Autore: Saverio Paletta

  • Caruso vs Caruso, la spunta Franz: chi è il nuovo sindaco di Cosenza

    Caruso vs Caruso, la spunta Franz: chi è il nuovo sindaco di Cosenza

    Comunque sia, alla fine ha vinto un Caruso.
    Nelle Amministrative finalmente al termine, Cosenza ha vantato la particolarità di due contendenti a sindaco con lo stesso cognome. La prima poltrona di Palazzo dei Bruzi va a Franz Caruso.
    Una vittoria non facile per il campione di un centrosinistra a dir poco problematico, a cui si deve riconoscere il merito di aver saputo ricompattare il suo schieramento, che finora era diviso in due tronconi (quello che faceva capo a lui e quello che aveva scommesso su Bianca Rende) e di aver tirato dalla sua l’ex assessore occhiutiano Francesco De Cicco, a sua volta candidato sindaco nelle vesti di leader popolare e popolano.

    gallo_caruso_rende_decicco
    Franz Caruso sul palco del suo comizio finale insieme ad altri tre sfidanti del primo turno: Fabio Gallo, Bianca Rende e Francesco De Cicco
    Il vincitore: una vita da socialista

    Alzi la mano chi non ha trovato qualche riferimento a Franz Caruso nelle cronache cosentine e calabresi dell’ultimo ventennio almeno una volta alla settimana.
    Avvocato di lungo corso e big dei penalisti calabresi, Caruso è quel che la vecchia retorica definiva “principe del foro”. Appartiene alla generazione di legali successiva a quella “classica” e azzerata dall’anagrafe, di cui furono esponenti di primo piano Orlando Mazzotta, Ernesto d’Ippolito e Fausto Gullo.

    All’attività forense Caruso ha accoppiato sin da giovanissimo una passione politica viscerale, vissuta tutta sotto le insegne del garofano del vecchio Psi, poi della rosa di Nencini e di nuovo col garofano 2.0 dell’attuale Psi.
    Questa ambivalenza spiega gli spazi più che generosi accordati dai media all’avvocato cosentino, presenza fissa delle cronache giudiziarie e presenza frequente di quelle politiche, dove affiorava periodicamente in occasione delle elezioni.

    Da jolly ad asso da giocare

    Già: Franz Caruso è stato il jolly delle Amministrative cosentine, una carta sempre esibita da quell’asse del centrosinistra che fa capo a Nicola Adamo e Luigi Incarnato ma mai calata con convinzione. Accadde, ad esempio, nel 2011, quando la candidatura di Caruso spuntò nel caos politico che seguì la fine dell’amministrazione Perugini e rientrò nel giro di pochi giorni. Alla fine, il Pd dilaniato dalla lotta intestina tra Adamo e Mario Oliverio, confermò Salvatore Perugini.

    Mario-Oliverio-Nicola-Adamo
    Mario Oliverio e Nicola Adamo

    Anche nel 2016 emerse, più timidamente, la candidatura dell’avvocato. Ma durò secondi, perché quell’anno il centrosinistra riuscì a far peggio della tornata precedente. Addirittura, risparmiò a Mario Occhiuto la fatica del ballottaggio.
    Stavolta il jolly ha acquisito il valore di un asso, e da tale si è comportato. Con sole tre liste è riuscito ad arrivare al ballottaggio e ha dato un po’ di polvere agli altri avversari. Sia che avessero il suo stesso numero di liste (Rende) sia che, addirittura, avessero schierato interi quartieri (De Cicco e Civitelli).

    Dalla panchina al goal

    D’altronde non ci si improvvisa politici né avvocati. Chi lo ha visto in azione in Tribunale ne apprezza lo stile asciutto, tutto midollo e sostanza, con cui arringa i giudici e le corti senza averne quasi l’aria.
    Stesso discorso per la comunicazione politica: forte ma mai ridondante e con quel po’ di retorica che non guasta mai.

    Dopo anni di panchina politica, a volte sofferta a volte vissuta col sollievo di aver scansato il bagno di sangue, Franz Caruso è sceso seriamente in campo come centravanti di sfondamento. E ha segnato il goal decisivo, grazie anche a una strategia politica efficace.
    E a chi gli ha detto che rappresenta il vecchio ha fatto capire che neppure il suo avversario, l’altro Caruso, era nuovo: alle sue spalle ha altrettanti vecchi.

    Lo sconfitto

    Un volto giovane per una coalizione stagionata. Il vicesindaco uscente Francesco Caruso è un occhiutiano di lungo corso, che ha respirato politica sin da bambino attraverso i polmoni del papà, il compianto Roberto Caruso, che fu deputato di Alleanza nazionale nella seconda metà degli anni ’90.
    Mite, fine e garbatissimo, il giovane ingegnere è il classico bravo ragazzo di cui si innamorano le mamme con la speranza che i loro generi gli somiglino almeno un po’.

    Francesco Caruso è entrato a Palazzo dei Bruzi quasi in punta di piedi ed è rimasto tra i fedelissimi di Mario Occhiuto anche durante la fine prematura dell’amministrazione precedente, caduta per un golpe di corridoio sei mesi prima della scadenza naturale.
    Questa fedeltà politica gli è valsa prima la delega al decoro urbano (2017), poi l’ascesa a vicesindaco, dopo l’addio di Luciano Vigna, altra storica “spalla” di Occhiuto e, al pari di Caruso, proveniente dall’ex destra (quella vera).

    Le deleghe di questi anni

    I paragoni possono essere ingenerosi. Ma in politica si fanno e chi vuol azzardarne uno non può fare a meno di notare la differenza di stile tra i due “vice Mario”. Piuttosto forte e presenzialista Vigna, che ha gestito i conti di Cosenza per sette anni a botte di virtuosismi e rattoppi, molto pacato Caruso, a cui ora tocca la delega al Bilancio.
    E con altrettanta pacatezza Caruso gestisce altre due deleghe: Riqualificazione urbana e Agenda urbana, che sommate e tradotte significano Lavori pubblici.

    Francesco-Caruso-Mario-Occhiuto-Cosenza
    Francesco Caruso e Mario Occhiuto durante la campagna elettorale

    Difficile dire se Francesco Caruso sia una controfigura scelta dallo stato maggiore di Occhiuto per assicurare la continuità non solo dell’amministrazione ma anche del potere.
    Di sicuro, il giovane ingegnere ha dalla sua un’immagine neutrale, che gli è tornata preziosa durante le negoziazioni dell’estate. Non a caso, il nome e il volto di Francesco Caruso sono stati spesi con una certa sicurezza solo dopo che i mal di pancia (ad esempio, quello di Fdi, che aveva ventilato la candidatura Pietro Manna), i dubbi e i giochini erano cessati.

    Un vantaggio dilapidato

    Ed ecco che, grazie a sei liste agguerrite fino ai denti, il “vice Mario” è arrivato al ballottaggio in scioltezza, forte di 14 punti di vantaggio sul suo avversario diretto, il quasi omonimo Franz Caruso.
    Questo risultato prova per l’ennesima volta una regola non scritta della politica: le personalità non appariscenti (e quella di Francesco a volte sembra evanescente) piacciono agli addetti ai lavori e sono funzionali alle negoziazioni.

    Tuttavia, le personalità forti attirano di più gli elettori. E questo spiega come mai Francesco sia arrivato alla sfida finale soprattutto grazie al sostegno delle liste. Poi Franz, personalità più forte e per questo divisiva, è comunque riuscito a giocarsi meglio la partita.
    Essere vice paga. Ma non troppo.

  • Medicina all’Unical, una storia di baroni e campanili

    Medicina all’Unical, una storia di baroni e campanili

    Tutti applaudono, o quasi. Ora che il nuovo corso di laurea in Medicina e tecnologie digitali è una realtà, c’è la classica corsa a salire sul carro dei vincitori.
    Ha applaudito Mario Occhiuto, che sta per concludere il suo decennio alla guida di Cosenza. Hanno applaudito, sul versante rendese, il sindaco Marcello Manna e la sua assessora Lisa Sorrentino.

    Non applaudono i gruppi dirigenti e, soprattutto, le associazioni catanzaresi, alcune delle quali si sono spinte a chiedere la testa del rettore Giovambattista De Sarro per quello che percepiscono come uno “scippo” della classe dirigente cosentina, considerata “predatoria”.

    Applaude in maniera tiepida Sandro Principe, che già lo scorso febbraio aveva ammonito: «La strada è ancora lunga», per la creazione di una facoltà vera e propria. E aveva rimesso sul tappeto il problema del nuovo Ospedale di Cosenza e, soprattutto, della sede in cui realizzarlo. Che secondo lui non può che ricadere il più vicino possibile all’Unical. Cioè nella sua Rende. Ma accusare Principe di campanilismo, a questo punto, può risultare gratuito. Nella vicenda travagliata della scuola medica cosentina, infatti, i campanilismi che hanno pesato di più sono quelli tra Cosenza e Catanzaro.

    Un goal accademico

    I politici applaudono. Ma quella che si è patteggiata a febbraio col nulla osta ministeriale e si è conclusa a giugno con l’istituzione del nuovo Corso di laurea è una tregua in una “guerra” ultratrentennale tra le baronie universitarie di Catanzaro e Arcavacata, in cui l’Unical si è ritrovata in una posizione di vantaggio perché decisamente più attrezzata a livello hi tech rispetto alla Magna Graecia.
    Detto altrimenti, se Medicina e tecnologie digitali doveva essere, non poteva che essere all’Unical. Specie ora che il blocco ingegneristico-informatico ha preso il sopravvento con l’amministrazione del rettore Nicola Leone, luminare dell’Intelligenza artificiale.

    leone_unical
    Il rettore Leone durante l’inaugurazione del nuovo corso di laurea

    Questo risultato – senz’altro ragguardevole ma che non autorizza a cantare vittoria – è il frutto dell’impegno di Sebastiano Andò, fondatore e storico preside della Facoltà di Farmacia.
    Un impegno non facilissimo, vissuto tra gli umori cangianti della politica, soprattutto cosentina, e tra i contrasti d’interesse tra le baronie universitarie.
    Perché l’Università della Calabria colmasse in maniera seria la sua lacuna nel settore sanitario sono stati necessari altri due fattori. Il primo è l’indebolimento della vecchia classe politica che, tranne poche eccezioni, ha cincischiato. Il secondo, il cambio della guardia nelle strutture accademiche di vertice.

    L’inizio dei dissidi

    La prima a non credere troppo (e, in buona sostanza a non volerla) nell’istituzione di una Facoltà di Medicina all’Unical è stata proprio una parte della classe dirigente dell’Ateneo di Arcavacata, che temeva di perdere spazi e potere.
    Questo timore, in non pochi casi, era giustificato con una motivazione ideologica in parte vera: la diffidenza, di matrice un po’ salveminiana e un po’ gramsciana, verso le “pagliette bianche”, cioè i medici e gli avvocati, considerati non del tutto a torto una causa dell’arretratezza meridionale.
    In altre parole, si credeva che Medicina e Giurisprudenza avrebbero snaturato la vocazione progressista dell’Università della Calabria.

    Questo pregiudizio agevolò non poco la nascita del polo universitario catanzarese, che approfittò delle lacune dell’Unical per dotarsi, a fine anni ’70, di queste due facoltà. Che furono istituite come sedi staccate della Federico II di Napoli (Medicina) e dell’Università di Messina (Giurisprudenza).
    Questa intelligente autocolonizzazione fu il nucleo da cui sorse la Magna Graecia.

    La lunga marcia

    L’inversione di rotta è iniziata negli anni ’90 con l’istituzione di Farmacia ed è proseguita attraverso step difficili e combattuti.
    Il primo risultato consistente è stata l’istituzione della facoltà di Scienze dell’Alimentazione (2008). Fu il frutto delle pressioni accademiche di Andò ma anche dell’interlocuzione intelligente tra Sandro Principe, all’epoca assessore regionale alla Cultura dell’amministrazione Loiero, e Salvatore Venuta, fondatore e primo rettore della Magna Graecia.

    sebastiano_andò_unical
    Il professor Sebastiano Andò

    Tuttavia, il passo in avanti più forte lo ha fatto il preside di Farmacia, sceso in campo in prima persona nel 2011.
    Andò dapprima propose un Ordine del giorno al Consiglio provinciale di Cosenza sull’istituzione di Medicina all’Unical. L’assemblea provinciale votò all’unanimità l’iniziativa e Mario Oliverio, all’epoca al suo secondo mandato di presidente della Provincia, la sposò appieno.
    In seconda battuta, il prof di Arcavacata contattò direttamente i sindaci del Cosentino, da cui ottenne 143 delibere favorevoli all’istituzione della nuova Facoltà. Praticamente un tripudio.

    Lo stop di Scopelliti

    Purtroppo, territori e istituzioni seguono tempi e logiche diverse. Ne è un esempio il tentennamento di Peppe Scopelliti, all’epoca presidente di Regione, di fronte all’istituzione di un’altra facoltà medico-sanitaria presso l’Università della Calabria, cioè Scienze sanitarie, che si sarebbe dovuta realizzare attraverso un accordo tra l’Unical e la Sapienza di Roma.

    peppe_scopelliti
    L’ex presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti, stoppò l’istituzione della facoltà di Scienze sanitarie all’Unical

    Catanzaro, in questa occasione, mise il bastone tra le ruote, con un’impugnazione al Tar sostenuta da Aldo Quattrone, all’epoca rettore della Magna Graecia. Vinse l’Unical, che poteva contare anche sul classico asso nella manica: lo sponsor “romano” dell’accordo con la Sapienza era allora il cosentino Eugenio Gaudio (per capirci, il quasi commissario alla Sanità calabrese), prossimo a diventare rettore.

    Le condizioni c’erano tutte. Mancò solo la firma di Scopelliti, che all’ultimo si tirò indietro. Campanilismo reggino? Forse. Ma tutto lascia pensare che nella retromarcia dell’ex governatore e commissario regionale della Sanità abbia avuto un ruolo non leggero il timore di inimicarsi la classe dirigente catanzarese, che tiene tuttora i cordoni della borsa in Regione.

    Il timore di Oliverio

    E probabilmente questo timore lo ha provato anche Oliverio, che durante la sua amministrazione regionale si è dimostrato piuttosto tiepido sull’ipotesi Medicina all’Unical.
    In pratica, ha funzionato sin troppo la regola non scritta del regionalismo calabrese, secondo cui si vince e si perde a Cosenza, ma si comanda sempre a Catanzaro.
    Scopelliti vinse grazie ai voti del Cosentino, anche di quei sindaci che firmarono entusiasti l’appello di Andò ma si frenò davanti alla classe dirigente catanzarese.
    Oliverio, primo governatore cosentino eletto direttamente dai calabresi, titubò di fronte al Pd del capoluogo regionale.

    Se le cose stanno così, non si va lontani dal vero a pensare che la situazione si sia sbloccata grazie al declino della classe politica calabrese.
    Non è un caso che, proprio nel 2018, il Dipartimento di Farmacia dell’Unical abbia avuto il riconoscimento del Miur per l’Area medica. E che, nello stesso periodo, la specialità delle Professioni sanitarie sia entrata nel bottino dello stesso dipartimento.
    Quindi il Corso di laurea in Medicina e tecnologie digitali è il primo punto d’arrivo di un percorso piuttosto lungo e ancora da finire.

    I campanilismi tra Cosenza e Rende

    Una seconda contesa campanilista si è messa di mezzo nel percorso verso il Dipartimento di Medicina: quello tra Cosenza e Rende. Questa contesa ha per oggetto il nuovo Ospedale Hub di Cosenza, più precisamente la sua collocazione.
    Le classi dirigenti rendesi vorrebbero realizzare in nuovo nosocomio nei terreni vicino all’Istituto agrario d’oltre Campagnano, che sono di proprietà della Provincia e quindi non dovrebbero neppure essere espropriati.
    Questo progetto risale al 2006, ai tempi dell’amministrazione di Umberto Bernaudo. E si basa sulla integrazione totale tra Ospedale e Unical.

    nuovo_ospedale_cosenza
    Il progetto per il nuovo ospedale presentato nel 2016 da Mario Occhiuto in campagna elettorale

    Le risposte cosentine sono state più articolate. La prima è stata avanzata durante la sindacatura di Salvatore Perugini e prevede la costruzione del nuovo Ospedale a Donnici. Le altre proposte, corroborate da studi di fattibilità approfonditi (e costosi), hanno corretto il tiro verso il centro città. Cioè Vaglio Lise (tra l’altro zona della Stazione ferroviaria), Colle Mussano e comunque un’area a metà strada tra l’Ospedale dell’Annunziata e il Mariano Santo di Mendicino.
    Ma il legame tra nuovo Ospedale, inteso come struttura fisica, e Dipartimento di Medicina è considerato imprescindibile solo dalla classe politica.

    Un problema politico, ma anche medico

    Infatti, secondo Andò, il problema è piuttosto di scuola medica: «L’Ospedale, prima che una struttura edile, è una comunità di professionisti. Cosenza, in cui non mancano dei grandi medici, sconta un problema serio: la classe sanitaria più anziana d’Italia». Un modo elegante di dire che occorre un turn over e, soprattutto, una classe medica più giovane, capace di conciliare la ricerca e la professione.
    Se questo turn over ci sarà, si potranno realizzare le cliniche. Altrimenti, per il momento va bene il modello “cogestito” tra Magna Graecia e Unical: i primi tre anni ad Arcavacata per la teoria e gli altri tre a Catanzaro per le cliniche.

    Ad ogni buon conto, il primo passo è stato fatto. Ed è un passo importante, al netto di ogni campanilismo: per soddisfare i fabbisogni della Sanità calabrese servirebbero trecento medici in più. E l’Ateneo di Germaneto ne produce sì e no cento all’anno.
    Una formazione sanitaria diffusa potrebbe aiutare non poco tutto il territorio regionale. Quindi, non Arcavacata “contro” Germaneto ma Unical e Magna Graecia. Quando lo si capirà a dovere, si passerà dalla tregua alla pace.

  • Cosenza, una poltrona per due: eletti, bocciati e strategie verso il ballottaggio

    Cosenza, una poltrona per due: eletti, bocciati e strategie verso il ballottaggio

    I dati grossolani si sapevano già, perché la sciatteria amministrativa di Cosenza non poteva arrivare al punto di “imboscare” i risultati dei candidati a sindaco.
    Il capoluogo bruzio, grazie a questo risultato, farà notizia: due candidati quasi omonimi (ma non parenti e, addirittura, diversissimi) che si contendono la poltrona di primo cittadino.

    Una poltrona per due

    Sulla carta resta confermata la previsione più facile, in base alla quale Francesco Caruso, il vicesindaco uscente, sarebbe arrivato al ballottaggio senza alcun problema: d’altronde la compilazione delle liste, effettuata col solo scopo di far incetta di voti e senza andar troppo per il sottile, non lasciava spazio al minimo dubbio.
    Veniamo alla previsione un po’ meno facile: l’arrivo al ballottaggio di Franz Caruso, principe del foro dalla smodata passione socialista, sopravvissuto alla divisione del centrosinistra.
    Il primo ha preso il 37,4% dei voti, il secondo si è attestato sul 23,8%.

    Votati, ma non abbastanza

    Non parliamo, va da sé, di una metropoli, ma di una cittadina in collasso demografico che ha un elettorato di circa 41mila abitanti su 67mila circa residenti. Cioè briciole. Che si rimpiccioliscono ancora, se si considera che ha votato il 68% virgola qualcosa degli aventi diritto.
    In mezzo a loro, si agitano, in ordine di preferenze, l’ultrapopulista e iperpopolare Francesco De Cicco, assessore uscente dell’amministrazione Occhiuto, che col suo 13,9% ha superato Bianca Rende, dissidente altoborghese del centrosinistra cittadino che si è fermata al 12,8%.

    bianca_rende
    Bianca Rende
    Gli outsider

    Seguono l’outsider di sinistra-sinistra Valerio Formisani (4,8%) e l’evergreen Dc Franco Pichierri (3,5%).
    Questi ultimi quattro sono gli unici che possono vendere cara la pelle nel ballottaggio in corso (anche Pichierri a cui, tuttavia, non scatterebbe comunque il consigliere).
    Dopo di loro, l’altro populista biturbo Francesco Civitelli, praticamente ex aequo con il catto-civico Fabio Gallo: 2%.
    Fin qui, nessuna notizia degna di nota.

    fabio_gallo
    Fabio Gallo
    La grande mattanza

    Ciò che non ha fatto notizia a dovere è l’esagerato numero di candidati, quasi 900. Il che fa capire che alleanze e apparentamenti non sarebbero indolori comunque.
    Prendiamo l’esempio di Annalisa Apicella, consigliera uscente di Fratelli d’Italia che ha preso, nella medesima lista, 483 voti. In caso di sconfitta di Francesco Caruso, la Apicella resterebbe fuori.

    annalisa_apicella
    Annalisa Apicella (FdI)

    Ma non è detto che sarebbe favorita da alleanze e apparentamenti: troppo forte la lista, in cui l’avvocata cosentina è schiacciata dai big delle preferenze e rischia di diventare “sacrificabile”.
    Lo stesso discorso per Franz Caruso, che è costretto ad apparentarsi e allearsi più del suo avversario. Comunque vada, sarà un massacro di consiglieri.

    I record

    Con 1.172 voti, Francesco Spadafora, poliziotto di lungo corso e donnicese doc candidato in Fratelli d’Italia, è il consigliere comunale più votato. In assoluto: stavolta ha aumentato il record del 2016 (902 preferenze) e ha superato la ex vicesindaca Katya Gentile, risultata la consigliera più votata nel 2011(911 preferenze).
    Spadafora ha fatto di più: ha trascinato in consiglio la esordiente Ivana Lucanto, che ha guadagnato, anche grazie a questo ticket, 845 voti.
    Certi risultati non si improvvisano, ma sono il frutto di un impegno sul territorio di lunghissimo corso.

    francesco_spadafora
    Francesco Spadafora si conferma per la seconda volta consecutivo il consigliere comunale più votato in città

    Un discorso simile vale per Michelangelo Spataro, che coi suoi 527 voti è il secondo più votato di Forza Cosenza, e per Damiano Covelli, altro evergreen della politica cittadina che ha “salvato” il Pd con 532 voti, tallonato a breve distanza, nella stessa lista, da Maria Pia Funaro, che ne ha presi 498.

    maria_pia_funaro
    Maria Pia Funaro
    Menzione d’onore

    Ma il vero miracolo politico, per giunta di lungo corso, è Antonio Ruffolo, alias ’a Mmasciata, ’u Scienziatu e Lampadina.

    ruffolo_antonio
    Antonio Ruffolo

    Ruffolo, che si è segnalato per il suo silenzio continuo in circa vent’anni di consiliatura (le sue dichiarazioni di voto sono sempre consistite in fonemi e alzate di braccio), è stato il più eletto in Forza Cosenza con 732 voti, ottenuti tra l’altro senza ticket.

    E ci mancherebbe: questi consensi sono il frutto di pluriennali clientelismi di quartiere, tutti low cost, ma che richiedono un impegno 24h. Cioè, sostituire lampadine nei condomini, aiutare anziani a fare la spesa ecc. Se le cose stanno così, Ruffolo più che di una quota rosa, ha bisogno di un’assistente: certi voti si “lavorano”, eccome.

    I trombati

    La lista potrebbe essere lunga. Ma, in tanto casino, il primato spetta senz’altro a Carlo Tansi, che batte due record, anzi tre: è il neofita della politica più sconfitto in assoluto.
    Primo record: la sua Tesoro Calabria, in coalizione con Bianca Rende, ha preso “solo” l’1,8% dei consensi.
    Secondo record: nonostante la candidatura da capolista (imposta dal ruolo da leader e dall’ego) Tansi ha ottenuto 128 voti ed è stato superato dall’architetto urbanista Maurizio Lupinacci, che ne ha presi 190.

    tansi-carlo
    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    Terzo record: nonostante tre candidature in Consiglio regionale da capolista, il geologo-ricercatore del Cnr non è riuscito a prendere consensi neppure a Cosenza, dove pure aveva sfondato alle Regionali solo un anno e mezzo fa. Segno che il “suo” messaggio “rivoluzionario” non ha funzionato. D’altronde è poco credibile infilarsi due volte nel centrosinistra, sostenendovi due leadership d’élite (oltre alla Rende, quella di Amalia Bruni) e pretendere di “cambiare le cose dal basso”.

    franco_pichierri
    Franco Pichierri, storico esponente democristiano

    Più sfumato il discorso per Franco Pichierri, la cui esclusione (salvi apparentamenti) sa di beffa, perché la sua mini-coalizione è riuscita a prendere il quorum senza ottenere un solo consigliere. Nessuno nega la sua bravura politica, maturata in una militanza quasi cinquantennale iniziata nella Dc (quella vera). Però è evidente che Pichierri è rimasto fregato dalla sua stessa abilità.

    L’ago della bilancia

    Per le sei liste dell’assessore uscente Francesco De Cicco vale il principio della mattanza: tantissimi candidati “immolati” alla elezione di un solo consigliere.
    Eppure i mille e rotti voti di De Cicco, ottenuti nei quartieri popolari – in particolare via Popilia – hanno il sapore di una rivoluzione: per la prima volta, i voti di determinate zone hanno un valore autonomo, capace di influenzare o, peggio, di determinare scelte politiche.

    Francesco_de_cicco_cosenza
    Francesco De Cicco

    L’ex assessore è diventato l’ago della bilancia a dispetto della sua inesistente cultura politica. E di sicuro in tanti “bussano” alla sua porta badando bene a non farsi scoprire o a non farsi scoprire troppo.

    Il quadro complessivo

    Difficile ipotizzare che Bianca Rende decida di appoggiare Francesco Caruso, perché in questo caso significherebbe andare con la Lega e Fdi. Un po’ troppo anche per il neocentrismo renziano a cui la Nostra sembra ispirarsi. Stesso discorso per Formisani e, in parte, Gallo.

    valerio_formisani
    Valerio Formisani

    Viceversa, con altrettanta difficoltà Pichierri potrebbe schierarsi con Franz Caruso, dato che Noi con l’Italia (la sua lista “principale”) si è schierata con Roberto Occhiuto alla Regione.
    Quindi, se non ci fosse De Cicco, i due schieramenti si equivarrebbero. Lui farà davvero la differenza e potrebbe trascinare con sé Civitelli che, da solo, è quasi ininfluente.

    civitelli
    Francesco Civitelli
    Un’altra voglia di civismo

    Con troppa frettolosità si è detto che Fdi è il partito più votato, mentre “Franz Caruso sindaco” è la lista più votata.
    In realtà, Fdi è “solo” una lista, piena di candidati che in realtà hanno poco a che spartire con la storia politica di Giorgia Meloni e di Fausto Orsomarso. Ed è lista come quella di Franz Caruso, che mescola volti noti (Mimmo Frammartino, che ha ottenuto 200 preferenze) e volti nuovi (la criminologa Chiara Penna, che ha ottenuto 165 voti).

    mimmo_frammartino_cosenza
    Domenico Frammartino, presenza fissa in Consiglio – tranne nell’ultimo quinquennio – dagli anni ’80 ad oggi

    Se l’avvocato Caruso la spuntasse, si ritroverebbe un seguito più personale che di partito, segno che a Cosenza i cittadini, specie a sinistra, hanno preferito l’impegno di persone senza tessera.
    Diverso il discorso per i meloniani: dopo i tentativi di condizionamento di agosto, Orsomarso & co. hanno tentato il tutto per tutto, cioè una lista civica con uno stemma di partito.

    Tra i litiganti Colla gode

    La lista Coraggio Cosenza, com’è noto, è nata da una crisi della Lega, “mollata” da Vincenzo Granata alla vigilia delle elezioni. È altrettanto noto che, per tamponare il vuoto, lo stato maggiore del Carroccio ha chiesto aiuto a Simona Loizzo, la quale ha investito su un altro evergreen: Roberto Bartolomeo, arrivato primo coi suoi 219 voti.

    vincenzo_granata_cosenza
    Vincenzo Granata, passato dalla Lega al movimento di Toti e Brugnaro (foto Alfonso Bombini)

    In Coraggio Cosenza, il record è toccato a Massimo Colla, che con 253 voti ha doppiato Granata. Secondo i maligni (e forse bene informati) Colla sarebbe stato aiutato a ottenere questo risultato anche dalla Loizzo, che gli avrebbe “spalmato” qualche consenso proprio per impedire che Granata esplodesse.

    Per finire

    Chi temeva di annoiarsi, può stare tranquillo: chiunque vinca, a Cosenza avremo un Consiglio comunale rissoso, chiacchierone (tranne Ruffolo) e a volte inconcludente.
    Proprio come in passato, sebbene sia difficile battere i primati dell’era Perugini.
    Comunque vada, sarà un casino.

  • Regionali Calabria: Gallo superstar, volti nuovi e trombati

    Regionali Calabria: Gallo superstar, volti nuovi e trombati

    Un cambiamento cruento in queste elezioni regionali in Calabria, con i vecchi big superstiti che si mescolano, anche per interposta persona, ai volti nuovi, alcuni dei quali tali solo per modo di dire.
    Giusto a voler anticipare qualcosa, non è un volto nuovo Franco Iacucci, che ha iniziato la sua carriera nel vecchio Pci (quello vero…), è sindaco uscente di Aiello Calabro, che ha amministrato praticamente a vita e presidente della Provincia di Cosenza.

    Nuovismo in salsa PCI

    Eppure Iacucci è uno dei “nuovi” consiglieri regionali più votati: coi suoi 6.705 voti ha stracciato, nella lista cosentina del Pd, il decano Mimmo Bevacqua, fermo sui 6.300, ed è entrato a Palazzo Campanella con la tutta la freschezza di un veterano, che ha speso la sua vita in politica e, in fin dei conti ha una sola novità: essersi smarcato in tempo utile dall’ex governatore Mario Oliverio.

    Chi non ha fatto altrettanto, cioè Giuseppe Aieta, ha pagato dazio. L’ex sindaco di Cetraro, candidatosi coi dem all’ultimo minuto utile, è rimasto fuori, nonostante una campagna elettorale dura e impegnativa. Così va la vita. Soprattutto in Calabria.

    Le conferme dirette

    In certi casi i numeri parlano da soli. È così per l’azzurro Gianluca Gallo, l’assessore uscente all’Agricoltura.
    Coi suoi 21.631 voti, Gallo è, probabilmente, il consigliere regionale calabrese di tutti i tempi. Per capirci, ha preso di più di Pino Gentile quando era all’apice nella Forza Italia e nel Pdl degli anni d’oro, e di Carlo Guccione, che fece urlare al miracolo nel 2014 per aver preso di più di Pino Gentile (che era già in fase calante…).

    Comunicazione e stile morbidi, come si conviene a un ex Dc, Gallo è riuscito in un altro miracolo politico: aver fatto a lungo il sindaco di Cassano Jonio, una delle realtà regionali più flagellate dalla mafia, senza essersi attirato neppure l’ombra di un sospetto.
    Anche il fatto che abbia gestito l’Agricoltura, una delle poche gettoniere efficienti della Regione, potrebbe voler dire poco: Giovanni Dima, per fare un esempio, fece il diavolo a quattro durante l’amministrazione Chiaravalloti, spese fondi alla grande e trasformò il suo assessorato in una fabbrica di dop. Tuttavia, riuscì a farsi rieleggere e basta.
    Solo la storia futura ci dirà se questa di Gallo sia “vera gloria”. Di sicuro il successo è indiscutibile.

    Le riconferme del collegio Sud

    Un altro confermato, nel collegio Sud, è Giuseppe Neri di Fratelli d’Italia. La sua performance, stavolta, è stata un po’ più bassa rispetto al 2020: poco più di 5mila voti rispetto ai precedenti 7mila e rotti. Ma l’importante è esserci. O no?
    Una superconferma arriva sempre da Reggio: è data dagli oltre 10mila voti di Nicola Irto, che prende un po’ meno rispetto al 2020 ma resta il consigliere più votato del Pd.
    I bene informati intravedono dietro questo successone una strategia politica ben precisa, che potrebbe prendere due direzioni: un ruolo nella dirigenza romana, quindi in Parlamento, o la segreteria regionale.

    Orsomarso ha giocato bene le sue carte

    A rigore non sarebbe un confermato Fausto Orsomarso, che nella precedente legislatura non era stato eletto. Tuttavia, l’assessore uscente al Turismo ha saputo giocare bene le carte offertegli dal suo dicastero e la fiducia di Giorgia Meloni, al punto di diventare, con 9.020 voti, il più votato in Fdi, anche a dispetto di qualche figuraccia rimediata nel corso dell’estate.
    Un’altra confermona è quella di Giuseppe Graziano, che inaugura la sua terza legislatura regionale con oltre 7mila voti, che ne fanno l’unico eletto nell’Udc. Segno che mollare Forza Italia, di cui era stato dirigente su indicazione della scomparsa Jole Santelli, a volte porta bene.
    A volte fa benissimo addirittura cambiare schieramento. Come per Francesco De Nisi, entrato a Palazzo Campanella grazie a Coraggio Italia, dopo vari, inutili tentativi col Pd.

    Conferme indirette

    Quando si stravince, come ha fatto Roberto Occhiuto, c’è chi vince per interposta persona.
    È il caso della famiglia Gentile, che ricorda un po’ il mito dell’Idra: se ne fai fuori uno, ne spuntano due. Infatti, lo spauracchio del giudizio preventivo della Commissione antimafia ha indotto Pino Gentile a miti consigli, quindi a non candidarsi. Al suo posto, si è candidata la figlia Katya, ex vicesindaca di Cosenza, che ha preso 8.077 voti in Forza Italia ed è la consigliera più votata della prossima legislatura regionale.

    Simona Loizzo, politicamente vicina a Tonino Gentile, fratello minore di Pino ed ex senatore azzurro, è riuscita ad affermarsi invece nella Lega, con 5.360 voti.
    Ma la vittoria che sa più di “vendetta” è quella di Luciana De Francesco, la moglie di Luca Morrone, altro grande escluso dalla competizione per via delle fregole legalitarie di Roberto Occhiuto. Con le sue 4.654 preferenze la De Francesco si è presa la rivincita di suo marito.

    Nuovissimi e nuovi ma non troppo

    La vera novità di queste elezioni è il paradosso del Movimento 5 Stelle, che prendono per la prima volta consiglieri regionali in Calabria mentre perdono pezzi in tutto il resto d’Italia.
    Uno dei due volti nuovi dei grillini appartiene al cariatese Davide Tavernise, che è riuscito a capitalizzare bene le alchimie politiche grazie alle quali M5s ha preso il quorum, anche a danno del suo compagno di lista Domenico Miceli, grillino della prima ora ed ex capogruppo al Consiglio comunale di Rende.

    Un altro volto nuovo è quello del notaio Antonio Lo Schiavo, uno dei due sopravvissuti alla sconfitta della coalizione di Luigi de Magistris. Lo Schiavo, tuttavia, è nuovo solo in Consiglio, perché ha all’attivo una candidatura a sindaco nella sua Tropea col centrosinistra.
    Stesso discorso per il medico castrovillarese Ferdinando Laghi, conosciuto ai più per le sue battaglie ambientaliste molto accese.

    Gli esclusi

    Tra i perdenti “eccellenti” figurano la reggina Tilde Minasi, salviniana di ferro esclusa dal consiglio perché i suoi non pochi voti sono risultati insufficienti nella stravittoria del centrodestra.
    Discorso diverso per il consigliere uscente Pietro Molinari, che invece ha perso voti, a dispetto della presidenza di una Commissione consiliare che secondo i maligni gli sarebbe stata cucita “su misura” per compensarlo della mancata attribuzione dell’assessorato, andato a Gallo Superstar.
    Flora Sculco, invece, ha scontato sulla sua pelle la batosta elettorale del centosinistra e il fatto di non essere riuscita a salire per tempo sul carro del probabile vincitore.

    Un evergreen

    Non è nuovo, tuttavia è come se fosse un consigliere regionale “onorario”: ci si riferisce all’eccentrico ed esplosivo Leo Battaglia, titolare dei manifesti elettorali più kitsch (in cui sembra una specie di Zio Sam in camicia nera…) e autore della bravata ferragostana che lo ha reso celebre in tutt’Italia: il lancio delle mascherine chirurgiche con spot elettorale.
    I suoi 1.500 voti sono un premio simpatia, che dovrebbe incoraggiarlo a insistere. In fondo, molte pareti pubbliche del collegio nord sono piene di sue scritte elettorali: gli torneranno utili, in maniera totalmente gratuita, per le prossime volte…

    Per concludere

    Con venti eletti su trenta, Roberto Occhiuto è anche il dominus indiscusso della consiliatura che sta per iniziare. E forse questo potrebbe essere un bene per la Calabria, visto che i dieci esponenti di minoranza saranno comunque costretti a fare opposizione: dati i numeri, non ci sarebbe troppo spazio per trasversalismi.
    La vittoria del leader azzurro non è bulgara, ma polacca. Cioè ricorda un po’ l’unico sistema dell’ex impero sovietico dove era tollerata una specie di minoranza politica.
    L’augurio è che la minoranza attuale sia rumorosa e faccia sul serio.
    Già: è facile, specie per i supertrombati come Carlo Tansi, dire che con la vittoria di Occhiuto ha perso la Calabria. Ma diventerebbe vero se il nuovo presidente fosse lasciato libero di fare e disfare senza polemiche e contrasti.

  • La FI di Occhiuto umilia tutti, il Pd riesce a salvarsi

    La FI di Occhiuto umilia tutti, il Pd riesce a salvarsi

    Diciamola tutta, amministrare la Calabria è un’ambizione che Roberto Occhiuto coltivava da sempre. Alla fine, c’è arrivato con un percorso piuttosto lineare, iniziato dieci anni fa con la vittoria di suo fratello Mario a Cosenza. Nulla di trascendentale: Occhiuto ha applicato alla lettera una regola non scritta ma ineludibile della politica calabrese, secondo cui si vince e si perde a Cosenza. Eroso il fortino “rosso”, per decenni appannaggio dei reduci della sinistra, il resto è stato una passeggiata.

    Roberto Occhiuto è il terzo presidente di regione consecutivo espresso da Cosenza. Ha preso di meno rispetto a Mario Oliverio (che nel 2014 conquistò la Regione col 61% calcolato su un’affluenza al voto prossima al 45%) e ha fatto quasi pari e patta con Jole Santelli, che ha preso nel 2020 il 55% dei consensi su una base elettorale del 45% circa.

    Su tutto dominano due dati. Il primo: Occhiuto ha fatto cappotto con una campagna elettorale piuttosto semplice e dai toni composti. Il secondo: mentre il centrodestra arranca in tutti gli altri contesti elettorali, in Calabria stravince. Scendiamo un po’ più nel dettaglio.

    Moderazione e furbizia

    Toni morbidi e rassicuranti. Soprattutto uno slogan banale e piacione: “La Calabria che l’Italia non si aspetta”. E poi un profluvio di foto e video, con cui il candidato azzurro ha invaso ogni spazio pubblico, a partire dai social.
    Niente urla né pose da giustiziere, ma solo una grossa furbata: la modifica al regolamento della Commissione antimafia, con cui l’allora aspirante governatore è riuscito a sterilizzare l’ombra ostile dell’ex grillino Nicola Morra e a togliersi di torno alcune candidature ingombranti.

    E poi una campagna elettorale tutta in discesa, in cui il deputato forzista ha avuto una sola difficoltà, tra l’altro interna: gestire i mal di pancia di Fratelli d’Italia, che minacciava fuoco e fiamme ma è stato smentito dai numeri. Col suo 17,3% Forza Italia stacca di nove punti il partito della sora Giorgia, inchiodato all’8,7%. Una cifra sulla base della quale è praticamente impossibile alzare la voce.
    Tantopiù che Fdi è tallonato a vista dalla Lega, che tiene la barra sul 8,34%, e da Forza Azzurri, di fatto la lista del presidente, che si attesta all’8,1%. Ma il cappotto riguarda tutte le liste occhiutiane, che, tranne Noi con l’Italia, hanno superato il quorum.

    Fin qui i dati grezzi, gli unici su cui è possibile ragionare, restituiscono una leadership forte, che probabilmente è l’esito di una gestione autoritaria della fase più delicata di ogni campagna elettorale: la compilazione delle liste.
    Tutto il resto è retorica della vittoria: l’accenno forte sul “fare”, il ripudio rituale della ’ndrangheta e dell’illegalità, la promessa di impegno per risollevare le sorti della Calabria, ecc.
    Ma i numeri azzurri non possono essere fraintesi né interpretati: dato per spacciato nel resto d’Italia, il movimento di Berlusconi tiene alla grande in Calabria e umilia gli alleati recalcitranti.

    Perde la Bruni, salvo il Pd

    I risultati complessivi ribadiscono l’inconsistenza degli avversari, tutti vittime del collasso del centrosinistra. È senz’altro vittima Amalia Bruni, col suo poco più del 27,6%.
    Questo dato conferma come la candidatura della scienziata lametina sia stata più il frutto di un’improvvisazione disperata che di una scelta. E fa capire come, dietro tutto, potrebbe esserci stato un ragionamento piuttosto cinico di alcuni vertici romani: suicidare il centrosinistra per “salvare” il Pd.

    Il segretario del Pd, Enrico Letta, a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Infatti, il partito di Letta, col suo 13,1%, conferma, seppure in parte, anche in Calabria l’attuale trend nazionale. E pazienza se questo risultato è stato ottenuto grazie al bagno di sangue più classico e truce, cioè costringendo tutti i big a candidarsi sotto il simbolo di partito, con la consapevolezza che solo uno per collegio ce l’avrebbe fatta.

    Uno zoom sul collegio cosentino può aiutare a chiarire: nella lista dem hanno gareggiato Mimmo Bevacqua, Giuseppe Aieta, Graziano Di Natale e Franco Iacucci.
    I primi tre hanno ottenuto risultati lusinghieri alle scorse Regionali, Iacucci, attuale presidente della Provincia di Cosenza, potrebbe contare su un buon risultato.
    Ma, data la performance della coalizione, solo uno entrerà in Consiglio. In pratica, si sono sacrificati per mantenere il partito sopra la linea di galleggiamento.

    Non finisce qui: l’asse del Pd potrebbe spostarsi verso lo Stretto se Nicola Irto confermasse i circa 12mila voti del 2020. In questo contesto fanno notizia due fatti: il raggiungimento del quorum dei Cinquestelle, che in Calabria prenderanno un consigliere (il mite Domenico Miceli?) e l’evaporazione di Carlo Tansi, la cui Tesoro Calabria è al 2,2%, a dispetto dei toni barricaderi del leader.

     

    Un flop per de Magistris?

    A Luigi de Magistris spetta la gloria degli sconfitti: è riuscito a staccare le sue liste, una sola delle quali de Magistris presidente (5,5%), ha superato il fatidico 4%. Tutto il resto, a partire da Dema (che sulla carta sembrava la lista più forte) è stato deludente.

    Luigi de Magistris (foto Alfonso Bombini)

    Il quasi ex sindaco di Napoli, in realtà, ha poco da rimproverarsi: si è mosso tanto e con molta abilità, è riuscito a smarcarsi bene da alcuni compagni di strada non proprio affidabili (Tansi, per capirci) ed è, infine, riuscito comunque a inserirsi in un territorio non proprio facilissimo, come quello calabrese.

    Tuttavia, il 16,15% non è un risultato lusinghiero per un candidato che prometteva rivoluzioni. Al contrario, significa che de Magistris non è riuscito a portare alle urne gli astensionisti e i delusi, gli unici che per lui avrebbero potuto fare la differenza.
    E non occorre essere politologi scafati per capire che in questo risultato hanno pesato non poco alcuni errori nella compilazione delle liste, in cui si sono schierati alcuni evergreen della sinistra, radicale e non (ad esempio, il cosentino Mimmo Talarico, già consigliere regionale in Idv con un passato turbolento in Sd e nella Sinistra arcobaleno).

    La fine di Oliverio

    L’ultima raffica per l’ex governatore. Mario Oliverio è stato letteralmente azzerato. Col suo 1,7% non è riuscito neppure a scalfire il Pd, che intendeva demolire per riprenderselo, né a fare una battaglia di testimonianza.
    Lui e i suoi fedelissimi hanno cercato la “bella morte”, come i repubblichini a Salò. Ma sono morti e basta, per loro fortuna solo a livello politico.

    Solo la Calabria è di destra

    Per capirci di più, occorre aspettare i risultati delle amministrative, in particolare quelli di Cosenza.
    Tuttavia, se si proietta il dato calabrese sullo scenario nazionale, emerge con prepotenza un altro dato: il centrodestra non ha bucato dove aveva i numeri per farlo (Roma) e ha subito degli stop un po’ ovunque, a volte non lusinghieri (è il caso di Milano e Napoli). E un po’ ovunque va al ballottaggio col rischio di essere stritolato dalla somma dei propri avversari.

    Il 15% circa ottenuto da Fratelli d’Italia a livello nazionale è una crescita inutile, che rischia di collassare tra gli scandali e, probabilmente, tra le inchieste giudiziarie che ne seguiranno o sono già in corso. Solo la Calabria, a dispetto dell’astensionismo, segna una controtendenza rispetto a un contesto generale in cui il centrosinistra ha ripreso a fiatare.
    Occhiuto ha stravinto senza alzare la voce e senza sbagliare una mossa. Tant’è che potrà gestire gli equilibri della sua coalizione col classico manuale Cencelli: dando a ognuno sulla base del suo peso.

    Ma i problemi per lui iniziano ora: la “Calabria che l’Italia non si aspetta” è ridotta al lumicino per responsabilità pesanti anche del centrodestra, che ha rivinto con pochi cambiamenti. Riuscirà a fare la rivoluzione assieme alla coalizione meno attrezzata per realizzarne una?

  • Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Una delle miniere più antiche d’Europa si trova in Calabria. Per la precisione, nella Valle dell’Esaro.
    Un’ulna (cioè, un pezzo d’avambraccio) appartenuta a un ventenne preistorico e sepolta sotto un masso nell’ingresso, fa capire che questo posto è frequentato da tantissimo tempo: oltre 20mila anni, stando ai risultati del radiocarbonio.
    Che ci fa un resto umano così antico in una grotta? Probabilmente, indica una “presa di possesso”. «È probabile che nell’alta preistoria queste enormi cavità naturali fossero considerate luoghi sacri», spiega Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari,
    L’umidità, fortissima, ha lavorato le rocce nel corso dei secoli. Una, in particolare, somiglia a un volto umano e dà il nome al sito: Grotta della Monaca.

    Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari
    Tra i più antichi minatori

    Sembra strano immaginare la Calabria “attrattiva” per persone in cerca di lavoro. Ma nella preistoria, a cavallo del neolitico e dell’eneolitico, ovvero all’inizio dell’età del rame, era così.
    La Grotta della Monaca era la meta di tribù che probabilmente vivevano nella vallata, tra l’Esaro e il Tirreno. Con tutta probabilità, questi nostri antenati sono stati tra i più antichi minatori dell’umanità.
    Solo alcuni di loro, probabilmente le donne, si dedicavano all’agricoltura. Gli uomini, i ragazzi e i bambini passavano gran parte delle loro non facili esistenze a estrarre i minerali colorati, prodotti dal miscuglio del ferro e del rame col calcare, che erano molto utilizzati per la concia delle pelli e, più tardi, per tingere i tessuti.
    Oggi, questi minerali hanno dei nomi (scientifici e comuni) piuttosto bizzarri: malachite, azzurrite, goethite, azzurrite, yukonite e aragonite.

    I minerali presenti nella struttura
    Il rame era un medicinale

    Il minerale predominante, tuttavia, è il rame, estratto in gran quantità.
    Ma non per fonderlo: «Secondo i criteri dell’epoca, questi erano giacimenti enormi, tuttavia non sufficienti per ricavarne lingotti», spiega ancora Larocca, che è il responsabile scientifico del sito archeologico.
    «Il rame», prosegue il ricercatore, «era utilizzato soprattutto come medicinale». I minerali estratti «non erano destinati all’autoconsumo, come i prodotti agricoli, ma allo scambio».
    La Calabria preistorica, in cui iniziavano le prime attività lavorative “specializzate” dà lezioni alla Calabria contemporanea, da cui scappano persino i braccianti, non appena possono.

     

    La grotta

    Ma com’è strutturato questo sito suggestivo e arcano? L’aggettivo “spettacolare” calza a pennello alla Grotta della Monaca, che è sotterranea quasi per modo di dire. L’ingresso, dov’è stato trovato l’antico avambraccio e dove c’è il “volto” della suora, è sull’ingresso di una collina a seicento metri di altitudine.

    Particolare del volto della “Monaca” (foto di Felice Larocca).

    È una sala piuttosto grande, piena di massi caduti dalle pareti, che conduce a una seconda cavità dal nome piuttosto inquietante: la Sala dei pipistrelli, una grotta nella grotta, lunga sessanta metri e larga trenta, che si chiama così per via dei suoi “ospiti” abituali.
    I quali vi risiedono tuttora, disturbati solo dal team di archeo-speleologi del Centro regionale speleologico “Enzo dei Medici” diretti dal professor Alfredo Geniola e dal menzionato Larocca per conto dell’Università di Bari, che gestisce gli scavi dall’inizio del millennio.

    La sala dei pipistrelli nel sito Grotta della Monaca

    Dalla Sala dei pipistrelli si dipana una serie di cunicoli, che si spingono per un altro centinaio di metri nelle viscere dell’altura. Qui è davvero difficile inoltrarsi, se non a carponi o, addirittura, strisciando.
    Il sito misura cinquecento metri circa in tutto. Un mezzo chilometro importantissimo nell’economia dell’Europa preistorica.

     

    Il duro lavoro

    Alcuni residui di ossa animali e di pietre lavorate fanno capire come lavoravano questi nostri antenati: afferravano il minerale più morbido, soprattutto la goethite, a mani nude, oppure lo strappavano dalle pareti con picconi ricavati dalle corna delle capre.

    Un piccone preistorico ritrovato nella Grotta della Monaca

    Nei casi più estremi, facevano a pezzi le rocce con mazze di pietra. Ma senza esagerare, perché il rischio di crolli era alto.
    Lo testimoniano delle “colonne”, cioè delle parti di minerale non estratto ma lasciato lì per reggere le volte dell’ingresso e della Sala dei pipistrelli. E dei muretti a secco, alzati per tenere sgombro l’ingresso dei cunicoli.
    Di lavorare si lavorava parecchio, ma le condizioni di vita erano grame: poco ossigeno, alimentazione non all’altezza e ritmi estrattivi enormi.
    D’altronde, non c’erano i sindacati e si faticava per sopravvivere.
    Un altro ritrovamento macabro dimostra oltremisura la pesantezza di questo stile di vita.

    Il cimitero

    Secondo gli archeologi, l’attività estrattiva è durata fino al 3.500 avanti Cristo circa, in pratica fino alle soglie della storia.
    Dopodiché, la Grotta della Monaca è diventata un cimitero. Gli archeologi, infatti, hanno trovato numerosi resti umani e hanno speso un bel po’ di tempo a ricomporli. Ne hanno ricavato un centinaio di scheletri, più o meno completi, che ci dicono tantissimo sugli abitanti della zona.
    Sono uomini, donne e bambini piccoli (alcuni, addirittura, appena nati), morti quasi tutti di infezioni o malattie. L’altezza media (1,60 per le donne e 1,70 per gli uomini) smentisce l’ipotesi che i nostri antenati mediterranei fossero “tappi”.
    Ma le condizioni delle ossa rivelano che comunque erano malnutriti e si ammalavano con una certa facilità di artrite e reumatismi, procurati dall’umidità del fiume Esaro e dal lavoro logorante. I più longevi raggiungevano a malapena i cinquant’anni e la mortalità infantile era quasi una norma.

    Rinvenimento di resti ossei umani durante le ricognizioni speleo-archeologiche del 1997 (foto di Felice Larocca)

    Si curavano alla meno peggio e, nei casi più estremi, si sottoponevano a una chirurgia rudimentale, come dimostrano i segni di trapanazione sul cranio di una donna adulta, probabilmente sopravvissuta all’“intervento” ma morta per l’infezione che ne seguì.

    La riscoperta

    Le estrazioni ripresero a pezzi e bocconi nell’antichità e si intensificarono di nuovo nel medioevo, quando minatori più attrezzati scavarono varie gallerie artificiali.
    L’abbandono definitivo, tuttavia, non fece dimenticare la Grotta, che lasciò tracce significative nell’immaginario degli abitanti della zona.
    La prima testimonianza contemporanea su questo sito è del sacerdote, poeta, scrittore e giornalista Vincenzo Padula, che parla della sua “terra gialla” come di una rarità.
    Il primo ad avventurarvisi, un po’ per spirito di avventura e un po’ per curiosità scientifica, è stato Enzo dei Medici, italiano di origine dalmata  (nacque a Sebenico, oggi Sibenik, in Croazia) che si recò nel Cosentino per censirne le innumerevoli cavità naturali, sotterranee e non.
    Appassionato naturalista e plurilaureato, dei Medici esplorò la Grotta della Monaca nel 1939 e ne diede per primo una descrizione accurata.

     

    L’interesse delle università di Bari, Salento e Ferrara

    L’iniziativa di questo pioniere della speleologia non ebbe seguito fino all’inizio del millennio, quando attorno al Csr dedicato a questo coraggioso esploratore si è coagulato uno staff importante, gestito come si è già detto dall’Università di Bari e a cui partecipano studiosi dell’Università del Salento e dell’Università di Ferrara.
    Tanto interesse potrebbe avere una ricaduta importante sul territorio, in particolare sul piccolo Comune di Sant’Agata d’Esaro, che tenta di trasformare la Grotta della Monaca in un attrattore turistico.

    Scavi all’ingresso della Grotta della Monaca

    La Calabria depressa di oggi tenta di mettere a frutto la Calabria iperattiva della remota antichità.
    Di sicuro, come spiega ancora Larocca, «c’è un fortissimo interesse della comunità internazionale degli studiosi sulla Grotta della Monaca e, più in generale, sull’area settentrionale della Calabria, che è piena di siti importanti, capaci di fornire informazioni dettagliate sull’Europa preistorica».
    Il turismo di massa, forse, predilige altro. Ma, per fortuna, i viaggiatori colti esistono ancora e in numero sufficiente a dare una spinta all’economia di questa parte di Calabria.
    E forse l’eventuale successo della Grotta della Monaca sarebbe il premio più bello alle fatiche dei nostri antenati.

  • Legnochimica, settanta tumori in attesa di verità

    Legnochimica, settanta tumori in attesa di verità

    C’è un aspetto particolare delle vicende della ex Legnochimica, finora non preso in considerazione dagli inquirenti: i malati e i morti di tumore.
    Non poteva essere altrimenti per più ragioni. Innanzitutto, la tardiva istituzione, qui in Calabria, dei registri tumori, gli unici strumenti da cui è possibile estrarre statistiche e dati apprezzabili. E, magari, ricavare indizi e prove.

    In seconda battuta, ha pesato non poco l’evoluzione delle normative sull’ambiente. Per capirci, fino all’85, l’anno in cui fu approvata la legge Galasso, il concetto di ambiente quasi non era definito a livello normativo. E, fino al 2015, anno in cui è stato codificato il reato di disastro ambientale, non esisteva una regolamentazione penale precisa e coerente sui danni all’ambiente. Tradotto in parole povere, molti comportamenti scorretti e dannosi, sono stati sanzionati solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Prima, chi ha potuto ha fatto danni in relativa tranquillità e con la coscienza a posto: la legge lo permetteva.

    Questo è un capitolo quasi non scritto della storia industriale italiana, che vale anche per Legnochimica, un’azienda piemontese specializzata nella produzione di pannelli in ledorex, che svolse il grosso della propria attività a Rende dai primi anni ’70 all’inizio del millennio.
    Difficile attribuire in maniera incontrovertibile i quasi settanta tumori, verificatisi tra gli ex dipendenti dell’azienda e gli abitanti delle zone adiacenti, alle attività industriali della fabbrica di legname per mobili. Soprattutto, questa attribuzione potrebbe non avere un’efficacia legale forte: cioè non darebbe luogo a incriminazioni e risarcimenti.
    E allora, perché raccontare questa storia? Perché i malati e i morti ci sono ed è doveroso seminare almeno dei dubbi.

    I numeri crudi

    Focalizziamoci sulla zona: attorno a ciò che resta della ex Legnochimica, che fino al 2006 è stata il cuore pulsante della zona industriale di Rende, ci sono via Settimo e Cancello Magdalone, due aree discretamente popolate (poco più di cinquecento abitanti).
    Chi ci vive fa i conti tutti i giorni con il puzzo terribile che emana dai tre laghi artificiali superstiti e dalle scorie dello stabilimento, che finché funzionò diede lavoro a centinaia di persone. Ma piange anche le morti dei propri cari o soffre per le loro malattie.

    I malati di tumore accertati fino al 2016 sono sedici. A questi si devono aggiungere altri dodici casi, avvenuti negli ultimi cinque anni. La conta macabra non finisce qui, perché si contano circa quaranta casi, molti dei quali mortali, tra gli ex dipendenti.
    Il dato più impressionante resta quello degli abitanti dell’area: via Settimo “cinge” letteralmente l’ex stabilimento e Cancello Magdalone ne dista poco meno di un chilometro in linea d’aria.

    Le testimonianze

    Tra le ultime ad andarsene, c’è Ada Occhiuto, un’anziana contadina (78 anni) scomparsa a fine 2016 per un tumore ai polmoni. «Io non ho mai fumato», aveva raccontato prima di morire, né il suo tumore poteva essere riconducibile ad altro. Ma nei suoi ricordi c’è una suggestione forte: «Abbiamo sempre vissuto qui, io e i miei familiari. Anzi, parte dei terreni su cui sorse Legnochimica erano di nostra proprietà». Nel suo caso, c’è “solo” la vicinanza all’area sospetta. Che non è poco.

    Adriana Ranieri, che abita a Cancello Magdalone, lotta da anni con due tumori al seno piuttosto invasivi, che l’hanno costretta a una mastectomia e a più sedute di chemio. Il tumore al seno può legare poco con l’inquinamento industriale? Forse.
    Ma può assumere un altro significato se lo si inserisce come si deve in una casistica ben fatta. A via Settimo, invece, abitava Eva Iorio, scomparsa nel 2013 per un tumore al Pancreas. Eva era vicina di casa d un’altra Adriana Ranieri.

    Il caso di quest’ultima è particolare: nel 2008 ha perso suo marito, Luigi Marchese, fulminato in due mesi da un tumore al pancreas, dopo aver perso suo padre, Umberto Ranieri, ucciso da un tumore alla vescica nel lontano ’99. Un’ulteriore testimonianza importante è quella di Immacolata Greco, anche lei residente a via Settimo, che ha perso suo marito Francesco Amato, che se n’è andato a fine novembre 2008 per un altro tumore al pancreas.

    Incidenza sospetta

    Questi casi, che abbiamo ricostruito attraverso le testimonianze dirette e le cartelle cliniche, hanno due tratti inquietanti: sono tutti tumori alle parti molli e tre di essi riguardano il pancreas. In altre parole, sono neoplasie compatibili con l’inquinamento industriale. In particolare, dà nell’occhio il numero di tumori al pancreas, che arriva a cinque. Un numero piuttosto alto per una patologia rara e sin troppo vistoso per il fatto che si è verificato nella stessa zona.

    Al riguardo, risulta incisiva la testimonianza di Carolina Niglio, medico di famiglia che ha diagnosticato vari di questi casi: «Ne certificai tre in meno di sei anni e quest’incidenza mi apparve sospetta, tant’è che ne informai il mio caposervizio». Con pochi risultati: era la fine degli anni ’10 e mancava il registro tumori. Che non è risolutivo neppure oggi, visto che è stato istituito nel 2015 ed è aggiornato al 2010.
    Per quel che riguarda gli altri casi, l’incidenza alle parti molli resta impressionante: ci sono un tumore all’intestino e almeno otto al polmone, non riconducibili al tabagismo.

    Gli ex lavoratori

    Un indizio in più proviene da Umberto Ranieri, di cui si è già parlato. Umberto, tra le varie, è stato dipendente dell’ex stabilimento.
    Proprio tra gli ex lavoratori il tumore ha imperversato alla grande, con circa quaranta casi. Inoltre, la loro vicenda ha un appiglio giudiziario, per quanto minimo: la Corte di Cassazione ha certificato, nel 2014, la presenza di attività ed elementi inquinanti nell’ex stabilimento, a partire dai capannoni in eternit, smaltiti nella seconda metà degli anni ’10, per finire all’uso di resine e solventi industriali, scaricati tutti nelle vasche di decantazione (i famigerati laghetti artificiali) e, da lì, penetrati nel suolo e nelle falde a grande profondità, come ha certificato lo studio redatto dal geologo e accademico Gino Mirocle Crisci, ex rettore dell’Unical e perito della Procura di Cosenza nell’inchiesta sulla ex Legnochimica.

    Un’ultima testimonianza importante è quella di Antonio Stellato, arzillo ex caldaista di Legnochimica, che ha lavorato per l’azienda dal ’69 alla sua chiusura.
    Stellato, autore di molte denunce pubbliche assieme all’associazione Crocevia e al comitato Romore, ha raccontato più volte alcuni aspetti non proprio edificanti dell’attività dell’ex stabilimento. «Fino agli anni ’80 sversavamo i rifiuti della lavorazione direttamente nel Crati. Ma continuammo a farlo anche dopo» e a dispetto della normativa, nel frattempo approvata.

    Come? «Li mettevamo nelle vasche ma poi, nottetempo, aprivamo i canali di collegamento che comunque finivano nel Crati».
    E gli ex dipendenti? «Circa una quarantina di loro si sono ammalati in maniera grave e molti non ci sono più». Anche in questi casi le cartelle cliniche sono agghiaccianti: tumori alle parti molli, che hanno cancellato persone in pochi mesi e flagellano i sopravvissuti.

    Un messaggio per il futuro

    Il numero complessivo di malati e morti, circa sessantotto, è piuttosto alto. Specie per una Regione come la Calabria, che ha sempre avuto un livello di industrializzazione piuttosto basso.
    Al netto delle statistiche, resta un bisogno di verità, invocata a gran voce dai residenti, dai familiari delle vittime e dalle associazioni ambientaliste.
    Se questa verità dovesse arrivare, sarebbe l’ennesimo paragrafo della parte oscura dello sviluppo industriale, quella in cui si racconta di come, per decenni si siano barattate la salute e la sicurezza con lo sviluppo e col lavoro.
    Un racconto a futura memoria che, in quanto tale, non può essere inutile.

  • Pesca da Aprile: de Magistris fa il pieno di “terroni”

    Pesca da Aprile: de Magistris fa il pieno di “terroni”

    Avevano promesso fuoco e fiamme. Volevano portare la rivoluzione nel Sud e da qui, estenderla a tutto il Paese. Gianfranco Viesti era il loro mito, Pino Aprile la loro musa. Adesso, dopo circa due anni di vita, il Movimento 24 agosto-Equità territoriale, annunciato nell’estate 2019 al Parco nazionale della Grancia, in Basilicata, fondato a Scampia con regolare atto notarile e presentato a Cosenza, è evaporato.
    Di tanti entusiasmi, esplosi soprattutto nei social, è rimasto poco: sei candidati spalmati nelle liste di Luigi de Magistris, l’unico interlocutore con cui il partitino meridionalista guidato da Aprile era riuscito a quagliare. Nessuno dei sei ha il simbolo e, se non fosse per le polemiche esplose su Facebook, sembra quasi che il M24a-Et non sia davvero esistito.

    La versione di de Magistris

    Sull’evaporazione del partito di Aprile de Magistris ha detto la sua in maniera poco equivocabile: non sono io che ho “divorziato” da Pino, ma viceversa.
    Poi, il quasi ex sindaco di Napoli ha rivelato un dettaglio: il no dello stato maggiore del Movimento 24 agosto sarebbe arrivato alla fine dello scorso mese, proprio mentre era in corso una manifestazione di de Magistris nel Lametino.
    Il no alla coalizione col primo cittadino di Napoli si è risolto in un boomerang: gli aderenti a M24a-Et sono passati armi e bagagli col candidato Masaniello e il partito si è svuotato.
    Questo travaso è il terminal di mesi di frizioni, polemiche e dubbi.

    I terroni in trincea

    Prima di raccontare la storia è il caso di capire chi siano i sei candidati, alcuni dei quali non proprio sconosciuti.
    Nella circoscrizione nord ci sono Mario Bria, noto per i suoi trascorsi di sindaco a Rose e di consigliere provinciale durante la prima giunta Oliverio, e Marianna Avolio, che corrono in ticket in de Magistris presidente.

    Nella circoscrizione centrale c’è Amedeo Colacino, ex sindaco di Motta Santa Lucia, candidato in Dema. Con lui è in ticket Francesca Gallello. Poi c’è Bruno Aversa, candidato in Per la Calabria con de Magistris.
    Nella circoscrizione sud c’è, invece, Maria Stella Morabito, che corre in de Magistris presidente.

    Una postilla è doverosa: Amedeo Colacino, già vicino a Orlandino Greco e legato da anni agli ambienti neoborbonici, fu protagonista, all’inizio dello scorso decennio, di una lunga battaglia giudiziaria contro il Museo Lombroso di Torino, accusato nientemeno che di razzismo antimeridionale.
    Insomma, un avanguardista del terronismo, che legò con Aprile sin dai tempi d’oro del bestseller “Terroni” (2010).

    La campagna elettorale

    In politica i pesci piccoli partono per primi. Così è stato per M24a-Et.
    I primi colloqui sono iniziati a novembre e si sono svolti con Carlo Tansi, che subito dopo ha litigato di brutto con Aprile sulla questione delle candidature.
    Solo l’ingresso di de Magistris ha placato gli animi, ma per poco.
    Le cose sono precipitate con la fine del Tandem, l’effimera liaison tra Tansi e de Magistris e con l’ingresso di una buona fetta di sinistra scontenta del Pd.
    Sono cose note: Aprile è diventato direttore di testata proprio in Calabria e il Movimento ha iniziato a perdere colpi.

    I capi terroni

    I movimenti non sono solo i loro leader. Con loro operano sempre dei dirigenti che si danno da fare nei territori. Ciò vale anche per M24, che qui in Calabria  contava su quattro “colonnelli”.
    Due non sono volti nuovi: Paolo Spadafora e Paolo Mandoliti, per citare i cosentini, erano vicini ai fratelli Occhiuto.

    Per quel che riguarda gli altri, uno solo è un neofita del terronismo: Mario Cosenza, un medico fisiatra cosentino. L’altro, il reggino Pasquale Zavaglio, ha un’estrazione neoborbonica simile a quella di Colacino.
    Tolto Spadafora, uscito dal Movimento circa un anno fa, gli altri tre sono rimasti alla guida. 

    La ribellione

    I “terronisti” si sono divisi in due blocchi: da una parte chi non ha gradito il nuovo impegno professionale del leader, dall’altra chi lo ha giustificato.
    Le cose si sono aggravate in seguito alle difficoltà incontrate nella compilazione delle liste, perché i candidati disponibili erano solo undici.
    Il tentativo è naufragato di fronte alla decisione dei vertici di non appoggiare de Magistris e di correre da soli.

    Questo proposito è collassato perché la lite interna, era deiventata pesantissima. Tant’è che è mersa il venticinque agosto sulla pagina Fb del Movimento, grazie a un post firmato dai suoi fondatori, tra cui lo stesso Colacino: sono volate accuse di scarsa democraticità e insulti. Tanto più rumorosi quanto più è piccolo l’ambiente che li ha prodotti.
    E la rivoluzione? Un’altra volta.

     

  • Sanità, partecipate, dissesti: la Calabria a rischio default

    Sanità, partecipate, dissesti: la Calabria a rischio default

    Iniziamo coi numeri, tutt’altro che rassicuranti: chi amministrerà la Calabria, dal 4 ottobre, dovrà misurarsi con un dato pesantissimo, espresso da due cifre, calcolate con prudente approssimazione e, probabilmente in difetto.
    La prima ammonta a 2 miliardi e 600 milioni. È il passivo totale della Sanità, la croce a cui dal 2009 sono inchiodati i calabresi, che subiscono le aliquote regionali più alte d’Italia per coprire quel che si può di questa voragine senza ottenere un’assistenza sanitaria decente.
    La seconda cifra ammonta a un miliardo circa. È meno inquietante di quella sanitaria, ma fa paura lo stesso, perché è il totale dei passivi delle società partecipate.

    Tuttora, la Regione è presente in sei società: Ferrovie della Calabria, Fincalabra e Terme Sibaritide (delle quali è socio unico), Banca Popolare Etica, Sorical e Sacal.
    Questo miliardo di passivi mette a rischio tutte le leve attraverso le quali la Regione influisce nelle attività degli enti locali e, quindi, pesa in maniera diretta sulla vita dei cittadini.
    In altre parole, è confermato, anzi di sicuro aggravato, il deficit della Sanità, che nel giudizio di parificazione della Corte dei Conti del 2019, blocca il 79% del bilancio regionale. Ma tutto il resto (trasporti, gestione idrica e rifiuti) rischia di finire gambe all’aria o, alla meno peggio, di zoppicare parecchio.

    Un’ecatombe di Comuni

    Se si stringe il campo visuale sui territori, il dramma calabrese emerge alla grande e ha per protagonisti e vittime i Comuni, quasi tutti messi malissimo dopo la sentenza della Corte Costituzionale 80 del 28 aprile 2021.
    Questa sentenza, che di fatto vieta di spalmare i debiti nel generoso lasso di trent’anni previsto nel 2015 dal governo Renzi, si è abbattuta come una mazzata sugli enti locali, che ora rischiano di brutto. Stando all’allarme lanciato dal sindaco di Rende Marcello Manna i Comuni in pericolo di dissesto sarebbero duecento circa. Ma, a ben vedere, la differenza tra chi è dissestato e chi non lo è ancora è solo una questione di dettagli: per i cittadini i tributi sono al massimo in entrambi i casi e i servizi risultato ridotti o a repentaglio.

    cosenza-palazzo-dei-bruzi
    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Questo in Calabria, perché in altre realtà, ad esempio Torino, il livello dei servizi è qualitativamente sostenuto, a dispetto delle condizioni finanziarie del Comune, che non sono proprio il massimo.
    Tra gli ottantadue Comuni che vanno al voto, i due più importanti consentono un paragone calzante: sono Cosenza, che è in dissesto dal 2019, e Lamezia Terme, che è in riequilibrio finanziario ma barcolla non poco, visto che non può più approfittare della “rateazione” trentennale. Nelle linee di fondo, la situazione delle due città è piuttosto simile: tributi a palla e servizi in calo o insufficienti.

    Il decreto sostegni non basta

    Ma non serve proiettarci verso il futuro per intuire la portata dell’Apocalisse, perché la catastrofe c’è già.
    Dei Comuni che vanno al voto il 3 ottobre assieme alla Regione, otto sono nei guai. Si va dai guai gravissimi di Cosenza, Badolato, Casabona e Bova Marina, al caos di Chiaravalle, che oscilla tra dissesto e riequilibrio da circa sette anni, alla situazione grave di Lamezia e di tutti gli altri paesi in riequilibrio.

    Ma se si considera il totale dei Comuni nei guai, la cifra è terribile: sono ottantasette.
    L’unica speranza è il decreto sostegni, che ha stanziato circa 600 milioni per alleviare il deficit strutturale. Questi soldi potrebbero fare molto per i Comuni in riequilibrio, soprattutto Reggio. Ma possono sì e no alleviare i conti dei municipi dissestati, cioè Cosenza.
    La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che c’entra il dissesto dei municipi coi passivi della Regione, visto che Comuni e Regioni fanno cose diverse, quindi hanno regimi finanziari separati?

    Un cane di debiti che si morde la coda

    Con rara crudezza, il presidente della Sezione regionale della Corte dei Conti Vincenzo Lo Presti aveva lanciato un monito alla Regione, che come tutti gli enti pubblici della Penisola ha il vizio di “lavorare” le cifre per ridimensionare l’annaspamento: i residui attivi sono sovrastimati, quelli passivi sottostimati.
    Era il 10 dicembre 2020 e, come già anticipato, i magistrati contabili valutavano il Bilancio regionale del 2019, che è l’ultimo documento utile, visto che la Corte non si è ancora pronunciata sull’esercizio 2020.

    corte_dei_conti_default

    È il caso di mettere da parte la Sanità, il cui debito è calcolabile solo in maniera presuntiva, visto che mancano dati certi dall’Asp di Reggio.
    Occorre concentrarsi, piuttosto, sulle partecipate, una delle quali è un punto di contatto tra la finanza regionale e quelle dei Comuni.
    Ci si riferisce alla Sorical, la società mista detenuta al 54% dalla Regione e al 46% da Acque di Calabria, una spa con socio unico, la francese Veolia.

    I crediti mai riscossi

    La Sorical non morirà di debiti, che pure ci sono (si ipotizzano 370 milioni circa, ma i vertici della società giurano di aver tagliato del 68%). Ma di crediti: la società avanza una somma impressionante, circa 200milioni, dai Comuni, quasi tutti morosi, in particolare Cosenza, Reggio e Catanzaro.
    I residui attivi, cioè i crediti non ancora riscossi, condizionano l’attività corrente. In altre parole, la vita quotidiana dell’ente e dei cittadini che vi si rivolgono per ottenere servizi.
    Vengono senz’altro “appostati” nel Bilancio, ma non sono liquidità. Anzi, molti di questi diventano inesigibili perché si prescrivono o possono essere recuperati solo con molta fatica e, spesso, non nelle quantità sperate.

    La catena perversa è facile da ricostruire: i cittadini pagano poco e in pochi ai Comuni, i quali pagano quel che possono o non pagano affatto (nel caso della Sorical, c’è chi spera, come Cosenza e Vibo, che nasca la società unica di gestione delle acque, che esoneri i Comuni anche dalla gestione diretta delle reti idriche).
    Risultato: la Regione deve intervenire a ripianare i passivi delle partecipate che non riescono a recuperare i crediti. Ciò vale anche per Sacal, piegata dal Covid, che ha messo in ginocchio le compagnie aeree che fanno scalo soprattutto a Lamezia, e per Ferrovie della Calabria, letteralmente ostaggio del trasporto su gomma e oberata da clientele.

    Non ci salverà l’Europa

    Non fidiamoci troppo dei fondi europei, che abbiamo dimostrato di non saper utilizzare o di utilizzare male il più delle volte, né dei 9 miliardi del Pnrr.
    Questi finanziamenti, come ribadisce l’articolo 119 della Costituzione, possono essere impiegati solo per investimenti. E sperare che questi investimenti producano utili (e quindi imponibile su cui far cassa) è fantascienza, almeno al momento: significherebbe sperare che i calabresi diventino ricchi a tempi record per poter risanare la Regione.

    Ma come può diventare ricca una popolazione strangolata a livello fiscale da una Regione che, al massimo, è in grado di riscuotere poco più del 60% delle tasse che impone?
    L’alternativa alla capacità di impiego dei fondi europei, ordinari e di emergenza, richiederebbe capacità politiche che al momento non ci sono: la piena attuazione del federalismo fiscale, che attiverebbe gli automatismi del fondo di perequazione calcolato sulla differenza di gettito tra i territori.

    Capitale economico e umano

    Già: il problema vero della Calabria è la sua povertà endemica, che, unita alla costante decrescita demografica, ha creato un mix micidiale. I Comuni e gli utenti non “guadagnano” abbastanza, quindi non possono pagare a dovere i servizi regionali e la Regione, con poco meno di un miliardo di utili l’anno, deve tappare le falle.
    La situazione ordinaria è questa. Il resto (cioè i finanziamenti promessi, in particolare quelli dell’estate appena trascorsa) è propaganda.

    Ma il vero capitale che manca è quello umano: i Comuni, oberati anche da personale non sempre qualificato, non possono permettersi i progettisti per attingere ai fondi europei e la Regione è ancora lontana dall’avere le competenze necessarie per la piena informatizzazione dei servizi. Deve ancora “smaltire” il personale prodotto dal vecchio Concorsone del 2004 e i dirigenti diventati tali in seguito alle vecchie “verticalizzazioni”, prima di procedere a un turnover adeguato.

    La situazione attuale

    Il 2019 terminò con un “onore delle armi” all’amministrazione Oliverio, che riuscì a malapena a rattoppare qualche buco nella riscossione e, finalmente, a conteggiare quasi come si sarebbe dovuto (e come avrebbe dovuto anche lui nei primi quattro anni di mandato) i debiti e i crediti.
    Ora c’è il rischio di un salto nel buio. E forse non sbaglia chi promette rivoluzioni alla Calabria: non c’è davvero quasi altro da fare.

  • Moderati in camicia nera: Toti e Iorio, la strana coppia

    Moderati in camicia nera: Toti e Iorio, la strana coppia

    È un ingombrante Mr X, piazzato in una lista regionale del centrodestra non troppo forte e in una posizione che non dà nell’occhio: è il cosentino Alfredo Iorio, classe’66, candidato in Coraggio Italia.
    Essere Mr X non vuol dire essere trasparenti, invisibili o, addirittura incorporei. Infatti, Iorio, che ha una passione smodata per la politica estrema, è uno che lascia tracce. E queste tracce diventano vistose in un partito come Coraggio Italia, nato a maggio da un allargamento di “Cambiamo!”, il partitino del governatore ligure Giovanni Toti a cui hanno aderito Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia, più una pattuglia di parlamentari azzurri, centristi ed ex pentastellati.
    Non è un caso che Coraggio Italia, ora come ora, sostenga Draghi, al pari della Lega e del Pd, per capirci. E allora, che ci fa un fascista, orgoglioso di essere tale, in questo partito? Non era meglio Fdi?

    L’enigma Iorio

    Diciamo pure che è stata sciatteria, attribuibile alla formazione recente del partito: il sito web di Coraggio Italia è piuttosto avaro di informazioni sui suoi candidati calabresi.
    Su Alfredo Iorio appare solo una banale didascalia, da cui si apprende che ha cinquantacinque anni, fa l’imprenditore ed è nato a Cosenza. Più, ovviamente, una foto.
    Null’altro. Alla faccia non solo della trasparenza ma anche della propaganda.
    Ma per fortuna le foto non mentono e il web ha una memoria storica difficile da aggirare.

    Cosentino de’ Roma

    Iorio, che si occupa di immobili, ha un solido legame con la Calabria: va al mare tutti gli anni a Torremezzo (una delle spiagge cult dei cosentini), dove ha una casa, e frequenta Cosenza piuttosto spesso.
    Ma vive stabilmente a Roma, dove lavora e coltiva la sua passione politica estrema, che lo ha elevato all’onore delle cronache nazionali perché questa passione l’ha sviluppata nella Capitale, con due candidature a sindaco contornate da episodi rumorosi, più legati a certo folclore politico a cavallo tra il vecchio neofascismo e la destra radicale che ad altro.

    Candidature e saluti romani

    Nel 2013, cioè l’immediato post Alemanno, Iorio si candida alle amministrative con la destra che più destra non si può: Forza Nuova.
    Iorio è anche il leader storico di Trifoglio, il gruppo politico di destra (sempre estrema) che rivendica l’eredità della storica sezione del Msi a via Ottaviano, nella parte settentrionale della Capitale.

    iorio_sindaco
    Iorio non ha mai fatto mistero del suo credo politico, almeno fino alle Regionali 2021

    Finita l’effimera amministrazione di Ignazio Marino, il Nostro ci riprova, non prima di aver sistemato un po’ le cose di casa. Cioè, di essere venuto a capo di una scissione fastidiosa, in seguito alla quale il Trifoglio si è diviso in due. Da una parte il Fronte della Gioventù, formato dai militanti più giovani che hanno rispolverato per l’occasione la vecchia sigla del movimento giovanile missino, dall’altra quelli che hanno seguito Iorio, ribattezzatisi per l’occasione Patria.
    Stavolta è il momento del salto: il calabroromano si candida come sindaco a capo di una lista civica chiamata, appunto, Patria. E prende lo 0,22%. Nulla di fronte all’ecatombe che devasta tutti e porta al Campidoglio Virginia Raggi.

    Tafferugli a Roma Nord

    Prima della sortita amministrativa, Iorio si è segnalato alle cronache per un altro episodio: la protesta del 2015 contro il centro d’accoglienza in via Casale di San Nicola, all’estrema periferia nord di Roma, dove la prefettura aveva deciso di accogliere i migranti.
    Iorio capeggiò una manifestazione di cittadini italiani, che presidiarono questo centro in tenda. Le proteste, così raccontano le cronache, degenerarono e, il 17 luglio di quell’anno, ne seguirono dei tafferugli. Per fortuna senza conseguenze serie.

    Prima gli italiani

    Mettere i cittadini italiani (meglio ancora se disagiati) contro i migranti è un escamotage efficace delle destre radicali, che si è trasformato in arma propagandistica vincente nel 2018.
    «Prima gli italiani» lo dicevano i “camerati de’ Roma”. «Prima gli italiani», lo ha ripetuto con grande successo Matteo Salvini, che non a caso ha appoggiato le estreme destre e si è appoggiato a loro.

    iorio_alieni
    A Roma Iorio non sembrava avere grande stima per Salvini, salvo poi supportare i leghisti in Calabria

    E non è un caso che Iorio abbia deciso di fiancheggiare la Lega, che aveva quasi completato la metamorfosi in destra radicale nel trionfo del 2018 e si preparava a riproporre la formula alle Europee del 2019.
    In quest’occasione, il Nostro appoggia Vincenzo Sofo, ex enfant prodige della destra milanese (è stato dirigente del movimento giovanile de La Destra di Storace), che fa il pieno di voti nel collegio meridionale, anche grazie all’aiuto di Iorio, diventato il suo uomo ombra in Calabria.
    L’anno successivo il Nostro continua l’esperienza vincente col partito di Salvini in Calabria e fiancheggia Pietro Molinaro, che fa il pieno di voti alle Regionali. Poi arriva il mal di pancia.

    2021, fuga da Salvini

    Il mal di pancia di Iorio è stato fortissimo. Prima si esprime in maniera polemica nei confronti di Christian Invernizzi, all’epoca commissario calabrese della Lega, “colpevole” a suo dire di eccessiva debolezza politica per essersi accontentato di un solo assessore, cioè il vicepresidente Nino Spirlì. Poi, dopo aver fondato il movimento Calabria prima di tutto, annuncia uno sciopero della fame.
    Tempo pochi mesi e la scomparsa prematura di Jole Santelli mette in discussione tutto. Nel frattempo, anche la Lega è cambiata e Vincenzo Sofo, che non gradisce il nuovo corso moderato di Salvini, aderisce a Fratelli d’Italia.

    È un tana libera tutti, che crea un esodo massiccio (circa 300 militanti) dal partito del Capitano, che prendono direzioni diverse, che portano quasi tutte a destra.
    La scelta di Sofo è simile a quella del consigliere comunale cosentino Vincenzo Granata, che molla Salvini e si butta tra le braccia di Toti. Ma, a differenza di Iorio, Granata non ha un profilo politico di destra radicale e quindi non dà troppo nell’occhio.

    La scelta di Iorio desta qualche sorpresa, tanto più che la sua ultima uscita pubblica prima dell’attuale campagna elettorale è avvenuta a maggio, in occasione di un dibattito organizzato a Spezzano Albanese da “Calabria protagonista”, il nuovo movimento del Nostro, a cui, tra gli altri, ha partecipato lo stesso Sofo.

    Moderato Iorio, presente!

    Sono solo piccole curiosità che la dicono lunga: è quasi impossibile trovare i dettagli anagrafici di Iorio. Giusto uno screenshot delle Amministrative romane del 2016 informa che il “camerata” è nato a Cosenza il 9 marzo 1966.
    Ma questo dato non appare su nessun’altra testata, neppure Repubblica e il Corriere della Sera, i più prodighi di informazioni.

    Le date non mentono e le foto neppure: essere nati nel ’66 significa avere oggi 55 anni e la foto del prode Alfredo è identica a quelle apparse in occasione delle contese romane.
    Perché tanti misteri? Solo sciatterie? Oppure c’è il desiderio di rifarsi una verginità, politica e territoriale, per correre non più in camicia nera, ma con la coppola da calabrese amante della Calabria?

    Un fascista è per sempre, tranne se si vota

    Il rifugio nelle braccia di Toti è comprensibile per tre ragioni.
    La prima è elettoralistica, perché le liste di Fdi sono piene di candidati forti e sono costruite attorno agli uscenti.
    La seconda è di strategia politica: serve a recuperare al centrodestra i voti dei “duri” che hanno mollato la Lega e non si sentono di fiancheggiare la Meloni.
    La terza è di opportunità, da cui hanno da guadagnare almeno in tre: Occhiuto che mantiene l’elettorato, la Lega che si svuota dei “fasci” e si accredita come “moderata” e lo stesso Iorio, che può affrontare la campagna elettorale senza doversi misurare coi Moloch.
    Insomma, un fascista è per sempre e Roma o Cosenza, destra radicale o nuovi centristi non importa: quando si va al voto, tutto fa brodo.