Autore: Saverio Paletta

  • La regola di Ennio: la poltrona passa di padre in figlio… e nuora

    La regola di Ennio: la poltrona passa di padre in figlio… e nuora

    A novembre 2020 esplode una protesta a Cosenza contro l’istituzione della zona rossa.
    Tra i bersagli della piazza ci sono i fratelli Gentile ed Ennio Morrone, accusati di aver distrutto la sanità calabrese, pubblica e privata.
    A metà gennaio 2022 gli ex dipendenti della clinica Misasi-San Bartolo salgono sul tetto della storica struttura cosentina per protestare contro i licenziamenti che hanno colpito 51 dei 129 lavoratori. Le lettere di licenziamento provengono dai fratelli Greco, che hanno rilevato la clinica dai Morrone.

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    Operai protestano sul tetto della Clinica Misasi-San Bartolo dopo l’arrivo delle lettere di licenziamento per 51 di loro

    Dopo il figlio ecco la nuora 

    Nel frattempo, sono successe alcune cose importanti: Luca Morrone, figlio di Ennio, non è più in Consiglio regionale, dove sedeva tra i banchi della maggioranza in quota Fratelli d’Italia. Al suo posto è subentrata la moglie, Luciana De Francesco, eletta nella medesima lista meloniana con 4mila 500 e passa voti. Il pacchetto di famiglia, che fu di Ennio e poi di Luca è rimasto in casa, anche se ha cambiato sesso e cognome.
    Potenza delle dinastie, che rendono il potere una proprietà transitiva.
    E con buona pace di chi protesta: saranno pure molti, ma sempre meno di chi vota senza fiatare.

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    Luciana De Francesco, eletta in consiglio regionale con Fratelli d’Italia

    Il patriarca Enniuzzo

    Viso paffuto, aria paciosa e modi sornioni, Giuseppe Ennio Morrone, detto Ennio e a volte Enniuzzo, è il meno vistoso tra i big cosentini di lungo corso.
    Non ha la popolarità di Pino Gentile né il radicamento di Nicola Adamo. Soprattutto, non ha la loro capacità di trasformare le clientele in seguito.
    A voler fare un paragone irriverente, Ennio somiglia a un gatto: astuto, aggressivo quando serve, spregiudicato e calcolatore, l’ex esponente socialista (quindi democratico, poi mastelliano e infine azzurro) è un maestro nell’arte della sopravvivenza politica in posizioni di potere. Soprattutto, è il più determinato a trasformare il potere in eredità. Vediamo come.

    Quattrini e seggi

    C’è una regola non scritta che pochi possono permettersi di violare: la separazione tra attività d’impresa e la politica. In Calabria, le eccezioni eclatanti sono due: Sergio Abramo e, appunto, Ennio Morrone.
    Morrone senior, di professione ingegnere, ha esordito come imprenditore attraverso Geocal, un laboratorio di analisi specializzato sui materiali utilizzati nei lavori pubblici.
    Il battesimo politico di Morrone, invece, è stato propiziato da Pino Gentile. Con buoni risultati, tra l’altro: il Nostro fa il vicesindaco a fine anni ’80. Poi, finita la Prima Repubblica, quindi il Psi, riemerge come assessore di Giacomo Mancini.
    Il salto di qualità avviene col centrosinistra nel 2000, quando Morrone si candida ne I Democratici e diventa consigliere regionale.
    Nel 2005 il big cosentino aderisce all’Udeur di Clemente Mastella e torna in Consiglio regionale con gran scioltezza.

    L’anno doro di Ennio Morrone

    La giunta Loiero e la vicinanza a Super Clemente si rivelano meravigliosi trampolini di lancio: diventato assessore regionale al Personale, Ennio si gioca la promozione romana nel 2006. E vince: diventa deputato e, in maniera non troppo indiretta, occupa una casella al Comune di Cosenza, dove suo fratello Giancarlo (medico andrologo e poi direttore sanitario della “Misasi”) diventa vicesindaco.
    Questo è l’apice di Ennio, che non bisserà più il record di potere e presenze. Ma capitalizza comunque quel che ha a dispetto di tanti scivoloni, che ad altri sarebbero costati più cari. Vediamoli.

    Le rogne

    Già nel 2003 Morrone era finito nel mirino della Dda di Catanzaro per presunte infiltrazioni delle ’ndrine nei lavori dell’allora A3. L’inchiesta finì in niente per tutti gli indagati.
    Nel 2006 Morrone fu intercettato durante un colloquio in carcere con Franco Pacenza, all’epoca notabile dei Ds, mentre ne diceva di tutti i colori di alcuni magistrati. Lo scandalo mediatico rientrò con la velocità con cui era esploso.
    Nel 2007 è la volta di Why Not?, la megainchiesta di Luigi de Magistris, allora sostituto procuratore a Catanzaro.
    Why Not? finì per Morrone allo stesso modo che per altri indagati eccellenti (tra cui Nicola Adamo): in nulla.

    La famiglia prima di tutto

    Il principale motivo d’orgoglio di Ennio è la famiglia. In particolare, sua figlia Manuela, che ha fatto per anni la magistrata a Cosenza, prima a livello penale poi nel Tribunale fallimentare. Manuela, tra le varie, è moglie di Stefano Dodaro, già capo della Squadra Mobile di Cosenza.
    Il sogno di molti padri “che contano” è avere figli “che contano” altrettanto. E quando non ci riescono da soli, arriva il consiglio paterno.
    È il caso di Marco e Luca, gemelli quasi indistinguibili, che hanno ereditato i due core business di papà Ennio: l’imprenditoria (Marco) e la politica (Luca).
    Marco diventa socio e ad della San Bartolo, la società proprietaria delle cliniche – Misasi, San Bartolo e Villa Sorriso – di famiglia. Luca si dà alla politica, dove riprende e prosegue la carriera paterna.

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    Stefano Dodero, ex capo della Mobile a Cosenza e attualmente direttore della scuola di Polizia a Vibo Valentia

    Rinascere in Azzurro

    Nel 2010 Ennio si candida in Regione in quota Pdl. Non ce la fa per un soffio, ma l’aiuta la sfortuna altrui: prende il posto di Franco Morelli, finito in galera per concorso esterno in associazione mafiosa.
    Intanto, nel 2011, Luca diventa presidente del consiglio comunale di Cosenza nella prima sindacatura di Mario Occhiuto. Poi succede un fatto curioso: nel 2014, Ennio torna in consiglio regionale con Forza Italia. A inizio 2016, Luca partecipa alla sfiducia, che fa decadere Mario Occhiuto a pochi mesi dalla scadenza del mandato. Contestualmente, Ennio diventa presidente della Commissione regionale di controllo e garanzia, durante l’amministrazione Oliverio.

    L’impero scricchiola

    L’avvisaglia è in una dichiarazione rilasciata da Eugenio Facciolla, procuratore di lungo corso, durante una famosa ispezione ministeriale sul Tribunale di Cosenza. Facciolla, in quell’occasione, aveva lanciato l’allarme sul possibile conflitto d’interessi rappresentato da una magistrata moglie del capo della Squadra mobile e figlia di un politico. Dodaro verrà trasferito da lì a poco.
    Nel frattempo, anche le cliniche danno problemi: accumulano debiti, soprattutto nelle retribuzioni e nella previdenza, ed entrano nel mirino dei sindacati.
    Il punto più alto della crisi si registra nel 2015, quando per tamponare i problemi la San Bartolo ricorre ai contratti di prossimità. Il risultato è accettabile a livello economico ma pessimo a livello politico-sindacale.
    Infatti, la situazione si trascina fino alla primavera del 2021, quando i Morrone decidono di vendere tutto o quasi ai Greco, specializzati nel recupero delle cliniche decotte (avevano già acquistato La Madonnina e il Sacro Cuore di Cosenza e La Madonna della Catena di Laurignano), non prima di aver tentato di vendere a un altro big: Piero Citrigno.

    Migranti e guai

    Un’altra buccia di banana si rivela nel 2015, in seguito alla protesta di alcuni migranti ospiti della struttura, il Centro d’accoglienza di Spineto, frazione di Aprigliano vicinissima alla Sila. Un’inchiesta giornalistica dell’agosto di quello stesso anno rivela che il centro d’accoglienza è gestito dalla Cooperativa Sant’Anna, di cui tra l’altro era stato amministratore Marco Morrone. Nel giro di pochi mesi, la struttura viene chiusa. Ma intanto lo scandalo è scoppiato a livello nazionale e finisce addirittura in Profugopoli, il libro di Mario Giordano.
    La coop Sant’Anna, detto per inciso, gestisce anche i servizi ausiliari delle cliniche riconducibili ai Morrone più altre attività terziarie. Ma scoppia un’altra rogna: l’inchiesta Passepartout, in cui è indagato e rinviato a giudizio Luca Morrone.
    A causa di questo procedimento, Luca deve rinunciare alla candidatura alle Regionali dello scorso ottobre.

    La storia infinita

    Il resto è noto. L’elezione della De Francesco ha inaugurato un altro filone di ereditarietà politica: quello che al posto dei figli premia i loro coniugi.
    Un filone, tra l’altro non proprio inedito, visto che l’ha sperimentato con successo sulla costa Tirrenica l’ex europarlamentare del Pd Mario Pirillo, che ha sponsorizzato alla grande la carriera di Graziano Di Natale, il marito della figlia.
    In un modo o nell’altro, la dinastia resiste. Passano i decenni, cambiano i sistemi, crollano gli imperi (anche i loro), ma i Morrone sono vivi e lottano.
    Nel loro caso, il Gattopardo può essere un paragone insufficiente…

  • Ne resterà sempre qualcuno e si chiamerà Gentile

    Ne resterà sempre qualcuno e si chiamerà Gentile

    I Gentile non si creano, i Gentile non si distruggono, i Gentile si trasformano. E ritornano, eccome se ritornano.
    Prendiamo Andrea Gentile, ripreso di recente dalle telecamere del Tg3 davanti a Montecitorio.
    Il giovane avvocato cosentino, noto per una lunga serie di consulenze, dentro e fuori regione, è riuscito a entrare a Montecitorio in seguito alla vittoria di Roberto Occhiuto alle Regionali di ottobre.
    Infatti, Andrea si era candidato alla Camera nel 2018 nella lista di Forza Italia ed era stato travolto dallo tsunami grillino.

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    Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia

    L’eclisse dei fratelli Gentile

    Due anni dopo, si verificò la massima eclissi per la sua famiglia, che fu assente in maniera totale dalle istituzioni per la prima volta dagli anni ’90: zio Pino non fu eletto in Regione, papà Tonino non era in Senato da oltre due anni e la cugina Katya non era più a Palazzo dei Bruzi.
    Poi, la scomparsa prematura di Jole Santelli rimescola le carte: Katya, grazie anche al formidabile aiuto di papà Pino, fa il pieno di voti e diventa la donna più votata in Regione, Roberto lascia la Camera e i Gentile tornano in versione 2.0: non più fratelli, bensì cugini, ma con ruoli simili a quelli dei rispettivi papà.

    Piccoli scandali, grandi consensi

    Una leggenda metropolitana tramanda che i fratelli Gentile furono di fatto costretti a lasciare il Pdl nel 2013 perché, come aveva rivelato un giornale dell’epoca, Pino era amico del magistrato che, prima di condannare Berlusconi, aveva esternato cose non proprio bellissime sull’ex Cavaliere.
    Vera o meno che sia questa storia, la scelta di mollare l’ex premier e di approdare a Ncd, il partito salva-notabili di Angelino Alfano, si dimostrò vincente: di lì a poco, (2014) Tonino Gentile sarebbe entrato come sottosegretario nel governo Renzi. Vi durò pochissimo, perché fu colpito dall’Oragate. Questa vicenda è diventata un pigro ricordo, ma allora esplose a livello internazionale e accese i riflettori sull’informazione in Calabria.

    L’Ora chiude, gli altri restano

    I protagonisti furono Andrea Gentile, finito nel mirino della Procura di Paola per la sua attività di legale dell’Asp di Cosenza, L’Ora della Calabria, il giornale fermato in tipografia quando la notizia stava per uscire, Alfredo Citrigno, l’editore del giornale, e Umberto De Rose, il tipografo accusato di aver stoppato le rotative.

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    Alfredo Citrigno bacia suo padre Piero in un’occasione pubblica

    Com’è andata a finire è noto: a Tonino è rimasto il nomignolo di “cinghiale”, De Rose è stato assolto dopo cinque anni e passa di processo. In compenso, Pino Gentile ha ottenuto la condanna per diffamazione di Piero Citrigno, papà di Alfredo ed ex editore dell’Ora della Calabria. L’Ora, invece, ha chiuso i battenti nel giro di un mese. A dispetto del fatto che l’inchiesta sui Gentile e sulla Sanità cosentina avesse spinto in alto le vendite della testata.

    Ma erano cifre insufficienti: l’Ora raggiunse al massimo 6mila copie di vendita in un giorno. Invece i fratelli Gentile erano quotati ancora attorno ai 16mila voti. Tanti elettori in una terra di grande astensione contro pochi lettori in una regione in cui si legge pochissimo… di cosa parliamo?

    De Rose è per sempre

    Ciò spiega la prudenza con cui, nel 2016, la stampa diramò la notizia della condanna inflitta dalla Corte dei Conti a De Rose per danno erariale durante la sua presidenza a Fincalabra. In particolare, al tipografo furono contestate le consulenze date ad Andrea e a Loredana Gentile. Loredana, detta Lory, è la sorella di Andrea. Sui due fratelli, che non risultano indagati nel procedimento penale legato ai fatti di Fincalabra, la magistratura contabile ha espresso giudizi diversi: Andrea non è causa di danno erariale, sia perché la sua parcella era piuttosto “contenuta” (35mila euro), sia perché con la sua attività aveva consentito un risparmio. Su Lory, invece, è emerso un dato curioso: coi suoi circa 50mila euro per un incarico a tempo determinato, la sorella di Andrea aveva causato il danno erariale.

    Lo stampatore Umberto De Rose

    Tuttavia, si affermò che la giovane Gentile avrebbe lavorato per circa 370 giorni in un anno. Un refuso marchiano o un adattamento dello spazio-tempo a misura dei Gentile?
    Come per l’Oragate, De Rose si è sobbarcato il processo, con qualche difficoltà in più: è stato prosciolto dalla Corte d’Appello di Catanzaro nel novembre 2020 dall’accusa di abuso di ufficio che gli era costata un anno e mezzo di condanna in primo grado.

    Scarpelli, l’appendice sanitaria

    Un altro gentiliano che ha passato qualche guaio è Gianfranco Scarpelli, primario di Neonatologia all’Annunziata e direttore generale dell’Asp durante l’era Scopelliti. Proprio quest’ultimo ruolo ha procurato grane giudiziarie a Scarpelli, uscito solo di recente da processi spinosi. Ma il medico cosentino non può lagnarsi: sua figlia Rita è diventata dirigente del Settore farmaceutico della Regione grazie a una determina firmata da Roberto Occhiuto in persona. Ad appena 33 anni, la giovane Scarpelli è una delle dirigenti più giovani della storia della Pa. C’è di che rincuorare papà Gianfranco per le disavventure subite.

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    Gianfranco Scarpelli è stato direttore generale dell’Asp di Cosenza

    Super Pino

    Il gentilianesimo, a Cosenza, non è una corrente filosofica ma una dottrina quasi religiosa, che si basa su un solo elemento: il consenso elettorale.
    Le cattedrali in cui si celebra questa fede, che conta tuttora oltre 9mila adepti, sono la Sanità e altre importanti centraline di spesa pubblica, come ad esempio l’edilizia popolare.
    Infatti, il nome di Pino Gentile è emerso in vari procedimenti penali legali all’edilizia pubblica, come indagato e, a volte, come imputato. C’è da dire che questi procedimenti sono prossimi alla prescrizione. Tuttavia, proprio questa situazione giudiziaria avrebbe costretto Pino a fare un passo indietro nelle ultime Regionali a favore di sua figlia.
    Comunque, questa “sostituzione” cambia poco: quando si parla di fede l’importante è pregare, a prescindere che si preghi un santo o il Padre Eterno in persona.

    Le metamorfosi di Pino

    Il gentilianesimo ha un suo dogma particolare, che richiama in maniera stramba quello della Trinità: i calabresi quando dicono Gentile pensano a una famiglia, tuttavia il capo resta Pino, che vanta oltre cinquant’anni in politica, iniziati in quella grande chiesa che era il Psi e proseguiti, salvo qualche incidente, in Forza Italia, Ncd e di nuovo Forza Italia. E una piccola parentesi come sindaco di Cosenza da indipendente eletto con il Partito Repubblicano.

    Ma restando sempre Pino, perché a un leader religioso come lui nessuna confessione può negare il ruolo di arcivescovo. Nel suo caso, di assessore regionale a oltranza nei dicasteri in cui ci sono risorse vere da gestire.
    Tonino, invece, è il cardinale. Esploso con Forza Italia negli anni ’90, è diventato subito senatore e da allora non ha più mollato Roma.
    All’apice del loro successo, i Gentile contavano oltre 20mila voti, che li rendevano forti quando erano al governo e, ancor più forti, all’opposizione, da dove potevano negoziare meglio…

    Lo scontro con gli Occhiuto

    Chi ha a che fare i due fratelli, come alleato o avversario, sa benissimo due cose: si vince se si ha un loro pensiero Gentile, si governa per Gentile concessione.
    E c’è da dire che quasi tutti hanno avuto a che fare coi Gentile sia come alleati sia come avversari.

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    Il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto con il suo vice Katya Gentile prima di rimuoverla dalla poltrona

    Prendiamo il caso dei fratelli Occhiuto, che si rifugiarono nel Ccd e poi nell’Udc a partire dagli anni ’90, quando i Gentile li defenestrarono da Forza Italia.
    Dopo anni di guerre feroci, Mario Occhiuto divenne sindaco di Cosenza anche grazie all’apporto dei Gentle Bros, che resero Katya la consigliera più votata nelle Amministrative del 2011. Poi ci fu la rottura tra Katya e Mario.

    Quest’ultimo sopravvisse benissimo perché si rifugiò in Forza Italia assieme al fratello Roberto, approfittando del fatto che Pino e Tonino se n’erano andati con Alfano. Ma il prezzo lo pagò Wanda Ferro, candidata alla presidenza della Regione nel 2014 sotto le insegne azzurre. I Gentile non fecero coalizione ma corsero da soli. E si impegnarono parecchio, proprio contro la candidata berlusconiana, che perse in malo modo grazie alla loro campagna elettorale martellante.

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    Il posto di Katya Gentile lasciato vuoto al tavolo della Giunta di Cosenza (foto Camillo Giuliani)

    Il soccorso a Manna e Talarico

    Discorso leggermente diverso a Rende. Avversari di Sandro Principe, i fratelli Gentile furono determinanti nella prima vittoria di Marcello Manna, grazie a un listone in cui figuravano un battaglione di medici e Annarita Pulicani, moglie di Granfranco Ponzio, ex consigliere provinciale di provata fede gentiliana.
    Poi arrivò la rottura. Ma niente paura: c’è sempre qualcuno che ha bisogno dei Gentile. In questo caso, Mimmo Talarico, che tentò l’elezione a sindaco nel 2019 anche con l’appoggio dei Fratelli Terribili.
    Talarico non arrivò al ballottaggio, dove i gentiliani si ritrovarono schierati con Principe. Anche lui perse, ma pazienza: un pensiero Gentile lo aveva avuto comunque…

    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    La sfida per il futuro

    Mario Occhiuto non è più sindaco di Cosenza. Roberto ha il suo da fare per gestire anche i gentiliani in Regione.
    L’unica certezza è che i Gentile, a dispetto del calo di voti, sono vivi e vegeti. A questo punto, è obbligatoria una domanda: riusciranno i cugini Gentile a perpetuare il potere dei rispettivi genitori?
    Tutto lascia pensare che il loro cognome resterà a lungo sinonimo di potere in una terra, la Calabria, che critica i potenti perché in realtà li venera e li combatte solo per potercisi accordare meglio. E resteranno a lungo anche le villone di Muoio Piccolo con le piscine a forma di ostrica. Perché, si sa, non c’è potere vero senza un tocco di kitsch.

  • Ombre rosse: la favola di Adamo ed Enza

    Ombre rosse: la favola di Adamo ed Enza

    Tra i big politici che hanno iniziato dal centro storico di Cosenza, Nicola Adamo vanta almeno un primato: è il più alto. Una sfida piuttosto facile: Ennio Morrone è di altezza media, Pino e Tonino Gentile sono decisamente bassini e Luigi Incarnato non potrebbe comunque candidarsi in una squadra di basket. Questa è una prima certezza sul leader ex comunista. La seconda certezza su Adamo riguarda i faldoni delle inchieste giudiziarie in cui è risultato coinvolto a vario titolo: se qualcuno si prendesse la briga di metterli in pila, risulterebbero decisamente più alti di lui.

    Pd, Cosenza 2022

    Non sappiamo come finirà la partita dei congressi provinciali del Pd, rinviati per i consueti casini interni a febbraio. L’unica sicurezza, ancora una volta, è che Nicola Adamo c’è e, d’accordo con Carlo Guccione, ha lanciato a Cosenza la candidatura del giovane Vittorio Pecoraro. Il tutto, dopo aver negoziato un sì scontato alla candidatura di Nicola Irto alla segreteria regionale e a dispetto della lite furibonda di novembre col malcapitato Italo Reale, il presidente della commissione per il tesseramento del Partito democratico.
    Questi brevi cenni dovrebbero far capire una cosa: passano i decenni, passano le inchieste, ma Adamo resiste.

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    Enza Bruno Bossio e Vittorio Pecoraro prima del comizio di Enrico Letta a Cosenza (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi

    Onda araba

    I tempi in cui l’ex mattatore del Pci faceva il pieno di voti sono lontani. Dopo le disavventure dell’era Scopelliti, Adamo ha capito che è meglio fare il “padre nobile” dietro le quinte che mettere la faccia nelle contese, tanto più che c’è chi lo fa per lui: sua moglie Enza Bruno Bossio.
    L’Adamo degli ultimi otto anni ricorda l’ultimo Gheddafi, che non aveva più ruoli pubblici nello Stato e nell’esercito libico e tuttavia gestiva le sorti della Libia dalla sua tenda nel deserto. E forse questa similitudine, più di ogni altra cosa, fa capire come il termine “democratico”, nel partito di Letta, molte volte sia solo un aggettivo.

    Amore e potere

    Quello tra Enza Bruno Bossio e Nicola Adamo è un amore politico cementato dalla militanza e sublimato dal potere. Quando i due si conobbero – tra l’altro in maniera burrascosa, come tramandano alcuni sapidi pettegolezzi – esistevano ancora il Pci, dove lui si era fatto le ossa, e la sinistra indipendente o “extraparlamentare”, da dove proveniva lei, che aveva esordito col gruppo del Manifesto. Più che una coppia, Nicola ed Enza sembrano una staffetta.

    In una prima, lunghissima fase, lui ha macinato elezioni e incassato incarichi istituzionali mentre lei si è dedicata al management nell’informatica e nelle telecomunicazioni.
    Poi è esplosa Why not, la maxi inchiesta di Luigi de Magistris, e la parabola di Adamo entra in fase discendente. Non è il caso di soffermarsi su polemiche e dietrologie vecchie: l’inchiesta, in cui era coinvolta anche Enza, è finita in nulla, ma si è rivelata comunque una mazzata forte a livello politico e d’immagine. Soprattutto, costrinse una parte del Pd calabrese, fresco di nascita, a mutare atteggiamenti di fronte alle inchieste giudiziarie e ad assumere atteggiamenti garantisti simili a quelli di Forza Italia.

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    Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio ai tempi di Why Not

    Adamo, nel frattempo, ha rotto anche con Mario Oliverio, ha suicidato il centrosinistra alle Amministrative di Cosenza del 2011 ed esce dal gruppo del Pd in Regione.
    La pace con Oliverio, siglata a partire dal 2012, ha un costo politico: l’elezione di Enza in Parlamento. Già: qualcuno che tenga un piede nelle istituzioni in famiglia serve sempre, perché in democrazia il potere puro non si giustifica.
    Il passaggio di testimone è celebrato nelle elezioni politiche del 2013, a dispetto del fatto che l’avvento di Renzi riduce un po’ gli spazi per gli ex comunisti, ed è confermato nel 2018, quando Bruno Bossio sopravvive allo tsunami grillino, che travolge tutti ma soprattutto il Pd, bollito ovunque e a rischio evaporazione in Calabria.

    Nicola Adamo contro le toghe

    Nel frattempo, Nicola sopravvive a ben altro. Esce da Why Not nel 2016, ma entra in altre quattro inchieste: Eolo (2012), che passa da una Procura all’altra e finisce praticamente in prescrizione; Rimborsopoli (2015), Lande desolate (2019), da cui viene prosciolto per non aver commesso il fatto, e Rinascita Scott (2019), tuttora in corso. Le uniche conseguenze per l’ex vice di Agazio Loiero sono piccole misure cautelari, tra l’altro revocate a velocità lampo. In pratica, dei graffietti.

    L’opinione pubblica, italiana e calabrese, non è più quella di Tangentopoli e dei tempi delle prime inchieste di de Magistris. Non è un caso, allora, che Nicola ed Enza contrattacchino alla grande, con esposti al Csm e polemiche furibonde a mezzo stampa.
    Il risultato è un pari: nessuno tocca i magistrati (soprattutto quando si chiamano Gratteri) e i due restano al loro posto, dove continuano a passarsela bene.

    Una geometria trasversale e variabile

    Meno grosso di quello dei Gentile, il pacchetto di voti di Nicola Adamo è comunque resistente e capace di condizionare gli equilibri politici del centrosinistra e non solo. Lo si è visto in occasione della diatriba con Mario Oliverio, la cui leadership fu prima incrinata e poi rafforzata da Adamo.
    Ma lo si vede anche dal rapporto con Carlo Guccione, se possibile più burrascoso di quello con l’ex governatore. Ora che vanno d’accordo, Adamo e Guccione condizionano Cosenza, tornata al centrosinistra dopo i dieci anni di Occhiuto.

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    Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Ma in realtà il rapporto è triangolare: nel 2011 Adamo diede una prova di forza contro Guccione e Oliverio, che non riuscirono a sostenere adeguatamente Paolini; nel 2014 Adamo e Oliverio spinsero alla grande su Guccione che, grazie anche ai voti di entrambi, risultò il consigliere regionale più votato.
    Ora, con l’eclissi del sangiovannese, i due cosentini sono padroni del campo e mirano a rafforzarsi in provincia. Anche a dispetto del fatto che il Pd continua a perdere consensi. Non importa, in altre parole, che la casa sia piccola: l’importante è che ci stiano bene loro.

    Il futuro

    È difficile capire, al momento, se Enza Bruno Bossio riuscirà a tornare a Montecitorio, dove comunque ha dato prova di attivismo.
    Certo, grazie al taglio dei parlamentari passato a furor di popolo nel 2019, gli spazi elettorali sono minori. Ma c’è da dire che la famiglia Adamo ha dimostrato che la politica, a volte, può essere l’arte dell’impossibile.
    Soprattutto, gli Adamo hanno dimostrato di essere una famiglia resistente. Anche all’infedeltà di Nicola, che a suo tempo ha fatto il giro d’Italia.
    Finché morte non li separi, nel loro caso, può non essere solo un modo di dire.

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    Nicola, Enza, figli e figliocci (politici) al seggio qualche anno fa: sulla destra l’attuale capogruppo deo Pd in consiglio comunale a Cosenza, Francesco Alimena (foto C. Giuliani) – Calabresi

    Perciò i cosentini stiano tranquilli: il centro storico potrebbe spopolarsi del tutto, ma resterebbe comunque un primo circolo del Pd dominato da Adamo e Bruno Bossio e capace di condizionare la città. Ancora: potrebbe finire tutta l’informazione cartacea, ma Nicola resisterebbe imperterrito con la “mazzina” di quotidiani sotto il braccio e col cellulare più vintage del suo linguaggio politico.
    Di più: i magistrati passano, ma Nicola ed Enza restano. E resteranno anche se il Pd dovesse finire, come sono finiti l’Urss, il blocco orientale il Pci, il Pds e i Ds.
    Chi dice che il Gattopardo è solo di destra?

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    Enza Bruno Bossio (foto A. Bombini) – I Calabresi

     

  • Nelle viscere del Tirreno il tesoro che non è mare

    Nelle viscere del Tirreno il tesoro che non è mare

    Si pensa spesso al mare, che in realtà è più bello d’inverno, quando le località costiere sono vuote e le attività inquinanti al minimo.
    Ma si trascura il suolo, che forse può diventare molto attrattivo, specie per chi invoca il turismo di nicchia. Al riguardo, il basso Tirreno cosentino è pieno di forre e di grotte, sotterranee e non, alcune delle quali sono anche giacimenti archeologici, che raccontano come, nella preistoria, la Calabria – oggi in vistoso calo demografico – fosse popolosa.

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    Forra tirrenica

    Resti umani risalenti al Paleolitico

    Lo rivela ’a grotta da ’ntenza – scoperta da Gianluca Selleri che vi si è calato nel 2017 – a cui si accede dalle pareti rocciose dei monti tra Falconara Albanese e San Lucido.
    All’interno di questa cavità vi sono reperti poveri e antichissimi, che spiccano sul biancore della roccia calcarea: strumenti di osso e selce e vasellame in terracotta grezza che risalgono al Paleolitico. Più qualche resto umano.
    «È una delle tante sepolture preistoriche che stanno venendo alla luce in quest’area», spiega Paolo Cunsolo, presidente dell’associazione Forre del Tirreno, che raduna un gruppo consistente di speleologi.

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    La Grotta da ‘ntenza

    Varie di queste tombe primitive, in cui i nostri remotissimi antenati si facevano seppellire assieme agli strumenti della loro quotidianità, sono state scoperte un po’ più a Sud, per la precisione a Coreca, la bellissima scogliera tra Amantea e Campora San Giovanni.
    Di questi ritrovamenti eccezionali si sta occupando ora Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari, che attualmente gestisce gli scavi e la manutenzione di un altro luogo antichissimo: la Grotta della Monaca, nella Valle dell’Esaro.

    Grotta Sant’Angelo

    Ma lo spettacolo più forte lo offre la natura. Ci si riferisce, in particolare, al sistema di grotte in località Sant’Angelo, sempre a cavallo tra Falconara Albanese e San Lucido.
    La più importante di queste enormi cavità è Grotta Sant’Angelo, nota fin dai primi anni ’70 e tuttora meta degli speleologi calabresi e siciliani.
    L’ingresso di questa grotta è un laminatoio, cioè una fessura scavata dalle acque, nella parete della montagna. Lo si attraversa strisciando per circa quattro metri e si arriva in una galleria ampia, di quasi un chilometro nel cuore del monte. Questa galleria termina con alcuni laminatoi, scavati da due sorgenti sotterranee importantissime.
    L’acqua ha lavorato le rocce per secoli. E ha creato un vero e proprio mondo parallelo, fatto di tunnel e collegamenti quasi inaccessibili all’uomo.
    Per esempio, quello tra Grotta Sant’Angelo e la vicina Grotta “Mario e Andrea”, che ha una storia particolare.

    L’ingresso della grotta “Mario e Andrea”

    In ricordo della tragedia di Rigopiano

    La Grotta di “Mario e Andrea”, infatti, è stata scoperta cinque anni fa, in coincidenza con la tragedia di Rigopiano. E non è un caso che sia stata dedicata a due soccorritori morti nel tentativo di salvare gli ospiti del resort travolto dalla valanga.
    Tralasciamo le coincidenze e dedichiamoci alla grotta, più difficile da esplorare e forse più spettacolare della sua vicina.
    L’accesso è tutt’altro che facile e, specifica Cunsolo, quasi impossibile per i non speleologi: è una spaccatura sulla parete della montagna che conduce a due pozzi che si inabissano per quindici metri.

    La grotta di “Mario e Andrea”

    Al termine dei pozzi c’è una pietraia, che gli esploratori hanno dovuto aprire a mani nude. La loro fatica è stata premiata da una visione spettacolare: uno stanzone di circa novanta metri quadri e profondo tra i dieci e i quindici metri, pieno di stalattiti e stalagmiti. Segno di un forte lavorio delle acque, che è confermato dalla presenza di un fiume sotterraneo.
    Profondissimo anche il vicino Inghiottitoio Provenzano, un’enorme cavità che si inabissa per quasi cinquanta metri.

    La prossima sfida

    La natura ha i suoi collegamenti che, tuttavia, non sono adatti all’uomo. Proprio per questo, gli speleologi di Forre del Tirreno tentano di aprire dei varchi tra queste grotte, sotto la guida del paolano Piero Greco, già tra i sub più forti a livello regionale.
    Lo scopo, spiega ancora Cunsolo, è «rendere fruibile a un pubblico più vasto quest’impressionante mondo sotterraneo», praticamente ignoto, aggiungiamo noi, ai villeggianti, cosentini e non, che invadono le spiagge ogni estate».
    Tuttavia, gli speleologi lavorano soprattutto d’inverno e in primavera, al riparo dai curiosi e, soprattutto, dagli imprudenti che potrebbero farsi davvero male nel tentativo di emularli.
    Il momento più importante di quest’attività di esplorazione e ricerca, che confina quasi con l’archeologia, è giugno, quando le associazioni speleologiche calabresi e siciliane svolgono il loro raduno annuale, intitolato “Azzoppa ’u pede”, con un palese riferimento a una storia meno antica ma più suggestiva, cioè ai briganti che infestavano nella seconda metà dell’Ottocento l’antica via del mare che passava per il Monte Cocuzzo.

    Il turismo nelle viscere della terra

    Il turismo di massa ha poco a che fare con le grotte e le forre, che però attirano comunque una quantità non proprio trascurabile di specialisti, studiosi, speleologi (appunto) o semplici ambientalisti.
    E queste scoperte recenti, se opportunamente valorizzate, potrebbero in effetti essere il punto di partenza per una nuova concezione del turismo, senz’altro più sostenibile di quello che ci si ostina a praticare, a dispetto dell’impatto ambientale alto e dei numeri in calo.
    «La speleologia non è per tutti, specie nelle fasi di scoperta e nelle prime esplorazioni», spiega ancora Cunsolo, perché in questi casi richiede «addestramento e conoscenza di una serie di tecniche ben precise». In altre parole occorre essere un po’ alpinisti, un po’ minatori e, in qualche caso, anche un po’ sub. A tacere del fatto che queste attività non sono assolutamente adatte a chi soffre di claustrofobia.
    Ciò non toglie che, una volta stabiliti dei percorsi sicuri, le grotte non possano essere visitate con guide adeguate, da un pubblico più vasto.
    Un pubblico di nicchia? Senz’altro. Ma chi dice che nicchia sia sempre sinonimo di piccolo?

  • Rende, la poltrona “maledetta” che affossa i sindaci

    Rende, la poltrona “maledetta” che affossa i sindaci

    Non volano elicotteri né abbondano i posti di blocco, che funzionano soprattutto per le normali esigenze di controllo del traffico e della sua sicurezza.
    L’ultima volta che si è registrata un’abbondante presenza delle forze dell’ordine è stata a novembre 2012, nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti l’arresto di Ettore Lanzino, primula per eccellenza della ’ndrangheta cosentina. A parte questo, Rende sembra la classica città tranquilla.
    Già: Rende non è Saigon né Chicago. Tuttavia, ciò non toglie che la città modello, raro esempio di sviluppo urbano in cui estetica ed efficienza, ordine e crescita sono state a lungo in equilibrio quasi perfetto, ha tanti problemi e ne genera altrettanti.

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    Ettore Lanzino, uno dei boss storici della ‘ndrangheta cosentina

    Il caso Manna

    Tengono banco nelle cronache le notizie sul recente provvedimento cautelare con cui il Tribunale del riesame di Salerno ha sospeso Marcello Manna, il sindaco di Rende, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno.
    Ma questo provvedimento, per ora, è “platonico”: contro questa decisione del Riesame hanno fatto appello sia la Procura di Salerno, che per Manna aveva chiesto la detenzione cautelare in carcere, sia la difesa del sindaco, che ovviamente mira ad azzerare tutto.
    Non è il caso di entrare nel merito, perché su vicende delicate come questa non si ragiona come in curva sud. Anzi, è doveroso il massimo del garantismo.

    Il quinto amministratore sotto le lenti dei magistrati

    A livello giudiziario, la decisione del Riesame risulta molto “salomonica”: il gip ha rigettato la richiesta dei domiciliari perché, a suo giudizio, non sussistono esigenze cautelari. Detto altrimenti, perché Manna non scappa e perché non può più inquinare le prove, a favore e contro, che evidentemente sono già in saldo possesso degli inquirenti.
    Il merito, ovvero l’eventuale pronuncia sull’innocenza o meno del sindaco, non è assolutamente in discussione.
    Detto questo, Marcello Manna è il quinto amministratore di Rende finito sotto le lenti della magistratura. Si badi bene: nell’inchiesta della Procura di Salerno non c’è nulla che riguardi l’operato di Manna come sindaco. Però c’è un dato storico che proprio non si può tacere.

    Il boss e i due politici

    Quando fu arrestato Ettore Lanzino, Marcello Manna – che comunque faceva manifestazioni pubbliche coi Radicali ed era vicino a quell’area socialista a cavallo tra centrodestra e centrosinistra – non pensava alla carriera politica e, forse, non immaginava che sarebbe diventato sindaco di Rende.
    Ma si limitava a fare, con la provata bravura, il difensore di indagati e imputati eccellenti. Anche di Lanzino, che ha continuato a difendere quasi fino al 2018, quando fu rinviato a giudizio Sandro Principe.
    Con questo riferimento storico, non si vuol alludere a nulla. Al più, si coglie una coincidenza “suggestiva” troppo forte per passare in secondo piano.

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    Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

    Il gotha nei guai

    L’inchiesta “Sistema Rende”, iniziata all’indomani dell’arresto di Lanzino, è esplosa nel 2016, con l’arresto di Sandro Principe, che fino a quel momento era comunque considerato un papà di Rende.
    Le accuse, che si focalizzavano sulle Provinciali del 2009, erano di corruzione elettorale, corruzione in atti amministrativi e concorso esterno in associazione mafiosa.
    Discorso simile per Umberto Bernaudo, sindaco di Rende dal 2006 al 2011 e Pietro Ruffolo, ex assessore della Giunta Bernaudo.
    Principe, è doveroso ricordarlo, è stato prosciolto dall’accusa di corruzione elettorale, Bernaudo e Ruffolo, invece, sono stati prosciolti da quella di corruzione in atti amministrativi.

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    Umberto Bernaudo, ex sindaco di Rende

    C’è un altro big di Rende coinvolto nella vicenda, sebbene non per fatti di mafia: è l’ex assessore comunale e consigliere provinciale Giuseppe Gagliardi, rinviato a giudizio “solo” per corruzione elettorale.
    In questa vicenda, c’è un’altra vittima, per fortuna solo dal punto di vista politico: Vittorio Cavalcanti, altro brillante avvocato e sindaco di Rende dal 2011 al 2013. La sua amministrazione, l’ultima di centrosinistra e l’ultima legata al carisma di Sandro Principe, naufragò mentre la Commissione d’accesso antimafia spulciava le carte del municipio.

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    Vittorio Cavalcanti è stato sindaco di Rende

    Chi tocca quella poltrona…

    Ricapitoliamo: Manna è sotto inchiesta per la vicenda del giudice Petrini, con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, che non c’entra un bel niente con la sua attività amministrativa.
    Questo dato lo hanno colto benissimo anche i magistrati salernitani, che hanno applicato la misura cautelare solo alla professione e non al ruolo di sindaco, creando un paradosso apparente: gli impediscono di lavorare ma non di amministrare.
    Tutti gli altri, sono stati finora travolti dal ciclone giudiziario, sul quale è doveroso il garantismo perché finora non c’è alcuna sentenza che autorizzi a pensare altro.
    Fatto sta che, dal 2011 in avanti, la poltrona di primo cittadino di Rende è diventata “pericolosa”, non foss’altro perché porta un po’ sfortuna, e la città modello si è incamminata sulla via del declino.

    Peyton Place

    Più che Saigon, Rende sembra la Peyton Place del celebre romanzo scandalo di Grace Metallous: una cittadina in apparenza tranquilla, ma piena di scandali e contraddizioni.
    Secondo i bene informati, proprio a Rende hanno trovato rifugio varie “vedove bianche” (mogli di picciotti finiti sotto lupara bianca o al 41bis).
    I più maligni sussurrano altro, per fortuna al momento senza riscontri di rilievo: dietro tante fortune edilizie e aziendali vi sarebbero capitali non chiarissimi. Ma finora l’unico sospetto confermato riguarda i call center Blue Call, con sedi in Lombardia e a Rende, “scalati” dai clan reggini. Insomma, molte cose ardono sotto le ceneri ed è difficile dire in quante di esse la classe politica abbia responsabilità reali.

    Rende ha perso colpi

    Intanto, Rende, vive una situazione politica dura: non è in dissesto come la vicina Cosenza, ma ha comunque i conti a rischio. E soprattutto, corre pericoli forti, con una buona fetta di ex amministratori sotto torchio e col sindaco attuale finito comunque in un ciclone mediatico.
    Una situazione ben diversa rispetto al decennio scorso, quando Rende ancora dava le carte e sembrava essere diventata il perno dell’area urbana di Cosenza.
    Dopo di noi il diluvio? Ancora no, per fortuna. Ma stiamo ben attenti: dalle attività giudiziarie ancora in corso potrebbe scatenarsi la classica tempesta perfetta.

  • Tutti con Irto ma solo per finta: la grande farsa del Pd

    Tutti con Irto ma solo per finta: la grande farsa del Pd

    Il Pd calabrese dà due certezze: la vocazione masochista e il nuovo segretario regionale, che come sanno persino i muri, sarà Nicola Irto. Con un po’ di retorica, si potrebbe definire “bulgaro” l’imminente congresso che consacrerà il mattatore reggino.
    Ma sarebbe riduttivo. In Calabria, anche nell’autoritarismo, riusciamo ad essere più estremi: il paragone più azzeccato, in questo caso, è l’Albania di Enver Hoxa.

    Mario Franchino
    Mario Franchino ha provato a sparigliare le carte in vista del congresso

    L’unico tentativo di contrastare Nicola superstar è provenuto da Mario Franchino, che ha tentato di dar voce a un gruppo di ex big, ai quali solo l’età (in media over 65) impedisce pose e atteggiamenti rivoluzionari e ha suggerito un nome stereotipato: Ricostituenti, perché anche dirsi “riformisti” sarebbe troppo.
    Parliamo, tra gli altri, di Cesare Marini e Agazio Loiero, che riescono a far sembrare credibile persino Piero Pelù quando si ostina a cantare rock e a portare i capelli lunghi sebbene l’anagrafe gli consigli altro.
    Ovviamente, si parla di niente: l’“incidente” Franchino è rientrato per incapacità di portare cinque liste con centosessanta candidati, perché il potere di una volta è un ricordo.

    Un Pd col cuore sullo Stretto

    L’unica vera notizia, in questo casino, è il definitivo cambio di polarità geografica del Pd, che si focalizza a Reggio. E poco importano le recenti traversie giudiziarie di Giuseppe Falcomatà, che anzi agevolano Irto, che in riva allo Stretto non ha più rivali e, forte del notevole consenso alle Regionali di ottobre, si è imposto su tutto il resto della Calabria.
    Ed è riuscito, grazie anche a un lavorio diplomatico non indifferente, a creare l’impressione di un unanimismo che nei dem calabresi non è solo innaturale ma, addirittura, contronatura.

    Contrordine compagni

    Ma per fortuna c’è Cosenza, che riesce a rasserenare i cronisti più maligni e conferma che, nonostante tutto, il Pd è un partito divertente. Lo è stato a fine novembre, quando la rissa dell’assemblea di Cosenza ha fatto il giro del web. E lo è anche ora che i congressi provinciali sono saltati.
    Con una circolare stringata, il commissario regionale Stefano Graziano ha rinviato i congressi provinciali, previsti anch’essi a brevissimo, all’ultima decade di febbraio. Un tempismo significativo, il suo, che coincide in maniera un po’ troppo curiosa con alcune fughe di notizie che riguardano Cosenza.

    La circolare inviata da Stefano Graziano
    La circolare inviata da Stefano Graziano

    Non serve essere dietrologi a oltranza, perché quando si pensa male del Pd ci si azzecca sempre senza far peccato. È sufficiente, invece, mettere in ordine i fatti: la scadenza per la presentazione delle liste era prevista alle 20 del 13 gennaio, ma nelle prime ore del pomeriggio sono uscite alcune indiscrezioni giornalistiche sulla candidatura di Vittorio Pecoraro a segretario provinciale di Cosenza. A stretto giro di mail e di What’s App i militanti del Pd hanno ricevuto il “contrordine compagni” di Graziano. E forse con un po’ di sollievo si sono adeguati.

    Una poltrona per quattro

    C’è una sostanziale differenza tra Stefano Graziano e Francesco Boccia. Il primo è un po’ disperato, perché gestire il Pd calabrese è cosa che si augura a un nemico. Il secondo è anche sfigato, perché non gli va bene una manovra che sia una.
    I bene informati riferiscono del tentativo del commissario cosentino di cucire un congresso unitario su Maria Locanto. Nulla da ridire sulle qualità della prescelta, tranne che forse non l’hanno mandata giù i cosentini per primi.

    Infatti, Boccia aveva avuto ampie rassicurazioni dai consiglieri regionali bruzi sopravvissuti all’ecatombe di ottobre che ci sarebbero state le trecento firme per la sua attuale sub commissaria. Peccato solo che qualcun altro queste firme le aveva già raccolte. Si parla di Nicola Adamo, che avrebbe sponsorizzato la candidatura del giovane Vittorio Pecoraro (noto non solo per la militanza socialista ma anche per la genealogia: è figlio di Carlo, ex dirigente del Comune di Cosenza). Invece, alla Locanto non sarebbero arrivati i sostegni sperati. Di sicuro non quelli di Mimmo Bevacqua, che starebbe sponsorizzando un’altra candidatura femminile, di cui non è ancora emerso il nome.

    Il democrat Nicola Adamo
    Il democrat Nicola Adamo

    Peggio che andar di notte coi Ricostituenti, i quali si sono impegnati per spingere il nome di Antonio Tursi, presidente dell’associazione Controcorrente.
    E non si è sottratto alla tentazione neppure Graziano Di Natale, che ha provato a mettere sul tavolo la candidatura del suo uomo.
    In questo caso, non si capisce bene se per rompere del tutto o per ricucire alla meno peggio, dopo una campagna elettorale per le Regionali giocata più contro i compagni di partito che contro gli avversari di centrodestra.

    Pd e democrazia

    Lo slittamento delle provinciali sembra un favore a Boccia, che ha tempo fino al quattro febbraio per recuperare le firme pro Locanto (o chi per lei). Ma questi giochi riguardano solo il Pd e non hanno nulla a che fare con la democrazia.
    Anzi, fanno rimpiangere le vecchie primarie, che pure in Calabria ci si sforzava di celebrare. E non diamo la colpa al Covid, che impedirebbe l’organizzazione di seggi aperti al pubblico: il Pd, quando si impegna, riesce ad essere più virulento della pandemia.

  • Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Era una regina del Tirreno, bella e capricciosa. Dal dopoguerra ai primi anni ’80, quando Paola e Torremezzo ne presero il posto, Amantea era anche la spiaggia dei cosentini, che vi arrivavano in tre quarti d’ora attraverso la vecchia, scassatissima “via del mare”, che passa per Potame, alle pendici del Monte Cocuzzo. Ancora: Amantea, specie negli anni ’70, era piuttosto “avanti”: parrebbe che Coreca, al riguardo, vanti il primato dei primi topless, esibiti con generosità, va da sé, dalle “forastìere”.
    La mafia? C’era senz’altro, ma era poca cosa: fece giusto scalpore, il 13 maggio 1981, il triplice omicidio di Francesco Africano, Emanuele Osso e Domenico Petrungaro, avvenuto nel contesto – particolarmente tragico – della guerra tra i clan Perna-Pranno e Pino-Sena.

    Ma il grasso colava e copriva molte cose, comprese alcune forme di sviluppo urbanistico, iniziate prima della “legge Galasso” ma che dopo sarebbero state censurate, più che dagli uomini dalla natura: ci si riferisce al lungomare, costruito attorno alla vecchia “rotonda”, e all’urbanizzazione della costa nei pressi della foce del fiume Oliva e di Campora San Giovanni. Su queste opere, va detto, sarebbe piombata la vendetta del mare, nella duplice forma delle ondate e dell’erosione, che, in particolare, ha divorato un bel tratto della scogliera di Coreca.
    Ma il presente di Amantea va oltre le peggiori dietrologie. La regina, dopo essere stata detronizzata, ha le rughe.

    Le rughe della regina

    Queste rughe sanno più di malattia che di fisiologico invecchiamento. Lo rivela il decreto con cui, il 30 giugno 2021, la Presidenza della Repubblica ha deciso di prorogare su indicazione del prefetto di Cosenza, il commissariamento della cittadina tirrenica.
    Un dato colpisce in maniera particolare: insediatisi nel 2020, i commissari prefettizi erano riusciti sì e no ad approvare i rendiconti del 2016 e del 2017, relativi cioè all’ultima fase dell’amministrazione Sabatino, e si redigono tuttora i rendiconti del biennio successivo.
    I risultati di questa prima, importante attività finanziaria sono già micidiali: certificano un debito che oscilla tra i 27 e i 30 milioni di euro. Su scala, queste cifre ricordano non poco il dissesto di Cosenza. Vediamo come.

    Il municipio di Amantea
    Il municipio di Amantea

    Amantea, che ha circa 13mila e rotti abitanti, dovrebbe pareggiare il Bilancio con più o meno 12 milioni di euro. Ciò basta a far capire come il debito, gestibile o fisiologico in città più grandi, possa risultare micidiale e quindi ripiombare la città nel dissesto.
    Il problema, come per il capoluogo, è soprattutto il mancato incasso dei tributi comunali, relativi alla rete idrica, alla Tari e alla Tasi, che sfiora percentuali da capogiro, che si attestano attorno al 60%.
    Ma c’è di peggio: molti esercenti e residenti non ricevono le tasse da circa due anni e tutto lascia pensare che il default, il secondo in meno di 10 anni sia un’ipotesi quasi certa.
    Di fronte a questo disastro, la ’ndrangheta, che pure c’è e condiziona tantissimo, potrebbe non essere il male principale.

    Tutto mafia è?

    La prima emersione giudiziaria dei retroscena amanteani è nell’ordinanza di “Omnia”, la maxi operazione antimafia condotta nel 2007 dalla Dda contro i Forastefano di Cassano. Cosa curiosa per un’inchiesta gestita dai Carabinieri del Ros, il nome di Franco La Rupa, all’epoca dei fatti (2005) sindaco di Amantea, vi appare grazie a una velina della Digos, che lo tampinava da tempo: secondo i poliziotti, La Rupa trescava con Antonio Forastefano, detto “il Diavolo”, per ottenerne l’appoggio nelle Amministrative regionali a cui partecipava in quota Udeur.

    Franco La Rupa
    Franco La Rupa

    In seguito alle accuse di Omnia, La Rupa finì in galera e subì un procedimento che, tra vicende alterne, è terminato nel 2018 con la sua condanna definitiva a cui è seguita l’interdizione dai pubblici uffici e l’applicazione della sorveglianza speciale.
    I problemi di La Rupa non finiscono qui: nel 2007 l’ex sindaco finì in un altro guaio grosso, assieme a un suo ex sodale, Tommaso Signorelli, suo compagno di avventura fino al 2004. Ci si riferisce all’operazione “Nepetia”, in cui era emersa l’eccessiva vicinanza dei due amministratori al boss Tommaso Gentile.

    Per amor di verità, occorre ricordare che La Rupa e Signorelli sono risultati prosciolti dal processo Nepetia. Ma ciò non è bastato, evidentemente, al Prefetto e alla Commissione d’accesso, che menzionano i due a più riprese nella relazione inviata al ministro dell’Interno sulla base di un assunto: la loro vicinanza ai clan resterebbe comunque provata, anche a dispetto delle assoluzioni. Di più: a dispetto degli “omissis” La Rupa e Signorelli restano riconoscibilissimi, anche perché i loro nomi sono associati alle ultime elezioni amministrative, svoltesi nel 2017, in cui entrambi hanno avuto ruoli di primo piano. Signorelli come candidato sindaco e La Rupa come organizzatore della lista civica di Mario Pizzino, risultato vincitore e poi commissariato.
    Lo diciamo con tutto il garantismo possibile: quando la polvere è troppa, non la si può più nascondere.

    Il disastro che viene dal passato

    A settembre è franata una strada che collega il centro storico di Amantea alla marina. E non è stato possibile intervenire in alcun modo, anche perché il municipio era già con le pezze al sedere: sono rimasti otto funzionari, tre dei quali prossimi alla pensione e uno “a scavalco”, cioè che lavora non solo per Amantea. Il grosso dei servizi è appaltato, inoltre, a cooperative e aziende esterne e i fondi scarseggiano.
    Il grande buco finanziario emerge tra il 2016 e il 2017, quando salta la maggioranza della sindaca Monica Sabatino, sostenuta dal Pd e vicina a Enza Bruno Bossio, e il Comune finisce in commissariamento.

    Monica Sabatino
    Monica Sabatino

    La sindaca Sabatino, tra l’altro figlia dello storico ragioniere del municipio, non presenta la relazione finale del suo mandato. Ciò spiega il successivo immobilismo di Pizzino, che scarica agevolmente ogni responsabilità sui predecessori. E spiega come mai i conti di Amantea somiglino un po’ troppo a quelli dell’Asp di Reggio Calabria. Cioè risultino misteriosi e, in buona parte “orali”. Ma il disastro risulta enorme e ha più responsabili. Soprattutto, non può essere imputato alla sola Sabatino e al solo Pizzino.
    Occorre un ulteriore passo indietro. Cioè al dramma politico e alla tragedia umana di Franco Tonnara.

    Morire col tricolore

    Tonnara è il classico sindaco del “dopo”. È stato l’amministratore che si è dovuto far carico del post La Rupa. Proveniente anche lui dalla Dc, Franco Tonnara si candida nel 2006 contro una coalizione guidata dal superbig ex scudocrociato Mario Pirillo e da La Rupa. Vince ma paga dazio: nella sua giunta c’è Tommaso Signorelli, già sodale dell’ex sindaco. Come già accennato, Signorelli finisce nell’inchiesta Nepetia e il Comune subisce lo scioglimento nel 2008.

    Per fortuna dura poco: l’anno successivo Tonnara e i suoi vincono il ricorso al Consiglio di Stato e vengono reintegrati con tante scuse e un cospicuo risarcimento. La giunta Tonnara si ripresenta nel 2011 e rivince a man bassa. Ma l’ebrezza dura poco, perché il sindaco muore poco dopo di un brutto tumore allo stomaco e Amantea torna al voto nel 2014, dopo tre anni di reggenza del vicesindaco Michele Vadacchino. Vince la Sabatino e tutto il resto è storia nota. O quasi.

    Coppole e debiti

    Potrebbe essere una scena degna di un film di Cetto La Qualunque: durante la campagna elettorale del 2017, Pizzino ringrazia dal palco Franco La Rupa. La Rupa, spiega la relazione del prefetto, si sarebbe dato dato un gran da fare per organizzare la lista che porta Pizzino alla vittoria. Anzi, si è dato da fare un po’ troppo: la lista si chiama “Azzurra”, proprio come le liste che ha organizzato nei suoi anni d’oro. Ancora: nell’aiutare a compilarla, l’ex sindaco non sarebbe andato troppo per il sottile. Infatti, pende a suo carico un’inchiesta per intimidazione, in cui è rimasto coinvolto anche Marcello Socievole, un consigliere di maggioranza costretto alle dimissioni nel 2018.

    Mario Pizzino
    Mario Pizzino

    Tuttavia, questi non sono i problemi principali, perché, come si apprende ancora dalla relazione del Prefetto, il Bilancio resta un’entità virtuale e il Comune continua a non incassare. In particolare, varie aziende e cooperative non pagano i tributi. A scavare un po’ più a fondo, ci si accorge che in alcune di queste lavorano o hanno ruoli importanti persone imparentate con i boss di Amantea e altri personaggi, legati a loro volta ai clan di Lamezia e Gioia Tauro.

    Non è il caso di approfondire oltre, perché si rischia di scrivere intere pagine di storia criminale. Che però non basterebbero a spiegare perché una cittadina una volta ricca e aperta sia finita in un declino così profondo e, probabilmente, con poche vie d’uscita.
    La ex regina si prepara al voto per la prossima primavera. Ancora non è dato capire chi si sacrificherà per sanare un disastro nato in lire a fine ’90 e poi esploso in euro.
    Nel frattempo, il territorio è presidiato in continuazione dai Carabinieri ed è pieno di poliziotti in borghese. Come se non bastasse, gli elicotteri dell’Arma sorvolano di continuo la città, che sembra vivere un paradossale coprifuoco.
    Gli anni ’80 sono lontani e irrecuperabili. Ma, in queste condizioni, anche la normalità sembra un miraggio.

  • Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    «Massone e me ne vanto!». Così, all’indomani dell’affaire P2, mentre le istituzioni erano ancora scosse dalla scoperta dell’elenco sequestrato a Licio Gelli, Costantino Belluscio, allora deputato del Psdi, gelò Montecitorio.
    Dato assai particolare, Belluscio figurava iscritto in massoneria a Roma (dove risiedeva e dove aveva fatto una carriera notevole al fianco di Giuseppe Saragat, di cui era l’uomo ombra) e non nella sua Calabria, dov’era sindaco di Altomonte.

    Quanti erano i calabresi iscritti alla P2? Dalle liste esaminate dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi, ne risultano tredici, oltre Belluscio. Sono tutti professionisti senza ruoli di primo piano: il catanzarese Carmelo Cortese, i cosentini Paolo Bruno, Antonio Cangiano, Antonio Messina, Italo Aloia, Domenico Fiamengo e i reggini Domenico De Giorgio, Franco Morelli, Carlo Satira, Giuseppe Strati, Aurelio Tripepi, Umberto Giunta, Giuseppe Arcadi.

    L’affaire Loizzo

    L’unica “vittima” calabrese dello scandalo P2 fu il cosentino Ettore Loizzo, che già all’epoca era massonissimo, ma non piduista. Loizzo, di cui era più che nota l’appartenenza alla Libera Muratoria, aveva anche un ruolo importante nel Pci, per conto del quale fu consigliere comunale a Cosenza. La sua è una vicenda nota, riemersa di recente in seguito alla riedizione di Confessioni di un gran maestro (Cosenza, Pellegrini 2021), il libro contenente l’intervista dell’ex gran maestro aggiunto del Goi al giornalista Francesco Kostner.

    Ettore Loizzo
    Ettore Loizzo

    Loizzo fu costretto ad abbandonare il Partito comunista da Fabio Mussi, che all’epoca era segretario regionale del partito di Berlinguer e subì la pressione fortissima, politica e mediatica, di Italo Garraffa, che allora guidava la sezione cosentina del Pci.
    Al riguardo, occorre ricordare che lo Statuto del Partito comunista dell’era Berlinguer non contemplava (a differenza di quelli della Dc, del Msi e del Psi) alcuna incompatibilità tra appartenenza alla massoneria e militanza comunista.
    Anche per questo motivo, il venerabile calabrese rilasciò alcune dichiarazioni pesanti, che alludevano a un soggetto ben preciso: la ’ndrangheta.

    A proposito di Paul Getty

    «Data la mia posizione massonica, in circostanze particolari, i dirigenti del mio ex partito spesso mi hanno chiesto una mano», affermò Loizzo nell’intervista-fiume. E precisò: «Fui contattato in occasione del rapimento del giovane Paul Getty. Le indagini, secondo gli investigatori, portavano in Calabria: una pista che venne seguita anche con il contributo della massoneria».

    John Paul Getty III
    John Paul Getty III

    Non è dato sapere cosa sia riuscito a fare di concreto Loizzo nell’affaire Getty. Ma una sua frase sibillina chiarisce alcuni punti: «Se si sforzasse di pensare alle ramificazioni della nostra Istituzione, in Calabria come in ogni altra parte d’Italia, e quindi alla rete di contatti sulla quale, attraverso i Fratelli, essa è in grado di contare…». Non serve aggiungere altro. Per il momento.

    Il segreto di Pulcinella

    Un dettaglio fa pensare che molte cose della P2 siano il classico segreto di Pulcinella. Infatti, a Licio Gelli si dedicò molto il giornalista dell’Espresso Roberto Fabiani, che scrisse nel ’78 I Massoni in Italia, un libro dossier pieno zeppo di informazioni e di imbeccate, ricevute da un piduista assai particolare: l’ex capo dell’Ufficio affari riservati Federico Umberto d’Amato.

    L’inchiestona di Cordova

    Torniamo alla Calabria e veniamo al presente. Pochi mesi fa il Tribunale civile di Reggio Calabria ha rigettato una richiesta di risarcimento danni avanzata dall’ex procuratore capo di Palmi Agostino Cordova nei confronti del Grande Oriente d’Italia.
    Il fatto, in sé secondario (il Tribunale si è limitato a ritenere legittime le critiche fatte dal gran maestro Stefano Bisi all’operato di Cordova), ha riaperto vecchie polemiche mai sanate sull’inchiesta che, a inizio anni ’90, scosse la Calabria e fece tremare l’Italia.
    Ciò che resta di quest’inchiesta, finita praticamente in nulla, è una mole enorme di materiali informativi. E di nomi, che tuttora girano in rete.

    Stefano Bisi
    Stefano Bisi
    La Calabria che conta(va)

    Nel 1992, quando Tangentopoli non era ancora scoppiata e mentre la mafia alzava il tiro della sua sfida allo Stato, l’indagine di Cordova finì sulla stampa d’inchiesta e di controinformazione.
    Un dossier di Franco Giustolisi, pubblicato dall’Espresso il 22 novembre di quell’anno, traboccava di nomi che contavano. Si parla dei superbig democristiani Riccardo Misasi, Bruno Napoli e Leone Manti. Ma soprattutto, si parla di socialisti, molti dei quali hanno tuttora ruoli importanti nella vita politica calabrese: Sandro Principe, Saverio Zavattieri e Leopoldo Chieffallo.

    Agostino Cordova
    Agostino Cordova

    Questi e altri nomi furono “cantati” a Cordova da Angelo Monaco, un medico socialista di San Mango d’Aquino e destarono una fortissima impressione. Soprattutto perché l’inchiesta di Palmi riprendeva il filone dei rapporti “proibiti” tra mafia e massoneria.
    Quello dell’Espresso non fu il solo dossier: anche Avvenimenti (un settimanale nato dall’esperienza dell’Ora di Palermo, di cui ereditava la redazione) aveva pubblicato, circa un mese prima, una lunga requisitoria di Laura Cortina e Michele Gambino sulle disavventure del dottor Monaco, da cui prese il via l’inchiestona.

    Il tritacarne

    In ritardo storicamente su tutto, la Calabria rischiava di anticipare Tangentopoli. L’inchiesta di Cordova, a ripercorrerla col senno del poi, sembrava guardare in due direzioni. Da un lato, con la sua affannosa ricerca dei legami tra logge e ’ndrine, il procuratore di Palmi ripercorreva itinerari fatti negli anni precedenti dai magistrati siciliani e dalla Commissione d’Inchiesta sulla P2. Dall’altro lato, tuttavia, l’inchiesta sulla presunta massomafia si proponeva come raccordo di altre operazioni giudiziarie pesantissime. Ci si riferisce all’assassinio di Ludovico Ligato, all’inchiesta sulle tangenti a Reggio, in cui fu coinvolto Manti, e ad altri affari poco chiari, che finirono in nulla.

    Sandro Principe
    Sandro Principe

    Così fu per Riccardo Misasi, nei confronti del quale la Procura di Reggio chiese l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso e corruzione. E così fu per Sandro Principe, all’epoca sottosegretario dei governi Amato e Ciampi, che venne indagato da Cordova per presunti brogli elettorali a suo favore nella Piana di Gioia Tauro. Nel caso di Principe, la vicenda assunse toni grotteschi: la Camera negò a ripetizione la richiesta di autorizzazione a procedere di Cordova e la stessa Procura di Palmi propose alla fine l’archiviazione. Anche sulla base di una considerazione: Principe aveva preso pochissimi voti nella Piana. Solo un fesso, cosa che l’ex sottosegretario non è, si sarebbe esposto per un bottino così magro. Analoghi risultati giudiziari per Misasi: rifiuto dell’autorizzazione a procedere e quindi archiviazione.

    Niente grembiuli per i big?

    E l’appartenenza dei due big alla massoneria? Non risulta dalle carte giudiziarie né dagli elenchi sequestrati al Goi, alcuni dei quali continuano a girare in rete. Stesso discorso per Saverio Zavettieri, che di massoneria non ha mai parlato. L’unico ad avere un ruolo confermato in massoneria è Chieffallo. Ma questa militanza non è collegata a nessuna ipotesi giudiziaria. Restano le dichiarazioni di Monaco, seppellite nelle macerie dell’inchiesta.

    Torniamo a Loizzo. Il venerabile cosentino, si trovò al vertice del Goi in qualità di “reggente” assieme a Eraldo Ghinoi dopo che il gran maestro Giuliano Di Bernardo, altro superconfidente di Cordova, aveva mollato il Goi per fondare la Gran Loggia Regolare d’Italia. Di Bernardo, proprio qualche anno fa, si prese una vendetta postuma nei confronti di Loizzo. L’ex gran maestro del Goi, aveva dichiarato che Loizzo gli avrebbe confidato che su 32 logge calabresi ben 28 sarebbero state infiltrate dalla ’ndrangheta. Ma un ex notabile del Goi ha smentito queste dichiarazioni: è il cosentino Franco Chiarello, che all’epoca della reggenza di Loizzo era segretario regionale del Goi e adesso è animatore della Federazione delle Logge di San Giovanni, una comunione massonica indipendente.

    Giuliano Di Bernardo
    Giuliano Di Bernardo

    «Consultai più volte gli elenchi e posso dire di non avervi mai trovato nomi sospetti». E ancora: «Come mai Di Bernardo ha parlato solo 25 anni dopo quell’inchiesta e a cinque anni di distanza dalla scomparsa di Loizzo?». Infine: «Loizzo non stimava affatto Di Bernardo, anzi: lo trovava poco affidabile e antipatico. Perché avrebbe dovuto fargli quelle confidenze?».
    Interrogativi senza risposte anche questi. Ma probabilmente il “mistero” massonico è fatto di questi e altri equivoci, che si trascinano da un decennio all’altro e da inchiesta a inchiesta.

  • Il diplomatico di Amantea che impedì la guerra Italia-Usa

    Il diplomatico di Amantea che impedì la guerra Italia-Usa

    Quella di Francesco Saverio Fava è una memoria in bilico. Innanzitutto, tra due città: Salerno, dove nacque, e Amantea, dove la sua famiglia affondava le radici ed è legata a una vicenda forte, in cui la storia locale finisce nella grande storia: la resistenza antinapoleonica della cittadina tirrenica, rimasta fedele ai Borbone fino all’ultimo.

    Inoltre, il barone Fava fu in bilico tra due sistemi politici: la monarchia amministrativa del Regno delle Due Sicilie, dove iniziò la sua carriera di diplomatico come console, e quella costituzionale del Regno d’Italia, in cui fu “ripescato” dalla nuova élite e destinato a sedi diplomatiche allora secondarie: tra queste, gli Usa, all’epoca considerati una potenza non “di rango”.

    Eppure, grazie a questo incarico, il nobile calabrese diventò un personaggio di primo piano nella scena internazionale di fine ’800. Non solo creò quasi da zero l’ambasciata italiana negli Usa, ma fu protagonista di una vicenda terribile, che portò i due Paesi sull’orlo della guerra. Parliamo del pogrom di italiani compiuto a New Orleans nel 1891.

    Amantea-Fava-i-calabresi
    Il diplomatico italiano originario di Amantea, Francesco Saverio Fava
    Antefatto: gli eroi dei Borbone

    Difficile capire se gli antenati di Fava  si misero alla testa della resistenza di Amantea per fedeltà ai Borbone o per difendere i privilegi che i re di Napoli avevano assicurato alla città e quindi a loro stessi. A questo interrogativo non fornisce risposta neppure Il barone persistente, l’unica biografia del diplomatico calabrese, scritta da Alberto Fava (“Il barone persistente”, Amantea, Carratelli 2019), un suo discendente.

    Fatto sta che il barone Giulio Cesare Andrea, lo zio di Francesco Saverio, e sua moglie Laura Stocchi Procida, si misero alla testa della difesa del piccolo comune costiero di Amantea, assediato dalle truppe napoleoniche nel 1806. Particolarissimo fu il ruolo della baronessa, che più volte guidò i suoi contadini all’assalto delle truppe francesi: una specie di amazzone, che caricava a cavallo alla testa dei suoi seguaci.
    Amantea capitolò nel 1807 e i Fava furono espropriati.

    Ferdinando IV di Borbone

    Al ritorno di Ferdinando IV, ’o Re Nasone, i Fava ricevettero in premio l’ingresso nell’alta burocrazia del Regno. In particolare, Francesco Fava, il papà del futuro diplomatico, ottenne la nomina di direttore del Fondaco dei Sali del Principato di Salerno. E, in seguito, quella di direttore generale delle Finanze della Calabria Citra (l’odierna provincia di Cosenza).
    Facciamo un salto in avanti, nel tempo e nello spazio, e spostiamoci negli Usa.

    Amerikan pogrom

    È il 14 marzo 1891. A New Orleans si raduna una folla di 12mila persone, aizzata dall’avvocato Parkenson, assistente del sindaco Joseph Shakespeare, e si dirige verso la prigione. Lì sono in attesa di essere scarcerati 11 italiani, prosciolti dall’accusa di aver assassinato il capo della polizia, il discusso David C. Hennessy.

    L’assalto contro gli italiani a New Orleans in una stampa d’epoca

    La “marmaglia”, come l’avrebbe definita il console italiano della capitale della Louisiana, sfonda il portone posteriore del penitenziario e lincia gli undici “dagos”, che è il nomignolo spregiativo affibbiato dagli americani wasp ai migranti “latini”, soprattutto agli italiani del Sud. Il massacro di New Orleans è il più grave dei 22 casi di linciaggio subiti dai migranti italiani nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Ma stavolta il massacro non resta senza risposte, politiche e diplomatiche. Di cui si incarica il barone Fava.

    Un diplomatico in prima linea

    Fava era arrivato negli States come ministro plenipotenziario, dopo aver fatto una gavetta molto dura. A differenza dei colleghi settentrionali, lui aveva scontato sulla propria pelle il pregiudizio dell’élite del nuovo Regno nei confronti dei funzionari ex borbonici.
    Tuttavia, questo “trattamento” non proprio di favore aveva consentito all’aristocratico di Amantea di farsi onore con la gestione di situazioni difficili e di essere testimone oculare di avvenimenti importanti, tra cui la nascita della Romania.

    Il primo contatto del barone col nuovo mondo fu l’Argentina. Lì il diplomatico toccò con mano le difficoltà in cui versavano i migranti italiani, oggetto di pregiudizi e spesso vittime di violenze e massacri, a cui le autorità quasi non si opponevano. In questo caso, Fava escogitò una soluzione: l’uso di corvette italiane sulle grandi tratte rurali, ad esempio il rio Paranà, senz’altro per tutelare le comunità italiane in occasione delle troppe rivolte antigovernative che tormentavano il Paese sudamericano. Ma anche come suasion nei confronti di malintenzionati…
    Negli States la situazione era in parte simile a quella sudamericana. Ma solo in parte, perché il vero ostacolo a una tutela efficace dei migranti era nella Costituzione.

    Il linciaggio degli italiani a New Orleans
    Un cavillo coi crismi

    Gli Usa, a livello formale, si erano impegnati con l’Italia alla tutela dei migranti nel 1871 con un importante trattato internazionale. Ma questo trattato impegnava solo lo Stato federale, che, secondo la Costituzione americana, non poteva intervenire negli affari giudiziari e nella normativa penale degli Stati membri. Morale: lo Stato della Louisiana poteva insabbiare, come in effetti stava facendo. E la Federazione, che pure si era impegnata a tutelare gli italiani, non poteva farci nulla. Né forse voleva del tutto. Il meccanismo dei “grandi elettori” e il sistema elettorale del Senato, entrambi basati sui singoli Stati, condizionavano non poco le dinamiche politiche dell’amministrazione centrale.

    La situazione era avvitata: le autorità giudiziarie della Louisiana affermavano di non riuscire a identificare con precisione i colpevoli e la Federazione non poteva svolgere inchieste autonome perché non poteva violare la Costituzione. L’unica offerta americana fu il risarcimento di 2mila dollari a ciascuna famiglia delle vittime.
    Un “prezzo del sangue” giudicato irricevibile sia dal barone di Amantea e diplomatico sia dal marchese Antonio Starabba di Rudinì, il presidente del Consiglio dell’epoca. E così si arrivò alla rottura diplomatica.

    Antonio Starabba di Rudinì è stato presidente del Consiglio alla fine dell’Ottocento
    Venti di guerra

    Fava fu richiamato a Roma il 14 aprile 1891. Il ritiro dell’ambasciatore, nel vecchio diritto internazionale, anticipava spesso qualcosa di peggio: la dichiarazione di guerra. E in effetti in Italia la stampa vicina a Francesco Crispi – ex presidente del Consiglio e quindi avversario di Rudinì – propose atti di forza militare, attraverso l’invio della Regia Flotta per cannoneggiare le coste della Louisiana.

    Oggi l’ipotesi fa sorridere, ma all’epoca era tutt’altro che campata in aria. Gli Usa, usciti da una sanguinosa guerra civile, erano praticamente disarmati: il loro esercito era costituito da 128mila soldati regolari, la loro flotta da 3 navi da battaglia, tra l’altro obsolete. L’Italia, al contrario, era armata fino ai denti, con un esercito di 2 milioni e 400mila unità e una flotta di 11 navi da guerra completamente messe a nuovo. I presupposti per la “guasconata” c’erano.

    Né l’Italia né gli States volevano arrivare a tanto. Infatti, fu attivato subito un canale diplomatico informale, gestito con grande abilità proprio da Fava, per trovare una via d’uscita accettabile per entrambe le parti. Harrison risarcì i parenti delle vittime, ma a titolo “personale” (cioè pescando dall’appannaggio della Casa Bianca), chiese scusa all’Italia e alle comunità italoamericane e impegnò formalmente gli Usa ad approvare una legislazione speciale per la tutela dei migranti. L’Italia, a sua volta, ottenne un potenziamento della propria rete consolare negli States.

    Benjamin Harrison è stato il 23esimo presidente degli Stati Uniti
    Il ritorno in Patria

    Fava rientrò in Italia nel 1901 e lasciò la diplomazia dopo aver tentato invano di ottenere una sede in Europa. In compenso, entrò in Senato per nomina regia. Inutile dire che i problemi degli italiani all’estero furono il suo pallino. Morì nel 1913.
    Gli Usa non approvarono alcuna modifica della Costituzione per intervenire nelle giurisdizioni locali fino agli anni ’60, quando i problemi dell’apartheid erano diventati ineludibili. Ma la questione dell’immigrazione fu sbrigata in parte attraverso leggi speciali e in parte si risolse da sé, grazie all’integrazione spontanea dei “dagos”.

  • Alarico? Folklore che non funziona per fare business

    Alarico? Folklore che non funziona per fare business

    Il tentativo dell’amministrazione Occhiuto di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli un museo virtuale non ha funzionato, come ribadiscono anche alcune disavventure amministrative non proprio leggere. L’attuale sindaco Franz Caruso, ha dichiarato di preferire Telesio al re barbaro, mettendo probabilmente una pietra tombale su tutta la vicenda.

    In Alarico la storia universale si mescola a quella locale, com’è avvenuto a Cosenza, dove il re goto sarebbe morto di malaria e quindi, sarebbe stato sepolto nel letto del fiume Busento, deviato per l’occasione, come tramanda la bella poesia di August von Platen.
    Ma il dibattito, anche acceso, esploso sui social prova anche che Alarico continua a “fare immaginario”. Abbiamo chiesto al famoso storico del Medioevo, Franco Cardini, cosa ne pensa della questione Alarico.

    Quanto c’è di vero o di verosimile in questa leggenda?

    «Quanto ci sia di vero non è mai stato accertato. La verosimiglianza è valutabile in relazione a usanze funebri variamente attestate in ambito tanto celtogermanico quanto uraloaltaico (specie le sepolture equestri)».

    Assieme ad Alarico e al suo cavallo sarebbe stato seppellito il tesoro razziato dai visigoti a Roma. Esiste davvero questo tesoro?

    «Sepolture principesche caratterizzate da ricchi e preziosi corredi sono attestate. Per quanto Alarico fosse cristiano ariano, è probabile che, dato il suo rango principesco, le antiche tradizioni folkloriche gote fossero in qualche modo rispettate. Quella del “tesoro” razziato a Roma e sepolto nell’alveo del Busento sembra avere tutti i caratteri della leggenda folklorica».

    A Cosenza si è tentato di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli, addirittura, un museo virtuale. Queste operazioni “simboliche” possono avere un senso? E, se sì, quale?

    «Credo che, più che “simbolica”, l’iniziativa in questione dipenda in parte dalla prospettiva di costruirvi sopra un business e in parte dalla speranza che tutto ciò costituisca uno scoop. Ora, business e scoop hanno senza dubbio entrambi un senso e uno scopo nella società attuale. In questo caso, tuttavia, parliamo di un problema “simbolico”: simbolico di che? Simbolico a che scopo? L’Alarico-“barbaro” e l’Alarico-“eroe” sono entrambe dimensioni scarsamente spendibili oggi a livello mediatico, a meno d’introdurvi al riguardo criteri di “radicamento” e di “identità” oppure, al contrario, di cancel culture, che mi parrebbero entrambi sciocchi e inopportuni».

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    La gaffe sul tesoro di Alarico diventato di “Talarico” nel totem della Regione Calabria
    Veniamo al punto centrale: barbaro distruttore per molti, figura eroica per altri. A quale di questi schemi corrisponde Alarico?

    «Si tratta, appunto, di schemi valutativi: per giunta di carattere etico-retorico, soggetti ai cambiamenti di interpretazione delle vicende storiche e alle corrispondenti tavole di valori».

    Non parliamo di un problema storico, insomma. Il sacco visigotico dell’Urbe fu un evento traumatico, considerato da tanti come il colpo letale all’impero e alla civiltà romane. Tuttavia, Alarico è considerato quasi un papà della patria da tedeschi e spagnoli. Come mai questa ambivalenza?

    «Anche la valutazione da dare dell’evento del 410 deve essere spogliata da qualunque valore retorico o simbologico se si vuol darne una lettura storica. In realtà, ai primi del V secolo Roma aveva largamente perduto il suo carattere di centro politico e militare, mentre anche sul piano religioso il suo vescovo non aveva ancora la funzione che avrebbe avuto più tardi. Peraltro quella di Alarico fu più un’occupazione transitoria che un vero e proprio sistematico saccheggio (ben più grave sarebbe stato l’evento del 1527). La “paternità patria” di Alarico per tedeschi e spagnoli, a sua volta molto relativa, riguarda i secoli XVIII-XIX, quando questi valori venivano più densamente espressi».

    Sempre a proposito di mito: i nazisti subirono la fascinazione di Alarico. Al punto che Himmler inviò degli agenti in Calabria per trovare le tracce della leggenda. 

    «Tutto va naturalmente riferito alla mitologia politica filobarbarica e postromantica che alcuni ambienti del governo e delle organizzazioni culturali nazionalsocialiste favorivano, con una buona dose di medievalismo wagneriano. Come in altri casi (l’interesse per il buddhismo-induismo che condusse a spedizioni antropologiche tra India e Himalaya, e quello per il catarismo, che comportò indagini nell’area pirenaica di Montségur), l’interesse nazista per il germanesimo – e quindi la rivendicazione di tutto quel che apparisse “germanico” – non condusse a esiti specifici sotto il profilo scientifico: nulla di paragonabile, ad esempio, rispetto al rapporto tra fascismo e romanità in tutti i loro aspetti. Tuttavia, nell’àmbito dell’organizzazione di ricerche archeologico-antropologiche della società Ahnenerbe (“Eredità degli avi”), sostenuta con forza dagli alti comandi delle SS, alcuni studi furono seri e interessanti: basti al riguardo il nome del grande Franz Altheim, che vi collaborò».

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    La brochure del Comune di Cosenza destinata ai turisti con la contestatissima foto di Himmler
    Il tardo antico è un periodo storico suggestivo, carico di contraddizioni, come tutte le fasi di passaggio. È possibile esprimere un giudizio equilibrato sui capi barbari, più o meno romanizzati, che ne furono protagonisti?

    «Tutte le fasi storiche sono, per un verso, “di passaggio”; e, per un altro, sono “convenzionali”, appartengono cioè più ai dibattiti storiografici che non alle realtà storiche effettive. I “capi barbari” in contatto con l’impero romano vanno pertanto considerati anzitutto appunto nel loro rapporto con una realtà dinamica caratterizzata però da grande flessibilità (basta pensare all’intelligenza, all’apertura e alla sensibilità con la quale l’impero guardava ai culti religiosi: se e quando in tale àmbito vi furono scontri, ciò va fatto risalire al rigore inflessibile di alcuni di quei culti, non all’incomprensione o al fanatismo romani che in genere non c’erano).

    I capi barbari in contatto con l’impero furono molto spesso personaggi eccezionali, di grande intelligenza, in grado di mantenere la loro identità e di adattarla alle esigenze di un dialogo portatore di nuove sintesi. Casi come quelli di Ezio, di Stilicone, di Ataulfo, di Odoacre, di Teodorico, di Clodoveo, di Rotari, di Liutprando, sono per intelligenza, per lungimiranza, per cultura, la regola anziché l’eccezione. All’estremità di questo percorso c’è Carlomagno».

    Dovrebbe essere sfatata l’idea dei barbari come “distruttori”?

    «Dovrebbe senza dubbio: se tale idea esistesse o fosse mai esistita sul serio. In realtà, la “tesi” incolta e patriottarda dei “barbari germanici” quali distruttori dell’impero (che non a caso fa il paio con l’altra altrettanto ridicola e assurda, quella anticlericale del cristianesimo e dei cristiani come causa della decadenza e della caduta dell’impero romano) non è mai stata sostenuta sul serio da nessuno studioso valido, a parte qualche boutade spinta da esponenti dell’illuminismo più screditato e scadente: appartiene al sottobosco delle idee veicolate da dilettanti semicolti nell’ambito di una sottocultura-pseudocultura che è dura a morire proprio perché è troppo labile per uscire allo scoperto e confrontarsi in modo qualificato con la critica scientifica seria».

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    Particolare della statua di Alarico a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perciò, non avendo mai prodotto nulla di serio e d’interessante, questa pseudocultura non è mai stata neppure degnata di una confutazione approfondita e sistematica. Ma, dal momento che non ha mai influito su nulla di scientificamente apprezzabile, riemerge di continuo a livelli di sostanziale ignoranza. Purtroppo la frana progressiva – e quindi la caduta a picco del tono culturale medio della società occidentale in genere, italiana in particolare, tipico degli ultimi decenni – ha finito col fornire un’autorevolezza specie mediatica del tutto fittizia e gratuita a solenni sciocchezze o addirittura a ridicole idiozie che hanno purtroppo libertà di diffondersi liberamente nei vari canali dei social. La falsa cultura acriticamente presa sul serio è una delle funzioni principali dell’analfabetizzazione della società in corso».