Autore: Saverio Paletta

  • Cane non mangia cane: il “bilancio Occhiuto” passa, ma che farà Franz da grande?

    Cane non mangia cane: il “bilancio Occhiuto” passa, ma che farà Franz da grande?

    È sfuggito qualcosa, durante la discussione del Bilancio preventivo di Cosenza per il triennio 2021-2023, avvenuta a Palazzo dei Bruzi il 29 dicembre. Preso in sé, il dibattito non fa notizia. Scontato il voto unanime alla relazione dell’assessore al Bilancio Francesco Giordano, frutto di un lavoro certosino sui conti. Scontate, inoltre, le punzecchiature volate qui e lì durante gli interventi. Persino banali i plausi della minoranza: il documento contabile proposto dalla giunta Caruso appartiene solo nominalmente all’amministrazione attuale, ma in realtà è farina del sacco di Mario Occhiuto.

    A proposito di Occhiuto: l’ex sindaco aveva lanciato alcune frecciate al curaro dalla propria pagina Facebook poco prima delle festività natalizie. «Quando ci siamo insediati – aveva detto – avevamo trovato una situazione contabile disastrosa, ma non abbiamo accusato gli altri e ci siamo dati da fare». Sarà. Ma cose simili le aveva dichiarate pure Franco Santo, lo spin doctor di Salvatore Perugini: «Trovammo una situazione disastrosa ed esortammo Perugini a dichiarare il dissesto». Cosa che non avvenne.
    Insomma, il voto unanime ha un significato ben preciso: cane non mangia cane. Neanche quando c’è poco altro da mangiare, come dimostrano gli 11 milioni di disavanzo ereditati dal 2019. Ma cosa è sfuggito?

    Pantalone non paga più

    Contabile di spessore ed esperto in dissesti, l’amanteano Francesco Giordano è approdato nella giunta Caruso dopo aver fatto parte della Commissione di liquidazione del Comune di Cosenza nominata a febbraio 2020, quando il dissesto era ancora “fresco”. È uno che conosce bene la voragine delle casse comunali e tenta di salvare il salvabile. Lo rivelano due passaggi della sua relazione. Il primo: «I beni comunali dovrebbero essere messi a frutto, cioè affittati o liquidati, prima che l’ente vada (di nuovo, ndr) in dissesto».

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Secondo passaggio: «Non si può più ragionare come quindici anni fa, quando si badava più ai costi che alle entrate, perché dal 2011 è cambiato tutto». Ovvero: le rimesse statali sono calate in maniera drastica e gli enti locali devono far da sé, riscuotendo a più non posso. Il che non è stato per Cosenza. Anzi, è proprio questo il dato più sconfortante: gli uffici di Palazzo dei Bruzi hanno incassato solo il 20% della somma prevista (circa 17 milioni) di tributi urbani, in particolare Tari e fornitura idrica.

    Tocca svendere l’argenteria

    Cane non mangia cane, ma in compenso si morde la coda. Impossibilitato a risparmiare come dovrebbe, pena il collasso dei servizi, il Comune non riesce ad incassare. Anzi, secondo i bene informati, ci sono quartieri in cui riscuotere è utopia, anche a causa della povertà dei cittadini.
    Allora tocca svendere l’argenteria. Posto che sia in buone condizioni e posto che ci siano acquirenti. Altrimenti, la messa in liquidazione si tradurrà in voci attive virtuali e inutilizzabili. Sono i conti della serva? Certo.
    Ma non occorre una specializzazione in finanza pubblica per cogliere il vero rimprovero di Giordano: non si è risparmiato quando si poteva, non si è incassato quando si doveva. In compenso, si è speso.

    L’operazione verità? Un’altra volta

    Che ne è stato delle dichiarazioni con cui Franz Caruso prometteva fuoco e fiamme all’atto del suo insediamento? Una probabile risposta sta in un passaggio dell’intervento dell’ex vicesindaco Francesco Caruso, sconfitto alle Amministrative di ottobre: «Giordano non ha ravvisato elementi tali da portare le carte in nessuna procura. Non sono affermazioni eclatanti queste, ma vanificano l’operazione verità che si sta rivelando una bolla di sapone».

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    Francesco Caruso e Mario Occhiuto durante la campagna elettorale

    L’ex vicesindaco non si ferma qui e – forse in maniera autoassolutoria – rivolge lo sguardo al passato: «È una situazione delicata ma non tragica, effetto di cause di un processo evolutivo che guarda a situazioni di amministrazioni di 10 anni fa». E ancora: «Noi abbiamo trovato nel 2011 un comune in dissesto».
    E, a proposito ancora di operazioni verità: «Non ho mai digerito l’operazione verità perché ha il sapore di una ricerca dei colpevoli. Siamo dei comuni mortali e a fasi alterne occupiamo posti di responsabilità. Oggi, se si vuole andare avanti, il bilancio si deve votare così come sono stati votati i bilanci con perdite significative».

    Il decennio intoccabile

    Non si poteva pretendere dall’attuale maggioranza una riflessione critica sugli anni ’90, quando iniziò in lire il debito che avrebbe travolto Cosenza in euro. Ma il rinvio alle responsabilità passate, fatto tardivamente da Occhiuto e rilanciato dai suoi sodali superstiti in consiglio (tranne da Antonio Ruffolo, arrivato in ritardo e silente come sempre) non è sufficiente. Né ci si può consolare col fatto che Cosenza è in dissesto al pari dell’80% dei Comuni al Sud.

    Alla classe politica cosentina è mancato il coraggio del parricidio. Non lo fece l’amministrazione Perugini, che aveva liquidato il decennio manciniano nell’immobilismo. Non l’ha fatto l’amministrazione Occhiuto, che anzi ha completato i progetti del vecchio Leone socialista, in particolare il ponte di Calatrava e il parcheggio di piazza Bilotti, attirandosi le critiche di chi negli anni ’90 applaudiva.
    Tuttavia, anche l’eventuale “revisionismo” su quegli anni oggi sarebbe inutile. Di sicuro non colmerebbe il deficit in bilancio che costerà ai cosentini lacrime e sangue. Né restituirebbe alla città la voglia di progettare e di sognare di quel decennio.

    La partita inizia ora

    Le schermaglie sono state poca cosa: un botta e risposta tra gli evergreen Mimmo Frammartino e Spataro, qualche stoccata di Bianca Rende che si è tolta i classici sassolini dalla scarpa più qualche precisazione. Ma resta un dato, ancora una volta evidenziato da Giordano e ribadito dal sindaco: quello approvato dal Consiglio comunale del 30 gennaio non è un bilancio di previsione dell’amministrazione Caruso.

    È l’ultimo consuntivo di quella Occhiuto, votato in zona Cesarini e quasi a scatola chiusa per evitare rischi più gravi. Niente interventi della Procura, più dichiarati che minacciati, né inchieste. Solo continuità, per il momento. La partita vera dei conti cosentini inizierà in primavera, quando Franz Caruso e i suoi diranno per davvero cosa faranno “da grandi” e, soprattutto, potranno fare.

  • Massoni cosentini, fratelli e muratori dal sindaco al medico giornalista

    Massoni cosentini, fratelli e muratori dal sindaco al medico giornalista

    C’è una personalità particolare, che rivela tantissimo sul modo in cui si sono costruite le classi dirigenti di Cosenza: Arnaldo Clausi Schettini, che fu sindaco in quota Dc del capoluogo bruzio per dieci anni, dal ’52 al ’64.
    Fu eletto tre volte (nel’52, nel’56 e nel ’60) e si appoggiò a una maggioranza che oggi si definirebbe di centrodestra, costituita, alternativamente, dal Pli e dal Msi.
    Ma, secondo alcune ricostruzioni storiche credibili, alla base di tanta longevità politica, ci sarebbe stato un fattore ben preciso, di quelli che non si misurano nelle urne: la massoneria.

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    Arnaldo Clausi Schettini, tre volte sindaco di Cosenza
    La massoneria cosentina è come le Duracell

    Per quel che riguarda il sindaco Clausi Schettini, non risulta dalle carte alcuna militanza massonica, ma solo l’iscrizione al Rotary. In compenso, era massone suo fratello Oscar, che faceva l’avvocato nella natia Rogliano ed era referente della loggia “Telesio” per il Grande Oriente d’Italia. Invece Vittorio, il papà di Arnaldo e Oscar, era stato podestà a Rogliano.

    Ma, prima ancora, Vittorio aveva fatto parte della vecchia classe dirigente liberale, frequentazioni massoniche incluse: nel 1904, ad esempio, aveva appoggiato, assieme al massone (addirittura un 33) Giovanni Domanico, l’ascesa politica di Luigi Fera, un altro grembiule di rango.
    La massoneria cosentina era come le batterie Duracell: continuava, a dispetto delle leggi “fascistissime” del ’25, che non avevano scalfito di una virgola Michele Bianchi (proveniente da piazza del Gesù) né il podestà cosentino Tommaso Arnoni (il quale, invece, aveva militato nel Goi).
    E l’effetto Duracell sarebbe continuato nel dopoguerra, a dispetto degli anatemi della Chiesa.

    I notabili alla carica

    Un’interessante ricerca di Luca Irwin Fragale, autore del poderoso volume “La massoneria nel Parlamento” (Perugia, Morlacchi Editore 2021), chiarisce il legame tra le classi dirigenti calabresi, cosentine in particolare, e la “grembiulanza”.
    Un rapporto che aveva, e forse ha tuttora, due direzioni: tutti i notabili dovevano avere il benestare delle logge e, viceversa, tutte le logge dovevano essere vissute dai notabili.
    Non fu un caso, quindi, che la massoneria si sia ricostituita a Cosenza non appena gli Alleati arrivarono in Calabria.
    Al riguardo, le fonti concordano su una data: 11 dicembre 1943, quando la storica loggia del Goi “Bruzia-De Roberto” riprende la propria attività dopo diciotto anni di stop imposti dal regime fascista.

    Misasi, Loizzo e la città che contava

    Basta scorrere la lista degli iscritti per rendersi conto che la “Bruzia” conteneva una buona fetta della città che contava, consolidata tra l’altro anche da rapporti di parentela. C’era il medico Mario Misasi, nipote del grande scrittore Nicola, fondatore dell’omonima clinica e creatore del reparto di Pediatria all’Annunziata e ideatore del Rotary cosentino.

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    Il medico Mario Misasi

    C’era Sole Marte Cavalcanti, detto Soluzzo, comandante dei Vigili Urbani di Cosenza.
    C’erano, in particolare i fratelli Emilio e Giovanni Loizzo, un cognome che pesa tuttora nella storia della massoneria: Giovanni, infatti, era il papà di Ettore Loizzo, che avrebbe fatto una grande carriera nel Goi, di cui sarebbe diventato gran maestro aggiunto. Ma questa è un’altra storia.
    Per quel che riguarda la famiglia Loizzo, gli addentellati massonici non finiscono qui: fuori dalla loggia “Bruzia-De Roberto” si contano altri due Loizzo: Eugenio e Antonio, morto durante il bombardamento alleato dell’agosto 1943.

    Il radiologo giornalista

    La personalità più forte resta, tuttavia, il radiologo Oscar Fragale, ufficiale medico all’Ospedale militare di Bari col pallino della filantropia e del giornalismo: già presidente del Circolo della stampa di Cosenza, Fragale rileva assieme a Giuseppe Santoro, altro pezzo grosso della “Bruzia”, la testata “Italia Nuova” che sarebbe diventata il celebre “Corriere del Sud”. Antifascista rigoroso e militante nel Partito d’Azione, aveva proposto nel ’44 l’istituzione di un’università a Cosenza.

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    Oscar Fragale, radiologo e giornalista

    Anche nel caso di Oscar Fragale contano la tradizione di famiglia e i legami politici: suo padre Giovanni era un orafo di Malvito legato al parlamentare Nicola Serra. Serve altro?

    La conquista del Comune

    Personalità piuttosto spigolosa, Fragale era un massone vecchio stampo, liberale e anticlericale. Proprio la sua polemica giornalistica nei confronti dei “fratelli” che si apprestavano a colonizzare la Dc permette di cogliere i retroscena delle Amministrative del ’52.
    Ma andiamo con ordine. Subito dopo la ripartenza di fine ’43, la massoneria cosentina cresce a dismisura. Il Goi, in particolare, apre nuove logge (“Salfi” e “Telesio”) e ne ingloba altre provenienti dai rivali di Piazza del Gesù: tra tutte, la storica “Fratelli Bandiera”. Poi arriva lo stop con le elezioni politiche del ’48, in cui la Dc batte il fronte popolare e inaugura la sua egemonia sulla politica italiana.

    Inizia l’era De Gasperi, caratterizzata da un legame forte con la Chiesa che si declina in due direzioni: contro il comunismo e, appunto, contro la massoneria.
    Quest’ultima, per sfuggire alla morsa cattolica, escogita un piano a livello nazionale che, ovviamente, trova a Cosenza un’applicazione sin troppo zelante.

    Il piano Pirro

    La strategia “entrista” nella Dc è elaborata da un big del Goi romano, conosciuto come “Pirro” (probabilmente il gran maestro del Goi, Ugo Lenzi).
    Il motivo di questa strategia è piuttosto banale: l’anticomunismo, che in Calabria tuttavia, pesa di meno, visto che anche il Pci vantava massoni di rango come l’ex ministro Fausto Gullo, tra l’altro consuocero di Mario Misasi.

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    Fausto Gullo. ministro e giurista

    Il caso di Gullo non era isolato, visto che è più che nota la vicenda di Ettore Loizzo, che visse la doppia identità di massone e comunista finché i vertici del Pci gli imposero di scegliere tra militanza politica e militanza massonica…

    Pure il vescovo

    Torniamo alla Cosenza del ’52. Il piano massonico di “colonizzare” le liste della Dc è rivelato dal Corriere del Sud (di proprietà di Oscar Fragale, che avversa il piano e non ama la Dc) attraverso un articolo pubblicato in prima pagina il 24 maggio ’52.
    La strategia cosentina è piuttosto semplice: spingere il Pli, partito tradizionale della massoneria, ad allearsi con la Balena Bianca e piazzare sette candidati nella lista di quest’ultima.

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    Il vescovo Aniello Calcara

    Cosa curiosa, di questo piano è al corrente anche la Chiesa, tant’è che l’articolo del “Corriere del Sud” pubblica anche una nota con cui Aniello Calcara, l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, invita i fedeli a scegliere la lista della Dc e, all’interno di questa, i candidati che danno più garanzie dal punto di vista religioso.

    Massoni inclusi

    Il piano Pirro diventa il classico segreto di Pulcinella. Tuttavia, funziona: Arnaldo Clausi Schettini, vicino ai notabili massoni grazie alla militanza rotariana e ai rapporti della propria famiglia, diventa sindaco e resta in sella per più di dieci anni. Il suo posto sarà rilevato da Mario Stancati nel ’63, che inaugura il centrosinistra in città. Massoni inclusi.

  • Rifiuti, produci e consuma con le discariche degli altri

    Rifiuti, produci e consuma con le discariche degli altri

    Sulla carta, una parte dell’ambientalismo sembra poco più che una superstizione. Come tutte le superstizioni, certe polemiche in parte si fondano su una verità, almeno per quel che riguarda lo smaltimento dei rifiuti: discariche, impianti di trattamento e, nei casi più estremi, digestori e inceneritori possono essere davvero pericolosi, se non sono gestiti in condizioni di sicurezza.
    E le lacune, a proposito di sicurezza, in Calabria sono tantissime: lo ribadiscono le vicende della discarica di San Giovanni in Fiore o di altre vecchie discariche cosentine, sopravvissute all’era dello smaltimento pre-differenziata e mai bonificate.

    La sindrome Nimby

    Il resto è opinabile: molti ambientalisti non tengono conto delle nuove tecnologie e dei progressi avvenuti proprio grazie alle nuove prassi nella raccolta dei rifiuti.
    In tutto questo, fa la sua parte anche la paura. Una paura particolare, sintetizzata con efficacia da un acronimo entrato da oltre un decennio nell’uso comune: Nimby, che sta per Not in my back yard”, non nel mio cortile. Smaltire è giusto, ma lontano da me.

    Rivolta nel Pollino

    Di recente, si è assistito a una forte protesta nell’area del Pollino, per la precisione a cavallo tra Frascineto e Castrovillari, dove nel 2019 i cittadini si sono ribellati alla proposta avanzata dal sindaco di Castrovillari, Antonio Lo Polito, di realizzare un impianto per il trattamento dei rifiuti nel vecchio stabilimento di Italcementi.
    La protesta fu cavalcata allora da Ferdinando Laghi, attuale consigliere regionale di opposizione.

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    Il consigliere regionale Ferdinando Laghi

    È doveroso ricordare che, all’epoca, Laghi non era candidato alle Regionali, perciò nel suo ruolo di “portavoce” non era ispirato da scopi elettorali. Proprio in occasione di quella protesta, l’ex primario medico indicò dei parametri fondamentali per la realizzazione delle strutture di stoccaggio e smaltimento dei rifiuti: distanza sufficiente (almeno più di due chilometri) dall’abitato, vicinanza a grosse arterie stradali per consentire un trasporto agevole, uso di tecnologie per il controllo delle emissioni.

    La monnezza che piace agli amministratori

    Il progetto andò in fumo, perché non gradito ai castrovillaresi e agli abitanti di Frascineto.
    Tuttavia, l’idea di realizzare impianti di stoccaggio (anche banali discariche) e trattamento dei rifiuti solletica non pochi amministratori. La “monnezza” infatti è un’attività che può rimpinguare, attraverso le concessioni e le tariffe, le casse dei nostri enti locali e, con un po’ di fortuna, creare posti di lavoro. Ciò che rischia di inquinare l’ambiente può dare ossigeno all’economia: una versione rivista e aggiornata dell’antico adagio secondo cui “pecunia non olet”, ovvero i soldi non puzzano. La citazione latina non è un caso: è attribuita a Vespasiano, l’imperatore che decise di istituire le latrine pubbliche a pagamento…. E, a dispetto delle preoccupazioni dei suoi consiglieri, ci riuscì.

    Il caso Grimaldi

    Difficile dire se sia (solo) Nimby oppure se dietro la protesta del Comitato popolare tutela Savuto ci siano timori fondati.
    Fatto sta che le manifestazioni continue contro l’ipotesi di creare un ecodistretto con discarica di servizio a Grimaldi, un piccolo Comune (poco più di millecinquecento anime) del Savuto, al confine tra Cosenza e Catanzaro, hanno avuto successo.
    Proprio a fine novembre la giunta guidata da Roberto De Marco ha ritirato, con una delibera approvata dal Consiglio comunale, l’idea dell’impianto, avversata dal Comitato anche sulla base di un motivo non proprio infondato: la vicinanza al letto del Savuto.

    Un motivo, tra l’altro non inedito nelle proteste antidiscarica degli ambientalisti calabresi. Quasi tutti gli impianti contestati sono vicini a zone “sensibili”: corsi d’acqua e falde acquifere, oppure al confine tra diversi Comuni. Un fattore, quest’ultimo, che crea anche problemi politici non leggeri: possono gli abitanti di un Comune subire le emissioni di strutture che avvantaggiano essenzialmente il Comune vicino?

    Il caso Scala Coeli

    E non sembra risolutiva neppure l’idea di istituire ecodistretti, impianti e discariche in zone a bassa densità abitativa. Lo dimostra la vicenda decennale di Scala Coeli, presa in carico direttamente da Legambiente.
    Sulla carta, Scala Coeli sarebbe un territorio ideale per realizzare impianti per il trattamento dei rifiuti, perché è un paese spopolato, poco più di ottocento abitanti, con molto territorio a disposizione, quasi 68 chilometri quadrati. Per di più, l’abitato è arroccato su un monte, quindi a distanza di sicurezza.
    Ciò ha motivato l’autorizzazione di una discarica per rifiuti speciali non pericolosi, effettuata dal 2010 dal Dipartimento ambiente della Regione, di 93mila metri cubi, gestita dalla società Bieco srl.

    Rifiuti-discarica Scala Coeli-I Calabresi
    La discarica di Scala Coeli
    La battaglia degli ambientalisti

    Dov’è il problema? Nel caso di Scala Coeli, la vicinanza della struttura al letto del fiume Nika, ai confini tra il basso Jonio cosentino e il Crotonese. La vicinanza al fiume non è il solo problema: nella zona resistono ancora attività agricole importanti e ci sono, quindi, vincoli territoriali.
    Il problema è esploso nel 2015, quando l’azienda concessionaria ha richiesto l’ampliamento della cubatura. L’inchiesta condotta dagli ambientalisti ha rivelato che i terreni su cui è stata realizzata la discarica non erano ancora sdemanializzati. In altre parole, la proprietà (e quindi la destinazione d’uso) erano ancora pubbliche.
    Più che le proteste, hanno potuto le carte bollate: i militanti di Legambiente si sono rivolti al Tar contro il Dipartimento agricoltura della Regione, che aveva dato parere positivo all’ampliamento e, come se non bastasse, hanno denunciato il tutto anche alla Procura di Castrovillari.

    In attesa del Tar 

    I motivi di questi ricorsi sono complessi e forse non è infondato ipotizzare che nella zona non sarebbe proprio dovuta sorgere una discarica, visto che i terreni sono ancora demaniali. A breve, probabilmente prima di Natale, il Tar si pronuncerà e potrebbe mettere la parola fine alla vicenda. In caso di stop all’ampliamento, si fermerebbe anche il conferimento dei rifiuti, visto che la discarica avrebbe già quasi esaurito la propria capacità. E si aprirebbe un nuovo capitolo, non meno problematico, relativo stavolta alla bonifica.

    Un problema aperto

    Ma le vittorie degli ambientalisti non risolvono il problema: esportare i rifiuti, come si è fatto spesso durante le emergenze recenti, costa. E costa pure mantenere l’attuale sistema, che garantisce sì e no lo stoccaggio.
    Già: i rifiuti da qualche parte devono pur finire, nel rispetto dell’ambiente e della sicurezza dei cittadini. Finora parecchie zone della Calabria tirano avanti a botte di rattoppi e proteste. Ma quanto potrà durare?

  • «Una Calabria che cresce? I miracoli non esistono, basta sapere cosa fare»

    «Una Calabria che cresce? I miracoli non esistono, basta sapere cosa fare»

    L’ultimo Rapporto Svimez, ripreso un po’ frettolosamente dai media e subito strumentalizzato a livello politico, fotografa con precisione il cosiddetto “rimbalzo”, cioè la crescita italiana dopo la fase dura della pandemia. Il tutto nell’ottica particolare del Mezzogiorno, di cui esce un’immagine problematica, in cui sofferenze e speranze si mescolano in un intreccio fisso. A voler tentare una sintesi delle cinquecento e passa pagine del rapporto si può affermare che nell’Italia che ha ripreso a crescere il Sud arranca un po’, con la classica situazione a macchia di leopardo. E la Calabria appare ferma.

    Lo ribadiscono alcuni indicatori, in particolare l’agricoltura (meno 10% di occupati nel settore, che pure da noi pesa il 4% del Pil, il doppio rispetto al resto del Paese) e l’informatica, gravata da una forte persistenza del digital divide.
    Eppure, come tutte le situazioni croniche, le possibilità di miglioramento non mancano. Anzi. Più che le “lacrime e sangue”, ci aspettano gli sforzi, che potrebbero essere efficaci grazie all’iniezione di fondi del Pnrr.
    Lo spiega Amedeo Lepore, professore ordinario di Storia economica presso l’Università Vanvitelli di Napoli, docente di Economia presso la Luiss e membro del cda di Svimez, per cui ha curato la parte relativa alla bioeconomia del Rapporto 2021.

    Iniziamo dall’informatica, in cui il digital divide e l’analfabetismo tecnologico sembrano inchiodare il Sud rispetto al resto del Paese. La Calabria, addirittura, mostra una situazione contraddittoria: è la regione in cui sono stati effettuati massicci investimenti. E tuttavia, il numero di persone che non accedono ai servizi digitali resta elevato…

    «A dire il vero, la contraddizione non è solo calabrese e meridionale. La pandemia ha senz’altro stimolato l’uso dei sistemi informatici, in misura nettamente maggiore che in passato. Tuttavia, si segnala un forte rallentamento proprio nel settore digitale, a partire dalla contrazione degli acquisti».

    In pratica, le persone sono andate di più su internet ma hanno acquistato meno device. È così?

    «In maniera grossolana, sì. Il calo non è da poco: meno 16% al Sud».

    Eppure il Sud ha molta fibra e la Calabria è una delle zone più cablate in Europa.

    «Il problema non riguarda tanto le infrastrutture, che erano centrali fino a qualche anno fa. Il gap dipende dalla differente geografia economica, determinata da strutture industriali molto diverse. Il maggiore investitore nell’informatica risulta la pubblica amministrazione, che ha speso complessivamente il 35% in più».

    E i privati?

    «Le aziende di grandi dimensioni hanno speso l’1% in più. Il problema vero riguarda le piccole imprese, che hanno speso il 5% in meno. Va da sé che il Nord, in cui la presenza di grandi imprese è nettamente maggiore risulti il maggior investitore e fruitore di mezzi e servizi informatici».

    Ma questo trend si può modificare?

    «Senz’altro: il dato su cui abbiamo ragionato non è assoluto, ma è suscettibile di una certa evoluzione, dovuta alla crescita delle piccole e medie imprese e delle startup. In questo caso, la divisione tradizionale Nord-Sud cede il passo a una situazione a macchia di leopardo: la prima regione per nuove startup è senz’altro la Lombardia. Ma le altre quattro sono meridionali: nell’ordine, Lazio, Campania e Calabria».

    Ma resta ancora molto da fare.

    «L’aspetto positivo è che molte imprese ed enti stanno facendo sforzi notevoli e c’è da dire che anche le Università, soprattutto al Sud, sono in prima linea nel processo di informatizzazione».

    Tuttavia, le pubbliche amministrazioni calabresi sono al palo per quel che riguarda l’informatizzazione dei servizi.

    «La bassa informatizzazione è la punta d’iceberg di un problema generale che coinvolge tutte le pa e che al Sud e in Calabria pesa di più: il ricambio generazionale. L’indice di ricambio, a causa dei tagli e del blocco del turnover è di 1. E ciò genera un forte gap culturale, che si esprime con due elementi: l’età media alta dei dipendenti pubblici e il livello non elevato dell’istruzione. La quantità dei dipendenti comunali muniti di laurea supera raramente il 30%. Nel Mezzogiorno questa situazione pesa di più, perché gli enti locali sono in crisi finanziaria cronica e quindi il ricambio risulta più rallentato che altrove».

    E come se ne esce?

    «Di sicuro con un soccorso delle amministrazioni centrali. Ma anche i Comuni devono fare la loro parte. Anzi, la maggior parte dello sforzo grava sugli enti territoriali, che devono elaborare piani di risanamento seri e rifare da capo le proprie piante organiche».

    Anche in agricoltura i dati del Rapporto 2021 sono particolari: da un lato, alcune regioni, Basilicata e Campania, sono in crescita occupazionale, la Calabria arretra in maniera forte.

    «L’agricoltura è un settore su cui il Pnrr investe molto, perché sta tornando al centro del sistema produttivo grazie all’innovazione tecnologica. Penso, in particolare, all’agroindustria e all’agrifood, che in alcune zone sono in netta crescita, ad esempio in Puglia. Anche in Calabria vi sono realtà positive che lasciano ben sperare».

    Lei, in particolare, insiste sulle potenzialità della bioeconomia.

    «È un’intuizione importante ma non nuova. Il primo che tentò di connettere l’agricoltura alla chimica fu Raul Gardini, che anticipò, appunto, i processi di bioeconomia circolare. Oggi la crescita delle tecnologie rende applicabili questi processi su scale enormi, con un evidente beneficio potenziale per il Sud».

    Come?

    «Attraverso la combinazione dell’uso di fonti energetiche rinnovabili, di cui il Sud è ricchissimo, procedure hi tech (si pensi all’uso dei sensori per l’irrigazione di precisione) e la produzione di materiali biodegradabili per uso industriale. In pratica, si metterebbero assieme gli elementi base dell’economia circolare, basata sul riutilizzo virtuoso più che sul semplice consumo, e della green economy. Questo mix consente di ottenere una forte innovazione e comporta un salto di qualità».

    In che modo può incidere il Pnrr in questa crescita?

    «Diciamo subito che al Sud spettano 82 miliardi, più il 50% degli investimenti su base regionale. Che non è davvero poco. Al riguardo, sorge spontaneo il paragone con la vecchia Cassa del Mezzogiorno, che stimolò importanti investimenti e contribuì a ridurre la forbice tra le due parti del Paese. Anche in questo caso, occorre un intervento straordinario che crei le precondizioni per questo salto, indispensabile non solo per la Calabria e per il Mezzogiorno, ma per tutto il sistema Paese».

    In pratica, è un modo di dire che se cresce il Sud cresce il Paese?

    «Sì. Il Centronord è saturo di investimenti ed è al massimo della produttività. Se il Sud riesce ad avere una crescita apprezzabile sui volani di cui abbiamo parlato, stimolerà a sua volta una crescita di tutto il sistema, con benefici enormi».

    Anche lo smart working può contribuire attraverso la delocalizzazione del lavoro?

    «Sì, ma non nella misura in cui si crede comunemente. Innanzitutto, ci sono attività che possono essere svolte solo in determinati posti. Poi, non tutte le attività intellettuali (quelle a cui si prestano meglio le modalità smart) possono funzionare in telelavoro».

    Resta il grosso nodo, che più dei divari economici, continua a dividere il Paese: le infrastrutture.

    «In questi casi occorre sviluppare non solo le infrastrutture longitudinali, ma è necessario incidere anche sulla latitudine. Soprattutto per quel che riguarda il Mezzogiorno, la direttrice est-ovest è altrettanto importante di quella nord-sud, perché può mettere in contatto, ad esempio, realtà produttive importanti e far comunicare tra loro i porti».

    Che comunicano piuttosto poco, come Gioia Tauro, ad esempio…

    «Nel Pnrr sono previsti 600 milioni per le Zes e per infrastrutturare le aree portuali. Al riguardo, è significativo l’investimento fatto in Irpinia, per collegare con efficacia l’area industriale agli sbocchi adriatici attraverso la Puglia. Anche la Calabria può entrare benissimo in questo sistema. I miracoli non esistono, ma si può fare tanto per crescere. Basta volerlo e saperlo fare».

  • L’Avaro del Marulla, se il Cosenza è in mano ad Arpagone

    L’Avaro del Marulla, se il Cosenza è in mano ad Arpagone

    Molière è vivo e lotta insieme a noi. Lo fa attraverso Arpagone, il suo Avaro (e avaro per eccellenza della commedia dell’arte), che in Calabria ha raggiunto la versione 4.0 e a Cosenza sta per evolversi ulteriormente. Il nuovo Arpagone non ha la faccia di Paolo Villaggio (che lo interpretò alla grande tra un Fantozzi e l’altro a fine anni ’90) ma quella di Eugenio Guarascio, il big dello smaltimento rifiuti col pallino dell’editoria e un incompreso – soprattutto incomprensibile – interessamento al calcio.
    Pecunia non olet, i soldi non puzzano, ci mancherebbe. E non c’è nulla da obiettare se il duce di 4EL, brillante e carismatico per autodefinizione, ha fatto un botto di quattrini con la monnezza. Ché anzi è un servizio nobile reso alla comunità. Il problema è che i soldi non possono restare in cassaforte.

    Un'edizione dell'Avaro di Molière
    Un’edizione dell’Avaro di Molière
    «Peste all’avarizia»

    Nessuno si permette di fare i conti in tasca a mister Guarascio. Però una cosa va detta: c’è una differenza – a volte sottile, ma c’è sempre – tra un imprenditore e un tirchio. Sta in una parola rara, altrove scontata ma quasi magica al Sud: investire.
    Quel che il presidente di Ecologia Oggi ha promesso puntualmente per il Cosenza Calcio e, finora, disatteso con altrettanta puntualità.

    Ora, che certe dichiarazioni se le siano bevute Mario Occhiuto e Franco Iacucci ci sta. Ma il sindaco uscente e non ricandidabile della città che ha tra i simboli proprio la squadra di Guarascio non poteva dire altro. Così come non poteva dire altro un presidente di Provincia che aspirava al salto a Palazzo Campanella.
    Non ci si può aspettare che certe promesse se le bevano i cittadini, che magari sborsano quattrini per andare al San Vito-Marulla. Pecunia non olet ma pesa. Nelle sue tasche aggiungiamo noi.

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    Striscione contro Guarascio durante una partita del Cosenza

    Nell’Avaro i servi, chi più chi meno, protestavano e si ribellavano come potevano ad Arpagone, dissimulando quel minimo per non farsi prendere a bastonate. I tifosi, invece, non le mandano a dire: lo testimonia la valanga di commenti che esplode ritualmente dopo le partite del Cosenza.
    «Peste all’avarizia e agli avari», gridava Freccia, un servitore di Arpagone, al padrone che lo perquisiva. «Guarascio, facci un regalo: vattene», invocano a gran voce i cosentini sui social. Come si vede, non c’è quasi differenza.

    Investire vuol dire spendere

    I numeri parlano. E quelli del calcio sono tra i più eloquenti: nelle sue partite più recenti, il Cosenza ha inanellato quattro sconfitte, tra qui quella dolentissima con la Reggina, e un pareggio. È quintultimo in classifica, cioè in posizione di agonia con unica aspirazione la salvezza.
    La si direbbe una squadra “avara”. In realtà, è solo una squadra povera che celebra costantemente le nozze coi fichi secchi sotto lo sguardo severo del patron.

    Guarascio parla poco, ma sta sempre attento, come Arpagone, che a tavola non si sprechi il cibo. Neanche nel banchetto nuziale ordinato alla meno peggio per accasare la figlia con un agiato anziano, disposto a sposarla «senza dote», e per impalmare una ragazza, da cui spera invece una dote.
    Questa citazione riassume il duplice rapporto, calcistico e imprenditoriale, che ha con Cosenza.

    Investire nelle emozioni

    Non entriamo nel merito del ciclo rifiuti, sebbene le lamentele sull’andamento della differenziata e non poche polemiche sindacali siano eloquenti. Concentriamoci solo sull’aspetto sportivo: se c’è un settore in cui i risultati costano, è lo sport, il calcio in particolare. E il campionato del Cosenza è l’esito di una campagna acquisti fatta a velocità lampo con un budget risicato. Più o meno come i cavalli, denutriti e senza ferri agli zoccoli, con cui Arpagone voleva andare alla fiera.

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    Nel calcio non si può risparmiare tagliando sui costi, come in un’azienda normale. A volte si può guadagnare (coi biglietti, gli sponsor e i diritti). Ma per farlo occorre spendere, perché l’investimento è nelle emozioni, prima ancora che negli uomini e nei mezzi. Le emozioni dei tifosi e dei cittadini comuni, che magari sui disservizi chiudono pure il classico occhio, ma allo spettacolo settimanale non vogliono rinunciare.

    Spendere non è sprecare

    Guarascio ha una nemesi, che non proviene dal teatro ma dal cinema. È Benito Fornaciari, il presidente del Borgorosso Football Club, a cui prestò il proprio volto Alberto Sordi, che si cappottò finanziariamente per salvare la squadra ereditata dal padre.
    Fornaciari è l’esempio opposto da non seguire, intendiamoci: nessuno si deve rovinare per farsi amare dai tifosi. Ma da qui a mettere in cima alle preoccupazioni il “rigore nei conti”, come ha dichiarato e ribadito Guarascio, ne corre. I conti devono essere tenuti sotto controllo, ci mancherebbe, ma non sono tutto, quando si lavora con le emozioni del pubblico. Altrimenti, il confronto con Arpagone, disposto a sacrificare gli affetti dei figli pur di salvaguardare i suoi diecimila scudi, diventa troppo calzante…

    La fortuna è un merito solo per quelli bravi

    Sotto Natale, sempre a proposito di avari, si potrebbe citare il vecchio Scroodge di Dickens. Ma la vicenda del Cosenza non è una favola, anzi merita un’ironia per la quale non basterebbero dieci Molière particolarmente ispirati: si ride per non arrabbiarsi troppo.
    Ciononostante, due fortune arridono a Guarascio: il miracoloso ripescaggio a danno del Chievo Verona e l’amore dei tifosi per il simbolo della città.
    Ma la fortuna non è eterna e premia chi la cerca, non chi se ne approfitta. E prima o poi i tesori si volatilizzano. Come quello di Arpagone, che alla fin fine e a dispetto di tanti sacrifici, riempiva sì e no un cofanetto.

  • La spy story di Calabria e il primo maxiprocesso

    La spy story di Calabria e il primo maxiprocesso

    C’è un piccolo enigma che riguarda l’Archivio di Stato di Cosenza, dove è conservato l’archivio personale di Maria Pignatelli, moglie del principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Nelle carte della principessa c’è un faldone vuoto, che reca una scritta a dir poco bizzarra: Ok. Storia della resistenza fascista al Sud.
    Questo faldone, stando anche alle memorie del marito di donna Maria, avrebbe dovuto contenere il diario di una missione speciale condotta dalla nobildonna calabrese nel territorio della Repubblica Sociale Italiana durante la primavera del ’44. Ma quel diario non si trova più.

    Un’avventura particolare, quella vissuta dalla principessa, che fu protagonista di intrighi e doppi giochi, tra i fascisti – clandestini al Sud e ancora istituzionali al Nord – i servizi segreti di tutte le parti in causa e ciò che restava della monarchia in quell’ultimo, tragico scorcio della guerra.
    L’epicentro di questa vicenda, emersa solo di recente grazie all’importante scavo dello storico Giuseppe Parlato, è calabrese. Perché calabresi sono i protagonisti principali e perché i fatti più salienti si sono svolti in Calabria.

    Prima della fine

    È calabrese d’origine Carlo Scorza (era nato a Paola, dove aveva vissuto fino a 15 anni, prima di trasferirsi a Lucca) l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista. È calabrese di adozione Francesco Maria Barracu, nato in Sardegna ma diventato federale di Catanzaro dopo la guerra d’Etiopia e lì rimasto fino all’armistizio. Poi sarebbe andato a Roma e quindi avrebbe seguito Mussolini a Salò.
    Nella tarda primavera del ’43 le truppe dell’Asse avevano perso l’Africa settentrionale e lo sbarco alleato al Sud era imminente.

    Alfredo Cucco, il ras fascista della Sicilia, lanciò l’allarme, Sforza lo raccolse e formulò una proposta a Mussolini: organizzare una rete di resistenza fascista che ostacolasse l’avanzata delle truppe alleate. Il duce approvò e coniò il nome di quest’organizzazione: Guardia ai labari. E incaricò Barracu, suo uomo di fiducia, di darsi da fare.
    Quest’ultimo, assieme a Scorza, individuò l’uomo adatto per creare e gestire la rete “nera”, che può essere considerata la prima organizzazione neofascista italiana: Valerio Pignatelli.

    Una coppia pericolosa

    Il principe Valerio Pignatelli è un personaggio inquieto, che sembra uscito da un romanzo di Dumas padre. Militare dalla carriera intensa ma irregolare, esordì nella guerra di Libia come tenente di cavalleria. Inoltre, partecipò alla Prima Guerra Mondiale come capitano degli Arditi. Poi, a ostilità finite, divenne addetto militare dell’Ambasciata italiana in Ungheria. Fu una piccola pausa, per il principe, che proprio non poteva fare a meno di menare le mani. Infatti, nel 1920 si arruolò nell’Armata bianca di Vrangel per combattere quella rossa di Trockij.

    Raggiunse il massimo di questa bizzarra carriera in Messico, dove riuscì a farsi incoronare imperatore di una piccola regione del sud del Paese. Ma durò in carica solo dieci giorni: il tempo di scappare negli Usa e di sposare Patricia Hearst, una ricca ereditiera.
    Anche il matrimonio durò poco: rientrato in Italia, il principe si iscrisse al Pnf. Ma l’adesione al fascismo non gli inculcò alcuna disciplina a Pignatelli, che riuscì a sfidare a duello (e a ferirlo) nientemeno che l’ex segretario Roberto Farinacci.

    Prima della Seconda Guerra Mondiale, l’indomito aristocratico partecipò alla guerra d’Etiopia come comandante di un reparto di eritrei e a quella di Spagna. In entrambe, collezionò medaglie e ferite.
    Non era da meno Maria Elia, nobildonna toscana, che prima di conoscere Valerio aveva sposato il marchese Giuseppe de Seta, da cui aveva avuto quattro figli, ed era diventata esponente di primo piano della nobiltà meridionale. Rimasta vedova, convolò in seconde nozze col principe di Cerchiara nel 1942.

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    Renato Guttuso, Ritratto della marchesa Maria De Seta, olio su tavola, 1937
    Bombe in Calabria, la storia degli ottantotto

    Nel dare il via libera alla rete nera, Mussolini raccomandò prudenza estrema. I suoi fedelissimi non avrebbero dovuto scatenare una guerra civile, ma solo dar fastidio agli occupanti, fare propaganda e, ovviamente, fare le spie in accordo coi vertici del Sid, i servizi segreti di Salò e con la Gestapo.
    Il regista dell’operazione era Barracu, nel frattempo diventato sottosegretario della Rsi. Valerio Pignatelli, intanto, si era trasferito a Napoli, in una villa di fronte alla Nunziatella, dove assieme alla moglie, intratteneva rapporti ambigui con gli alti gradi dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata nei territori del Sud, esponenti del fascismo e agenti del Sim, i servizi segreti del Regno d’Italia.

    La rete calabrese è affidata a un altro personaggio importante nella storia del neofascismo: il cosentino Luigi Filosa, un fascista di ultrasinistra (oggi lo si direbbe un “fasciocomunista”), dal passato a dir poco burrascoso, dentro e fuori il regime.
    L’organizzazione iniziò a darsi da fare a partire dall’autunno del ’43 con una serie di attentati dinamitardi (ben 18) nel Lametino, a danno di due tipografie, del Liceo di Nicastro, della casa del preside del Liceo, di una Caserma dei carabinieri e di altri obiettivi, più simbolici che sensibili.

    Poi la Polizia arrestò due studenti di Catanzaro e ricostruì la rete. Filosa, vista la mala parata, andò a Bari per cercare di scappare al Nord. Ma venne arrestato il 14 maggio del ’44 e finì a processo con altri 87 imputati con l’accusa di associazione sovversiva. Fu il primo maxiprocesso del dopoguerra al Sud.
    Poco prima di lui, il 27 aprile, erano finiti in manette i principi Pignatelli. Per loro, tuttavia, l’accusa era un’altra: spionaggio militare.

    Lo strano viaggio della principessa

    Facciamo un passo indietro e torniamo a Napoli. Mentre i fascisti calabresi si “esercitavano” con le bombe e raccoglievano armi con la complicità di non pochi militari, Pignatelli ricevette un ordine da Barracu: raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, per conferire con lui e con Mussolini.
    Pignatelli, per ottenere il lasciapassare per attraversare il fronte, “cercò una pastetta” al principe Umberto e allo scopo giocò una carta importante: l’amicizia tra sua moglie e Maria José di Savoia. Nulla da fare: i servizi segreti del Regno d’Italia, che tenevano d’occhio Pignatelli, non concessero il nulla osta.

    La regina d’Italia Maria José di Savoia

    Al principe restò solo una fiche: sua moglie. E la puntò bene. Perché anche la principessa aveva le sue amicizie. Tra queste, c’era il tenente di vascello Paolo Poletti, che faceva un doppio gioco spregiudicato tra la X-Mas di Junio Valerio Borghese e l’Oss, i servizi segreti americani, guidati da James Jesus Angleton, il futuro capo della Cia. Angleton era animato da un anticomunismo estremo, che lo portava a diffidare più degli alleati antifascisti che dei nemici fascisti. Ciò lascia pensare che il doppio gioco di Poletti non fosse ignorato (né disapprovato) né da lui né dai vertici di Salò. Il tenente italiano sarebbe stato quindi quel che oggi si direbbe un agente doppio.

    James Jesus Angleton
    L’incontro col feldmaresciallo

    Poletti accompagnò donna Maria una prima volta a fine marzo ’44, assieme al capitano Nuvolari, agente del Sim anche lui legato all’Oss. Incapparono in un check point gestito dagli inglesi che rispedirono indietro la comitiva.
    Il secondo tentativo, invece, riuscì: la principessa, stavolta, varcò il confine nei pressi di Lanciano a bordo di un’ambulanza della Croce Rossa e fu ricevuta sul monte Soratte dal feldmaresciallo Albert Kesserling per un colloquio, nel corso del quale la nobildonna avrebbe rivelato alcuni dati sensibili sulle strutture militari alleate del Sud.

    Il feldmaresciallo Albert Kesserling

    Poi, la principessa andò a Roma, per incontrare due persone care: la figlia primogenita Bona de Seta e Vittoria Odinzova, una profuga della rivoluzione russa che era stata fidanzata con suo figlio Francesco, tenente di aviazione caduto nel 1941.
    Il ruolo della Odinzova è tutt’altro che secondario in questa vicenda: detestata dai restanti tre figli della principessa, la bella russa era diventata la pupilla della nobildonna. Ma, soprattutto, Poletti aveva perso la testa per lei e, pur di averla, accettò di aiutare la nobildonna.

    Nobili, doppiogiochisti e servizi segreti

    Le stranezze non finiscono qui: i Pignatelli erano senz’altro fascistissimi. Non altrettanto i figli della principessa. Non lo era Vittorio de Seta, prigioniero dei tedeschi a Salisburgo. E non lo era suo fratello Emanuele, che faceva parte di una rete antifascista clandestina ed aveva subito i rigori delle Ss nella famigerata prigione romana di via Tasso.
    Quanto a Bona, c’è da dire che era ospite della residenza capitolina di un’altra famiglia aristocratica calabrese: i baroni Marincola di San Floro.

    Gerarca di Catanzaro e amicissimo del principe Valerio, Filippo Marincola aveva sposato Josephine Pomeroy, cittadina americana, antifascista e legata ai servizi segreti alleati. Non era da meno il cognato di don Filippo, Livingstone Pomeroy, che addirittura faceva parte dell’Oss ed era molto legato a Bona.
    In pratica, la principessa si era cacciata nella tana del lupo: tre figli antifascisti o quasi, più amici non del tutto affidabili.

    Dopo alcuni giorni, la principessa raggiunge Gragnano, dove ebbe il colloquio con Barracu e col duce. Cosa si siano detti non è facile da ricostruire, perché dai verbali degli interrogatori subiti dai Pignatelli emerge di tutto e di più.
    Infine, il ritorno, assieme a Vittoria Odinzova. Al confine le attendevano Poletti assieme a un altro collega dell’Oss, tale Mathieu, di cui resta ignota la reale identità.
    Non appena rientrò a Napoli, la principessa fu arrestata dalla polizia militare dell’Amgot. Assieme a lei finirono in galera la giovane russa, il principe Valerio e il tenente Poletti.

    Gli strani processi

    I quattro subirono interrogatori pesantissimi. La prima a uscire, praticamente scagionata, fu Vittoria Odinzova, considerata un’ingenua pedina nelle mani della principessa.
    Prima di lei, tuttavia, uscì dalla vicenda Poletti. Nella maniera peggiore possibile: torturato dalla polizia militare inglese nella prigione di Santa Maria Capua Vetere, l’agente dell’Oss impazzì e fu rinchiuso in una cella da cui tentò di evadere.
    Durante la fuga, Poletti, ancora ammanettato, aggredì due guardie, che lo uccisero.

    Questa fu la versione ufficiale: in realtà, secondo alcuni storici lo sfortunato tenente fu liquidato dai suoi colleghi dell’Oss, i servizi segreti statunitensi che temevano le sue testimonianze nel processo. Già: britannici e americani giocavano due partite diverse. Antifascisti (e antiitaliani), i sudditi di Sua Maestà britannica avevano intenzioni “punitive” nei confronti dell’Italia. Anticomunisti e filoitaliani, gli statunitensi si preoccupavano di contenere l’avanzata del Pci al Sud nell’imminente dopoguerra.

    Proprio su questa divergenza il principe Pignatelli giocò con grande abilità. Durante la sua deposizione rivelò che Barracu, Mussolini e Borghese stavano lavorando a una rete anticomunista che comprendeva i fascisti, alti gradi dell’Esercito rimasto fedele alla Corona e quella parte della resistenza (gli osovani, i monarchici della “Sogno” e parte di Giustizia e Libertà) che temeva l’egemonia dei partigiani “rossi” della divisione Garibaldi.

    Il “principe nero”, Junio Valerio Borghese

    Tenuta in poca considerazione durante il processo, la rivelazione del principe è stata rivalutata in sede storica dai documenti che provano i continui contatti tra la Marina del Sud e i Servizi della Rsi e gli abboccamenti tra i partigiani osovani e i militi della X-Mas in chiave anticomunista. Ed è confermata dal salvataggio di Borghese operato da Angleton in persona.
    Lo spauracchio “rosso” fu giocato anche dalla difesa degli ottantotto fascisti processati a Catanzaro.

    Fine della storia

    Cosa curiosa, nessuno riuscì a provare il collegamento tra i dinamitardi calabresi e Pignatelli. Quindi l’accusa di associazione sovversiva cadde. Per fortuna degli imputati, che altrimenti sarebbero finiti davanti al plotone di esecuzione.
    Ciò non evitò condanne piuttosto pesanti alla maggior parte degli arrestati. Tuttavia, il processo fu annullato dalla Cassazione per vizi di forma. E rinviato a un’altra Corte. Ma non si celebrò mai, perché nel frattempo Togliatti amnistiò i fascisti.

    Discorso simile per i Pignatelli, condannati entrambi a dodici anni di carcere. Ne scontarono a malapena uno e qualcosa.
    Appena scarcerato, Valerio fondò il Movimento sociale italiano assieme agli ex camerati. Ma il suo carattere irrequieto ebbe il sopravvento per l’ennesima volta: litigò e si ritirò a vita privata. Scrisse romanzi e memorie e gestì i beni di famiglia fino al 1965, quando morì a Sellia Marina.
    Maria lo raggiunse tre anni dopo, in seguito a un incidente stradale nei pressi di Cosenza.

  • Ministri calabresi? Il buio oltre Mancini, Misasi e (forse) Minniti

    Ministri calabresi? Il buio oltre Mancini, Misasi e (forse) Minniti

    «Al Pci i cervelli, alla Dc i bidelli», recitava un adagio che spiegava in pillole l’egemonia comunista e bollava la presunta insensibilità culturale della Balena Bianca.
    Un giudizio ingeneroso, perché i vertici nazionali della Democrazia cristiana furono di altissima caratura intellettuale.
    Tuttavia, un giudizio non del tutto immotivato, anzi, aveva un bersaglio politico e un riferimento territoriale: Riccardo Misasi e la Calabria.
    Il clientelismo spinto fu l’accusa più rivolta dagli avversari, esterni e interni, all’ex big scudocrociato, che, nel suo primo mandato da ministro della Pubblica istruzione (1970-1972), riempì le scuole italiane di bidelli calabresi reclutati su chiamata diretta.

    L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi – I Calabresi

    Altri tempi, di cui oggi, nel Sud profondo, coltivano in tanti una nostalgia morbosa. Allora sì, la Calabria “contava” grazie ai Misasi, che, recita un altro adagio, «mangiavano ma facevano mangiare». E contava anche grazie a Giacomo Mancini, che fu addirittura leader di Partito e ricoprì incarichi ministeriali importantissimi.
    I due big, scomparsi a inizio millennio, praticamente assieme al secolo su cui avevano inciso e che li aveva resi grandi, sono diventati il “mito incapacitante” della politica calabrese che, senza di loro, avrebbe senz’altro avuto un peso minore nella storia del Paese e che, dopo di loro, si è ridotta a poca cosa.

    Ministeri alla calabrese, i prototipi

    In realtà, i calabresi “di governo” esplosero un po’ prima. Per la precisione, durante la Grande Guerra e nei governi Giolitti IV, Boselli, Orlando e Giolitti V.
    In questi governi ricoprirono incarichi di assoluto prestigio il silano Gaspare Colosimo – che fu ministro delle Poste dei telegrafi, delle Colonie e dell’Interno -, il reggino Giuseppe De Nava – che occupò tutti i dicasteri economici e concluse l’età liberale da ministro del Tesoro – e il cosentino Luigi Fera, che fu ministro delle Poste e di Grazia e giustizia.
    L’ingresso dei calabresi nei ministeri proseguì col fascismo, in cui ebbe un ruolo di prima grandezza Michele Bianchi. Di più: è proprio lui il prototipo del ministro calabrese di successo e di potere, il modello che si sarebbe riprodotto nella Prima Repubblica senza colpo ferire.

    Michele Bianchi, segretario del Partito nazionale fascista e ministro – I Calabresi

    Forse quello che gli somiglia di più è Giacomo Mancini, che ebbe la stessa visione politica (l’inclusione della piccola borghesia e degli strati popolari nelle strutture pubbliche e di partito) e la stessa concezione economica (l’uso delle opere pubbliche come volano di crescita finanziaria e di sviluppo) del quadrumviro mussoliniano.
    Don Giacomo fascista? Proprio no. Al contrario, Bianchi socialista. E calabrofilo al pari del compianto “leone”.
    «Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella», scrisse Pietro Ingrao nella sua autobiografia. E Mancini, da sindaco, tentò di rifarla bella circa settant’anni dopo.

    Superterroni di governo

    I ministri calabresi nei governi repubblicani sono in tutto dodici su un totale di 591. Tolti Misasi e Mancini, nessuno di loro ha avuto un peso politico forte.
    Quello che si è avvicinato di più ai due grandi è Marco Minniti, che ha ricoperto il ministero dell’Interno nel governo Gentiloni. Tutto il resto, è roba di sottosegretariati e incarichi vari, assegnati il più delle volte per semplici questioni di equilibri territoriali e senza andare troppo per il sottile. Dodici ministri sono poca roba nella storia dell’Italia repubblicana, in cui hanno fatto la parte del leone quattro regioni: Lombardia, Sicilia, Campania e Lazio, che hanno avuto circa la metà dei ministri.

    Questo per restare ai paragoni assoluti. Ma anche all’interno del Sud la Calabria non è messa benissimo. In termini relativi, la batte anche il piccolo Molise che, coi suoi cinque ministri, ha espresso più “governabili” rispetto alla propria demografia. In pratica, un ministro ogni 60mila abitanti su una popolazione di circa 300mila.
    La Calabria, invece, ne ha ottenuto uno ogni 158mila e rotti, calcolati su una popolazione complessiva media di 1 milione e 900mila.

    Dop di Calabria

    A questa statistica, occorre aggiungere un’altra considerazione: non tutti i ministri calabresi sono o sono stati realmente tali. Certo, calabrese era Fausto Gullo che, a cavallo tra la fine del Regno d’Italia e l’inizio dell’era repubblicana, fu al governo come ministro dell’Agricoltura prima e di Grazia e giustizia dopo.

    Non può essere considerato, invece, un dop di Calabria il democristiano Nicola Signorello, che è nato nel Vibonese ma ha fatto carriera a Roma, di cui fu presidente della Provincia dal 1961 al 1965 e sindaco dal 1985 al 1988. Tutto il resto, cioè le elezioni in Parlamento e i dicasteri ministeriali, lo ha ottenuto grazie ai voti della circoscrizione laziale e alla militanza andreottiana. Nessun legame col territorio e gli elettori calabresi per lui.

    Lo stesso discorso vale per il socialista Emilio de Rose, che nacque a Marano Marchesato ma fece carriera, di medico e di politico, a Verona con voti veneti. E vale ancor più per Claudio Vitalone, che scalò i vertici della magistratura a Roma e quelli politici nella Dc grazie alla militanza andreottiana. Fu eletto senatore in Puglia e in Ciociaria e non ha mai avuto rapporti diretti con la sua Reggio Calabria e con gli elettori calabresi.

    Per quel che riguarda la Seconda repubblica, non si può dare il dop a Linda Lanzillotta, originaria di Cassano all’Ionio ma vissuta a Roma, dove ha fatto carriera nei ministeri, prima da funzionaria e poi da politica. Protagonista di un lungo viaggio dalla Margherita al Pd, intervallato dalla militanza nell’Api rutelliano e tra i montiani di Scelta Civica, Lanzillotta ha gestito gli Affari regionali e le autonomie locali nel II governo Prodi. È stata eletta in Lombardia e in Umbria. Cassano per lei è sì e no un ricordo.
    Tolti questi quattro, il ruolo della Calabria risulta ridimensionato. Per fare un ministro ci vogliono 237mila e rotti calabresi. Quattro volte che in Molise.

    Perdita di peso

    Al contrario, c’è stato un calabrese adottivo di successo: il reatino Dario Antoniozzi, concittadino per nascita di Lucio Battisti cresciuto a Cosenza dove papà Florindo dirigeva la Cassa di risparmio di Calabria e di Lucania, una delle voci più importanti del potere calabrese. Formatosi in Calabria e cresciuto nei ranghi della Dc cosentina, Antoniozzi è arrivato prima a Montecitorio e poi a Strasburgo coi voti dei suoi corregionali “adottivi”. Grazie al peso della Dc calabrese, ha ricoperto i dicasteri del Turismo e dello spettacolo prima e quello dei Beni culturali poi (e c’è chi maligna, nei suoi riguardi, di un numero di bibliotecari uguale a quello dei bidelli di Misasi…).

    Dario Antoniozzi, ex ministro della Democrazia Cristiana – I Calabresi

    Dalla Seconda repubblica in avanti, il bottino è decisamente magro: due soli ministri (Maria Carmela Lanzetta e Marco Minniti). A cosa è dovuta questa perdita di peso? Torniamo al parametro Michele Bianchi per capire meglio. Bianchi lasciò la Calabria da ragazzo, fece carriera nel sindacato, fu tra i fondatori del Pnf, di cui divenne segretario. Infine entrò nella squadra di governo di Mussolini, prima come sottosegretario e poi come ministro dei Lavori pubblici. Tutto senza mai perdere contatto col suo territorio, il Cosentino, a cui tentò di redistribuire risorse grazie al prestigio e al potere personale accumulati.

    Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e sottosegretario con delega ai Servizi segreti – I Calabresi

    Questo stesso meccanismo si applica, come già detto, a Giacomo Mancini e a Riccardo Misasi, che vantavano rapporti privilegiati e diretti (quello di Mancini con Nenni è tutto da approfondire ed è quasi superfluo ricordare che il nonno di Misasi fu testimone di nozze e compare d’anello del papà di Aldo Moro…).
    Ma vale anche per tutti gli altri.

    La tragedia delle autonomie

    Cos’avevano in comune l’Italia della Prima repubblica e i suoi partiti col ventennio fascista? La risposta è banale: le istituzioni pubbliche accentrate.
    Tutto, apparati dello Stato e strutture dei partiti, faceva capo a Roma, senza soluzioni di continuità.
    Citare può essere pesante, ma in questo caso è doveroso. Infatti, gli analisti più recenti della questione meridionale (il napoletano Paolo Macry, il calabrese Vittorio Daniele e l’abruzzese Emanuele Felice) concordano su un dato: la maggiore crescita del Sud, coincidente con il boom economico, avvenne tra gli anni ’60 e il decennio successivo e fu propiziata proprio dal sistema accentrato, che aveva generato un meccanismo politico semplice ma efficace.

    In pratica, i politici erano obbligati dai propri elettori a “strappare” qualcosa al centro per portarlo a casa. Ciò valeva per la Calabria come per il Friuli.
    Il declino politico del Sud, con tutta probabilità, dipende da tre fattori: la “territorializzazione” della politica, iniziata nel  ’93 con l’elezione diretta dei sindaci, il decentramento amministrativo spinto e disordinato e la fine dei vecchi partiti, che funzionavano anche come scuole e palestre politiche.
    Ed ecco che le cose all’improvviso cambiano. Il Sud, tranne Campania e Sicilia, arretra ed emergono altri territori, come l’Emilia Romagna e l’Umbria, che aumentano i propri ministri.

    Il fattore legale

    A queste trasformazioni, occorre aggiungere il fattore legalitario. Ciò che prima si tollerava, in nome dello sviluppo, oggi viene avversato in nome della legalità.
    Infatti, a partire dalle vecchie inchieste di de Magistris, la Calabria è diventata una zona minata, in cui i leader nazionali si muovono a fatica e solo se costretti. Scivolare sulla buccia di banana o “pestare la cacca” è più facile da noi che altrove. E questo spiega perché il centrodestra non ha mai creato ministri calabresi. O perché il centrosinistra ha distribuito i ruoli col contagocce. Basta il fascicolo di un pm e una buona campagna stampa per mandare all’aria mesi e anni di attività politica.

    Ed ecco che la Calabria si è ritrovata così ai margini che per avere un ministro con una delega importante si è dovuto attendere Marco Minniti. E il fatto che Minniti abbia mollato la politica istituzionale non fa ben sperare…

  • Massoni, crucchi e iniziati nella torre del mago

    Massoni, crucchi e iniziati nella torre del mago

    Oggi è un semplice monumento, utilizzato dal Comune di Scalea per mostre, manifestazioni e gli immancabili presepi viventi. Eppure Torre Talao, l’antico bastione costiero costruito in chiave antiturca dal viceré Pedro Afan de Ribera d’Alcalà, su ordine di Carlo V, ha una storia strana, misteriosa e importante, almeno per certi ambienti.
    Una storia ignorata da chi, invece, dovrebbe conoscerla per scelta “militante” (i tantissimi massoni di cui rigurgita la Calabria) o per semplice interesse culturale.

    Questa storia è in parte calabrese, perché è calabrese lo scenario e sono calabresi alcuni dei protagonisti. Ma in parte è glocal, perché le vicende particolari della Torre si incrociano con alcuni passaggi delicati della storia non solo italiana della prima metà del ’900 fino all’avvento del fascismo.
    Edificata su uno scoglio particolare, nel quale sfociano acque termali e in cui sono stati rinvenuti reperti preistorici, la Torre divenne un importante tempio esoterico a partire dal 1910, quando l’acquistò Amedeo Rocco Armentano.

    Il compasso sulla squadra, uno dei più noti simboli massonici
    Il mago calabrese

    Come molti esoteristi dalla vita intensa e in parte avventurosa, Armentano ha scritto poco: di lui restano un corposo epistolario, alcuni articoli su riviste specializzate (ad esempio Ur, in cui firmava con l’acronimo Ara) e le Massime di Scienza Iniziatica, una specie di catechismo pitagorico riedito nel 2004. Roba da supernicchia, insomma.
    Anche la sua biografia è piena di enigmi. Rampollo di una famiglia possidente e agiata originaria di Mormanno e poi trasferitasi a Scalea, Armentano fu un protagonista assoluto del filone più estremo della cultura esoterica italiana: il neopaganesimo, che nel suo caso si rifaceva alla scuola pitagorica.

    Questo indirizzo dottrinario ebbe una certa circolazione sia nella massoneria, che era il principale veicolo di diffusione della cultura esoterica, sia fuori dal mondo dei “grembiuli”, in particolare in alcuni ambienti legati al fascismo delle origini.
    Quelli come Armentano sognavano la restaurazione della romanità imperiale, in contrapposizione al cattolicesimo. Fin qui, nulla di nuovo per gli ambienti massonici italiani, che ereditavano l’anticlericalismo del Risorgimento.

    Ma il vero elemento di rottura di questo esoterismo duro è la polemica, a tratti pesantissima, contro il cristianesimo, che invece la massoneria comunque rispettava (e rispetta): non a caso le logge di tutto il mondo aprono i loro “lavori” con la lettura dei versi iniziali del Vangelo secondo Giovanni e si richiamano comunque ai simboli cristiani. Esperto esoterista, Armentano voleva portare questa sua “rivoluzione” all’interno della massoneria ufficiale. Lo fece attraverso un massone di rango: Arturo Reghini.

    L’esoterista col pallottoliere

    Sul fiorentino Arturo Reghini valgono le parole di Natale Mario Di Luca, uno dei suoi biografi: fu una figura angelica.
    Toscano ma non toscanaccio, Reghini si formò nelle avanguardie d’inizio ’900, particolarmente attive nei caffè e nei salotti della sua città. Giovane e brillante intellettuale, si laureò in matematica a Pisa nel 1912 e cercò da subito di conciliare il mondo dei numeri con quello esoterico. Per lui, l’incontro con il pitagorismo fu quasi obbligato. Ed ebbe un tramite: Amedeo Rocco Armentano, appunto.

    I due si conobbero nel 1907 e la loro amicizia si sviluppò nel segno della complementarietà: Armentano iniziò Reghini ai segreti del pitagorismo e quest’ultimo fece entrare l’amico calabrese in massoneria. Per la precisione, nella loggia fiorentina “Lucifero”, di cui Reghini era uno dei fondatori e dei principali animatori.
    A differenza del “mefistofelico” Armentano (a cui si attribuivano anche poteri paranormali), Reghini scrisse moltissimo e spaziò dall’alchimia alla matematica.
    Al riguardo, resta importante, non solo in ambito esoterico, il grosso lavoro sviluppato dall’intellettuale toscano sulla matematica pitagorica, tutto realizzato solo con l’aiuto di un pallottoliere.

    Ecco come si presenta oggi un tempio massonico

    Il progetto dei due era ambiziosissimo: eliminare ogni riferimento alla tradizione giudaico-cristiana dai riti e dai simboli massonici e trasformare le logge in centri di propulsione del “nuovo” paganesimo. Non a caso, Reghini e Armentano furono in prima fila nel Rito Filosofico Italiano, una “catena” massonica ispirata proprio al paganesimo e al pitagorismo. In tutto questo, Torre Talao aveva un ruolo importantissimo: doveva servire da ritrovo per i pitagorici e da punto di irradiazione del loro pensiero.

    La Torre dei misteri

    Per un decennio buono, Torre Talao fu al centro di un viavai discreto ma non proprio invisibile di personalità a dir poco particolari, che si ritrovavano lì.
    Tra gli habitué della Torre, c’erano senz’altro Reghini e l’esoterista romano Giulio Parise (famoso anche per essere stato il grande amore della scrittrice Sibilla Aleramo), ma anche alti gradi della massoneria internazionale.

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    Il discusso Aleister Crowley

    Al riguardo, emergono due nomi significativi, l’anglobritannico Theodor Reuss, fondatore e gran maestro dell’Ordo Templi Orientis (in acronimo Oto, scheggia impazzita e scissionista della Gran Loggia Unita d’Inghilterra) e l’inglese Aleister Crowley, che tra l’altro ebbe rapporti con Reghini, anche lui iniziato nell’Oto. Inevitabile che questo andirivieni di personalità strane desse nell’occhio alle autorità, regie prima e fasciste poi. E difatti i guai arrivarono puntuali per Armentano.

    Massone, mago e spia?

    C’è un aspetto poco valutato della Grande Guerra: il combattimento sottomarino, a cui la Kriegsmarine germanica fece fare un grandissimo salto di qualità.
    Le coste calabresi tirreniche, piene di relitti riscoperti di recente in occasione della vicenda delle navi dei veleni, ne offrono un esempio lampante e micidiale.
    Torniamo alle vicende massoniche. Nel 1914 il Rito Massonico Italiano collassò per un vistoso ammanco di fondi, di cui fu responsabile Guido Bolaffi, avvocato romano e avversario di Armentano e Reghini, che lo misero alla porta senza troppi complimenti.

    Sottomarino U-boot in forza alla Marina tedesca durante la Prima guerra mondiale

    La vendetta di Bolaffi scattò durante la Guerra, a cui il calabrese e il toscano parteciparono come volontari, rispettivamente come sottotenente degli Alpini e tenente dell’Artiglieria.
    Bolaffi accusò Armentano di essere una spia, proprio grazie ai suoi rapporti con gli esponenti tedeschi dell’Oto (che, a dirla tutta, pullulava di agenti segreti di tutte le nazionalità ed estrazioni) e di usare Torre Talao come “faro” e “pompa del carburante” per i sommergibili tedeschi, particolarmente scatenati nel Tirreno.

    Per quanto bizzarra, l’accusa fu efficace, grazie anche al clima di paranoia collettiva esploso nel Paese dopo la disfatta di Caporetto: a febbraio 1918 la Torre fu perquisita da cima a fondo, a marzo Armentano – che si trovava in Calabria perché il suo reparto era stato smobilitato – fu arrestato e finì sotto inchiesta nel Tribunale militare di Monteleone (l’odierna Vibo Valentia). Vi restò fino al 18 luglio successivo, praticamente isolato e col rischio di finire al patibolo.
    L’accusa cadde il 19 luglio, con una sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto.

    Fine della storia

    Armentano e Reghini mollarono il Grande Oriente d’Italia per aderire alla Gran Loggia d’Italia, che offriva più garanzie, anche nei confronti del fascismo.
    Infatti, a differenza del Goi, che pagò carissimo il proprio antifascismo, le logge di Piazza del Gesù erano filofasciste. Giusto per fare alcuni esempi, erano massoni di Piazza del Gesù due big del movimento mussoliniano: Italo Balbo e Michele Bianchi.

    Tuttavia, la caccia al massone iniziata dal fascismo era nel pieno e nessuno poteva dirsi al sicuro. Certo, i “pagani” Reghini e Armentano non erano visti malissimo, dato che i loro richiami a Roma imperiale collimavano con un certo immaginario fascista. E non a caso Mussolini in persona protesse Reghini da alcune accuse mossegli dagli ambienti cattolici vicini al regime, che lavoravano per preparare il Concordato.

    Ma il destino dell’esoterismo italiano era segnato: Armentano mollò l’Italia nel 1924 per trasferirsi a San Paolo del Brasile, dove avrebbe fatto fortuna nel commercio del caffè e dove sarebbe morto nel 1966. Reghini firmò l’autoscioglimento della Gran Loggia d’Italia (che, a differenza del Goi, fu soppressa in maniera soft) e si ritirò a vita privata a Budrio, dove insegnò matematica fino al 1946, quando morì di tumore.

    E la Torre? Letteralmente abbandonata, fu saccheggiata e vandalizzata finché non passò al Comune di Scalea.
    Il tratto di mare che la separava dalla costa non esiste più, perché nel frattempo si è interrato. Come i tanti misteri della Torre, che aspettano ancora di essere ricostruiti e raccontati a dovere.

  • Sanità cosentina, la carica post elettorale dei 680 Oss

    Sanità cosentina, la carica post elettorale dei 680 Oss

    Come fa un semplice concorso, tra l’altro piuttosto piccolo, a diventare un concorsone? In Calabria si può. Come si fa ad avere tanto personale disponibile e non poterlo utilizzare? Nella Sanità calabrese capita questo e peggio.
    Stavolta è toccato agli operatori socio-sanitari reclutati a ottobre dall’Azienda ospedaliera di Cosenza con un concorso bandito nel 2017. Una procedura alla calabrese, in cui all’allungamento dei tempi è corrisposta una dilatazione dei posti, che dai 24 previsti in origine sono diventati 80 effettivi con una “magia” amministrativa degna di un alchimista.
    Ma tanta arte potrebbe non bastare perché, suggeriscono gli addetti ai lavori, anche ottanta risultano troppo pochi.

    Grandi numeri per piccoli posti

    Nelle pubbliche amministrazioni si entra per concorso o ricorso. Ma anche per graduatoria.
    Già: i concorsi amministrativi non si limitano a stabilire un numero (limitato) di vincitori e uno di “perdenti” (i più) tra i candidati.
    I concorsi servono anche per abilitare. Non a caso, tra vincitori e “sconfitti” esiste una terza categoria: gli idonei non vincitori.
    Per il concorso oss del 2017 il numero è mostruoso: sono circa 600 su una graduatoria effettiva di circa 680. In pratica, poco più di un decimo dei candidati (oltre 5mila) che nel 2017 avevano aderito al bando.

    Questi 600 ora premono alle porte della Sanità calabrese. Hanno in parte la legge dalla loro, che li considera comunque idonei a servire ospedali e ambulatori pubblici e sperano di essere assorbiti quanto prima, perché il tempo per far valere i propri interessi non è tantissimo: 3 anni a partire dalla fine del concorso, ché tanto dura l’efficacia della graduatoria.
    Ma questi 600, complici anche molte promesse fatte durante l’ultima campagna elettorale, sperano anche nel fatto che il nuovo commissario regionale alla Sanità, Roberto Occhiuto, possa dare una risposta “politica” alle loro domande. In altre parole, che si comporti più da assessore della sua Giunta regionale, che da commissario.
    Come si è arrivati a tutto questo?

    Lo strano concorso

    Le pubbliche amministrazioni ci hanno abituato a tante stranezze. Ma questo concorso ne batte molte. Infatti: come fa un concorso bandito in fretta e furia per procurarsi personale a durare quattro anni? La risposta è piuttosto semplice: sciatteria.
    L’Ao di Cosenza non è riuscita a lungo a trovare un’azienda specializzata a cui appaltare lo svolgimento delle prove. Poi è intervenuto il Covid a far slittare il tutto ed ecco che le prove si sono svolte a partire da giugno 2020, in una situazione completamente mutata.
    Di quanto fosse mutata, se n’è accorta Isabella Mastrobuono, la commissaria straordinaria dell’Ao, la quale nella tarda primavera scorsa ha chiesto, in seguito a un burrascoso incontro in prefettura, altri 14 posti da aggiungere ai 24 previsti in origine.

    Il commissario dell’Ao di Cosenza, Isabella Mastrobuono

    Occhio alle date: la richiesta risale a poco prima di aprile scorso, cioè tra lo svolgimento delle preselettive (giugno 2020) e la prova pratica.
    Occhio anche ai dettagli: la commissaria non ha modificato il bando, ma lo ha solo integrato con una domanda inviata alla Regione senza risposta. Perciò i 14 in più non sono “vincitori” ma “idonei”. Certo, nei fatti non cambia nulla. Ma nelle amministrazioni la forma pesa più della sostanza: questi 14 posti presi con un “silenzio-assenso” sono la prima pesca dalla graduatoria. Un precedente tra i tanti che incoraggia i candidati a ben sperare.

    Chi vive sperando…

    Infatti, le speranze non sono state disattese. Subito dopo gli orali, svoltisi lo scorso giugno, la commissaria si è accorta che il buco da colmare era più grande. Perciò ha chiesto e ottenuto altri 42 posti, fino ad arrivare a 80. Ed ecco la prima stranezza del concorso: gli idonei assunti sono più dei vincitori.
    La seconda stranezza sta nel numero enorme di idonei, che ha trasformato gli aspiranti oss in un vero e proprio bacino. Ma pure in una potenziale bomba sociale, che potrebbe esplodere se certe aspettative non venissero soddisfatte.

    I buchi e i bisogni

    La storia di questo concorso si lega alla vicenda complicatissima degli oss cosentini.
    Una domanda innanzitutto: quanti ne servono? Una risposta certa non c’è. Comunque tanti. A sentire alcuni esponenti sindacali, il fabbisogno effettivo sarebbe di circa 250 oss per il solo Ospedale dell’Annunziata.
    Se si allarga lo sguardo agli altri due Ospedali dell’Ao (il Mariano Santo di Mendicino e il Santa Barbara di Rogliano) e alle strutture dell’Asp la cifra diventerebbe iperbolica: servirebbero 2.500 oss.
    A questo punto i 680, che sembrano “troppi”, risulterebbero troppo pochi. È così? A livello legale no.

    Il fabbisogno legale dipende da tre fattori. Il primo è costituito dalle Linee guida, redatto e approvato dalla direzione regionale della Sanità. Il secondo è determinato dalle singole Aziende (Asp e Ao) attraverso gli Atti aziendali, che contengono gli organigrammi.
    Il terzo fattore risulta dalla differenza tra le previsioni dell’Atto aziendale (che possono essere più basse del fabbisogno reale) e il personale che effettivamente opera nelle strutture.

    Per chiarire: se il fabbisogno di fatto è 1.000, nulla vieta che l’Atto aziendale dichiari, a causa del Piano di rientro, un fabbisogno di 100 e che, per esempio, il personale impiegato sia di 70 unità. Risultato: il fabbisogno legale sarà di 30 e non di 930.
    Tuttavia, non mancano indizi. Innanzitutto, il fabbisogno del 2019 del solo Ospedale di Cosenza era calcolato in 190 unità. Fino a quel momento i vertici dell’Ao avevano rimediato utilizzando il personale di Coopservice, l’azienda subentrata nel 2014 a Dussman nella gestione esternalizzata dei servizi ospedalieri (pulizie, ecc.).
    Sappiamo com’è andata a finire: la giurisprudenza ha messo uno stop all’uso di personale esterno per svolgere le mansioni di oss e Coopservice, nel frattempo finita anche sotto inchiesta, non solo ha mollato il settore ma ha licenziato quaranta suoi dipendenti.

    Il garbuglio e le promesse

    Ma allora: quanti oss possono permettersi l’Ao ed, eventualmente, l’Asp di Cosenza? Per avere una risposta occorreranno i nuovi Atti aziendali, che dovrebbero essere emanati a fine novembre, e le nuove Linee guida. E qui iniziano le magagne: per quel che riguarda l’Asp, ad esempio, non sono chiare le disponibilità finanziarie, visto che la giustizia amministrativa ha dichiarato illegittimi i bilanci, tra l’altro non rosei, del biennio 2016-2017.

    Poi, a dirla tutta, non è detto che i vertici dell’Azienda sanitaria siano obbligati a pescare dalla graduatoria dell’Ao. Così, almeno, si apprende dai piani alti di via Alimena.
    Certo, le regole di buona amministrazione imporrebbero la “pesca” in un bacino già qualificato anziché fare nuovi concorsi. Tanto più che l’Asp, proprio di recente, ha emesso avvisi per il reclutamento di oss per fronteggiare l’emergenza sanitaria…
    D’altronde non mancano i precedenti di “pesca”: tale l’assunzione a tempo determinato, fatta dall’Ao di Cosenza nel 2019, di 17 oss presi da una graduatoria di Reggio Calabria. Tale anche l’“invio” a Vibo di infermieri reclutati a Cosenza.

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    Roberto Occhiuto

    Ma tutto resta appeso alla volontà politica dei nuovi vertici della Sanità regionale, oltreché ai mezzi finanziari. Questi 600 idonei della graduatoria cosentina rischiano di diventare la prima grana per Roberto Occhiuto, finora prodigo di buone intenzioni sulla nostra scassatissima Sanità.
    Già: chi vive di speranze, in questo caso alimentate dalla campagna elettorale, di speranze può morire. Ma, come insegna la vicenda degli ex Coopservice, non lo fa in silenzio…

  • I cannibali calabresi al servizio del cardinale Ruffo

    I cannibali calabresi al servizio del cardinale Ruffo

    «Alza gli occhi verso il mare, che s’è fatto tenero. Come il cielo, come il Vesuvio Grande e indifferente. Un piccolo sospiro di rimpianto. Non osa chiedere: vorrebbe, però. Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello. Così, invece, che rimane? Niente il resto di niente».
    È il passaggio finale di Il resto di niente, romanzo in cui Nicola Striano racconta la vita di Eleonora Fonseca Pimentel e la parabola tragica della Repubblica Napoletana.
    È il 20 agosto 1799: la nobildonna italo-portoghese sta per salire il patibolo a piazza del Mercato assieme ad altri sette condannati. Per lei “il resto di niente” è solo un modo di dire, perché nel giro di un’ora riceverà degna sepoltura.

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    Un murale a Napoli dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel

    Per Nicola Fiani, ex ufficiale pugliese dell’esercito borbonico convertitosi alla causa rivoluzionaria, l’espressione è da intendersi alla lettera: di lui non resterà davvero il resto di niente. A differenza della pasionaria della rivoluzione, Fiani non ha la cittadinanza napoletana, quindi non può essere seppellito subito. Occorre aspettare che i suoi parenti reclamino il corpo, dopodiché finirà in una fossa comune, se non si trova chi è disposto a seppellirlo a sue spese.
    Il popolo radunato sotto le forche risolve il problema a modo suo: i più facinorosi tirano giù il corpo, lo spogliano, lo fanno a pezzi e, secondo alcune fonti credibili, ne espiantano il fegato che piastrano e divorano.

    L’orrore e la pietà

    Questa vicenda macabra ha dei testimoni d’eccezione: il medico Diomede Marinelli, che la ricostruisce nei suoi diari, e l’avvocato Carlo De Nicola, tra l’altro un fedelissimo dei Borbone, che hanno riconquistato Napoli da poco più di due mesi, grazie all’Armata Cristiana e Reale del cardinale calabrese Fabrizio Ruffo, poi rinominata (e così passata alla storia) Esercito della Santa Fede.

    La testimonianza definitiva su questa vicenda, è tuttavia contenuta in una relazione della Confraternita dei Bianchi, un gruppo religioso incaricato di confortare i condannati a morte: loro sì, avevano davvero visto e sentito tutto, perché erano lì. E ne scrissero in segno di protesta. Già, una cosa è la giustizia, anche sommaria, un’altra le efferatezze, compiute dai lazzari (cioè i popolani) in combutta coi “calabresi”.

    Un esercito made in Calabria

    Ma chi sono i “calabresi”? Senz’altro gli abitanti della Calabria. Ma nel gergo dell’epoca “calabrese” era anche sinonimo di “provinciale”, cioè di non napoletano, perché il Regno di Napoli funzionava a due velocità: in “serie A” Napoli e i suoi abitanti, in “serie B” (esclusa la Sicilia che era uno Stato a parte sebbene sempre sotto corona borbonica) tutto il resto. Infine, calabresi erano chiamati anche i seguaci del cardinale Fabrizio Ruffo, che iniziò la riconquista del Regno a fine gennaio 1799, circa un mese dopo che Ferdinando IV di Borbone e la regina Carolina d’Asburgo erano fuggiti dalla capitale che stava per essere conquistata dai francesi e per diventare repubblica.

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    Un ritratto del cardinale Fabrizio Ruffo

    Nato a San Lucido, sul Tirreno cosentino, Fabrizio Ruffo era discendente dei Ruffo di Bagnara Calabra, i più potenti feudatari calabresi dell’epoca.
    Trasferitosi a Roma in giovanissima età fece una carriera eccezionale nell’amministrazione papale, grazie al blasone, alle parentele (in particolare, coi Firrao di Luzzi) e all’amicizia con Giovanni Angelo Braschi, che sarebbe diventato papa col nome di Pio VI.
    Politico fine e lungimirante, Ruffo introdusse importanti riforme nello Stato Pontificio, che tuttavia gli attirarono antipatie e rancori. Nominato cardinale e rientrato a Napoli, il nobile calabrese entrò nell’entourage di Ferdinando IV, che seguì nella fuga a Palermo.

    Proprio su incarico del re, il cardinale Ruffo sbarcò in Calabria e iniziò a reclutare miliziani nei feudi di famiglia e attraverso le parrocchie. Era lo zoccolo duro della sua armata, che avrebbe iniziato la sua terribile risalita verso la capitale mettendo a sacco le città finite in mano ai rivoluzionari, seminando disordine e terrore ovunque.
    Ma il peggio doveva ancora arrivare.

    Orrori e “lacreme napuletane”

    Abbandonata dalle truppe francesi, che lasciano solo un debole presidio, Napoli cadde il 13 giugno del 1799, dopo una giornata di combattimenti feroci. Anziché arrendersi, un drappello di patrioti giacobini asserragliato nel fortino di Vigliena, preferì lasciarsi esplodere.
    Tra le rovine del forte giacevano i corpi di tre donne, che indossavano l’uniforme della guardia civica. Inferociti dai combattimenti violenti, gli assedianti “calabresi”, a cui si erano uniti i lazzari, spogliarono le tre poverette e ne violentarono i cadaveri.
    Per la capitale era l’inizio di mesi di orrori e atrocità.

    Le esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno. Così i saccheggi e le violenze più estreme. I testimoni dell’epoca raccontano di strade piene di cadaveri mutilati e fatti a pezzi. In città era esplosa la “caccia al giacobino”. E per passare da rivoluzionari, in quella terribile follia collettiva, bastava essere benvestiti e non popolani. In pratica, erano al riparo solo i nobili fedeli alla dinastia.

    L’escalation

    Tutte queste vicende sono raccontate dallo storico cosentino Luca Addante nel suo I cannibali dei Borbone, uscito da poco per Laterza. Addante, professore di Storia moderna all’Università di Torino, è un profondo conoscitore delle vicende della Repubblica Napoletana.
    Non a caso, circa quindici anni fa fu protagonista di uno scoop storico non indifferente: il ritrovamento, a Parigi, delle ossa del rivoluzionario cosentino Francesco Saverio Salfi.

    Torniamo alla Napoli della seconda, terribile metà del 1799, dove, di violenza in violenza si era arrivati all’indicibile.
    La situazione era sfuggita di mano a Ruffo, che pure aveva tentato di mantenere l’ordine e si era appellato al re e al primo ministro John Acton. Ma invano, perché le efferatezze erano all’ordine del giorno: teste mozzate usate come palloni da calcio, corpi fatti a pezzi e bruciati. In tutto questo i cannibali non potevano mancare.

    Il festino cannibalico

    Le fonti utilizzate da Addante (tra cui i citati Marinelli e De Nicola) concordano nel riportare almeno cinque vittime, massacrate e cannibalizzate. Due di loro erano patrioti, rimasti anonimi, fatti a pezzi, in parte “piastrati” (il “solito” fegato e il cuore) e quindi divorati. Tre, paradossalmente ma non troppo, erano ufficiali borbonici, accusati di essere spie dei “jacubbini”. Ma tutto lascia pensare che gli episodi con cannibali come protagonisti fossero di più.

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    La rua Calana a Napoli

    Lo testimonia una macabra galleria di dipinti allestiti nella rua Catalana: nature “morte” che ritraevano piatti contenenti membra umane. La misura era colma, anche per Ruffo, che ordinò al capo della polizia di intervenire e sequestrare le “opere”.
    Ma questi orrori non capitarono solo a Napoli. I cronisti riferiscono due episodi.
    Il primo avvenne a Teramo, dove fu squartato e vittima dei cannibali un soldato francese (e parrebbe che i sanfedisti non si fermarono al fegato), il secondo a Montesano sulla Marcellana, nel Salento, dove la folla sbranò Nicola Cesari, il presidente della municipalità.

    Lo spuntino del brigante Spaccapitta

    Secondo Addante queste forme di cannibalismo sono un residuo atavico della cultura popolare, che riemerge nelle grandi crisi, quando la violenza esplode incontrollata.
    A sostegno di questa tesi, lo studioso espone nel suo libro un’enorme casistica, che va dal XIV secolo alle soglie dell’età contemporanea.

    Anche il brigantaggio calabrese ebbe i suoi bravi cannibali. Fu il caso di Spaccapitta, un bandito di Acri che lottava contro i francesi durante il decennio napoleonico. La sua attitudine era meno feroce e più gourmet, à la Hannibal Lecter: bruciava i cadaveri dei nemici e ne faceva colare il grasso su fette di pane, che assaporava annaffiandole con un buon vino locale.
    Ma da questa vicenda Ruffo si era chiamato fuori. Scioccato dagli orrori del ’99, il cardinale aveva rifiutato l’invito del re a ricostituire l’Armata. «Certe follie si fanno una volta sola», disse. Come dargli torto?