, ben descritti dal rapporto della Fondazione Migrantes per il 2018. La Calabria ne vanta circa 200mila, il 10 per cento circa della popolazione, in larghissima parte under 50 e in buona parte (il 30 per cento) laureati. Somigliano poco o nulla ai braccianti con le valige di cartone che li avevano preceduti il secolo scorso. Ma con essi hanno un tratto comune: sono partiti con poche speranze di tornare.

    Cosenza si svuota

    Proiettiamo questo dato su Cosenza. Nel 2019 sono morti 871 cosentini di fronte a 448 nuovi nati, le persone coniugate di entrambi i sessi oscillano tra 14 e 15mila, meno di mille in più dei single ambosessi, che oscillano tra i 13 e i 14mila. Il dato più inquietante riguarda l’invecchiamento: il blocco maggioritario della popolazione (circa il 52%) è compreso tra gli over 45 a salire, i minori non toccano il 15%, i cosiddetti “giovani”, compresi tra i 18 e i 35 anni, superano di poco il 33%.

    Dove sono spariti quei gruppi sociali da cui la città reclutava le classi dirigenti? Sono in buona parte al Nord, attratti dalle opportunità delle grandi aree metropolitane e all’estero. Logico, allora, che a questa trasformazione demografica segua un cambiamento antropologico e politico.

    Il consenso che cambia

    Esistono un “prima” che stenta a finire e un “dopo” che si sta delineando con una certa velocità. Il “prima” è rappresentato dai vecchi gruppi dirigenti, che pescavano voti a man bassa nei quartieri popolari, grazie a pratiche clientelari consolidate, ma si legittimavano sui ceti medio-alti.

    È il caso della famiglia Gentile, partita dal Centro storico, che ha trovato la sua roccaforte nella Sanità. Il suo rapporto con le aree popolari è diventato man man sempre più mediato. Si pensi al fedelissimo Massimo Lo Gullo, se possibile più gentiliano dello stesso Pino Gentile: è stato uno dei consiglieri comunali più votati nella zona compresa tra via degli Stadi e San Vito Alta. I suoi consensi sono irrinunciabili per la famiglia politica più vecchia di Cosenza (ad eccezione dei Mancini, per i quali vale un discorso diverso), che tuttavia basa il suo potere sulle Aziende sanitaria e ospedaliera.

    Un discorso simile, ma minore nei numeri vale per i Morrone, il cui ruolo nella Sanità privata è più che noto: pure loro hanno pescato a man bassa nei quartieri popolari grazie all’attività di sodali più o meno turbolenti e fedeli come il menzionato De Cicco o l’effervescente Roberto Bartolomeo, che non è stato rieletto per poco in Consiglio Comunale.

    Un meccanismo analogo è applicabile a Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio: fortissimi nel Centro storico, ma capaci di proiettarsi a livello regionale e nazionale grazie ai loro legami col mondo istituzionale e imprenditoriale “che conta”.

    Un patto che scricchiola

    Tuttavia, è importante un altro passaggio: il consenso dei quartieri popolari si limita spesso all’immediato (le buche per strada, l’acqua che manca, le fogne che scoppiano, i marciapiedi inesistenti ecc) e ha come referente immediato il Comune. Chi guarda oltre perché può permetterselo è il ceto medio, che mira invece al buon posto di lavoro e alla carriera. In questo caso, i target istituzionali si alzano: sono la Regione e i ministeri. 

    Ma che succede quando il Comune va in dissesto e non è in grado di soddisfare più le richieste minime, clientelari e non? Succede che il meccanismo si rompe e il “patto feudale” tra i “vassalli” popolari e i loro potenti scricchiola.

    Voglia di protagonismo

    Tra i vassalli che tentano di mettersi in proprio (De Cicco) e i nuovi aspiranti leader, è facile delineare il trend: una buona fetta di abitanti dei quartieri popolari vuol far sentire i propri bisogni più direttamente possibile. Forse non si fida più dei “potentes” vecchi e nuovi (tra i quali è doveroso includere Enzo Paolini) e riversa i propri consensi su figure percepite come simili. O perché, come l’assessore occhiutiano, vivono le stesse situazioni e parlano lo stesso linguaggio. Oppure perché incarnano un sogno di riscatto e di ascesa almeno culturale, come Bevilacqua.

    La partita vera deve ancora iniziare, ma i presupposti attuali rendono il caos cosentino più interessante del solito. E – perché no? – più divertente e istruttivo per gli osservatori.

  • Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Della Legnochimica di Rende non si parla da tempo, se non per gli incendi che colpiscono la zona con sinistra puntualità durante il periodo estivo. Tutto ciò che sembra restare della vicenda complessa e tortuosa dell’ex fabbrica di pannelli in ledorex che fu il simbolo dello sviluppo industriale d’Oltrecampagnano è un processo per disastro ambientale.
    Si trascina stancamente davanti al Tribunale di Cosenza e quasi non fa più notizia. Analogamente, risultano ferme tutte le ipotesi di bonifica delle vasche di decantazione della ex fabbrica, cioè i laghetti artificiali che vanno periodicamente in autocombustione e tormentano gli abitanti della zona con i loro odori metifici.

    Un disastro ambientale su scala

    Rende non è Taranto: non ne ha il mare bellissimo e le cozze saporite. Ma se si opera un paragone su scala, è facile capire che Legnochimica ha pesato nella vita e nell’economia di Rende come le acciaierie nella città pugliese.
    Nel bene e nel male. Anzi, visto che siamo in Calabria, il male prevale: la fabbrica che occupava centinaia di persone non c’è più. Su parte dei suoi terreni, nel frattempo liquidati in tutta fretta, sono sorte altre attività economiche, anche importanti, ma dalla capacità occupazionale decisamente minore.

    Al posto della vecchia Spa, riconducibile alla famiglia Battaglia di Mondovì, c’è una srl, che ha la proprietà dei tre laghi artificiali residui, dei terreni circostanti e di ciò che resta delle ultime strutture aziendali, aggredite anch’esse a più riprese dalle fiamme.
    Il mistero si annida in questi trenta ettari di terreno, attorno ai quali si snoda via Settimo, una zona abitata da alcune famiglie che sono, allo stesso tempo, memoria storica e vittime della storia di uno dei più ambiziosi tentativi di industrializzazione della Calabria. Prima hanno visto la fabbrica sorgere e svilupparsi, poi hanno pagato un tributo di lutti e lacrime a questo sogno finito quasi in niente.

    La chiusura di Legnochimica

    Legnochimica chiuse i battenti a inizio millennio e, dal 2006, cominciò un processo tortuoso di liquidazione volontaria, fermato due anni dopo da Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente della giunta di Rende guidata da Umberto Bernaudo, che nutriva seri dubbi sull’opportunità di liquidare i terreni e di coprire i laghi artificiali senza una doverosa bonifica. Purtroppo, i fatti gli hanno dato ragione: ad agosto 2008 si verificò la prima “autocombustione” delle vasche. Era l’avvio di una brutta vicenda destinata a peggiorare.

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    Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente del Comune di Rende quando il sindaco era Umberto Bernaudo

    Infatti, a partire dal 2009, varie persone iniziarono a morire. Se ne contano dieci in meno di due anni, tutte per tumori alle parti molli, in particolare al pancreas (circa sei). Un indizio, a detta degli esperti, di almeno due cose: la presenza di inquinamento industriale e di un’epidemia tumorale. Purtroppo, gli indizi non sono prove.
    Ma in Calabria accade di peggio: la mancanza di un registro dei tumori li abbassa a livello di suggestioni, perché l’assenza di un database impedisce di elaborare i rilievi statistici necessari per puntare il dito verso qualcosa o qualcuno. Ed ecco che questa tragedia ha un peso secondario nell’attuale processo per disastro ambientale.

    La guerra delle perizie

    Il peso relativo dei morti non è l’unico paradosso di questa vicenda. Attorno all’ex Legnochimica di Rende si è scatenata una vera e propria guerra dei periti, che sostengono tesi diverse, quasi diametralmente opposte.
    La prima tesi, elaborata dall’Arpacal, minimizza la portata dell’inquinamento. Le sostanze inquinanti, a detta dei funzionari dell’Agenzia regionale, ci sarebbero, ma quasi nei livelli consentiti dalla legge. Il sottinteso è evidente: con una pulizia minima, è possibile interrare i laghi residui e procedere alla liquidazione.
    La seconda tesi è decisamente più pesante e autorevole. L’autore è l’ex rettore dell’Unical, Gino Mirocle Crisci, in qualità di consulente per la prima inchiesta giudiziaria sulla ex Legnochimica.
    Questa inchiesta partì in seguito alle autocombustioni del 2008 ed ebbe come indagato Palmiro Pellicori, all’epoca liquidatore dello stabilimento.

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    L’ex rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci

    Crisci, per soddisfare le richieste della Procura, portò avanti una serie di carotaggi e di prelievi fino a trenta metri di profondità. I risultati della sua ricerca restano inquietanti: nel sottosuolo dell’ex stabilimento c’è una concentrazione abnorme di acido cloridrico, zinco e metalli pesanti. Secondo le stime dell’ex rettore sarebbero in quantità superiore alle soglie legali di circa cento volte.
    La relazione di Crisci finì come il procedimento per cui l’aveva elaborata: archiviata, perché nel frattempo la morte di Pellicori, unico indagato, aveva fermato il procedimento.
    Ed ecco il paradosso: fino al 2016, l’unica perizia ad avere un valore legale era quella soft dell’Arpacal, mentre quella di Crisci manteneva un suo valore scientifico ma restava di fatto inutilizzabile.
    Intanto, le autocombustioni sono proseguite e le persone hanno continuato a morire.

    La nuova inchiesta

    La seconda inchiesta è partita nel 2016, anche sulla spinta di inchieste giornalistiche. Stavolta, sono finiti nel mirino Pasquale Bilotta, il liquidatore che aveva preso il posto di Pellicori, e alcuni vertici dell’amministrazione di Rende: il sindaco Marcello Manna, Francesco D’Ippolito, assessore all’Ambiente della giunta Manna dal 2014 al 2019, e Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune.
    Per questi tre il procedimento è terminato nel 2019, con un non luogo a procedere, pronunciato dal Gup di Cosenza e confermato dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

    Alla sbarra è rimasto il solo Bilotta, sul quale gravano le accuse di disastro ambientale e omessa bonifica. Il processo, iniziato dalla procuratrice aggiunta Marisa Manzini e gestito in aula dal pm Antonio Bruno Tridico, prosegue a rilento.
    Ma tra le polemiche, sempre più in sordina, e i brogliacci giudiziari è quasi sparito il problema reale: la bonifica.

    La bonifica della discordia

    Il problema è più che sentito dall’amministrazione attuale di Rende. «Il Comune è intervenuto nei limiti delle sue disponibilità», spiega il sindaco Marcello Manna. Politichese? Proprio no: «Com’è noto, siamo in predissesto», argomenta ancora il sindaco, «e abbiamo un problema giuridico non secondario: l’esproprio».
    Secondo l’attuale normativa in materia di disastro ambientale vige il principio per cui “chi inquina paga”, quindi toccherebbe alla srl di Mondovì, attualmente sotto curatela fallimentare, togliere i quattrini. L’alternativa, fa capire il sindaco, sarebbe procedere all’esproprio previo inserimento dei terreni della Legnochimica nelle apposite liste del Ministero dell’Ambiente. Ma dalla Regione tutto tace. «Abbiamo fatto molte istanze a Catanzaro, tutte finite in rimpalli burocratici», argomenta ancora Manna.

    Ma la burocrazia è solo uno dei problemi. Un altro, gravissimo, è dovuto alla mancanza di un piano di caratterizzazione. Sul punto, è intervenuto con chiarezza Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del municipio: «Noi abbiamo finanziato una borsa di studio dell’Unical per ottenere una nuova perizia», il cui scopo non è «la caccia al colpevole ma dare indicazioni efficaci per una bonifica». Il risultato è lo studio del professor Salvatore Straface, che riprende il leitmotiv della vecchia ricerca dell’Arpacal: i laghi non sarebbero inquinati in maniera pericolosa. Punto e a capo?

    Ancora lutti a Rende

    Se ci si attiene invece ai risultati della perizia di Crisci, bonificare costerebbe circa dieci milioni di euro. Una somma di cui non dispone il Comune e che è difficile da captare da altri fondi, regionali e nazionali.
    E, come già anticipato, i lutti continuano: dal 2016 a oggi se ne contano altri dodici, con la stessa tipologia dei precedenti nove. Quasi tutte le persone sono morte di tumori alle parti molli, tutti i decessi si sono verificati a via Settimo e dintorni, quindi a distanza significativamente breve dall’ex Legnochimica di Rende, tutti sono avvenuti in un lasso breve, poco più di tre anni.

    Ciò che pesa di più su questa vicenda è il nuovo silenzio surreale. I suoi spazi mediatici sono ridottissimi e le poche voci del territorio quasi spente. La XAssociazione Crocevia, per anni in prima fila nella battaglia sull’ex stabilimento, ha perso la propria sede e ha ridotto le proprie attività. Gli altri comitati si limitano a comunicati stampa duri ma poco ascoltati.
    A Rende, come a Taranto, per decenni si è barattato l’ambiente (e quindi la salute) col lavoro. Ma al posto delle ciminiere è rimasto un fantasma. Inquietante, pericoloso e forse letale, come in un romanzo horror che difficilmente potrà avere un lieto fine.

  • Lo strano caso del dottor Tansi e di mister Carlo

    Lo strano caso del dottor Tansi e di mister Carlo

    Seguire le acrobazie politiche di Carlo Tansi può essere un’esperienza sensoriale di rara intensità, in cui si mescolano in parti uguali vertigini e divertimento.
    Già: le sfaccettature del personaggio sono tantissime, le sue contraddizioni pure. Difficile rintracciare una logica nella sua traiettoria (parlare di strategia sarebbe troppo). Impossibile venire a capo della sua comunicazione, semplice e caotica allo stesso tempo.

    Il sistema che t’incatena

    La traiettoria del principe dei geologi sembra essersi conclusa, per il momento, con la conferenza stampa Facebook del 17 luglio, in cui il Nostro si è più o meno “consegnato” ad Amalia Bruni.
    Le motivazioni di questo abbraccio abbondano di salti logici. Tansi, infatti, ha declinato la scelta con la consueta antipolitica: scienziata lei, scienziato lui, chi meglio di loro per dare alla Calabria il meritato destino di progresso?
    Eppoi, ha ribadito il Nostro, giusto per scansare qualche equivoco, il sistema va smantellato dall’interno e se non si sguazza nel fango non si verrà a capo di niente.

    Verrebbe voglia di dar ragione a lui e torto a quel cattivone di de Magistris, che ha reagito con toni e modi da verginella tradita e ha definito l’ex sodale un affamato di poltrone pronto a buttarsi tra le braccia di quella classe politica contro cui aveva detto di tutto e di più. Però i salti logici restano e occorre darne conto.

    Carlo Tansi detto Tanzi non era quello che non faceva coalizione con nessuno per non mescolarsi col “vecchio” e coi profittatori?
    E ancora: non era stato proprio Carlo Tansi detto Tanzi a coniare il Put, un acronimo da cantina sociale che significa Partito unico della torta ed è, appunto, sinonimo di sistema?

    Il percorso di Tansi

    L’abbraccio con la Bruni è iniziato verosimilmente a fine giugno ed è documentato da una serie di post sulla pagina Facebook di Tansi, uno più spassoso dell’altro.
    Il Nostro ha iniziato il 30 giugno, con una missiva inviata a Giuseppi Conte, studiata per profittare della crisi tra l’ex premier e Beppe Grillo: «Sarò al fianco di Conte se costituirà una nuova formazione politica».
    Col secondo post, del 5 luglio, Tansi ha osato di più: ha invocato una Grosse Coalition progressista per fermare il centrodestra di Roberto Occhiuto.

    Il 13 luglio l’arciduca dell’idrogeologia calabra ha iniziato a stringere sulla Bruni e si è detto disposto a mettere da parte l’autocandidatura a governatore. Uno sforzo non indifferente, data la mole e l’iperattività dell’ego tansiano.
    Il 14 luglio, il conte del Cnr ha proclamato urbi et orbi (più verosimilmente, tra Pollino e Stretto) il buon esito dell’incontro con la Bruni.
    Non serve davvero raccontare oltre: chi vuol saperne di più, vada sui profili social del Nostro, dove le occasioni di divertimento non mancano.

    La tansimania

    Riavvolgere il nastro di questi due anni di tansimania, coltivata dal principe dei geologi calabresi, può essere un’esperienza istruttiva su come il civismo e il giustizialismo antipolitico possano essere mezzi politici per far politica. Cioè, in molti casi, per prendere la classica greppia, disprezzata solo se vi aggrappano gli altri.
    Per fare ciò è necessario rispondere a un’altra domanda: cosa ha spinto un brillante ricercatore del Cnr, tra l’altro coccolato dai media, a sporcarsi le mani con la politica? E ancora, cosa ha trasformato il sorridente e piacione “scienziato della porta accanto” in un feroce fustigatore dei (mal)costumi politici altrui? Cosa ha propiziato la metamorfosi di un rotariano doc in Masaniello ’i nuavutri e mangiamassoni?

    Una risposta possibile potrebbe essere: la lunga frequentazione di quegli ambienti politici e sociali su cui ora lancia saette. Una frequentazione da cui ha avuto ruoli e visibilità, ma conclusasi con un trauma: la defenestrazione dalla Protezione civile calabrese, di cui era stato alla guida durante l’amministrazione regionale Oliverio.
    È questo lo spartiacque tra Doctor Carlo e Mr Tansi detto Tanzi.

    La parabola di Tansi

    Indisciplinato come tutte le personalità autoritarie, insofferente a qualsiasi mediazione, indisponibile a qualsiasi confronto in cui non la spuntasse. Tansi detto Tanzi aveva fatto irruzione sulla scena politica calabrese nella canicola estiva del 2019 in maniera a dir poco rumorosa, violando tutti i precetti basilari della comunicazione politica.

    Ha invaso Facebook, trasformandolo in un’arena virtuale da cui sparare a zero sugli avversari, reali, potenziali e virtuali.
    Si è parlato addosso un po’ ovunque e sempre ad alto volume. Ha scansato con zelo ogni tentativo di dialogo politico che contrastasse con il suo obiettivo dichiarato: diventare presidente della Regione. Ovviamente, per fare la rivoluzione e trasformare la Calabria in una specie di California del Mediterraneo.

    L’obiettivo percepito, e probabilmente reale, era un altro: entrare in Consiglio regionale purchessia, con costi e impegno minimi. Infatti, oltre che a guida (verrebbe da dire: Duce) della propria coalizione, si era candidato anche come capolista della sua Tesoro Calabria nella circoscrizione di Cosenza.
    E aveva sfiorato il colpaccio, grazie alla coincidenza miracolosa di tre fattori.

    Il primo, prevedibilissimo, è stato il collasso del centrosinistra e dei cinquestelle calabresi, incapaci di far coalizione persino con se stessi.
    Il secondo, anch’esso prevedibile, è stato la contrazione dei votanti, che gli ha reso possibile sfiorare con non troppi voti la soglia dell’otto per cento.
    Il terzo è stato l’effetto novità, che ora ovviamente non c’è più.

    Il tempo di sopravvivere a un gossip pruriginoso d’inizio estate 2020 e di riprendersi da un fastidioso problema di salute, il Nostro si è rimesso in pista per le Regionali subito dopo la tragica scomparsa della ex presidente Jole Santelli.
    Tansi è rientrato con gli stessi metodi e forse con la speranza di ottenere quegli zerovirgola in più che gli consentirebbero di sedere in Consiglio e diventare collega dei membri del Put.

    Perciò è partito a razzo a novembre, con una lite non leggera con Pino Aprile, non ancora direttore di testata ma leader politico meridionalista. La colpa di Aprile? Avergli detto durante un incontro che sarebbe stato meglio parlare prima di programmi, poi di coalizioni e solo dopo di candidature.

    La Regola Aurea

    L’autore di “Terroni” è stato il primo a fare le spese della Regola Aurea Tansiana e del suo corollario. Secondo questa regola il mondo si divide in tre categorie: Tansi, non Tansi, anti Tansi. Secondo il corollario, i non Tansi che non seguono Tansi diventano automaticamente anti Tansi. Per chiarire con un esempio, Tallini è senz’altro anti Tansi. Ma lo sono anche gli ex interlocutori, Aprile prima e de Magistris poi. Resta un dubbio su Roberto Occhiuto: è anti Tansi perché avversario politico o, più semplicemente, perché non se lo calcola?

    Stavolta, però, le cose si sono fatte più difficili: lo scatafascio del centrosinistra e dei cinquestelle è confermato, ma manca l’effetto novità. E, a proposito di populismo e giustizialismo, è sceso in campo il molto più attrezzato (e apprezzato) Luigi de Magistris. Che, a differenza di Tansi, mastica e pratica la politica per davvero.
    In questa situazione, il principe dei geologi naviga a vista tra una contraddizione e l’altra, sperando che gli elettori calabresi, notoriamente privi di memoria storica, non se ne accorgano. Sempre a proposito di de Magistris: come si metterà Tansi se il retroscena del dialogo a distanza tra il sindaco di Napoli ed Enrico Letta dovesse portare a un dialogo politico?

    Comunque vada sarà (in)successo

    A furia di fare e disfare, Tansi è rimasto più o meno isolato. Ed ecco perché ha cercato aperture a Roma (che sarà “ladrona” e “padrona” ma fa sempre comodo) magari attraverso Conte. Ed ecco perché, dopo aver parlato di Put a tutta forza, ha lanciato l’idea di una Santa Alleanza anti Occhiuto, in cui è entrato effettivamente, della quale si può dare un’interpretazione tutto sommato in linea col personaggio: accoglietemi e scurdammoce ’o passato.

    Intanto, gli osservatori più accreditati danno il ricercatore del Cnr in progressivo sgretolamento. E lui, giustamente, reagisce e resiste come può.
    L’augurio di continuare e perseverare è il minimo. Di sicuro non avrà successo, ma almeno è divertente.