Autore: Saverio Paletta

  • Porto di Bagnara, nove milioni e nessuna bonifica

    Porto di Bagnara, nove milioni e nessuna bonifica

    Da un porto che non c’è (e che forse non sarà mai realizzato) a uno che c’è (e serve tantissimo) ma è pieno di problemi.
    Ci si riferisce al progetto di Paola, vagheggiato dagli anni ’90 e di cui sopravvivono solo le tracce iniziali sul lungomare, e alla struttura di Bagnara Calabra, realizzata a fine anni ’80 e ora in mezzo a due guai, uno più grosso dell’altro: i danni ai moli provocati dal mare e il disastro ambientale, provocato dall’uomo, su cui indaga tuttora la Procura di Reggio.

    Gianluca Gallo, assessore all’Agricoltura della Regione Calabria

    Questi due porti, quello che non c’è e quello che è pieno di guai, hanno in comune una cosa: l’attenzione propagandistica della giunta regionale uscente che ha annunciato, lo scorso Ferragosto, due maxifinanziamenti, 20 milioni per Paola e 9 per Bagnara. In quest’ultimo caso, si sono spesi in prima persona l’assessore al Turismo Fausto Orsomarso e quello all’Agricoltura e alla pesca Gianluca Gallo.

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    Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo (foto Alfonso Bombini)

    Tanto impegno è doveroso, perché la pesca è una delle voci principali dell’economia bagnarese e poi perché il porto è utilizzato, d’estate, anche dalle imbarcazioni da diporto.
    Ma siamo sicuri che questi 9 milioni, stanziati dall’amministrazione Spirlì su iniziativa dell’assessora alle Infrastrutture Domenica Catalfamo, potranno essere spesi?

    Un’estate calda

    Molti annunci, tanti applausi (rigorosamente bipartisan) e altrettante polemiche, rivolte alle istituzioni per accelerarne le pratiche. L’estate bagnarese è stata calda non solo per la latitudine. Il dibattito sul porto – danneggiato gravemente dai marosi nell’inverno del 2019 e poi sequestrato dalla Procura di Reggio lo scorso febbraio per un presunto disastro ambientale – è iniziato a giugno. Con le esternazioni di Nino Spirlì che è intervenuto a un incontro istituzionale assieme al sottosegretario alle Infrastrutture Alessandro Morelli. I due, in questa occasione, hanno ribadito il loro interessamento per sbloccare il sequestro e si sono impegnati a fare le doverose pressioni istituzionali.

    Il leghista si rivolge alla magistratura

    Siccome due leghisti non bastano, buon ultimo è giunto Giacomo Saccomanno, il commissario regionale della Lega, che si è rivolto direttamente alla magistratura il 6 giugno per chiedere il dissequestro. A dire il vero, una risposta è arrivata: l’autorizzazione, concessa dalla sostituta procuratrice Giulia Maria Scavello, all’uso delle banchine sigillate durante l’inverno.
    Ma è una risposta parziale, riservata ai soli pescatori, che possono ormeggiare le barche. Ma non possono farci la manutenzione e, soprattutto, devono smaltire i rifiuti del pescato attraverso una ditta specializzata. Poco, ma meglio che niente.

    La presenza del disastro ambientale non ha fermato, tuttavia, la propaganda. Infatti l’ultimo atto politico dell’agosto bagnarese è stato una conferenza stampa tenuta il 20 agosto da Catalfamo e da suo cugino, il deputato azzurro Francesco Cannizzaro. Entrambi hanno ribadito il finanziamento milionario.
    Già: ma i quattrini sono stanziati per la messa in sicurezza del porto e per il rifacimento della strada di collegamento. Cioè per rimediare i danni provocati dalla natura. Ma per il disastro ambientale chi paga? Soprattutto: chi pulisce?

    Il generale inverno

    La botta finale l’hanno data i marosi di fine 2019, che hanno devastato in due ondate (il 14 e il 21 dicembre) il molo di sopraflutto – cioè il braccio esterno del porto, diventato da allora in parte inagibile – e distrutto le scogliere di protezione.
    Da quel momento in avanti, chi usa quel molo lo fa a suo rischio e pericolo. Anzi, potrebbe non usarlo più: secondo gli addetti ai lavori i danni sono tali che potrebbe bastare un inverno simile a quello pre Covid per finire di distruggere tutto.

    Non è un caso, quindi, che il porto di Bagnara sia subito entrato nell’agenda della Regione, sin dai tempi di Jole Santelli, la prima a promettere l’impegno delle istituzioni poco prima delle elezioni 2020 assieme a Cannizzaro, su invito del vicesindaco Mario Romeo, eletto nella lista civica guidata dal dem Gregorio Frosina, ma azzurro anche lui.

    La promessa in presenza di Tajani

    Subito dopo, la promessa è stata ribadita dai tre in presenza dell’eurodeputato Antonio Tajani. E poi è arrivato il turno della Lega, con l’interessamento di Salvini, giunto nella cittadina tirrenica, proprio a ridosso della pandemia, assieme alla fedelissima Tilde Minasi.

    L’interesse propagandistico è innegabile, ma senz’altro il porto è vitale: coi suoi circa 150 posti barca è l’estensione nel mare del quartiere Marinella, il cuore pulsante di un’imponente flotta peschereccia di oltre 100 natanti.
    Non solo: grazie ai moli mobili, l’estate vi ormeggiano anche le barche da diporto dei privati e quelle per il trasporto dei turisti che visitano la Costa Viola.

    Gli sporcaccioni anonimi

    Per una cittadina non grande, poco meno di 10mila abitanti, una struttura così è oro.
    Peccato solo che molti utenti non se ne siano resi conto. E, soprattutto, peccato solo che chi doveva vigilare in maniera continuativa non l’abbia fatto. Siamo in Calabria, lo sfasciume pendulo sul mare, come diceva Giustino Fortunato.

    Ma in Calabria l’uomo riesce a far peggio della natura. Se ne sono accorti (eccome!) i carabinieri, che hanno messo i sigilli al porto il 14 febbraio, dopo aver trovato di tutto e di più sulle banchine e, soprattutto, nei fondali: pezzi di scafi e relitti interi, vecchi motori abbandonati, fusti di olio per motori o di carburante, pezzi di reti e di lenze. Di tutto e di più.

    La terza volta che il porto subisce un sequestro

    Lo spettacolo dei fondali, in particolare, è tutt’altro che rassicurante: grazie all’interramento, fisiologico in tutti i porti, si sono ridotti dagli originari quindici metri di profondità agli attuali poco più che sei e c’è da scommettere che la sabbia celi altri “tesori” simili a quelli trovati dagli inquirenti.

    È la terza volta che il porto subisce un sequestro. La prima è stata nel 2013, la seconda nel 2018, a causa di rifiuti pericolosi trovati su una banchina interna.
    Sono le tappe di un’esistenza intensa e tormentata, da cui si ricavano due dati.
    Il primo: il porto è stato utilizzato moltissimo (e vivaddio); il secondo: questo porto è stato molto trascurato o, comunque, non tutelato a dovere.

    Una storia tormentata

    Ciò che serve, spesso, fa anche gola. E tanto. Il porto di Bagnara non sfugge a questa regola: non ha fatto in tempo a sorgere, a fine anni ’80, ché subito è entrato nel mirino dei “picciotti” catanesi legati a Nitto Santapaola.
    Ma questa è storia vecchia, consegnata a cronache, nere e giudiziarie, altrettanto vecchie.
    La parte più travagliata delle vicende portuali inizia nel 2011, con la gestione della Compagnia portuale Tommaso Gullì, di Reggio Calabria.
    La società reggina resta fino al 2018, quando l’attuale amministrazione comunale rescinde il contratto per una serie di inadempienze non proprio leggere: tra queste, l’omessa pulizia e l’insufficienza dei sistemi di sorveglianza (solo sei telecamere al posto delle undici previste).

    Il Comune assume la gestione del porto

    Subentra una società, Marina di Porto Rosa di Milazzo, che resiste pochi mesi, perché succedono due fatti inquietanti: un incendio colpisce la residenza estiva dell’amministratore della società siciliana e un ordigno danneggia una barca, sempre della società. Segnali chiarissimi, che costringono il Comune ad assumere la gestione diretta. Un compito non facile, visto che il municipio è oberato dal dissesto finanziario, terminato solo di recente con l’approvazione del bilancio 2020.

    Nel 2019 la gestione passa alla cooperativa bagnarese Onda Marina, che resiste tuttora, a dispetto del duplice disastro. Tanto impegno, evidentemente, piace non solo alla giunta di Frosina ma anche alle minoranze consiliari, visto che il Comune ha proposto un appalto di cinque anni e vuole estenderlo a dieci.

    Il disastro ambientale ferma la ricostruzione

    L’idea di finanziare il porto, come si è visto, non è una trovata dei cosentini Orsomarso e Gallo, che semmai l’hanno capitalizzata a fini propagandistici. È un tormentone iniziato con l’insediamento di Jole Santelli, che si è sviluppato in crescendo: i milioni promessi sono stati dapprima cinque, poi sette e, a partire dall’estate appena trascorsa, sono diventati nove.

    Tutto questo, senza tener conto del disastro ambientale, visibile a tutti i cittadini prima ancora che agli inquirenti, i quali hanno fatto il classico atto dovuto.
    Il decreto di sequestro, confermato il 21 febbraio dalla gip Vincenza Bellini, è tuttora vigente perché funzionale all’inchiesta, ancora in corso, per disastro ambientale e illecite attività cantieristiche.

    Il sindaco Frosina è intervenuto a maggio con un’ordinanza di bonifica, proprio mentre gli inquirenti continuavano gli accertamenti. La pulizia delle banchine e dei fondali dovrebbe essere a carico delle società che hanno avuto a che fare col porto, cioè la Gullì, Marina di Porto Rosa e Onda Marina. Inoltre, le cooperative di pescatori e le associazioni di sub hanno offerto il loro aiuto.

    I dubbi restano

    Ma i dubbi restano e sono fortissimi: è possibile bonificare senza un piano di caratterizzazione, cioè senza conoscere l’entità reale del disastro e, quindi, poter quantificare i costi degli interventi?
    Queste risposte le potranno dare solo gli inquirenti, non appena concluderanno le indagini, al momento a carico di quattordici soggetti.

    Ancora: è possibile procedere alla ristrutturazione del porto senza aver fatto prima la bonifica necessaria? Evidentemente no, almeno a rigor di logica.
    I due disastri, quello provocato dal mare e quello causato dall’uomo, si incrociano e si ostacolano a vicenda, perché dalla soluzione dell’uno dipende la possibilità di affrontare l’altro.

    È il cane che si morde la coda. E rischia di sbranare o rendere inutilizzabili i 9 milioni, che fanno così gola da aver messo d’accordo maggioranza e opposizioni. I fatti raccontano questo. E il finanziamento? Rischia di trasformarsi in un’altra supercazzola propagandistica, che la fine della bella stagione rischia di spazzare via.

  • Toti “tiene” famiglia, tre generazioni dei Bruno in lista

    Toti “tiene” famiglia, tre generazioni dei Bruno in lista

    Come si arriva a 869 aspiranti consiglieri in una città come Cosenza, di 65mila e rotti abitanti, per un massimo di 40mila elettori?
    Essenzialmente in un modo: reclutamenti più o meno “selvaggi” per controllare i voti di amici e parenti e fare quindi massa critica per spingere solo alcuni nomi e confermare la presenza diretta di simboli o l’influenza di alcuni big, che hanno mire ben diverse dal seggio in consiglio comunale.

    Il guazzabuglio è voluto e fa comodo, tant’è che finora nessuno ha mai messo mano alla legge elettorale per rendere i criteri di candidatura più restrittivi, s’intende nel rispetto della Costituzione.
    Cosenza, proprio per le sue dimensioni ridotte, fa scuola in questo modo d’agire. Lo dimostrano due casi, entrambi nella coalizione di Francesco Caruso.
    Ci si riferisce alle liste della Lega e di Coraggio Cosenza.

    Tutto iniziò da Vincenzo Granata

    Nonostante il declino demografico ed economico, Cosenza fa ancora gola. Ne faceva e ne fa tuttora a Matteo Salvini, perché ogni postazione acquistata nelle istituzioni meridionali rafforza il suo “nuovo corso”, di destra prima “radicale” e poi “moderata”, e limita il peso dei bossiani nelle fortissime nicchie del Nord profondo.
    Non a caso, Vincenzo Granata, eletto nel 2016 con la lista Democrazia Mediterranea, passò con la Lega e ne creò il gruppo consiliare.

    Vincenzo Granata, passato dalla Lega al movimento di Toti e Brugnaro (foto Alfonso Bombini)

    Quello di Granata, tra l’altro fratello di Maximiliano Granata, presidente del Consorzio Vallecrati, è il primo tentativo di radicamento del partito di Salvini in città.
    Tutto è filato liscio fino a pochi mesi prima delle elezioni, quando col cambio dei commissari sono iniziate le frizioni interne che hanno provocato l’uscita dalla Lega di circa trecento militanti, a partire proprio da Granata.
    Ed ecco che il Carroccio si è trovato un problemone: come colmare il buco?

    Una “cura medica” per la Lega

    Il vuoto nel Carroccio è pesante e si tenta di colmarlo in tutti i modi. In una primissima battuta, ci hanno provato alcuni volti noti della politica cittadina, che in passato avevano fatto parte della maggioranza della giunta di Salvatore Perugini, finora l’ultimo sindaco cosentino espresso dal centrosinistra: Francesca Lopez, Salvatore Magnelli, Gianluca Greco e Roberto Sacco. Nessuno dei quattro è rimasto a bordo del Carroccio (Lopez e Magnelli sono candidati in Fdi e Sacco è finito a sinistra con l’altro Caruso, cioè Franz).

    Il secondo intervento salva Lega è opera di Franceschina Brufano, leghista vicina a Spirlì e congiunta dell’ex presidente dell’Ordine degli avvocati Emilio Greco. Assieme a lei si mette in moto anche il consigliere uscente Pietro Molinaro.
    Quest’ultimo chiede un aiuto eccellente: quello di Simona Loizzo, anch’essa candidata nel Carroccio, ma per le Regionali.

    Simona Loizzo tra Nino Spirlì e Matteo Salvini

    Ed ecco individuato il primo puntello: Roberto Bartolomeo, ex consigliere comunale emerso alla fine dell’era Mancini e dotato di un solido pacchetto di consensi. Con lui correrà in ticket Federica Pasqua, giovane medico dal cognome importante: è figlia di Pino Pasqua, primario all’Ospedale dell’Annunziata.

    Nella corsa a riempire è senz’altro scappato qualche svarione: il giovane Mattia Lanzino, nipote dell’ex “primula” della ’ndrangheta cosentina. Nulla da eccepire sulla persona, perché il ragazzo è incensurato. Tuttavia, il tono delle polemiche seguite alla “rivelazione” ha confermato che i cosentini sono meno garantisti e meno propensi a distinguere tra persone e cognomi di quanto si creda.

    La trasfusione

    Il problema, per il Carroccio è tirare a bordo almeno gli 800 voti utili per avere pedine in Consiglio. Se il sangue non basta, ci vuole una bella trasfusione. Così hanno senz’altro pensato gli Stati Maggiori della Lega, che hanno trovato una lista pronta da assorbire: il Pls, che sta per Partito liberal socialista, un gruppo dal nome glocal ma dalle ambizioni di quartiere, organizzato da Massimiliano Ercole, ex maresciallo dei carabinieri dalle vicende giudiziarie piuttosto turbolente (a suo carico c’è un’inchiesta per traffico di rifiuti).

    Secondo i beneinformati, Ercole ha trasfuso la sua lista del Pls, di diciotto nominativi, nella Lega. Non è dato sapere se ci siano tutti e diciotto i nominativi, ma gli addetti ai lavori ne confermano cinque: Francesca Broccolo, Antonio Citro, Sergio Moretti, Marianna Lo Polito e Michael Zappalà.

    Affari di famiglia

    Finora si è parlato delle mogli (di Luca Morrone, ad esempio), dei figli e dei parenti dei big.
    Ma ci sono anche famiglie normalissime che si sono date generosamente per completare le liste. Una, in particolare, spicca nella coalizione di Caruso: sono i Bruno (nessuna parentela con Davide Bruno, ex assessore di Mario Occhiuto), che si sono inseriti in blocco nella lista Coraggio Cosenza, organizzata da Vincenzo Granata per puntellare a Cosenza il movimento (Coraggio Italia) di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia.

    In questa lista, infatti, è possibile distinguere tra due Giuseppe Bruno solo grazie all’anno di nascita: il primo è classe ’53, il secondo è classe 2001. Il salto anagrafico non è un caso, perché sono nonno e nipote.
    Tra i due, figurano Ettore Bruno e Silvana Bruno, rispettivamente papà e zia di Giuseppe jr.
    Non finisce qui: in lista ci sono anche le consorti di Giuseppe senior e di Ettore. E c’è Federica Chiari, la fidanzata di Giuseppe jr.
    Cosa non si fa per riempire una lista…

    Il regno del casino

    A guardare bene i santini elettorali si capisce che molti, al massimo, sono abituati a fare selfie e risultano a disagio col look supercompassato e imbellettato dei politici professionisti.
    E si capisce che i dirigenti politici hanno agito in maniera “pasoliniana”, cioè hanno preso di peso le persone dai quartieri e dalle strade senza andare troppo per il sottile, ovvero senza informarsi sulla reale vocazione (o preparazione) politica dei candidati.
    Oggi vince chi fa più casino. E a Cosenza lo si è capito benissimo. Chissà che anche in questo il Sud profondo non faccia scuola.

  • Compagni coltelli, per i big del Pd pronto il pacco… Di Natale

    Compagni coltelli, per i big del Pd pronto il pacco… Di Natale

    Un documento credibilissimo rivela lo stato d’animo con cui il Pd affronta le imminenti Regionali.
    Questa carta “canta” sin troppo: è una lettera inviata da Graziano Di Natale, consigliere regionale uscente, ai circoli del Pd della provincia di Cosenza.
    Per la precisione, intona un’aria tragica, da resa dei conti interna, che rende piuttosto bene un dato: gli equilibri interni dei dem sono saltati. E, al momento, la situazione risulta di difficile ricucitura.
    Tutto lascia pensare che gli stati maggiori calabresi del partito di Letta vogliano usare le Regionali (e, in subordine, le Amministrative di Cosenza) come se fossero le primarie che non si celebrano più da un pezzo. In parole povere, per ristabilire gli assetti di potere e i nuovi equilibri.

    Non saranno elezioni, ma un referendum

    Veniamo ai passi salienti della recente missiva con cui Di Natale chiede il voto per sé non a danno degli avversari, come sarebbe logico, ma dei colleghi di lista.
    Scrive, infatti, l’esponente paolano: «Quante volte ci siamo dovuti “giustificare” con amici e conoscenti o chiedere il voto per un candidato che puntualmente poi disattendeva ciò che aveva promesso durante la campagna elettorale??!! Quante volte ci siamo vergognati per questo? Quante volte hanno preso i nostri voti e sono spariti?».
    Sono due domande retoriche, chiarite da un terzo quesito: «È questo il Partito Democratico che vogliamo?»

    Ed ecco che Di Natale spiega i motivi della sua candidatura, con termini simili a quelli con cui Carlo Tansi ha giustificato l’alleanza con Amalia Bruni: «Ho scelto di candidarmi nel PD per “lottare dall’interno”, restando coerente con il mio percorso ricco di battaglie, denunce, legalità, dignità, ascolto e presenza sui territori. Per “lottare dall’interno” intendo cambiare il modo di gestire il partito nella nostra regione».

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    La lettera inviata da Graziano Di Natale

    Un paradosso curioso: quando, nel 2020, si candidò in Io resto in Calabria, la lista presidenziale di Pippo Callipo, l’esponente paolano dem non proferì parola sul suo partito, né i maggiorenti dem la proferirono su di lui.
    Ma tant’è: nella compilazione delle liste le appartenenze possono diventare optional.
    Stavolta le cose sono andate diversamente: Di Natale si è “dovuto” candidare nel Pd, dove i suoi quasi cinquemila voti potrebbero non pesare abbastanza in una lista piena di big.

    Quattro galli in un pollaio

    Non occorre essere analisti dei flussi elettorali per capire che nella coalizione della Bruni c’è uno squilibrio piuttosto marcato, tra la lista del Pd, concepita come macchina macinavoti, e le altre.
    Secondo i beneinformati, sarebbe stata determinante, in questa scelta. la volontà del commissario Francesco Boccia, ansioso di ottenere comunque un risultato “di bandiera” in linea col trend nazionale, che oscilla attorno al 17%, anche in Calabria e soprattutto nel caotico partito cosentino.

    Così la lista dem è diventata un pollaio in cui quattro pezzi da 90 si contendono uno spazio piuttosto ridotto: oltre Di Natale, sono in lizza Giuseppe Aieta – che si è deciso per il suo partito dopo aver traccheggiato un bel po’ con Mario Oliverio – Mimmo Bevacqua, il campione più forte dell’area popolare dem, e Franco Iacucci, che gode in questa corsa di due forti postazioni di tiro (la provincia di Cosenza e il Comune di Aiello, di cui è tuttora sindaco) e dell’appoggio di Nicola Adamo e Carlo Guccione.

    Ne resterà solo uno

    Di Natale avrebbe provato a sottrarsi a questa logica, che rischia di trasformare l’attuale competizione in un bagno di sangue anche per i consiglieri uscenti, di cui potrebbe passarne uno solo.
    Infatti, stando ai bene informati, il big paolano avrebbe provato a compilare la lista del presidente, ma con scarsi risultati, perché pochi sarebbero stati disposti a fare i portatori d’acqua per un consigliere uscente. Con un rischio ancora maggiore: trovarsi alla guida di una lista debole.

    Questo spiega la logica da guerra civile interna con cui è redatta la lettera inviata ai circoli. «Ascoltate il mio appello: ogni singola preferenza per me, sarà un avviso di sfratto per chi ha distrutto questo partito», scrive il consigliere regionale, che rincara la dose senza accorgersi di aver copiato uno slogan usato dai seguaci di de Magistris, tra l’altro proprio a Paola: «Il 3 e 4 Ottobre non sarà una semplice elezione. Il 3 e 4 ottobre sarà un referendum tra NOI e loro».

    Dalle parti di Masaniello

    Il riferimento ai Masanielli del quasi ex sindaco di Napoli non è casuale: nelle loro file milita la vera spina nel fianco degli aspiranti consiglieri regionali del Tirreno cosentino, cioè Ugo Vetere, sindaco di Santa Maria del Cedro dotato di un forte seguito.
    Infatti, pur essendo legato al Pd, Vetere avrebbe scelto di schierarsi prima con Carlo Tansi e poi avrebbe ceduto alle lusinghe di de Magistris proprio per non finire schiacciato da Di Natale, che a differenza sua vanta comunque un legame di primo piano con il Pd “che conta”, essendo genero del notabile amanteano Mario Pirillo, ex assessore all’Agricoltura dell’era Loiero ed ex europarlamentare.

    Secondo gli addetti ai lavori, Vetere, che è candidato in Dema, ha una grossa carta a proprio favore: l’appoggio elettorale di Giuseppe Giudiceandrea, che si è chiamato fuori all’ultimo dalla competizione elettorale anche per non correre lo stesso rischio di Di Natale. Cioè competere all’interno della lista ammiraglia di de Magistris con Vetere e Mimmo Talarico (col quale condivide, almeno in parte, il bacino elettorale).

    La chiamata alle armi

    Alla candidatura praticamente obbligata nel Pd, Di Natale risponde con una chiamata alle armi, rivolta non tanto contro l’attuale commissario ma per «mandare a casa chi ha praticamente azzerato il partito, facendolo addirittura commissariare per l’ennesima volta».
    Di Natale farà senz’altro il portatore d’acqua, ma la porterà avvelenata. E guai a berla.

  • Regionali, de Magistris moralista a convenienza

    Regionali, de Magistris moralista a convenienza

    Il quadro ormai è delineato: Occhiuto fila più o meno liscio, con la sola eccezione di alcune “sviste” (del suo staff o della Commissione parlamentare antimafia?) nel collegio Sud, mentre i suoi avversari a sinistra si contendono la palma del “nuovo” e della “purezza”.
    Ma Amalia Bruni e Luigi de Magistris possono aspirare, al massimo, alla certificazione dell’usato sicuro, tipica dei venditori d’auto degli ultimi anni dello scorso secolo.

    Uno sguardo più approfondito rivela che, in realtà, tra le due coalizioni c’è una certa permeabilità, costituita da personaggi di primo piano, spesso con storie e provenienze simili, che si sono collocati più a seconda della convenienze (cioè per massimizzare i propri voti) che in base a istanze reali di rinnovamento. Questa transumanza è visibile nel collegio di Cosenza, che è il più determinante sia per le dimensioni sia perché gli equilibri del capoluogo, in cui si svolgeranno le Amministrative, risulteranno centrali negli assetti futuri della politica regionale.

    Le contraddizioni di de Magistris

    La voglia del nuovo deve fare sempre i conti con la realtà, che in Calabria genera contraddizioni vistose.
    La prima contraddizione riguarda lo schieramento di De Magistris, che nel collegio Nord ha due nomi: Giuseppe Giudiceandrea e Felice D’Alessandro.

    L’ex consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea

    Iniziamo da Giudiceandrea, ex consigliere regionale e figura forte della sinistra cosentina, passato dalla sinistra radicale al Pd.
    La sua candidatura era data per certa fino a meno di una settimana dalla presentazione delle liste del re di Napoli. Poi, quasi a sorpresa, il ritiro, annunciato dallo stesso Giudiceandrea dalla propria bacheca Facebook con una motivazione a dir poco ambigua: lui avrebbe troppi voti, che impedirebbero la quadra tra i candidati in più liste.

    Giudiceandrea fuori per fare spazio ad altri

    In altre parole, l’ex consigliere sarebbe stato candidato in Dema, dove già ci sono due candidati piuttosto forti: Mimmo Talarico, sodale del quasi ex sindaco di Napoli sin dal 2010, e Ugo Vetere, sindco di Santa Maria del Cedro, già in quota Pd e poi vicino a Carlo Tansi. L’alternativa, per lui, sarebbe stata la candidatura in de Magistris presidente, con il rischio di far ombra ad Anna Falcone, costituzionalista, ex accademica dal passato socialista e dall’attuale impostazione vicina alla sinistra radicale.
    Che sia così lo ribadisce la doppia candidatura della stessa Falcone a capolista nel collegio Nord e in quello Centro. È evidente che lo staff dei Masanielli miri a farla passare comunque.

    Il dietro le quinte che riguarda Giudiceandrea, autoesclusosi con grande intelligenza politica, sarebbe anche un altro: il suo passato legame con Mario Oliverio e il Pd. Nulla di male in questo, riferiscono i bene informati, tanto più che l’ex consigliere dell’amministrazione Oliverio ha bene operato e non ha strascichi giudiziari.
    Anzi, è stato protagonista di strappi anche coraggiosi: chi non ricorda, al riguardo, la lite sui vitalizi con Nicola Adamo?
    La sua esclusione sarebbe stata quindi dettata dalla voglia di proporre novità all’elettorato.

    Felice D’Alessandro, candidato alla Regione nelle file di Luigi De Magistris

    Lo stesso principio, tuttavia, non vale per altri. È il caso di Felice D’Alessandro, sindaco uscente di Rovito, candidato in Dema, che può essere definito nuovo solo perché non ha mai fatto parte del Consiglio regionale. Sebbene, c’è da dire, ci avesse provato: si era candidato nel 2020 in Io resto in Calabria, la lista “presidenziale” di Pippo Callipo, in cui aveva ottenuto 3.600 preferenze, di cui più di 700 nel capoluogo.

    D’Alessandro per tutte le stagioni

    Per il resto, D’Alessandro ha una storia fatta di legami col Pd e i suoi big più forte di quella di Giudiceandrea.
    Di lui si ricorda una serie di vicinanze: dapprima a Carlo Guccione, poi a Mario Oliverio, poi a Ferdinando Aiello (il quale, per un certo periodo, è stato vicino a Giudiceandrea, che avrebbe addirittura convinto a entrare nel Pd), quindi a Nicola Adamo, ancora a Franco Iacucci e, infine, a Sandro Principe, che non è più formalmente nei dem ma ne resta un ispiratore carismatico.

    Sempre a proposito di Principe, può destare qualche interesse un altro retroscena: D’Alessandro, che non ha mai nascosto il desiderio di diventare sindaco di Cosenza, sarebbe stato indicato dal big rendese per la corsa a Palazzo dei Bruzi.
    In pratica, l’aspirante sindaco è stato per un breve periodo il quarto incomodo nel delicatissimo gioco a tre del centrosinistra cosentino, in cui si sono disputati la candidatura a primo cittadino Franz Caruso, Bianca Rende e Giacomo Mancini.

    Sappiamo com’è andata a finire: la quadra è stata ricomposta male, perché sono rimasti in corsa Caruso e Rende e Mancini ha dichiarato l’appoggio all’avvocato di fede socialista.
    In questo contesto, a D’Alessandro non sarebbe rimasto che schierarsi con Caruso come aspirante consigliere, col rischio non infondato di finire tra i banchi dell’opposizione. A questo punto, la scelta della Regione, per non stare fermo un giro, è stata quasi obbligata. Ma non nel Pd, dove coi suoi voti avrebbe potuto fare il portatore d’acqua, ma con la coalizione di de Magistris, dove potrebbe invece pesare di più.

    Un terrone è per sempre

    La seconda contraddizione, verificatasi nel collegio Centro, è più piccola, roba di puro folclore cultura- politico. Riguarda Amedeo Colacino, avvocato molto noto nel comprensorio lametino ed ex sindaco di Motta Santa Lucia.
    Il nuovismo di Colacino risale all’inizio del decennio e si risolve nella sua infatuazione per il neborbonismo, sfociato in una battaglia giudiziaria bizzarra contro il Museo Lombroso di Torino. Inutile, per quel che serve qui, ricostruirla nel dettaglio: basti solo dire che il Comune di Motta, fiancheggiato da tutte le associazioni neoborboniche e dallo stesso Aprile, ha perso in Corte d’Apello e in Cassazione e che l’attuale sindaco del paese lametino, ha accantonato ogni velleità combattiva.

    Interessa molto, invece, la vicinanza di Colacino a Orlandino Greco, all’epoca consigliere regionale, che per un certo periodo aveva guardato con molta curiosità e altrettanta benevolenza alle battaglie identitarie dei “terronisti”, al punto di far approvare una mozione al consiglio regionale e di interessare il Comune di Cosenza attraverso Mimmo Frammartino, allora suo sodale nei banchi dell’opposizione.
    Piccole cose, ci mancherebbe, ma che danno la misura di una certa vicinanza politica. Nel percorso a dir poco originale di Colacino figura anche la successiva adesione al Movimento 24 agosto-Equità territoriale di Pino Aprile, che di recente ha ritirato il proprio appoggio a de Magistris e si è spaccato al suo interno.

    Se i presupposti sono questi, tutto lascia pensare che la candidatura di Colacino in Dema sia un modo per sterilizzare la presenza, a dirla tutta non fortissima, degli apriliani.
    Stesso discorso, nel collegio Nord, per Mario Bria, medico cosentino che i più ricordano come battagliero consigliere provinciale dei Verdi alla provincia di Cosenza durante la prima amministrazione Oliverio.
    Vicinissimo all’epoca all’ex governatore, Bria si è eclissato dagli spalti provinciali per riemergere proprio col Movimento di Aprile, per il quale scaldava già i motori.
    Il rifugio in Dema è per lui una scelta quasi obbligata, visto che il suo pacchetto di voti non avrebbe avuto valore in un partitino prossimo alla polverizzazione, almeno qui in Calabria.

    Tiriamo le somme

    Il concetto chiave su cui sembrano muoversi i due schieramenti a sinistra è quello dei vasi comunicanti: chi è abbastanza forte o ha obblighi politici a cui non si può dire di no va con la Bruni, chi appena può giocarsi la partita è con de Magistris.
    Di sicuro, la lista cosentina del Pd è impraticabile per chiunque, perché blindata attorno a tre big: Mimmo Bevacqua, Giuseppe Aieta e Graziano Di Natale.
    I tre sono forti, ma dei tre il più forte resta Bevacqua. Aieta, su cui pesa un’inchiesta non proprio irrilevante per corruzione elettorale e voto di scambio, ha perso l’appoggio di Oliverio e il fortino della “sua” Cetraro, di cui è stato a lungo sindaco.

    Di Natale, di cui sono più che noti i rapporti parentali con l’ex europarlamentare Mario Pirillo, dovrà misurarsi nella lista principe della coalizione di Bruni, a differenza del 2020, quando aveva potuto valorizzare al massimo i propri voti in una lista fiancheggiatrice.
    Tutto questo senza fare i conti con l’oste: il presidente uscente della Provincia di Cosenza Franco Iacucci, che tenta, secondo molti, la corsa di fine carriera con la candidatura alla Regione. Ma, secondo gli addetti ai lavori, saprebbe comunque il fatto suo, potendo contare comunque sull’aiuto di Adamo e Guccione.
    Il centrosinistra cosentino è diventato un blob, che condiziona non poco il collegio più grande e popolato della Calabria.

    E sortirà un terribile effetto boomerang: la candidatura di Nicola Irto, già consigliere più votato nel 2020, andrà alle stelle grazie a due fattori. Cioè il suicidio dei big cosentini, che rischiano di essere gambizzati dagli ultrà di Oliverio, e il mancato chiacchiericcio antimafia, che di questi tempi non è davvero poco.
    C’è sempre uno più puro che ti epura, diceva il compianto Pietro Nenni ai socialisti più intransigenti. Sbagliava: la purezza è scomparsa da un pezzo. Anche in politica.

  • Assalto alla Cittadella: truppe schierate in cerca di poltrone

    Assalto alla Cittadella: truppe schierate in cerca di poltrone

    Sfida per la continuità o per il cambiamento (ma quale?), le Regionali si annunciano piuttosto combattute, sebbene l’esito sia considerato scontato dalla quasi totalità degli osservatori.
    Roberto Occhiuto, che rivendica l’eredità politica di Jole Santelli, è dato per favorito, grazie anche a liste compilate per fare il pieno di voti.
    Il perno di Occhiuto, come già per Oliverio e la ex presidente prematuramente scomparsa, è Cosenza e non è un caso che il candidato azzurro abbia concentrato proprio nella circoscrizione Nord una potenza di fuoco non indifferente.

    L’armata azzurra

    Il dilemma di Forza Italia è risolto. Capolista sarà l’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo, fortissimo nella fascia jonica e amico-rivale storico dell’aspirante governatore.
    Fuori dalle liste Pino Gentile, che tuttavia non ha rinunciato a lasciare le sue impronte sulla coalizione. Fortissime quelle di sua figlia Katya, già vicesindaca di Cosenza nella prima metà dell’era Occhiuto.

    Meno marcate, ma altrettanto significative, quelle di Simona Loizzo, dentista cosentina con un ruolo importante nella Sanità calabrese, precedenti politici di rilievo (è stata dirigente provinciale cosentina del Pdl), vicinissima alla famiglia Gentile e con addentellati fortissimi nella Cosenza “che conta” (è la nipote di Ettore Loizzo, ex big della massoneria calabrese ed ex gran maestro aggiunto del Goi).

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    Roberto Occhiuto

    La Loizzo, come già anticipato, è candidata nella Lega, in ottima compagnia del consigliere uscente e big di Coldiretti Pietro Molinaro e dell’ex “imbrattamuri” Leo Battaglia, protagonista della bravata ferragostana che ha fatto chiacchierare tutta l’Italia: il lancio sul litorale delle mascherine chirurgiche con santino elettorale dall’elicottero.
    Forti anche nelle altre due circoscrizioni le candidature salviniane: Pietro Raso e Filippo Mancuso nel Catanzarese e Tilde Minasi nel reggino.

    Ma Occhiuto pesca anche nel bacino di Palazzo dei Bruzi: al riguardo, fanno bella mostra di sé Carmelo Salerno (Fi), Pierluigi Caputo (Forza Azzurri) e l’assessora cosentina Francesca Loredana Pastore (Fratelli D’Italia).
    Non mancano i sindaci o ex tali. Ci si riferisce a Pasqualina Straface, ex prima cittadina di Corigliano (Fi) e a Gioacchino Lorelli, attuale sindaco di San Pietro in Amantea molto quotato nel basso Tirreno cosentino.

    Bianchi e neri

    A proposito di Meloniani, resta confermata l’indiscrezione su Luca Morrone, che ha candidato in sua vece la moglie Luciana De Francesco e, finalmente, si candida l’assessore al Turismo uscente Fausto Orsomarso.
    Forte, nella circoscrizione reggina, la candidatura del consigliere uscente Giuseppe Neri.
    Tra le novità assolute, l’ingresso dei seguaci del governatore ligure Giovanni Toti. È confermata, al riguardo, la candidatura di Alfredo Iorio, già uomo ombra dei leghisti Vincenzo Sofo e Pietro Molinaro. Evidentemente, Coraggio Italia è una casa per salviniani in libera uscita.

    Ritorni forti anche nell’Udc, che ricandida Giuseppe Graziano, detto “Il generale” nel Cosentino e Flora Sculco – la figlia di Enzo siede al momento a Palazzo Campanella in quota democrat nel Catanzarese.
    Confermata anche la presenza di Noi con l’Italia di Maurizio Lupi, le cui liste sono state confezionate da un altro ex Udc di peso: Pino Galati.
    L’ultima indiscrezione agostana rivelatasi fondata riguarda la candidatura di Piercarlo Chiappetta, cognato di Mario Occhiuto e consigliere comunale uscente di Cosenza, in lista in Forza Azzurrri.

    Amalia, la scienziata

    Ci voleva proprio una neurologa di fama per venire a capo dello sfacelo del centrosinistra.
    Anche Amalia Bruni ha concentrato il fuoco su Cosenza, dove la sfida è più difficile e i rischi maggiori, a causa dell’ingresso di Mario Oliverio, che potrebbe azzoppare proprio il Pd nel suo territorio.
    Pienissima la lista dem cosentina, in cui sono concentrati i big uscenti tranne Carlo Guccione, silurato in seguito al martellamento di Carlo Tansi. E cioè Mimmo Bevacqua, Giuseppe Aieta, Graziano Di Natale e il presidente della Provincia Franco Iacucci.
    Forte anche la candidatura di Nicola Irto, capolista del Pd nella circoscrizione Sud.

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    Amalia Bruni

    Nella lista della presidente, Amalia Bruni presidente (appunto…), si segnala la presenza di Giovanni Manoccio, storico ex (oggi vice) sindaco di Acquaformosa.
    Un altro ritorno nel Movimento 5 Stelle: si tratta di Domenico Miceli, ex capogruppo grillino di Rende, candidato come capolista nella circoscrizione cosentina.
    A conferma della sua voglia di giocarsi il tutto per tutto per entrare in Consiglio regionale, Carlo Tansi è candidato capolista della sua Tesoro di Calabria in tutte e tre le circoscrizioni.
    A completamento della coalizione, le liste del Psi, del Partito Animalista e di Europa Verde.
    Un merito alla Bruni lo si può riconoscere: è riuscita comunque a tenere unito il centrosinistra, che invece è spaccato a Cosenza, dove sarebbe riuscito a giocare la partita vera…

    Il giustiziere

    Luigi de Magistris schiera sei liste a geometria variabile. Smentisce le voci sulla propria candidatura anche a capolista (segno che conta di arrivare secondo) e schiera i propri fedeli a seconda delle proprie possibilità di farcela o meno.
    Ne sono esempi Anna Falcone, candidata capolista per de Magistris presidente nelle circoscrizioni Nord e Centro, e Mimmo Lucano, capolista in tutte e tre le circoscrizioni calabresi in Un’altra Calabria è possibile.

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    Luigi de Magistris con Anna Falcone durante la raccolta delle firme per presentare le liste

    Non mancano le curiosità. Tra le varie critiche mosse al quasi ex sindaco di Napoli c’è stata quella di aver soffiato candidati ai concorrenti, nello specifico a Carlo Tansi e al Movimento 24 agosto-Equità territoriale, l’ex partitino meridionalista di Pino Aprile.
    Voci confermate: l’ex tansiano Ugo Vetere si candida con Dema nella circoscrizione Nord e l’ex apriliano Amedeo Colacino nella circoscrizione centrale, sempre con Dema.

    Restano confermate la rinuncia a candidarsi dell’ex consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea e la candidatura di Mimmo Talarico, che coltiva un rapporto politico stretto con de Magistris sin dai tempi in cui era consigliere regionale in quota Idv.
    Le liste del “re di Napoli” oscillano tra civismo e sinistra radicale. Di sicuro azzerano le speranze di vittoria di Amalia Bruni ma non garantiscono l’agognato secondo posto al loro leader. A meno che Oliverio non riesca nel suo scopo.

    La ridotta di Mario Oliverio

    I fedelissimi dell’ex governatore tentano il tutto per tutto per ridimensionare il Pd attraverso una candidatura di testimonianza pura e disperata.
    Secondo alcuni, la scesa in campo di Mario Oliverio rievoca una specie di “resistenza”. Più realisticamente, sembra una Salò, per fortuna meno tragica e sanguinosa.
    I “repubblichini” di Oliverio vanno giù duri e promettono fuoco e fiamme contro i “compagni” coltelli dem, anche a costo di agevolare de Magistris.

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    L’ex presidente della Regione, Mario Oliverio

    Col big silano si sono schierati degli ultrà di lungo corso come i cosentini Maria Francesca Corigliano e Mario Caligiuri e Bruno Censore. Più qualche duro dell’ultima ora, come Giuseppe Belcastro, ex sindaco di San Giovanni in Fiore diventato famoso per aver azzoppato il centrosinistra nella sua città appoggiando la candidatura di Rosaria Succurro, assessora di Mario Occhiuto diventata prima cittadina nell’ex Leningrado della Calabria.
    Vendetta, tremenda vendetta, pare lo slogan di Oliverio. E c’è da essere sicuri che, in un modo o nell’altro, riuscirà a coglierla.

    Bagno di sangue

    Le liste risultano tutte più o meno cambiate: via i presunti incandidabili, anche a costo di qualche ingiustizia (come nei casi di Pino Gentile e Luca Morrone) e di qualche rischio.
    Le esigenze restano diverse: Occhiuto, più che di vincere, è preoccupato di rafforzare la propria leadership, mentre gli avversari lottano per la sopravvivenza, senza esclusione di colpi, meglio ancora se bassi.
    Dopo un agosto tropicale, inizia l’autunno caldissimo per la politica.

  • Amministrative Cosenza: il meglio, il peggio e il trash

    Amministrative Cosenza: il meglio, il peggio e il trash

    Cosenza non si smentisce mai: perde residenti in maniera vistosa, ma aumenta i propri candidati. Effetto senz’altro della balcanizzazione politica del post Occhiuto, che termina il suo ciclo come sindaco (ma, suggeriscono i bene informati, si prepara a fare il sindaco “di fatto” in qualità di vice di Francesco Caruso).

    Ma la frammentazione politica è solo una parte della spiegazione, perché i cosentini sono stati sempre generosi nel mettersi in lista: è, almeno, dai tempi di Perugini che la città di Telesio fa impazzire le statistiche grazie all’alto numero di candidati. Che nemmeno stavolta è smentito: 8 aspiranti sindaci a cui si collegano 29 liste per il totale mostruoso di 869 aspiranti consiglieri. I quali, spalmati su una popolazione residente di 65.209 unità generano un record non proprio trascurabile: un candidato ogni 75,0391 abitanti.

    Se si considera che la popolazione maggiorenne (almeno a livello anagrafico) supera di poco le 40mila unità, il rapporto cresce vistosamente (circa un aspirante consigliere ogni 50 abitanti e qualcosa).
    Un risultato simile, per fare paragoni su scala, non lo si raggiunge neppure a Roma, dove gli aspiranti sindaco sono 22 per un totale di 39 liste e 1.800 aspiranti consiglieri che, spalmati su una popolazione residente di 2.778.662, risultano uno ogni 1.543,701 abitanti.

    Anche la disordinata Napoli, al nostro confronto, sembra una caserma politica, perché gli aspiranti sindaco sono 7 per un totale di 160 aspiranti consiglieri su una popolazione residente di 938.507 unità.
    Per riprendere la battuta volgarissima di un ex consigliere comunale, i cosentini, almeno a livello politico, «hanno la candida». Già, ma in questo caso non è nulla di intimo, spesso inconfessabile e comunque fastidioso da curare: è una distorsione della vita pubblica che svaluta la democrazia perché polverizza il voto e gli toglie valore.

    I superpopulisti alla carica

    Una buona fetta di aspiranti consiglieri non coltiva ambizioni politiche di nessun tipo, neppure quella di acquisire qualche merito elettorale per bussare agli uffici “che contano” di Palazzo dei Bruzi.
    Al massimo, esprimono la rabbia, il disagio per il calo della qualità della vita nelle zone popolari e la delusione nei confronti dei vecchi referenti.
    Questo discorso riguarda senz’altro la stralarga parte dei seguaci di Francesco De Cicco e Francesco Civitelli.

    De Cicco tallona Francesco Caruso

    Forte di 6 liste per un totale di 192 candidati, De Cicco tallona da vicino Francesco Caruso. Ma una cosa è il numero degli aspiranti consiglieri, un’altra la possibilità di tradurre questo numero in un risultato elettorale temibile.
    L’ex assessore di Mario Occhiuto, infatti, ha pescato soprattutto nei quartieri popolari, grazie alla continua presenza (è stato l’assessore più a contatto diretto coi cittadini) e a un programma tutto cose, senza alcuna velleità “metropolitana” ma mirato a lenire i disagi pratici del cittadino comune. Lui è populista per definizione e vocazione e non sulla base del marketing politico.

    Coi suoi numeri danneggerà non poco gli avversari che, a destra e a sinistra, hanno finora colonizzato i quartieri popolari e rischia di essere determinante per il ballottaggio.
    Discorso simile per Civitelli, che con le sue 5 liste e 158 aspiranti consiglieri, è il terzo candidato sindaco per seguito. La vocazione populista e il radicamento nei quartieri è uguale a quella di De Cicco, ma l’esperienza politica minore. Potrebbe profittare dell’effetto sorpresa, fare numeri e giocarseli al ballottaggio anche lui.

    La sinistra di (non) governo

    Franz Caruso era partito con la quarta innestata, grazie all’appoggio esplicito di Nicola Adamo (che pesa più del cinquanta per cento del Pd cittadino) e di Luigi Incarnato, che comunque rappresenta i socialisti non di destra cosentini.
    Ai due, dopo qualche tentennamento iniziale, si è aggiunto Carlo Guccione, silurato alle Regionali ma ancora forte in città.

    Come tutti i motori lanciati con troppi giri, quello di Caruso ha picchiato in testa. Con il principe del Foro cosentino ci sono “solo” tre liste, sebbene ben curate.
    Curatissima quella del Pd, in cui figurano due sempreverdi della politica cosentina, cioè Damiano Covelli, protagonista di primo piano della vita amministrativa cittadina e legatissimo a Nicola Adamo, e Giuseppe Mazzuca, guccioniano di ferro e oppositore storico di Occhiuto.

    La Funaro capolista del Pd

    Anche la tradizione familiare ha il suo peso. Perciò non è un caso la presenza in lista di Maria Pia Funaro, già candidata dem alle scorse politiche e figlia di Ernesto Funaro, storico assessore regionale della vecchia Dc.
    La lista del sindaco presenta alcuni volti noti, tra cui quello di Chiara Penna, avvocata e criminologa molto presente sui media. Oltre ai volti, ci sono anche i nomi noti, in questo caso Giuseppe Ciacco, figlio di Antonio Ciacco, ex consigliere comunale di Cosenza e avvocato battagliero. Inoltre, c’è la consigliera uscente Maria Teresa De Marco.

    E ci sono altri due protagonisti della vita politica di Cosenza: Mimmo Frammartino, fresco di divorzio con Orlandino Greco, e Roberto Sacco, che ha trovato alla fine collocazione a sinistra. La sua candidatura mette la parola fine a un piccolo giallo: dato per candidato nella Lega (al riguardo, i bene informati riferiscono di un suo colloquio non troppo riservato con Spirlì alla Cittadella), il corpulento ex consigliere non sarebbe stato troppo gradito ad Occhiuto che avrebbe espresso il veto nei suoi confronti.
    Molto al femminile, invece, la lista del Psi, in cui Incarnato gioca il suo nome candidando sua figlia Giuseppina Rachele.

    Grillina e tansiana? Semplicemente Bianca

    Bianca Rende si è ribellata alle dinamiche del Pd e tenta la corsa da sola in nome del civismo. Tre liste al suo seguito, di cui la principale, Bianca Rende sindaca, piena di donne.
    Non sappiamo se la Rende riuscirà a correre, ma nel frattempo, balla, visto che con lei militano due maestri di danza: Paolo Gagliardi e il tansiano Patrizio Zicarelli.
    Inoltre, la presenza di Anna Fiertler è garanzia di un legame con una certa alta borghesia cittadina. Quella di Sandro Scalercio indica, invece, l’appoggio di alcuni movimenti civici, che sostengono contemporaneamente la candidatura dell’imprenditore Pietro Tarasi alla Regione.

    Ora, è vero che Tarasi corre con de Magistris. Ma è altrettanto vero che Tansi, il quale corre contro il sindaco di Napoli, appoggia la Rende. Lo fa come capolista della sua Tesoro di Calabria, con cui corre al fianco di Amalia Bruni alle Regionali in qualità di capolista in tutte e tre le circoscrizioni.
    Dedizione alla causa? Senz’altro. Ma non si andrebbe troppo lontani dal vero nel pensare che Tansi miri a entrare anche a Palazzo dei Bruzi.
    Altra conferma a fianco della pasionaria ex renziana, i Cinquestelle cosentini, che corrono con la Bruni in Regione.

    La corazzata di Caruso

    L’armata è temibile e, almeno in apparenza, vincente. Il centrodestra non ha lesinato mezzi per spingere Francesco Caruso alla vittoria.
    Col giovane ingegnere, fedelissimo di Mario Occhiuto, si sono schierati molti centometristi del voto, tra consiglieri uscenti in cerca di conferma, ex consiglieri che tentano di rientrare ed esponenti di primo piano della vita cittadina. Più il solito stuolo di amici e parenti.
    I suoi 252 aspiranti consiglieri, spalmati su otto liste promettono bei numeri e l’arrivo al ballottaggio in posizioni vantaggiose.

    La Lega da Bartolomeo a Karim Kaba

    La vera sorpresa, in questa coalizione, è la Lega, che è riuscita a compilare una propria lista dopo l’abbandono di Vincenzo Granata, fratello di Maximiliano Granata, il presidente del Consorzio Vallecrati.
    Nel partito di Salvini hanno trovato ospitalità alcuni volti noti (Francesco Del Giudice) e protagonisti dei dibattiti consiliari (Roberto Bartolomeo) che fanno buona compagnia ad altrettanti migranti, più o meno nazionalizzati, come Karim Kaba e Sodevi Bokkori.
    Fortissima la lista berlusconiana (Forza Cosenza), in cui hanno trovato posto altri protagonisti, come Giovanni Cipparrone, che completa con la militanza azzurra il suo percorso particolare, iniziato in Sel. O come Michelangelo Spataro e Luca Gervasi, fedelissimi di Occhiuto.

    L’immancabile Totonno ‘a Mmasciata e gli altri

    Non può proprio passare sotto silenzio la candidatura di Antonio Ruffolo, alias ’a Mmasciata, tanto silenzioso quanto votato. Un’altra fedelissima che milita in Fi è Alessandra De Rosa, ora nella Giunta dell’archistar.
    Molto forte anche la lista di Fratelli d’Italia, dove si è collocato il votatissimo Francesco Spadafora. Con lui, militano sotto le insegne di Meloni la ex assessora di Perugini, Francesca Lopez, il gentiliano Massimo Lo Gullo, Giuseppe D’Ippolito (fedelissimo di Orsomarso), la consigliera uscente Annalisa Apicella e, last but not least, Michele Arnoni, anche lui ex sodale di Orlandino Greco, che torna alla vecchia fiamma.

    Non è il solo Arnoni in corsa con Caruso. Infatti, l’altro Michele Arnoni (cugino e omonimo) è candidato in Coraggio Cosenza, la lista compilata da Vincenzo Granata per conto del governatore ligure Giovanni Toti. La Lega ha perso un rappresentante, ma Caruso ha guadagnato una lista.
    Consistente anche la lista dell’Udc, in cui corrono Enrico Morcavallo (eletto nel 2016 col Pd) e Salvatore Dionesalvi, anche lui ex assessore di Perugini.
    Confermato l’impegno dell’assessore regionale Gianluca Gallo, attraverso la lista La Cosenza che vuoi, in cui è sceso in campo il suo segretario Giovanni Iaquinta.

    Gli outsider

    Molto concreta la scesa in campo dell’ex big Udc Franco Pichierri, che schiera due liste, la nostalgica Democrazia cristiana (sì, si chiama proprio così) e Noi con l’Italia, con cui impegna a Cosenza il logo di Maurizio Lupi. Al suo seguito si candida Antonio Belmonte, altro protagonista dell’era Perugini eclissatosi negli ultimi dieci anni.
    L’allineamento di Pichierri al centrodestra durante il ballottaggio è quasi scontato.

    Candidature di pura testimonianza per l’ex ballerino Fabio Gallo e per il medico Valerio Formisani.
    Con Formisani, figura carismatica della sinistra radicale, si sono schierati, tra gli altri, il sindacalista Delio Di Blasi e l’ex militante di sinistra sinistra Graziella Secreti.
    Quasi a sorpresa l’ingresso di Gallo, ex ballerino ed esponente di primo piano dell’attivismo cattolico.

    Che il caos abbia inizio

    Ci aspetta circa un mese di comunicati, polemiche social, dibattiti e pareti tappezzate, il tutto in un prevedibile clima di caos. Non ci si può attendere altro dalla città con più candidati d’Italia.

  • Sbranata dai cani, «Randagi o meno la tragedia era evitabile»

    Sbranata dai cani, «Randagi o meno la tragedia era evitabile»

    La tragedia di Simona Cavallaro? «Evitabilissima». Ma, quando una ragazza di vent’anni muore sbranata dai cani «ogni altra considerazione passa in secondo piano, perché c’è un evidente problema di sicurezza da cui non si può prescindere».
    Parole di Massimo Bozzo, ex assessore con deleghe alla Sanità, al Randagismo, al Personale e alla qualità della vita durante la prima amministrazione Occhiuto e poi consulente dello stesso Occhiuto per le emergenze igienico-sanitarie e il randagismo.

    Bozzo, sotto shock e indignato come tanti cittadini, interviene sulla vicenda di Satriano (Cz), culminata con la morte della ventenne, tuttora al vaglio degli inquirenti (che hanno puntato le proprie lenti su un pastore) ed espone il suo punto di vista sulla lotta al randagismo, maturato in circa dieci anni di esperienza. Non senza aver prima chiarito la propria posizione: «Non mi ricandiderò alle imminenti Amministrative di Cosenza, quindi in quel che dico non c’è alcuno scopo elettoralistico».

    Dunque, tragedia evitabilissima, dovuta a problemi di sicurezza

    «Quando un branco di cani scorrazza sul territorio senza alcun controllo, vuol dire che c’è una evidente lacuna nella sorveglianza. A quanto ho appreso dalla stampa, l’aggressione costata la vita alla povera Simona è avvenuta in un’area pic nic. Se le cose stanno così, mi chiedo: che ci facevano quei cani in una zona aperta al pubblico? Questa domanda vale sia se i cani erano randagi, come si è ipotizzato in un primo momento, sia se, come cercano di appurare gli inquirenti, erano semplicemente incustoditi».

    Insomma, forse quei cani dovevano custodire un gregge ma avrebbero dovuto essere custoditi a loro volta. È così?
    «Certo, altrimenti il pastore che ci sta a fare? Per sbrogliare meglio questa vicenda, è d’obbligo una domanda: la presenza di un microchip, che gli inquirenti cercano di appurare sui cani finora catturati, è essenziale per poter definire un animale proprietà di qualcuno o, semplicemente, randagio?
    Il microchip, quando c’è, consente di risalire al proprietario con la massima certezza. L’assenza di microchip rende l’animale tecnicamente randagio. Tuttavia, ciò non esclude che si possa risalire a un ipotetico possessore sulla base di dati di fatto».
    Quindi, tra la proprietà netta e il randagismo c’è uno stadio intermedio, che non esclude le responsabilità

    «Certamente, solo che nel caso del semplice possesso – cioè di un animale che può essere ricondotto a qualcuno anche in assenza del microchip – aumentano le responsabilità degli enti a cui spetta la vigilanza, sia sotto il profilo della sicurezza sia sotto quello sanitario. E cioè, il Comune, in prima battuta, e le autorità sanitarie. Senza contare il ruolo importante dei Carabinieri forestali, che spesso suppliscono alle carenze d’organico della Polizia municipale».

    E in che modo si declinerebbe questa responsabilità concorrente?

    «Rispondo con alcune domande: gli spostamenti del gregge dovevano o no essere controllati periodicamente? Inoltre, qualcuno ha mai verificato se assieme al gregge c’era il branco di cani? Ancora: se questi cani risultassero sprovvisti di microchip, come mai le autorità sanitarie – che comunque dovrebbero verificare le condizioni del gregge – non hanno fatto presente al pastore la necessità di microchippare gli animali? Ci sono molti punti che non tornano».

    Ricapitoliamo: ci sono tre tipi di responsabilità, in casi come questi. Una responsabilità prevalente del proprietario se gli animali sono microchippati, una responsabilità concorrente, tra proprietario e autorità pubbliche, qualora non abbiano microchip e una responsabilità totale delle autorità nel caso di randagismo.

    «Esatto. Per questo, mi sono mosso in maniera dura e determinata a Cosenza, dove il problema del randagismo ha raggiunto a più riprese livelli forti e, a volte insostenibili».

    Con che risultati?

    «Mi limito a esporre i numeri, che parlano da soli: in cinque anni abbiamo tolto oltre 1.200 cani randagi dalle strade della città, di cui siamo riusciti a farne adottare 1.100, previa sterilizzazione. Così facendo, abbiamo ottenuto anche un risultato economico non proprio irrilevante: la riduzione del 75% delle presenze nei canili-rifugio, per un risparmio complessivo di 300mila euro all’anno. Non mi pare poco nella nostra regione, in cui le spese totali dovute al randagismo ammontano a 20 milioni annui.
    Quindi Cosenza ha dato un bel contributo alla riduzione del fenomeno.
    È difficile dirlo in questo periodo, perché d’estate gli abbandoni di animali, che sono alla base del randagismo, tendono ad aumentare. I risultati concreti potremo verificarli in autunno, in seguito alle catture di animali randagi o incustoditi».

    Ma esiste una risposta definitiva al randagismo e, più in generale, all’incuria verso gli animali?

    «La sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Chiediamoci come mai, dalla Toscana in sù, il randagismo è praticamente assente, e, allo stesso tempo, c’è una forte presenza di associazioni animaliste, che cooperano con le autorità. Il contenimento del randagismo che abbiamo praticato a Cosenza, con la partecipazione delle associazioni, dimostra come questo fenomeno si possa contrastare senza aggravi per le casse pubbliche ma, anzi, con risparmi importanti. Però è necessario che i cittadini si rendano conto e facciano le loro pressioni: in democrazia sono loro che fanno la differenza».

    Torniamo alla vicenda di Satriano. La povera Simona è stata uccisa da pastori maremmani, cani di grande stazza e, come li hanno definiti gli stessi inquirenti, molto aggressivi. Nei loro riguardi valgono le stesse raccomandazioni per la lotta al randagismo?

    «Microchippati o meno, erano incustoditi. Senz’altro la sterilizzazione è raccomandabile quando fanno branco: i maremmani sono cani dotati di un fortissimo senso del territorio che, unito alla loro missione biologica (la difesa del gregge) può trasformarli in armi, anche micidiali, date le dimensioni. Non devono essere sterilizzati solo i cani da riproduzione, cioè quegli esemplari di particolare pregio di cui si desidera conservare le caratteristiche genetiche».

    Simona è stata vittima, oltre che dei cani, di una sciatteria collettiva?

    «Non saprei dire, anche perché Satriano è un Comune attivo nel contrasto del randagismo. La risposta definitiva tocca all’autorità giudiziaria. Io mi sono limitato a dire cosa devono fare le amministrazioni per contrastare il randagismo e l’abbandono. Quindi per prevenire episodi tragici come quello di Simona».

  • Transfughi, parenti, evergreen: Caruso fa la squadra

    Transfughi, parenti, evergreen: Caruso fa la squadra

    La seconda partita della Calabria si gioca a Cosenza, dove si deciderà la successione di Mario Occhiuto. Per quanto piccolo e declinante, il capoluogo bruzio è di nuovo l’ago della bilancia degli equilibri regionali.
    Ecco perché il centrodestra si gioca il tutto per tutto e mira alla conquista di Palazzo dei Bruzi senza lesinare mezzi e con un bel po’ di pelo sullo stomaco.

    I numeri dell’armata

    Sulle liste delle Regionali tutto tace o quasi, visto che si attende il verdetto della Commissione antimafia, a cui si è rivolto il solo Roberto Occhiuto.
    Tra il Busento e il Campagnano, invece, è tutto un fermento di numeri, sigle e nomi.
    Magari non sarà “invincibile” (e, anzi, rischia di prendere qualche botta qui e lì), ma l’“armata” comunque c’è. Ed è temibile. Nelle sue file si mescolano veterani “pluridecorati” da tutti gli schieramenti della città e giovani rampanti, attratti dal miraggio della vittoria non improbabile, grazie soprattutto alle divisioni altrui.

    Iniziamo dalle liste, che al momento risultano sette, per il semplice motivo che Francesco Caruso, campione del centrodestra e unto dei fratelli Occhiuto, non ha ancora deciso di compilare la lista del sindaco.
    Ma non disperiamo: Cosenza è una delle città che produce più candidati in rapporto alla propria popolazione in assoluto. Quindi potrebbe essere solo questione di tempo perché si avverta la necessità dell’ottava lista e il mite Caruso si dia da fare per stoccarvi i potenziali candidati in eccesso.

    L’elenco delle liste

    Al momento risultano schierate e prossime al completamento le seguenti liste:

    • Forza Italia, che con tutta probabilità sarà rinominata Forza Cosenza, come nel 2016;
    • Fratelli d’Italia, che come vedremo è oggetto di negoziazioni e tentativi di colonizzazione;
    • Lega, che dopo la defezione di Vincenzo Granata, si presta a operazioni simili, forse addirittura più ardite, a quelle in corso sul partito di Giorgia Meloni;
    • Udc, un rampicante sempreverde della politica calabrese, che a Cosenza risulta più attrattivo che altrove;
    • Coraggio Cosenza, cioè la versione cosentina di Coraggio Italia, il partito di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, diventato il rifugio di Granata e di buona parte dei dissidenti che hanno deciso di mollare Salvini;
    • Azzurri (o Lista Azzurri), un troncone di Forza Italia, in cui si candideranno i fedelissimi di Gianluca Gallo;
    • Continuità, un altro troncone azzurro costituito dagli ultrà del sindaco uscente.

    Tra gli organizzatori dello schieramento, secondo i bene informati, un ruolo di primo piano ce l’ha Carmine Potestio, il superconsulente uscente, che sarebbe intento a spalmare i suoi fedeli, tra consiglieri e aspiranti tali, nelle sette liste.

    L’enigma Ruffolo

    Ma prima di proseguire è doverosa una domanda: che fine ha fatto Antonio Ruffolo?
    Su di lui, al momento, è uscito pochissimo dal delicatissimo gioco di incastri escogitato dallo stato maggiore degli Occhiuto.
    Infatti, non è dato sapere dove si collocherà il consigliere uscente dell’Udc, tanto silenzioso quanto votato. Di Ruffolo non si ricorda un intervento in Consiglio né una polemica. Ma, forte di una media di oltre cinquecento voti a tornata elettorale, il Nostro ha sempre dato il traino alle liste dell’Udc.

    Il motivo di tanto insospettabile successo è piuttosto chiaro: Ruffolo, noto in città col soprannome di ‘A ‘mmasciata, sempre pronto ad aiutare gli anziani a portare la spesa e a sbrigare le faccende condominiali e di quartiere, è il lobbista di chi in una lobby non può mettere piede e il faccendiere di chi non può permettersene uno.
    La sua microclientela di quartiere risulta sostanzialmente innocua per le casse comunali ma paga bene in consensi. Difficile immaginare una coalizione cosentina senza di lui. Di sicuro c’è che Ruffolo è vivo e lotta (con gli Occhiuto). Ma non è dato sapere dove.

    Forza Occhiuto

    La lista di Forza Italia è la croce e delizia dello schieramento di Francesco Caruso. Essendo l’ammiraglia della coalizione, sarà composta da candidati di provata fede su cui i big del centrodestra spenderanno le proprie fiches.
    Tra i candidati berlusconiani si annoverano, sempre per ora, Luca Gervasi, Alessandra De Rosa e Fabio Falcone. Della partita dovrebbe essere anche Michelangelo Spataro, altro uscente di peso, che sarà candidato in ticket con la figlia dell’imprenditore Giampiero Casciaro, per motivi personalissimi: i due sono amicissimi e soci in affari, perché titolari di una casa di riposo a Mendicino, alle porte della città.

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    L’assessore uscente Michelangelo Spataro era in maggioranza anche con Salvatore Perugini sindaco

    L’amicizia prima di tutto. Ed ecco perché Casciaro, dopo aver candidato nel 2016 la moglie in ticket con Giovanni Cipparrone nella coalizione di Enzo Paolini, ha deciso di candidare la figlia in ticket con un occhiutiano di provata fede.

    Udc: democristiani fuori, cosentini dentro

    L’ex partito di Roberto Occhiuto si rivela un ottimo contenitore politico per cosentini di tutti gli orientamenti in libera uscita. Tra i candidati si annovera Salvatore Dionesalvi, ex assessore della giunta di Salvatore Perugini, l’ultima esperienza di governo del centro sinistra.
    C’è, inoltre, Giovanni Cipparrone, ex presidente di circoscrizione in quota Ds, poi oppositore al fianco di Paolini, quindi transitato al centrodestra, dopo un avvicinamento progressivo a Mario Occhiuto.

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    Da sinistra verso destra: Luca Gervasi, Francesco Spadafora e Giovanni Cipparrone

    E figura Emanuele Sacchetti, altro ex presidente di circoscrizione, molto attivo sul territorio ma passato in secondo piano in seguito all’abolizione di questi enti subcomunali. Sacchetti, secondo i bene informati, dovrebbe correre in ticket con la figlia di Giacomo Fuoco, già consigliere e altro fedelissimo di Occhiuto. Il motivo del ticket starebbe nella comune vicinanza di Sacchetti e Fuoco papà a Luigi Novello, medico di San Lucido con una consistente base elettorale e candidato alle scorse Regionali con la Lega.
    Tra i papabili dell’Udc ci sarebbe inoltre Roberto Bartolomeo, un altro mattatore di Palazzo dei Bruzi. Ma sul suo nome non c’è ancora certezza perché potrebbe trovare un’altra collocazione, sempre nel centrodestra.

    La Lega dopo Granata

    La missione di compilare le liste della Lega dopo gli ammutinamenti di Granata e di altri dissidenti passa allo staff di Occhiuto.
    Anche in questo caso la missione è semplice: fare voti, il più possibile e senza andare per il sottile. Che lo scopo sia questo, lo conferma uno dei nomi su cui si chiacchiera di più: Roberto Sacco, un intramontabile della politica cosentina che, dopo aver cambiato più volte vasi e aiuole, diventa anche finalmente verde.

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    Roberto Sacco
    Coraggio Cosenza

    È la lista di più difficile compilazione, perché in essa dovrebbero convivere Vincenzo Granata, i transfughi della Lega e altri fedeli di Occhiuto che non troveranno posto altrove.

    Fratelli d’Italia

    Nel partito della Meloni la parola d’ordine è: colonizzare. A riprova, va da sé, della debolezza strutturale di un partito più forte negli slogan che nell’organizzazione.
    Tra i neomeloniani spicca Francesco Spadafora, il consigliere più votato nelle precedenti Amministrative. Già vicino a Ennio Morrone, il giovane poliziotto di Donnici ha dato prova a più riprese di carattere e indipendenza politica. E c’è chi dice che sarà capace di avvicinare le mani alla fiamma sbiadita di Fdi senza scottarsi.

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    Mario Occhiuto e Luca Morrone quando il secondo, prima di sfiduciare il primo, era presidente del consiglio comunale bruzio

    A proposito di Morrone: Luca, il vicepresidente uscente del Consiglio regionale, conferma anche a Cosenza di voler stare fermo un giro e di agire, semmai, per interposta persona anche nella conquista di Palazzo dei Bruzi. Non si candiderà neppure nella sua città ma pescherà nella sua rete parentale: candiderà una sorella della moglie, che a sua volta è già candidata alle Regionali.

    Uno slogan dei leghisti calabresi è: mai i Gentile con noi. Ma forse i seguaci di Salvini intendono i fratelli Gentile e i loro familiari. Infatti, il divieto è escluso per i fedeli dei due fratelli terribili, visto che Massimo Lo Gullo, sodale da sempre della famiglia più potente di Cosenza, si candiderà coi meloniani.
    Sempre con la fiamma, è prevista inoltre la candidatura del figlio dell’assessore Lino Di Nardo, altro destrorso di lungo corso legato al sindaco uscente, seppure con autonomia lucida e critica.

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    Giovanni Quintieri e Annalisa Apicella

    Tra i fiammisti uscenti, si segnala Annalisa Apicella, che correrà in ticket con Giovanni Quintieri. Occorre ricordare, al riguardo, che già nel 2016 la Apicella fu di fatto in ticket con l’avvocato, che si dimise consentendole di entrare in Consiglio.
    Ultimo ma non da ultimo, Michele Arnoni, ex esponente de La Destra di Storace passato poi con Orlandino Greco. Per lui è il classico ritorno di fiamma.

    Lista Azzurri, dallo Jonio con furore

    La lista di Gianluca Gallo ha la stessa impronta centrista di Forza Italia. È un esperimento politico non ancora definito, con cui l’assessore regionale all’Agricoltura ed ex rivale interno di Roberto Occhiuto tenta di mettere qualche pedina a Cosenza.
    I nomi che spuntano sono quelli di Marisa Arsì – altra consigliera uscente, moglie dell’imprenditore Pino Carotenuto, ex seguace della famiglia Morrone ed ex superconsulente di Palazzo dei Bruzi – e Giovanni Gentile, segretario nella struttura regionale di Gianluca Gallo e già seguace di Saverio Zavettieri.

    Il quadro e le variabili

    Per avere un quadro completo e rispondere ad altre curiosità tipicamente cosentine (ad esempio: che farà Katya Gentile?) occorrerà attendere la compilazione definitiva delle liste regionali del centrodestra. Al momento è tutto e, come si vede, è un gran casino.

  • Porto di Paola, la soap opera calabrese di “Bonaventura” Orsomarso

    Porto di Paola, la soap opera calabrese di “Bonaventura” Orsomarso

    Un assegnone di venti milioni, sorrisoni delle grandi occasioni nella sala del Consiglio comunale di Paola, e via: Fausto Orsomarso, a fine luglio, è passato dal metacinema (chi ricorda il celebre “Ci nni vu bene ara Calabria”?) al fumetto.
    Forse in maniera inconsapevole (o forse no) l’assessore regionale uscente al Turismo ha rinverdito le strisce di Bonaventura, il mitico eroe del Corriere dei Piccoli, che alla fine di ogni avventura, raccontata in rime, sventolava soddisfatto l’assegno da un milione.

    L’assessore regionale Fausto Orsomarso consegna l’assegnone al sindaco di Paola, Roberto Perrotta
    Qui comincia l’avventura

    Il signor Bonaventura diventa 4.0. Anche questa nuova storia, che meriterebbe il racconto in rime baciate, è da fumetto: riguarda il fantastico (e fantasmatico) porto turistico di Paola.
    I venti milioni sarebbero il contributo della Regione alla maxi opera, che dovrebbe costarne cinquanta in tutto. E gli altri trenta? A carico dell’impresa che si assumerà gli oneri e gli onori della gestione in project financing (in parole povere: che finanzierà parte dell’opera e poi la gestirà come se ne fosse proprietaria).
    L’iniziativa, fin qui, non è nuova, visto che molte infrastrutture e opere pubbliche (si pensi alla problematica e cosentinissima piazza Bilotti) sono state ideate e lanciate in project financing.

    Perrotta si è commosso

    La storia del porto turistico non è nuova neppure per Roberto Perrotta, ritornato sindaco di Paola nel 2017, dopo il quinquennio di Basilio Ferrari.
    Di più: Perrotta, che si è commosso davanti al lenzuolo da venti milioni, è stato il sindaco che ha vissuto (e subito) di più la vicenda di questa infrastruttura marittima, che, almeno sulla carta, dovrebbe lanciare alle stelle l’economia della cittadina tirrenica.

    Infatti, l’avvocato paolano fu primo cittadino dal 2003 al 2012 e ha visto tutte le vicissitudini, gli alti e bassi, gli stop and go di questo porto, annunciato a più riprese e altrettante volte arenatosi, grazie anche all’immancabile intervento della Procura, che sembrava aver dato il colpo di grazia con un’inchiesta.
    Perché quest’opera è considerata tanto importante da essere diventata un oggetto del desiderio per tutte le forze politiche della città, esclusi alcuni gruppi di sinistra? E come mai la sua storia, finora, è stata tanto controversa?
    Lo vediamo subito.

    Il porto infinito

    Il progettone è da libro dei sogni: 658 posti barca, più infrastrutture ausiliarie importanti come parcheggi per auto, servizi taxi, ristorante, pizzeria e supermercato marittimo con prodotti tipici.
    L’impatto di un’opera così ambiziosa su una cittadina di ventimila abitanti, che vive essenzialmente di servizi e commercio e basa la propria economia sulla presenza del Tribunale e dell’Ospedale, sarebbe in effetti rivoluzionario.
    Ecco perché l’idea del porto è carezzata da anni e risorge a orologeria a ogni tornata elettorale.
    Quest’idea fu concepita in lire alla fine della Prima repubblica e si è evoluta in euro durante la seconda. È sopravvissuta a quattro amministrazioni, a due interrogazioni parlamentari e, un’inchiesta giudiziaria e al dissesto del Comune.

    La Ganeri lanciò l’idea

    La lanciò per prima Antonella Bruno Ganeri, che divenne sindaca nel lontanissimo ’93 a capo di una coalizione civica. La Bruno, c’è da dire, aveva gli agganci giusti per drenare i fondi e realizzarla: grazie al centrosinistra ulivista divenne senatrice nel ’94, restò a palazzo Madama fino al 2001 e, nel frattempo, fu confermata prima cittadina, direttamente dal Pds, nel ’97.
    Questo popò di ruoli non bastò a far decollare il porto, che divenne una patata bollente per tutte le amministrazioni.

    L’azzurro Gravina ci ha provato

    Alla Bruno e al suo centrosinistra seguì l’amministrazione azzurra di Giovanni Gravina, che durò appena due anni, durante i quali fece di tutto per realizzare il progetto, partito proprio a ridosso delle elezioni, con la costituzione di Porto dei Normanni Spa, una società mista, partecipata dal Comune e da due società private, Sider Almagià Spa e Sider gestione porti srl, entrambe espressioni dell’impresa romana Almagià, big di livello europeo del settore.

    Quanto costa?

    Il costo iniziale dell’opera ammontava a venticinque milioni, di cui 450mila erogate dal Cipe al Comune, che deteneva il 30% della società mista. La Almagià partecipava all’opera perché vincitrice del bando europeo lanciato dall’amministrazione.
    I presupposti per la realizzazione c’erano tutti. Tranne l’idrogeologia.
    Infatti, l’area individuata per creare il porto era la parte centrale del lungomare di Paola. Ma nelle sue vicinanze scorreva il torrente Fiumarella, che doveva essere deviato. Ma per spostare il letto di questo fiume occorreva il nulla osta definitivo dell’Autorità di Bacino e della Sovrintendenza dei Beni culturali.
    Inutile dire che il doppio ostacolo, naturale e burocratico, arenò l’opera.

    Il porto bonsai

    Ma intanto i primi danni erano fatti: l’area del cantiere aveva tagliato in due il lungomare, creando non pochi danni agli esercenti dei lidi, costretti a spostarsi a nord.
    Che fare? Chiudere la partita non si poteva, perché il guasto ambientale e urbanistico c’era già.
    L’architetto Renato Sorrentino, personalità di spicco della cittadina, aveva proposto una soluzione di compromesso: una darsena. Il classico “uovo” da mangiare subito anziché attendere la gallina.
    Quest’idea, il porticciolo bonsai, non incontrò grandi consensi nella classe dirigente paolana, che invece voleva tutto il pennuto. Sorrentino non riuscì a sostenerla a dovere, perché morì nel 2004 e l’unico che la rilanciò fu il giornalista Alessandro Pagliaro, candidatosi a sindaco nel 2007 a capo di una coalizione indipendente di sinistra.
    Ma i problemi tecnici e burocratici non erano i principali: come per ogni opera pubblica calabrese che si rispetti, non poteva mancare l’aspetto giudiziario.

    Il giallo della società fantasma

    Una vecchia interrogazione di Angela Napoli, pasionaria della legalità e rara stakanovista in un Parlamento pieno di assenteisti e vagabondi, chiarisce non poche ombre della vicenda, nel frattempo diventata un po’ inquietante.
    Nel 2005 la Sider Almagià decide di sganciarsi e di mollare le sue quote di maggioranza nella società Porto dei Normanni a una società spagnola.
    L’anno successivo la giunta guidata da Perrotta dà il via libera all’operazione. Tuttavia, i consiglieri di minoranza scatenano il caos e la vicenda finisce al vaglio della Procura. Tra una polemica e l’altra, emerge che la società spagnola sarebbe una scatola cinese e che le procedure di costituzione della società mista non sarebbero state il massimo della chiarezza.

    La delibera di Giunta

    Ma lo sganciamento di Sider Almagià era solo rinviato. Riesce l’11 dicembre 2007, pochi mesi dopo l’inizio della seconda amministrazione Parrotta, grazie a una delibera di Giunta approvata a maggioranza che autorizza la cessione delle quote a Cinabro Spa.
    Cinabro non è un fantasma, ma non è neppure in carne: possiede poca attrezzatura, per un valore di 2.500 euro. Neppure la sua liquidità è robusta: 19.500 euro depositati su un conto del Banco di Sardegna.

    Che fine hanno fatto i quattrini del Cipe?

    E non finisce qui: Cinabro risulta costituita il 21 ottobre 2006 ed è entrata in attività il 31 ottobre 2007. Oltre che magrolina, la società è giovanissima, anche in maniera sospetta: sembra nata proprio per rilevare le quote.
    La chiusa dell’interrogazione della Napoli lascia aperti interrogativi ancor oggi sinistri. Ad esempio: che fine hanno fatto i quattrini del Cipe? E quali sono i motivi reali dell’abbandono di Sider Almagia?
    Difficile sapere cosa risposero i titolari delle Infrastrutture e dei Trasporti. Certo è che Porto dei Normanni Spa collassò e, con essa, il porto.

    La ripresa?

    Nel 2011 entra in scena un nuovo soggetto: la società Marina di San Francesco, che dovrebbe finalmente realizzare il porto dei desideri. Ma i problemi idrogeologici e gli ostacoli burocratici sono persistenti e invalicabili.
    Neppure Basilio Ferrari, eletto sindaco nel 2012, riesce a venirne a capo.
    Parrotta, riportano le cronache, ha celebrato l’assegnone di Orsomarso con una metafora calcistica: la possibilità di realizzare, finalmente, il porto equivale, per lui juventino, a quella di vedere la Signora mentre vince la Champions League, il trofeo tabù della regina del calcio.
    Ma lo stanziamento milionario rischia di risolversi nell’ennesimo polverone elettorale bipartisan, con una variante ancor più pericolosa: stavolta i soldi promessi non sono spiccioli e sono tutti a carico di un ente, la Regione, le cui casse vacillano non poco.
    Di sicuro Almagià è fuori e non è intenzionata a tornare. Chissà che non arrivi qualche altro Paperone dalla Spagna.
    E, per citare l’eroe del Corrierino: qui finisce l’avventura del signor Bonaventura.
    Al momento.

  • Chi è più civico di me? A Cosenza è fuga dai partiti

    Chi è più civico di me? A Cosenza è fuga dai partiti

    D’accordo che siamo la patria di Cetto, ma qualche occhiatina al dizionario, anche distratta, non fa male. Ci aiuterebbe a capire, per esempio, che “civico” è sinonimo di “civile” o “urbano” e che il contrario di civico non è “partitico”, ma cafone, villico, in definitiva tamarro.
    A questo c’erano arrivati già i picciotti di Stefano Bontate, che prima di farsi sterminare come le mosche, chiamavano viddani, cioè villici, i corleonesi di Luciano Liggio e Totò ’u Curtu. Ma questa è un’altra storia, grande e tragica, che riguarda ben altre classi dirigenti.
    Quella cosentina, a partire dai problemi col vocabolario, è decisamente peggio.

    Faccio danni quindi rivinco

    Squadra vincente non si cambia, recita l’adagio. A Cosenza si va oltre e si mantiene quella perdente, con la quasi certezza di vincere.
    Prendiamo il caso dell’amministrazione uscente. Forse non è del tutto colpa di Mario Occhiuto se il Comune è finito in default: lui aveva solo “ereditato” una situazione disastrosa, il famigerato debito mascherato di cui si era favoleggiato a lungo nei bar “che contano”. Tuttavia, la Corte dei Conti la pensa altrimenti. E ha pure condannato in primo grado Mario l’Archistar e una buona fetta del suo Stato Maggiore a risarcire danni erariali ai cosentini per altre vicende.

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    Un estratto della sentenza di primo grado con cui la Corte dei Conti nel 2020 ha condannato per danno erariale Mario Occhiuto, parte della sua Giunta e alcuni ex dirigenti per spese relative allo staff del sindaco

    Normalmente, l’esperienza di Occhiuto finirebbe archiviata perché i cittadini, stanchi delle tasse a palla, girerebbero i propri consensi altrove. Anche a dispetto del fatto che il fratello Roberto Occhiuto sia l’aspirante governatore regionale in predicato di vincere.
    Invece no: a Cosenza manca l’“altrove” a cui rivolgere consensi e su cui sfogare dissensi e mal di pancia più o meno motivati. Per le deficienze dell’attuale centrosinistra la città rischia di assistere allo spettacolo non bellissimo del 2016, quando Mario l’Archistar vinse in maniera bulgara a dispetto della sfiducia del Consiglio comunale, a cui si associarono elementi importanti della sua stessa maggioranza.

    Solo che allora qualche scusa per la disfatta c’era. Ad esempio, c’era la prepotenza di Renzi, che aveva imposto Lucio Presta in un sussulto di fighetteria. E ci fu la candidatura tardiva di Carlo Guccione, già logorato dai suoi alti e bassi nell’amministrazione regionale Oliverio, che non riuscì ad assicurare nemmeno l’onore della bandiera.
    Ora non c’è alcuna pezza. Ci sono solo gli appetiti dei big che mirano a ritagliarsi spazi e ruoli, col metodo più facile (e vecchio): sputano veleno sui partiti, che nei loro confronti hanno solo la colpa di non elargire abbastanza. In termini di potere, si capisce.

    La quadra dei partiti

    Una cosa va detta: gli Occhiuto non sono fessi, quindi non faranno a meno delle sigle di partito, che utilizzeranno forse con le solite accortezze un po’ tamarre: Forza Cosenza per far capire che è Forza Italia, Fratelli di Cosenza, Lega Cosenza ecc.
    D’altronde, non potrebbero eliminarle neppure se volessero: la legittimazione civica per loro è difficile, dopo lo sfascio del Comune, e in questo settore c’è chi è più “bravo” di loro. Ad esempio, Francesco De Cicco, la cui candidatura è civica perché non riesce a essere politica neppure sotto sforzo; lui è il punto zero della politicità.
    A chi storce il naso è possibile obiettare che De Cicco è il civismo su misura di una città invecchiata, in decrescita demografica e in arretramento culturale, in cui il ceto medio si è assottigliato paurosamente.

    Il problema vero per chi aspira a riprendersi il territorio dopo un decennio di lamentele improduttive e di opposizione più urlata che fattiva, è la mancanza di fisionomia politica.
    Già: perché i cosentini dovrebbero votare chi non è carne né pesce, e magari deve tutto al sistema da cui prende le distanze?
    L’interrogativo non riguarda, ovviamente, Franz Caruso, che è contentissimo di essere candidato a sindaco dal Pd e dal Psi, dopo anni di tentativi elettorali e di presenze nelle istituzioni coi marchietti socialisti e post socialisti.
    Il problema è che dietro Caruso ci sono (e, se non cambia qualcosa, ci saranno) Nicola Adamo, Carlo Guccione e Luigi Incarnato. Ovvero, tre spezzoni della sinistra che ha gestito potere. Il che, in parole povere, si traduce in poche briciole per tutti gli altri.

    Una post democristiana civica

    Bianca Rende ha attribuito la sua candidatura a Palazzo dei Bruzi alle esortazioni del gruppo What Women Want, di cui lei fa parte. Una roba civica e neofemminista, insomma.
    Eppure, la Rende ha legami più che solidi con la politica, che datano alla Prima Repubblica più “profonda”. Suo padre Piero è stato un big di lungo corso della Dc, quando la Dc dettava le regole e dava le carte a tutti i tavoli, anche quelli comunisti.
    Lei stessa ha aderito al Pd, nella sua cosiddetta “area popolare”, il centro di stoccaggio per orfani e cuccioli della Balena Bianca.

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    Eletta nella lista del Pd alle elezioni del 2016, Bianca Rende punta a succedere a Occhiuto come rappresentante del civismo

    E c’è stata in buona compagnia: quella di Stefania Covello, figlia del superbig democristiano Franco Covello e anch’essa protagonista di una carriera non proprio piccola, vissuta a cavallo tra centrodestra e centrosinistra. Un’esperienza in consiglio comunale tra i banchi di Forza Italia, eletta parlamentare nel Pd, Stefania ha saltato il fosso e ha aderito a Italia viva, trascinando con sé Bianca.
    Peccato solo che quello di Renzi sia un gruppo parlamentare molto coeso che, tuttavia, pesa poco nella società civile. Detto altrimenti: difficile negoziare qualcosa di serio se il proprio referente romano è l’ex premier. Meglio giocarsi la carta del civismo, magari con l’aiuto della famiglia Covello.

    Con lei ci sarebbero, per quel che pesano, anche i Cinquestelle cosentini. In realtà ci sarebbe pure Carlo Tansi, che pesa altrettanto, ma ingombra di più.
    Giusto una curiosità: non era proprio Bianca Rende quella che tuonava dalle colonne del Quotidiano del Sud nel 2018 contro i finti civici, responsabili a suo dire di generare indisciplina e mettere a repentaglio la governabilità?

    Sergio Nucci, l’irriducibile centrista

    A Sergio Nucci molti giornalisti devono dire grazie, perché con il suo sito ha letteralmente rimpiazzato l’albo pretorio del Comune e rimpinzato i cronisti di tutti i documenti relativi agli strafalcioni dell’amministrazione Occhiuto.
    Anche il dentista cosentino è civico. S’intende: nella misura in cui possono essere civici gli esponenti del notabilato politico che non trovano spazio adeguato nei partiti.
    Nucci, infatti, respira politica da sempre, grazie alla Dc in cui aveva militato e in cui vanta una parentela illustre: quella con Annamaria Nucci, la compianta ex deputata Dc e poi Ppi e donna forte dell’esecutivo Perugini.

    Crollata la Prima repubblica, il Nostro si è posizionato prima nell’area manciniana e poi si è messo in proprio in nome del civismo: nel 2011 si è candidato a sindaco alla guida di una minicoalizione, in cui, oltre alla sua associazione Buongiorno Cosenza, c’erano due liste partitiche: i finiani di Fli e i rutelliani di Api.
    Forte di un buon consenso, il Nostro ha appoggiato Mario Occhiuto al ballottaggio e poi, a causa di una negoziazione finita male, è passato all’opposizione. Ora ci riproverebbe, più civico che mai. Non si sa mai che uno dei due Caruso (Franz o l’occhiutiano Francesco) risulti più malleabile…

    Marco Ambrogio, dal postcomunismo all’infinito

    Anche Marco Ambrogio è un altro civico per autoproclamazione. Il giovane avvocato cosentino vanta, tuttavia, una gavetta forte e radici familiari importanti negli ambienti postcomunisti. È parente di Franco Ambrogio, già eminenza grigia del Pci e poi regista delle successive trasformazioni dei compagni (anche di merende…) fino al Pci.
    Forte di un certo radicamento nella sua Donnici, a cui vorrebbe restituire la circoscrizione, Ambrogio Jr è stato assessore con Salvatore Perugini e capogruppo del Pd. Poi ha tentato il colpaccio nel 2014, schierandosi con Gianluca Callipo in occasione delle primarie per la scelta del governatore.

    Di fatto, si è tarpato le ali da solo. Ma, tra una cosa e l’altra, è riuscito a impalmare Rosaria Succurro, assessora di Occhiuto (e condannata assieme a lui per danno erariale) nonché attuale sindaca di San Giovanni in Fiore.
    L’avvocato cosentino è riuscito a rientrare in Consiglio comunale candidandosi con Carlo Guccione in una lista civica. Civico per civico, ora balla da solo. Non si sa mai che la vicinanza indiretta con Occhiuto, propiziata dal talamo nuziale, non torni utile…

    Giacomo Mancini, l’evergreen postsocialista

    Giacomo Mancini riscuote ancora simpatia, affetto e qualche consenso nella sua roccaforte del centro storico. Ovviamente, tutto questo non basta per motivare una sua candidatura a sindaco al di fuori dei partiti, nei quali, invece, si è mosso alla grande e con forti risultati.
    È stato consigliere comunale nel gruppo socialista quando ancora era forte la nostalgia per suo nonno, il vecchio Giacomo, ed è diventato deputato con la Rosa nel pugno, il partitino radicalsocialista messo in piedi da Daniele Capezzone.

    Al pari del suo leader, ha saltato il fosso nel 2008, quando l’agibilità del centrosinistra era agli sgoccioli. Giusto in tempo per diventare assessore con Peppe Scopelliti. Il ritorno a sinistra non gli ha portato molto bene, visto che non è riuscito a tornare a Montecitorio nel 2018. Peccato, perché rispetto ad altri Giacomo è almeno presentabile. Il suo tentativo di candidarsi a sindaco sarebbe motivato, secondo i bene informati, da alcune proposte arrivategli da una parte del Pd. Ma dopo che Guccione e Adamo hanno fatto pace, nel partito di Letta lo spazio è esaurito.
    Il suo civismo è quello di chi non ha più partiti: li ha finiti tutti.

    Formisani: a volte i compagni ritornano

    Come tutti i neocomunisti, anche Valerio Formisani ha una tendenza a spaccare l’atomo.
    Lo prova il comunicato con cui i vertici cosentini di Sinistra Italiana hanno lanciato la candidatura in solitaria del “medico del popolo”, che ha contribuito a far saltare il tavolo del centrosinistra.

    A Formisani, già vicino a Rifondazione e poi a Vendola, si può rimproverare tutto fuorché l’opportunismo: fa il “civico” il minimo indispensabile per evitare di dar fastidio ai compagni e cercare di prendere qualche decimale in più per arrivare almeno in Consiglio comunale. È poco. Ma quando si spaccano gli atomi, ciò che conta è sopravvivere alle esplosioni e alle radiazioni. E l’amministrazione? Un’altra volta.

    Occhiuto è vivo

    Se il centrosinistra continua così, Mario Occhiuto rischia di fare il suo terzo mandato come sindaco ombra del suo attuale vice.
    Ma tutto si può rimproverare all’Archistar fuorché l’incoerenza: perseguire un progetto di potere non è un reato. E conseguire una vittoria perché il campo avversario gliela propizia non è un crimine.

    E allora: il contrario di “partitico” non è “civico”. Ma il contrario di “civico” è senz’altro “incivile”, in tutti i significati possibili. E si è incivili anche quando ci si traveste, per infiltrarsi nei partiti e, appunto, spacciarsi per “civici”.
    Già: incivile è anche chi vuol male alla propria città.