Autore: Saverio Paletta

  • Il mondo della cultura piange la morte di Vittorio Daniele.

    Il mondo della cultura piange la morte di Vittorio Daniele.

    Certi mali non avvisano quasi mai. E forse, nella disgrazia che ha colpito Vittorio Daniele, questo è stato l’aspetto meno sciagurato.

    Ma è un dettaglio che non sminuisce di un milligrammo il peso della perdita né ridimensiona di un millimetro il vuoto che l’economista calabrese lascia con la sua scomparsa improvvisa e prematura, a soli 54 anni.

    Vittorio Daniele: un calabrese di spessore

    Professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro, Daniele è stato, per riprendere un termine abusato sino a non troppo tempo fa, il classico esempio di intellettuale glocal. Uno studioso legato senz’altro al territorio e profondo conoscitore delle sue caratteristiche e problematiche. Ma capace – proprio a partire da queste – di riflessioni, analisi ed elaborazioni teoriche di grande respiro.

    Senz’altro sui grandi problemi dell’economia, ma anche sugli aspetti di questa disciplina che toccano la quotidianità più spicciola. 

    Ma il meglio il prof della Magna Graecia l’ha dato sul Sud e sulla Questione Meridionale, verso i quali ha risvegliato l’interesse e le passioni grazie a un approccio originale, poco politicizzato e molto rigoroso a livello scientifico.

    Per esemplificare: Vittorio Daniele ha ripreso la riflessione sul Mezzogiorno e i suoi ritardi dove il grande storico siciliano Giuseppe Giarrizzo l’aveva lasciata nell’interessante (ma anche criticatissimo) Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere (Marsilio Venezia 1992).

    Laddove il grande siciliano smussava angoli e affogava le peculiarità meridionali nei numeri e nelle statistiche, il brillante calabrese riprendeva queste e quelli, per dimostrare la vera cifra dei guasti meridionali: l’infelice posizione geografica.

    Già: la tragedia del Sud è tutta nella sua condizione di penisola affogata in un mare, il Mediterraneo, marginalizzato dal progresso e sempre più lontano dalle aree in cui si sviluppa e, ciò che più importa, si distribuisce la ricchezza.

    Queste zone, che iniziano da Milano e culminano nella City di Londra, hanno un nome: Blue Banana. Niente doppisensi, gastronomici o di altro tipo: il nomignolo deriva dalle foto satellitari notturne, che dimostrano come queste zone siano le più illuminate al mondo. Ma andiamo davvero con ordine.

    La marginalità come destino

    Il core del Daniele-pensiero sta in due notevoli volumi: Il divario Nord-Sud in Italia (2011), scritto assieme a Paolo Malanima, e Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (2019), entrambi editi da Rubbettino. Più in una nutrita serie di articoli scientifici, che hanno animato una brillante polemica con un altro brillante economista meridionale: l’abruzzese Emanuele Felice.

    I due libri partono dall’analisi dei divari tra le regioni italiane, minimi a cavallo del Risorgimento, poi cresciuti in maniera esponenziale nei decenni successivi.

    La teoria di Daniele riprende le riflessioni di un grandissimo intellettuale calabrese: il cosentino Antonio Serra, precursore seicentesco dell’Economia politica. Serra nel suo Breve trattato (1613) espone quello che a suo giudizio era il problema del Regno di Napoli: la posizione marginale e la distanza dal cuore dell’Europa, che a sua volta aveva abbandonato il Mediterraneo per scommettere sull’Atlantico dopo la scoperta dell’America.

    Secondo Daniele, questa marginalità geografica è la croce del Sud. 

    Fin qui nulla di speciale, ha sempre sostenuto l’economista calabrese: tutti i Paesi hanno aree depresse. Tale la Cornovaglia in Gran Bretagna o la Sassonia – e la stragrande parte dell’ex Ddr – in Germania.

    Detto altrimenti (e al di fuori dell’economia): chi è basso di statura non sarà mai campione di basket o di pallavolo, chi è troppo robusto non farà mai atletica leggera ecc. 

    Ciò che cambia, per il Sud, è la vita civile: cioè il fatto che i servizi, anche essenziali, per i cittadini meridionali siano di quantità e qualità e quantità inferiore a quelli di cui fruiscono i loro omologhi delle aree depresse dell’Occidente ricco.

    Per restare nella metafora: gli altri potranno giocare a calcio o riciclarsi nel culturismo, i meridionali neanche questo.

    Questa coincidenza, peculiare nel Sud Italia, tra depressione economica e degrado civile ha stimolato alcune riflessioni che hanno evitato a Daniele di scivolare nel determinismo economico più crudo. Per questo, l’economista calabrese ha affrontato con forza (e molto anticonformismo) varie battaglie importanti a difesa del Mezzogiorno, tra cui quella contro l’autonomia differenziata, di cui resta un’importante testimonianza nel brillante L’Italia differenziata (Rubbettino, Soveria Mannelli 2024) scritto a quatto mani con l’economista campano Carmelo Petraglia.

    L’anticonformismo di Vittorio Daniele

    Ma anche questa battaglia Vittorio Daniele l’ha condotta a modo suo: senza peli sulla lingua né ruffianerie politiche.

    Di sicuro non si è fatto ingabbiare dai tentativi referendari del Pd. Anzi, al partito di Schlein ha rimproverato, neanche troppo tra le righe, una certa ipocrisia (non era forse Bonaccini uno dei promotori dell’autonomia differenziata?) ma anche un opportunismo incapace di soluzioni davvero serie, tra cui la riforma dell’articolo 116 della Costituzione.

    Come tutti gli studiosi di vaglia, Daniele non ha esitato a sporcarsi le mani con argomenti scomodi. Ad esempio, ha affrontato le tesi neorazziste antimeridionali con grande acume scientifico. Ma non le ha contestate sulla base di pregiudizi morali (legittimi ma pur sempre pregiudizi). Le ha confutate dopo averle passate nel tritacarne della critica scientifica. L’unica che contava per lui. E l’unica, secondo chi scrive, che è lecito chiedere a uno studioso. 

    Intellettuale onnivoro e incline a sfondare le convenzioni accademiche, il prof di Catanzaro non ha mai esitato a schierarsi nelle battaglie che reputava giuste, con un piglio di anticonformismo che nel suo caso non era mai una posa. Così ha fatto, anche nelle sue pagine social, nei confronti di quell’occidentalismo pret-a-portaire diventato quasi obbligatorio nei media in seguito alla guerra in Ucraina. E così ha fatto, soprattutto, per la tragedia (l’ennesima) del popolo palestinese, con un’indignazione di rara sincerità.

    Chi scrive conserva l’orgoglio e il piacere di aver condiviso molte riflessioni con Vittorio Daniele, dal quale ha sempre imparato qualcosa. E coltiva il rimpianto di quel che avrebbe ancora potuto esprimere uno studioso così brillante e acuto se non fosse intervenuto quel malore maledetto.

    Che la terra gli sia davvero lieve: per uno come lui è un augurio minimo. 

    Ma visto che ci siamo, ne rivolgiamo un altro alla sua opera: che possa trovare dei continuatori all’altezza. 

    Saverio Paletta.

  • Magia a sette note: si torna a comporre a Villa Rendano

    Magia a sette note: si torna a comporre a Villa Rendano

    Il nome sembra altisonante: Mf Songwriting Camp. In realtà la sigla iniziale sta per Mario Fanizzi, l’ideatore dell’iniziativa: un corso full immersion di tecniche compositive (songwriting, appunto).
    La manifestazione – una masterclass, per la precisione – si è svolta in tre densissimi giorni, dal 15 al 18 dicembre, a Villa Rendano, trasformatasi per l’occasione in un incrocio tra uno stage e uno studio di produzione.
    Vi hanno partecipato quarantadue musicisti di tutte le estrazioni artistiche e di tutte le parti d’Italia. «Ma per il futuro voglio internazionalizzare l’evento», spiega Fanizzi.
    Il Songwriting Camp ha già una presenza internazionale prestigiosa: Tommy Parker, il produttore di Britney Spears, Drake, Ariana Grande, Justin Bieber e tanto altro pop che conta (o sta per contare).
    Con questo popò di professori, la situazione è più che interessante. Cerchiamo di saperne di più.

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    A lezione con Tommy Parker e Mario Fanizzi

    Mario Fanizzi: artista internazionale e calabrese adottivo

    Pugliese d’origine, Mario Fanizzi è approdato in Calabria (per la precisione, a Rende, dove vive) dopo un percorso formativo bello tosto, culminato in un corso di studi al prestigiosissimo Berkleee college of music di Boston e in una intensa attività professionale a Los Angeles come compositore e produttore.
    Anche la vocazione di Fanizzi è internazionale: nel suo carnet di collaborazioni figurano Renato Zero, Tom Jones e Carlos Santana, per citarne alcuni… e scusate se è poco.
    L’idea alla base del corso è piuttosto semplice: «Ho circa seicento allievi in tutto il mondo, a cui insegno le mie tecniche di composizione», che si basano su un metodo intuitivo (e olistico, preciserebbero quelli davvero bravi).
    In parole più povere: «Tutti noi apprezziamo alcuni brani perché ci colpisce la loro struttura musicale. Io parto proprio da questo approccio estetico per insegnare le strutture compositive». Quasi l’esatto contrario dell’insegnamento tradizionale, che parte dagli schemi armonici per arrivare ai brani.

    Un primo piano di Mario Fanizzi

    Quarantadue virtuosi alla carica

    Tre giorni tutto incluso, quindi sale per esercitarsi e fare lezione, catering per pranzo e cena e albergo.
    C’è il batterista pugliese che cerca di addentrarsi nella composizione. E c’è il cantante marchigiano che prova a diventare cantautore. E ci sono le vocalist che cercano il salto di qualità culturale.
    In un modo o nell’altro, sotto la guida di Fanizzi e Parker, le sale antiche della sede della Fondazione Giuliani si riempiono di note e arte.
    Da una generazione di musicisti, di cui Alfonso Rendano fu capofila, a un’altra, nel medesimo segno della qualità e dell’internazionalità.
    Ciò che cambia davvero sono la comunicazione e l’interconnessione: quelle magie del web che diamo per scontante ma che consentono “miracoli” di questo tipo.
    «Normalmente svolgo i miei corsi online, ma stavolta ho reputato importante un contatto diretto e, a giudicare dai risultati, sono soddisfatto».
    Fanizzi ipotizza il bis dell’iniziativa, anche in tempi brevi. Come dire: l’appetito vien mangiando. O meglio: la musica vien suonando.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Mafia a Rende, Manna: ecco che c’è dietro lo scioglimento

    Mafia a Rende, Manna: ecco che c’è dietro lo scioglimento

    Scioglimento di Rende: «Sono passati circa venti giorni dalla nostra richiesta di accesso agli atti», spiega Marcello Manna, l’ex sindaco di Rende, nella sala convegni dell’Hotel Europa. Ma «finora senza alcun risultato», aggiunge Manna. La prefettura tace, forse perché da quell’orecchio non ci sente.
    A questo punto, è lecito chiedersi: c’era davvero bisogno di una conferenza stampa alle porte di Natale solo per lamentare il silenzio delle istituzioni che hanno commissariato, la scorsa estate, il Comune del Campagnano per mafia?

    Manna: Rende è Rende

    Evidentemente non è solo questo. Magari pesa anche il fatto che «Rende è Rende, con tutto il rispetto degli altri municipi sciolti per mafia», che in Calabria sono circa il 50 per cento del totale nazionale.
    «Che Rende è Rende non lo diciamo noi, ma la Camera di Commercio, secondo cui la nostra città ha il maggior numero di lavoratori, imprese e partite Iva». Già: ma allora perché la città universitaria si è trasformata, stando agli inquirenti, antimafia e non, da modello in sistema ed è passata dal mirino delle Procure a quello del ministero dell’Interno?

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    L’ex sindaco Marcello Manna durante la conferenza

    Scioglimento di Rende: tutto un complotto?

    Con la consueta abilità di consumato principe del foro, Manna evita le accuse dirette e, soprattutto, non evoca complotti. Non esplicitamente, almeno.
    Sebbene la tentazione sia forte, l’ex sindaco glissa alla grande le domande dei giornalisti che cercano di cavargli qualche nome, magari per farci un titolone.
    Manna non dice mai che un ipotetico manovratore occulto potrebbe essere Roberto Occhiuto. Tuttavia, allude in maniera piuttosto esplicita. Infatti: «Dal verbale del Comitato per la sicurezza risulta che il sindaco di Cosenza si è astenuto sulla proposta di scioglimento». Ma le cose starebbero altrimenti: «A me Franz Caruso ha detto di aver votato addirittura contro, perché non vedeva i presupposti di una decisione così drastica». Invece, il verbale tace sulla presidente della Provincia di Cosenza e di Anci-Calabria, che forse avrebbe votato a favore.
    Parliamo di Rosaria Succurro, organica al centrodestra a trazione Occhiuto
    Con la stessa abilità, Manna evita di fare l’altro nome, che pure potrebbe ispirare più di un titolista: quello dell’ex procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri.
    E tuttavia l’ex sindaco si sofferma a lungo sulla sudditanza della politica calabrese nei confronti delle toghe. E, già che c’è, si leva qualche sassolino dalle scarpe. Ad esempio, sull’inchiesta Reset, condotta, ricordiamo, dalla Dda di Catanzaro a guida Gratteri. Ebbene, l’indagine «ha subito forti ridimensionamenti proprio sulle misure cautelari, irrogate in prima battuta». Come a dire: gli indagati tornano a piede libero, ma Rende è sciolta. E ce n’è anche per Mala Arintha, l’inchiesta condotta dalla Procura di Cosenza: «Ricordo che gli inquirenti hanno prodotto alcune intercettazioni che mi scagionavano solo dopo che il gip si era pronunciato contro di me». Perciò di «certi inquirenti non mi fido».

    Scioglimento di Rende: un contesto da congiura

    Forse il complotto non c’è. O, come tutti i complotti, è indimostrabile. Tuttavia, fa capire Manna, il contesto sarebbe tipico di una congiura.
    E, come ogni congiura, anche questa avrebbe forti interessi alle spalle. Tra i principali, l’eliminazione di Rende per semplificare il percorso verso la città unica (e qui si tornerebbe al centrodestra di potere a guida Occhiuto).
    Inoltre, la vicenda di Rende avrebbe l’esito tipico di tutte le congiure: «Con lo scioglimento per mafia si resta isolati». Sarà, ma Manna, circondato dagli esponenti del suo Laboratorio Civico e dai suoi ex assessori, a partire da Marta Petrusewicz, che ha subito il commissariamento da sindaco facente funzione, ha voluto ribadire di non essere solo né isolato.

    Un momento della conferenza di Manna

    Scioglimento di Rende: Mattarella risponda

    L’ex sindaco rilancia: stiamo preparando un dossier che presenteremo al presidente della Repubblica.
    Come a dire che Rende, già modello e sistema, diventa un caso grazie al ricorso al capo dello Stato, che si aggiungerebbe all’attuale ricorso al Tar contro la decisione del ministro dell’Interno.
    Il giudice non può essere a Berlino e forse non è nemmeno a Catanzaro. Tanto vale mirare in alto.
    Tanto più che la città ha già subito i suoi danni: i commissari hanno fatto scadere i termini per la rottamazione dei debiti.
    Ma Manna sostiene di non aver nulla da rimproverarsi: «Anche se mi fossi dimesso, non sarebbe cambiato niente». Il bersaglio, insomma, non era tanto lui ma la città e la sua coalizione di maggioranza, «che forse ha avuto un torto: non essere organica ad alcun potentato». Il che significa essere alla mercé dei poteri forti, politici e giudiziari.

    La riforma mancata

    Le anomalie dello scioglimento di Rende non finirebbero qui, sostiene ancora Manna: «Non vi sembra strano che la commissione d’accesso era composta da militari che avevano indagato su Rende per conto della magistratura»?
    E si potrebbe continuare. Peccato solo che lo scioglimento per presunte infiltrazioni mafiose sia un procedimento amministrativo che prescinde dai procedimenti penali (e dalle loro garanzie). Anche su tale aspetto, Manna ha qualcosa da dire: «Ricordo che di recente oltre duecento amministratori dell’Anci hanno proposto un progetto di riforma dell’articolo 142 del Tuel (che disciplina lo scioglimento dei Comuni per mafia)».
    E in questa corsa alla riforma, che mirerebbe a garantire di più gli amministratori locali dalla discrezionalità dei burocrati e dei prefetti, Rende è stata in prima fila: «Ricordo anche che la segretaria nazionale dell’Anci ha ribadito che siamo stati i primi amministratori a proporre una riforma della normativa».
    Prendersela con la normativa, elaborata in questo caso per gestire emergenze, può essere il minimo ma è comunque poco.
    Se questa riforma fosse passata almeno un anno fa, sarebbe stata davvero… manna dal cielo, per l’ex sindaco e la sua maggioranza.
    E non è solo un modo di dire…

  • Un paese felice: Carmine Abate riscopre Eranova

    Un paese felice: Carmine Abate riscopre Eranova

    Una tappa importante di un tour particolare: Carmine Abate ha presentato, il 25 novembre a Villa Rendano, Un paese felice, il suo ultimo romanzo uscito per Mondadori a fine ottobre.
    Sala piena nella sede della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” per ascoltare il dialogo dello scrittore di Carfizzi con Antonietta Cozza, consigliera comunale di Cosenza delegata alla cultura. In più, un piccolo tocco di internazionalità che non guasta: la presenza in prima fila di Lendita Haxhitasim, l’ambasciatrice del Kossovo in Italia (tra l’altro formatasi all’Unical).
    Un segno come un altro che la cultura arbëreshë (di cui Abate fa parte a pieno titolo) è un elemento di primo piano nei rapporti tra l’Italia e i Balcani.

    La presentazione di “Un paese felice” a Villa Rendano

    Una storia italiana di Carmine Abate

    È più di un mese che Abate gira l’Italia per raccontare il suo paese felice, ovvero la vicenda di Eranova, un borgo rurale della periferia di Gioia Tauro, distrutto nei primi anni ’70 per consentire l’allargamento del bacino del Porto e la creazione del quinto polo siderurgico.
    In altre parole, l’eterno baratto tra ambiente (e salute) contro sviluppo. È senz’altro una storia meridionale (e calabrese in particolare). Ma è anche la storia di tutto il Paese, pieno di cimiteri industriali e di borghi deserti da Nord a Sud: il lascito di un sogno di benessere non sempre affrontato con la consapevolezza dovuta. Ma forse, ha spiegato lo scrittore durante l’incontro di Villa Rendano, per Eranova non è stato davvero così.

    Amore e altre battaglie 

    «Mi sono imbattuto nella storia di Eranova anni fa, quasi per caso», ha spiegato Carmine Abate durante la sua conversazione con Antonietta Cozza.
    Questa storia consiste in due righe sul sito istituzionale del Comune di Gioia Tauro e in una voce di Wikipedia dedicata alla stazione ferroviaria che serviva il piccolo centro, soppressa nel lontano 2023.
    Tutto il resto, ha specificato lo scrittore deriva da fonti orali (le consuete memorie degli anziani) e da documenti d’epoca, inclusi i ritagli dei giornali.

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    Da sinistra, Carmine Abate e Antonietta Cozza

    Ma, in un romanzo, ciò che fa la differenza è il racconto. E Un paese felice non fa eccezione. Anzi.
    «Ho deciso di raccontare questa vicenda non con gli occhi degli abitanti, ma di un testimone coinvolto emotivamente», ha spiegato ancora Abate. È Lorenzo, universitario calabrese fuori sede a Bari, che s’innamora di Lina, altra universitaria calabrese. Lina si batte per salvare la sua Eranova, pronta a cadere sotto le ruspe attivate dal pacchetto Colombo.

    Eranova: da una ribellione all’altra

    Lina e i suoi compaesani si battono a fondo e le provano tutte per salvare il borgo e le sue piantagioni, che comunque danno un po’ di benessere.
    Non potrebbe essere altrimenti per una comunità nata a fine ’800, in seguito alla ribellione di un gruppo di massari al feudatario del luogo.
    Nata da una ribellione, Eranova muore ribellandosi. Gli eranovesi picchettano il territorio, si frappongono alle ruspe e alle escavatrici e protestano come possono e sanno.
    Lina scrive tantissimo, anche al presidente della repubblica e ad Andreotti, allora presidente del Consiglio e a Pasolini, conosciuto per caso in una libreria di Bari.
    Ma è tutto inutile. Tranne che per l’amore. Lorenzo la segue e capisce il perché di tanto accanimento, quasi terapeutico.

    La copertina di “Un paese felice”

    Tradizione vs Modernità secondo Carmine Abate

    «Non è il solo il consueto binomio tradizione-modernità, che anima le proteste degli abitanti di Eranova e, quindi, la lotta di Lina», racconta ancora Abate.
    La distinzione può essere più sottile e riguarda due modi di concepire lo sviluppo. Da un lato l’industrializzazione pianificata da fuori e calata dall’alto, quindi poco rispettosa delle vocazioni del territorio.
    Dall’altro, invece il desiderio di far crescere la comunità nel rispetto delle sue tradizioni. A nulla di diverso si è riferito Abate nel corso della discussione di Villa Rendano: «L’economia agricola, alla fin fine, ha consentito a Lina e Lorenzo di studiare fuori sede: segno che comunque generava da sola un certo benessere. Una piccola sicurezza a cui gli eranovesi non volevano rinunciare in cambio di iniziative di cui non percepivano bene il senso. Di più: che temevano si sarebbero risolte in un salto nel buio». O nel vuoto, visto che il centro siderurgico non si realizzò.

    Una fine che sa di beffa

    «Altrove, anche in Calabria, siamo pieni di cimiteri industriali, è vero. Ma si trattava dei ruderi di industrie che, almeno avevano funzionato. Ciò non si può dire per Gioia Tauro, che oltre al danno ambientale ha subito la beffa di cattedrali nel deserto mai entrate in funzioni», ha proseguito Abate.

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    Da sinistra, l’ambasciatrice Lendita Haxhitasim e Walter Pellegrini, presidente della Fondazione Giuliani

    Un paese felice racconta gli ultimi sussulti di dignitosa agonia di Eranova sotto le mentite (ma non troppo) spoglie della storia d’amore e del romanzo storico carico di esistenzialismo.
    Il tutto, ha aggiunto Cozza, «impreziosito dal linguaggio particolare dello scrittore di Carfizzi: potente, creativo e – a modo suo – virtuosistico». Le espressioni gergali arricchiscono un racconto robusto e sobrio. Ma soprattutto avvincente.
    «Il finale di questa storia è noto, perché fa parte delle cronache», ha concluso Carmine Abate. Eranova fu demolita e i suoi abitanti “dispersi” nelle zone vicine, con l’aiuto dell’edilizia pubblica.
    Ma la storia è solo una componente di un romanzo storico. Il resto, cioè le vicende dei personaggi che interpretano (e attualizzano) questa storia, fa parte del romanzo.
    Ma, come giustamente ha detto in chiusura Antonietta Cozza, meglio non anticipare altro…

  • Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    In bocca sua il garantismo non è peloso: è la difesa, appassionata e sincera, di un principio di civiltà, non solo giuridica. Non potrebbe essere altrimenti nel caso di Raffaele Della Valle, avvocato battagliero a dispetto dell’età (84 anni suonati) con un passato politico di tutto rispetto, prima nel Pli e poi in Forza Italia.
    Soprattutto, non può essere altrimenti quando si è stati protagonisti di uno dei processi più tragici, controversi e, purtroppo, spettacolari dello scorso secolo: quello a Enzo Tortora.
    «Fu il primo processo mediatico e fornì il modello a Mani Pulite», spiega Della Valle. Che aggiunge: «Da quella ingiusta persecuzione giudiziaria emersero i primi preoccupanti segnali della deriva che avrebbe preso di lì a poco l’amministrazione della giustizia».
    Della Valle è impegnato in un giro di presentazioni in tutta la Calabria di Quando l’Italia perse la faccia (Pellegrini, Cosenza 2023), il libro intervista scritto assieme al giornalista Francesco Kostner. Un piccolo best seller arrivato alla quarta edizione nel giro di quattro mesi: uscito a maggio, il libro ha esaurito lo stock tre volte. Niente male davvero…

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    Un primo piano di Raffaele Della Valle

    A proposito di processi mediatici e di giustizia-spettacolo: alcuni settori della magistratura, di recente hanno espresso forti critiche sul protagonismo eccessivo di alcuni magistrati, sul ricorso ai maxiprocessi e sul dialogo, ritenuto improprio, di alcune Procure con i media…

    Le condivido alla grande, perché riguardano i fondamentali di qualsiasi operatore del diritto.

    Avvocati compresi?

    Certo, nessuno dovrebbe enfatizzare il materiale raccolto durante l’attività probatoria, tuttavia nella vita reale pochi si fissano questo limite. Tant’è: noi difensori abbiamo spesso appreso le attività degli inquirenti grazie a quello che ho definito più volte il deposito degli atti in edicola.

    Cioè la pubblicazione degli atti sui media ancor prima che in cancelleria…

    Esatto.

    A proposito del processo Tortora, Vittorio Feltri nel suo “L’irriverente” (Mondadori, Milano 2019) afferma di essere stato il primo cronista ad accorgersi che molte cose non quadravano nel teorema della Procura di Napoli e, quindi, a schierarsi col conduttore televisivo finito in disgrazia…

    Diciamo che, per quel che mi ricordo, fu tra i primi. Ma è doveroso citare anche Piero Angela, Giovanni Ascheri e Luciano Garibaldi, che assunsero da subito posizioni garantiste. Non facili all’interno dello stesso mondo mediatico: si pensi, per fare un esempio, che la Rai mandava tutti i giorni (spesso ci apriva i tg) le veline della Procura di Napoli. Ma probabilmente il primissimo fu Enzo Biagi.

    Enzo Biagi fu forse il primo innocentista nel caso Tortora

    La carta stampata, c’è da dire, fece di peggio, come scrive Vittorio Pezzuto nel suo “Applausi e sputi”

    Il Messaggero, ad esempio, arrivò a titolare “Tortora ha confessato”, salvo chiedere scusa a danno fatto. In una fase avanzata del processo, il settimanale Oggi pagò Gianni Melluso per fotografarne le nozze nel carcere di Campobasso. La rivista ricorse a un escamotage per aggirare il divieto dei magistrati: uno dei cronisti fece da testimone allo sposo.

    Parliamo di Gianni Melluso, alias Gianni il Bello, alias Gianni Cha Cha Cha. Ovvero di uno dei più grossi accusatori di Tortora, vero?

    Su Melluso, il quale si è abbondantemente squalificato da sé, sospendo il giudizio, di sicuro  tutt’altro che positivo. Ricordo solo che anche lui fu una creatura mediatica. Lo aiutò molto Francamaria Trapani, giornalista e consuocera di Francesco Cedrangolo, il procuratore capo di Napoli. A proposito di Feltri: gli va dato atto che stigmatizzò sin da subito il comportamento supino di tantissimi colleghi.

    Anche la politica reagì in maniera tutto sommato tiepida, tranne poche eccezioni. Non è così?

    Persino il Partito liberale, in cui militavo assieme a Tortora, tentennò, con la sola eccezione di Alfredo Biondi. Col senno del poi, si capisce benissimo che questa “timidezza” era anche indotta dalla pressione mediatica. Solo Pannella, con la consueta aggressività, ruppe il muro di gomma e trasformò il processo Tortora in un caso politico.

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    Gianni Melluso, uno dei primi accusatori di Tortora

    È corretto affermare che nel processo Tortora prese forma il rapporto particolare tra politica e magistratura che si sarebbe affermato durante Tangentopoli?

    Certo che sì. Fu il primo processo mediatico, per colpa dell’atteggiamento della stampa, che andò ben oltre il servilismo. Il rapporto tra magistratura e stampa, sin da allora è diventato drogato.
    Da un lato, molte Procure tendono a diventare fonti privilegiate, anzi: le fonti per eccellenza. Dall’altro, i cronisti contribuiscono a trasformare gli inquirenti in star, anzi magistar, per usare un efficace neologismo. È un meccanismo perverso che si autoalimenta.

    Al punto che il legislatore è dovuto intervenire in più modi: attraverso la riforma delle intercettazioni e, più di recente, ponendo limiti precisi alle comunicazioni degli inquirenti. Non le pare una forma di censura?

    Di sicuro in parte lo è. Ma è anche una reazione ad anni di abusi.

    Sempre di recente, è stata avanzata una proposta particolare: un master in giornalismo giudiziario riservato ai laureati in Scienze giuridiche. La riqualificazione culturale dei giornalisti non è una valida alternativa?

    Altroché. Si consideri pure un’altra cosa: finora per accedere alla professione di giornalista non sono stati necessari titoli particolari. Iniziare a promuovere per davvero la formazione culturale della categoria significa stimolare quel senso critico e di indipendenza che libera il cronista dall’asservimento alla fonte. E quindi, rende superfluo ogni intervento del legislatore a tutela di chi, fino a condanna definitiva, ha il sacrosanto diritto di essere considerato innocente.

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    Raffaele Della Valle durante l’intervista

    Il procedimento a carico del celebre conduttore fece parte di un maxiprocesso a sua volta molto spettacolarizzato: quello alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Oggi, nella magistratura, non mancano le voci critiche anche nei confronti del ricorso ai maxiprocessi. Qual è l’opinione dell’avvocato Della Valle?

    I maxiprocessi avrebbero un’utilità apparente: il risparmio di tempo e di energie che deriverebbe dalla valutazione di più situazioni e persone in contemporanea. In realtà, la pratica di mandare a giudizio molte persone contemporaneamente si traduce spesso in una mattanza probatoria, che danneggia senz’altro gli imputati e i loro difensori. Ma danneggia anche tantissimo il lavoro degli inquirenti, che finisce spesso in un tritacarne confuso.
    La differenza, in questi casi, la fanno gli inquirenti. Se sono bravi, puntigliosi, concreti e garantisti come lo fu Giovanni Falcone, i procedimenti filano bene e danno risultati. Altrimenti diventano spettacoli da stadio, tanto rumorosi quanto improduttivi.

    Dal processo Tortora emersero anche i limiti nell’uso dei pentiti…

    La gestione dei collaboratori di giustizia è un altro problema irrisolto.

    Perché?

    Perché è un problema strutturale, etico prima ancora che giuridico. La normativa, infatti, proteggeva gli ex terroristi che saltavano il fosso. Tra di loro ci furono molti pentiti sinceri che, una volta finita l’illusione ideologica e ammessa la sconfitta politica, volevano tornare alla normalità e chiesero scusa.
    Questa dinamica, va da sé, non è facilmente applicabile ai malavitosi, che non hanno motivazioni ideologiche. Non normalmente, almeno.
    Ne deriva un problema di credibilità e di affidabilità piuttosto diffuso. Anche in questo caso, il processo Tortora diede spie d’allarme.

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    Enzo Tortora in manette tra i carabinieri

    Sospendiamo il giudizio su Berlusconi, che deve essere comunque un giudizio politico. Al netto di tante polemiche, non sembra eccessivo il numero di procedimenti senza risultati subiti dall’ex premier fino alla fine dei suoi giorni?

    Il problema è uno solo: le vicende giudiziarie di Berlusconi sono l’appendice giudiziaria di Mani Pulite.
    Non entro nel merito di quella maxi inchiesta. Mi limito, al riguardo, a notare che, da allora, la magistratura ha cambiato il suo Dna costituzionale ed è diventata un organo politico. Faccio un esempio attuale: tra chi si oppone ai tentativi di riforma di Nordio figurano trecento magistrati, che hanno sollevato dubbi di costituzionalità.
    Ora, non sarebbe più logico mettere le normative alla prova, magari impugnando davanti alla Corte Costituzionale, quando necessario, anziché lanciarsi in proclami politici?

    Se la magistratura si politicizza non c’è da meravigliarsi di vicende come quella dell’ex capo dell’Anm Luca Palamara. Chi la fa l’aspetti, o no?

    Io mi meraviglio che ci si sia fermati a Luca Palamara, al quale si sono attribuite troppe responsabilità. Palamara, semmai, era solo un terminal di interessi e posizioni di potere consolidatissimi.
    La magistratura ha travalicato da tempo le sue funzioni. Tant’è che troviamo parecchi magistrati al di fuori delle sedi istituzionali. Li troviamo, ad esempio, nei ministeri, come consulenti e capi di gabinetto incaricati di redigere le normative. Mi pare ce ne sia abbastanza per dire che il rapporto tra l’ordine giudiziario e il potere politico ne risulti quantomeno alterato.

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    L’ex magistrato Luca Palamara

    In questi giorni ha presentato il suo libro in tutta la regione. Come le è sembrato il pubblico calabrese?

    Preparato e sensibile ai temi giuridici. E devo dire di essere rimasto favorevolmente colpito anche dagli amministratori locali con cui ho avuto modo di confrontarmi: c’è una crescita di livello che lascia ben sperare.

  • Luigi Fera: il primo superbig della politica calabrese

    Luigi Fera: il primo superbig della politica calabrese

    Un predestinato dallo strano destino. Luigi Fera è, con tutta probabilità, il politico cosentino di maggior rilievo dell’età liberale.
    Tuttavia, ha subito i capricci di una toponomastica un po’ disordinata: già intestatario, per quasi un cinquantennio, della piazza con cui termina Corso Mazzini, è ora titolare dell’ex Corso d’Italia, la strada che porta dalla ex Piazza Fera al Tribunale di Cosenza.
    Questo cambiamento è il prodotto di una decisione urbanistica unica: l’intestazione di una piazza a un vivo, qual era a inizio millennio il mecenate Domenico Bilotti.
    Pochi ricordano che Fera ha comunque lasciato qualche impronta sulla città: il primo piano regolatore e il vecchio palazzo delle Poste, un esempio bello (e poco valorizzato) di architettura di età giolittiana.
    Ovviamente i meriti di Fera non si fermano qui.

    La vecchia piazza Fera

    Un notabile predestinato

    Luigi Fera è stato il primo politico calabrese ad avere ruoli ministeriali di spicco e a mantenerli a lungo. Dopo di lui avrebbero fatto meglio, durante il fascismo, Michele Bianchi e, dopo, Riccardo Misasi e Giacomo Mancini.
    Una carriera così solida e forte non si costruisce per caso né per soli meriti. Contano tantissimo il contesto familiare e l’appartenenza sociale.
    Ciò vale anche per Fera, che nasce a Cellara, un borgo tra il Savuto e la Sila, il 12 giugno 1868 nella classica buona famiglia, almeno secondo gli standard dell’epoca.
    Infatti, suo papà Michele è medico (una stimmata del notabilato meridionale più autentico), professore di Scienze naturali al Liceo Telesio e presidente del Comizio agrario cosentino. Sua madre, Rachele Crocco, proviene da una famiglia di proprietari.
    Il giovane Luigi frequenta il Telesio, in una classe piuttosto privilegiata, dove divide i banchi con Pasquale Rossi e Nicola Serra, altri due futuri big della storia contemporanea calabrese.
    I legami col notabilato non finiscono qui: in una fase importante della sua carriera, Fera incrocerà altre due famiglie che contano, i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, nel contesto piccante di uno scandalo d’epoca. Ma andiamo con ordine.

    Luigi Fera avvocato rampante

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    Luigi Fera

    Luigi Fera sale con zelo tutti i gradini della carriera dei notabili. Finito il Liceo, si iscrive all’Università di Napoli, dove frequenta Giurisprudenza e Filosofia.
    È allievo, piuttosto bravo, di Giovanni Bovio e Filippo Masci e ama il giornalismo: non a caso è intimo di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, fondatori e cervelli de Il Mattino.
    Una volta laureato, Fera torna a Cosenza. Prima (1892-1893) insegna Filosofia al Telesio e poi si dà all’avvocatura penale. Per non farsi mancare niente, aderisce alla loggia “Bruzia”. Ricapitoliamo: professore, penalista e massone. Gli ideali trampolini per la carriera politica. Che inizia dal gradino base: il municipio.
    Infatti, diventa consigliere comunale nel 1895, dopo aver redatto per un anno articoli di fuoco sul settimanale La Lotta.
    Da consigliere, dedica le sue attenzioni alla riapertura della Biblioteca Civica. Tanto impegno gli vale la nomina a segretario perpetuo dell’Accademia Cosentina. Fera riprende, inoltre, le polemiche culturali. Al riguardo, fonda con Nicola Serra e Oreste Dito il giornale Cosenza Laica, con cui dà battaglia agli ambienti cattolici più ultrà.

    Sindaco per pochi giorni

    Ricapitoliamo ancora: professore, avvocato, pubblicista, consigliere comunale e accademico cosentino. A Luigi Fera manca solo la carica di sindaco.
    Che arriva nel 1900, col rinnovo del consiglio comunale. Ma il trionfo dura pochissimo: il nuovo consiglio, squassato da faide interne e da compromessi instabili, non ha una maggioranza. Fera diventa sindaco per pochi giorni, poi deve mollare la presa.
    Ma l’appuntamento col successo vero è solo rimandato. Arriva nel 1904, grazie a uno scandalo che il notabile cosentino risolve brillantemente da avvocato.

    Morelli vs Quintieri: due casate a confronto

    Non è una storia di corna, sebbene ci vada vicino. Né un drammone shakespeariano. La contesa familiare tra i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, ricostruita con grande efficacia dal giornalista Luigi Michele Perri nel romanzo storico Il Monocolo (Eri-Rai 2011), è una storiaccia di provincia dai contorni boccacceschi.
    I protagonisti sono Caterina Morelli, figlia unica di Donato, patriota risorgimentale e padrone politico di Rogliano, e suo marito Salvatore Quintieri, fratello minore di Angelo, imprenditore e finanziere caroleano e astro nascente della politica cosentina.
    Deputato nel 1890 e seguace di Francesco Crispi, Angelo Quintieri passa con Giovanni Giolitti nel 1891. Giusto in tempo per candidarsi alle Politiche del 1892.
    Non prima di aver stretto un accordo con Morelli, che nel frattempo è diventato senatore e gli lascia il suo collegio di Rogliano. L’alleanza tra le due famiglie è sancita dal classico matrimonio dinastico: appunto, quello tra Caterina e Salvatore.
    Proprio da questo matrimonio nasce lo scandalo, tuttora gustoso da raccontare.

    Francesco Crispi

    Il figlio della discordia

    La giovane coppia (lei poco più che quattordicenne, lui poco più che ventenne) si stabilisce a Carolei.
    Per un certo periodo, le cose sembrano filare: Salvatore ha qualche propensione extraconiugale di troppo, parrebbe, ma coccola la moglie. Il problema emerge quando non arriva il figlio, il super erede che dovrebbe fondere le casate.
    Nel tentativo di sbloccare la situazione, i due si trasferiscono a Napoli, dove si fanno visitare dal celebre medico Antonio Cardarelli. Il responso non è bellissimo per Angelo: l’infertilità sarebbe responsabilità sua, perché affetto da ipotrofia ai testicoli.
    Nel 1900, tuttavia, Caterina annuncia di essere incinta. Il bambino nasce a Napoli ed è battezzato col nome di Giovanni Donato. Ma la serenità della coppia finisce qui.
    Il piccolo ha appena sei mesi, quando Salvatore denuncia la moglie di due reati pesanti, che avrebbe commesso in alternativa l’uno all’altro: o l’adulterio o la simulazione di parto. Per difendersi, Caterina deve provare di non aver simulato il parto né di aver fatto ricorso alla fecondazione “alternativa”. E che, quindi, come tutti gli orologi rotti, anche Salvatore è in grado di azzeccare l’ora due volte al giorno.
    A questo punto, entra in scena Luigi Fera, che difende la giovane e la fa vincere, anzi stravincere. Non solo Caterina è prosciolta da ogni accusa, ma ottiene la separazione da Salvatore, che è comunque costretto a riconoscere il figlio.
    Questa brillante performance forense diventa un balzo in avanti per la carriera di Fera, che entra nelle grazie del vecchio Morelli.

    Un monumento di Donato Morelli

    Luigi Fera in Parlamento

    Donato Morelli muore nel 1902. Ma l’alleanza dinastica coi Quintieri è evaporata da tempo.
    Luigi Fera approfitta di questa rottura e si candida alle Politiche del 1904 proprio nel collegio di Rogliano, sgomberato tra l’altro anche da Angelo Fera, che ha mollato la politica un anno prima per motivi di salute.
    La competizione elettorale resta comunque uno scontro tra le due casate: i Morelli, o quel che ne resta, rappresentati da Fera, e i Quintieri che tentano di riempire la casella vuota con Luigi, il secondogenito della famiglia caroleana.
    Luigi Quintieri è un giolittiano e perciò gode del favore dei prefetti. Fera no e si candida con il Partito radicale. Ciononostante vince alla grande, anche perché i roglianesi, dopo lo scandalo, non vedono di buon occhio i Quintieri. A questo punto, il neodeputato cosentino ha la strada spianata per una carriera parlamentare brillante, che lo porta a ricoprire importanti cariche ministeriali in fasi a dir poco drammatiche: gli anni della Grande Guerra e l’ascesa del fascismo.

    Giovanni Giolitti

    Un riformista in carriera

    La parabola parlamentare (e poi ministeriale) di Luigi Fera si può definire con un aggettivo: riformista.
    Tutto il resto – il consueto trasformismo, i tentennamenti, i cambi di idee a volte repentini – fa parte senz’altro dello stile dei notabili tardo ottocenteschi. Ma è anche un comportamento quasi obbligato per i centristi laici e moderati come Fera, che rischiano di restare schiacciati tra le due nuove tendenze della politica italiana: l’allargamento del corpo elettorale, che emargina pian piano la borghesia liberale, e i partiti di massa (socialisti e popolari e poi comunisti e fascisti).
    Fera si muove con grande abilità e ottiene grossi risultati. La sua è una politica essenzialmente progressista. Ad esempio, quando promuove la costruzione della tratta ferroviaria Sibari-Crotone (1905) o quando spinge per l’approvazione della legge sulla Calabria (1906).
    Discorso simile a livello urbanistico: è sua la legge che fissa il piano regolatore che amplia il territorio di Cosenza (1912) e lo estende fin quasi dentro i casali e fino quasi a Rende.
    Di particolare rilievo, al riguardo, le polemiche con Francesco Saverio Nitti sull’assetto della proprietà fondiaria, che meritano una rapida riflessione a parte.

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    Francesco Saverio Nitti

    Nitti vs Fera: due meridionalisti a confronto

    Il dibattito tra i due big è fortissimo ed è giocato tutto in casa. Cioè nelle file del Partito radicale, da cui provengono entrambi.
    Riguarda, come anticipato, la situazione delle proprietà agricole e riflette il diverso background dei due.
    Nitti è un economista e parla da tecnocrate: il mercato, tramite libere contrattazioni tra proprietari e contadini, deve risolvere da sé il problema.
    Luigi Fera, al contrario, esprime preoccupazioni sociali e politiche: lo Stato deve intervenire con riforme opportune e deve regolare il mercato, piuttosto selvaggio in questo settore.
    Inutile dire, in questo caso, che le preoccupazioni di Fera risultano più aderenti alla realtà calabrese: sono le stesse cose che, circa quarant’anni prima, diceva Enrico Guicciardi, primo prefetto della Cosenza postunitaria, col supporto di Vincenzo Padula. Ma questa è un’altra storia. La si cita solo per far capire come in Calabria le cose fossero cambiate poco, dall’Unità alle soglie della Grande Guerra.

    Luigi Fera “conservatore”?

    Ci sono due episodi della vita politica di Luigi Fera in apparente controtendenza all’impostazione progressista: l’affossamento alla mozione di Leonida Bissolati per l’abolizione del catechismo nelle scuole elementari e l’appoggio alla conquista della Libia, promossa da Giolitti.
    Il primo, cioè l’affossamento della mozione Bissolati, fu probabilmente un tentativo di evitare la crisi che si profilava nella massoneria, a cui Fera e Bissolati appartenevano.
    La mozione Bissolati è appoggiata dal gran maestro Basilio Ferrari, che propone la censura nei confronti di tutti i deputati massoni che rifiutano l’appoggio alla mozione. Al contrario, è osteggiata da Saverio Fera, sovrano gran commendatore del Rito scozzese e pastore protestante. Luigi Fera e Giolitti provano a evitare il dibattito parlamentare per evitare due cose: la spaccatura del mondo laico e la crisi della massoneria. Non ci riescono.
    Per la guerra di Libia, è doverosa un’altra considerazione: il colonialismo, all’epoca di Fera, non è considerato un male. Anzi. Fera vede come tanti, nell’impresa nordafricana un modo per alleggerire le pressioni sociali che provengono dalle masse contadine del Sud, a cui la conquista di nuovi territori può offrire sbocchi alternativi.

    Truppe coloniali italiane in Libia nel 1912

    Luigi Fera ministro

    Una stranezza di Luigi Fera è l’atteggiamento di fronte alla guerra. Il politico calabrese è di sicuro interventista. Ma non si capisce subito bene con chi. Ovvero se con Austria e Germania o con Inghilterra e Francia.
    Ad ogni modo, in seguito all’ingresso dell’Italia in guerra, Fera fa l’ultimo salto di qualità. Diventa ministro delle Poste nei governi di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando. Poi, alla fine della guerra, diventa ministro di Grazia e giustizia sotto Giolitti (1919).
    Questa sequenza ministeriale è il massimo del potere e del prestigio raggiunto da un politico calabrese dall’Unità alla crisi del sistema liberale.

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    Vittorio Emanuele Orlando

    Un altro mondo

    L’ascesa politica del fascismo è l’ultima spallata a quel mondo in cui si è formato Luigi Fera. Ma il big cosentino non lo sa. O forse lo sa fin troppo, ma vede nelle squadre di Mussolini il male minore.
    Infatti, Fera appoggia i fascisti e ottiene, in parte i loro consensi nel 1921, quando si candida e risulta eletto per l’ultima volta. Per lui i comunisti sono il vero pericolo, a cui i fascisti si limitano a reagire. Di più: Fera non dispera in una successiva evoluzione democratica del movimento di Mussolini.
    Tuttavia, la situazione precipita col delitto Matteotti (1924) e il parlamentare cosentino, che intuisce di non poter proseguire oltre la propria carriera, si ritira a vita privata.
    Rifiuta la candidatura offertagli dai fascisti e si limita a fare l’avvocato a Roma. Muore nella capitale il 9 maggio 1935, nel momento di massima forza del regime. È decisamente un altro mondo, in cui per Fera e quelli come lui non c’è più posto.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    La dedica di una strada importante nel centro di Cosenza, il titolo altisonante (e un po’ vintage) di antifascista, ma soprattutto il ruolo di sottosegretario alla Marina nel governo Facta del 1922, pochissimo prima dell’inizio del Ventennio. Non male per un socialista come Nicola Serra, partito come politico “contro”, anche con una certa determinazione.
    Ma il “contro”, nel suo caso, vale fino a un certo punto: Serra è uno di quei notabili che, prima o poi, emergono. Il che non si può dire di altri omonimi del Nostro, notabili o non.
    Ad esempio, non si può dire per Antonio Serra, studioso cosentino d’età barocca e padre dell’economia moderna, che muore in carcere, a dispetto di meriti non proprio leggeri. Né di un altro Nicola Serra, un giovane partigiano ligure morto di stenti a Mauthausen nel 1944.
    Ma torniamo al Serra sottosegretario e, soprattutto, alla sua Cosenza.

    Nicola Serra: un notabile tra due secoli

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    Nicola Serra

    Nicola Serra è un esponente tipico dell’alta borghesia postunitaria. Nasce a Cosenza il 24 maggio 1867, quindi a distanza di sicurezza dal Risorgimento e dalla sua forte carica retorica.
    Questo aspetto anagrafico non è proprio secondario: consente a lui e ai suoi coetanei una visione critica della vecchia guardia.
    Serra, figlio di Gaetano e di Vincenza Carbone, proviene da una famiglia benestante. E segue il percorso di vita tipico della classe sociale di appartenenza (o, se si preferisce, dei figli di papà): frequenta il Liceo Telesio, dove ha per compagni di classe Luigi Fera e Pasquale Rossi. Una volta conseguita la maturità, prende la laurea in Giurisprudenza a Napoli: l’ideale biglietto da visita per il notabilato cittadino.
    Infatti, prima ancora che in politica, si fa notare soprattutto nel foro, di cui diventa subito un big.

    La passione socialista

    Un altro segno di appartenenza al notabilato cosentino è l’orientamento politico, quasi sempre rigorosamente a sinistra.
    E Nicola Serra non se ne priva: infatti è un socialista convinto. A fine 1892 fonda, assieme a Pasquale Rossi il primo circolo socialista di Cosenza. E scalda i motori in vista del primo appuntamento politico importante: le Amministrative cittadine del 1893.
    Proprio per preparare il terreno, Serra, dà vita – assieme a Rossi, a Luigi Caputo e a Domenico Le Pera – a Il Domani, un settimanale di cultura e propaganda socialista.
    Ma né il circolo né il giornale riescono a darsi una linea precisa ed entrambi durano poco. Va meglio alle elezioni, dove l’avvocato prende 423 voti e risulta il quarto degli eletti: non male in una città che ha poco più di 15mila abitanti e vota poco meno della metà dei maschi maggiorenni. Il successo elettorale galvanizza i socialisti, che ricostituiscono il circolo e provano a fare un altro giornale, senza riuscirci.
    Ma non per colpa loro: i socialisti cosentini sono un gruppo di élite che pesca consensi, ma non sono radicati nella città. In più, subiscono le pressioni e le repressioni del governo, guidato dall’ex garibaldino ed ex repubblicano Francesco Crispi, che dà un giro di vite proprio agli ambienti socialisti.
    Quale migliore occasione per cacciarsi in un guaio, per fortuna non grosso?

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    Francesco Crispi

    La prima condanna e le seconde elezioni

    A rileggerle col senno del poi, certe disavventure giudiziarie sembrano incidenti creati apposta per ottenere l’aureola del martire.
    È il caso di Humanitas, il giornale socialista fondato dall’agitatore roglianese Giovanni Domanico, forse la testa più calda dei socialisti cosentini.
    Domanico, figlio di un grosso proprietario terriero, è abituato agli incidenti e alle manette. Ma non si può dire la stessa cosa di Serra, che inizia a collaborare a Humanitas nel 1894, assieme ai soliti Rossi e Caputo e a Luigi Milelli, e il primo aprile di quell’anno firma un manifesto in cui rivendica con orgoglio la propria militanza socialista.
    La provocazione funziona sin troppo: Serra finisce sotto processo e si becca una condanna per aver violato le norme di pubblica sicurezza imposte dal governo crispino.
    Forte di questa “medaglia”, stringe un accordo politico col notabile amanteano Roberto Mirabelli e si candida nella sua lista per le Amministrative del 1895.
    Prende 945 voti e rientra in Consiglio comunale assieme a Rossi. Ma le polemiche sono dietro l’angolo.

    Nicola Serra e i compagni col grembiule

    La candidatura di Mirabelli è il prodotto di una resa dei conti interna alla loggia “Bruzia-De Roberto” del Grande Oriente d’Italia, che entra in guerra contro Luigi Miceli, notabile longobardese della sinistra storica e parlamentare di lungo corso.
    A dire il vero, all’epoca negli ambienti socialisti la massoneria non è così malvista. Ad esempio, Pasquale Rossi è iscritto al Goi.
    Ma c’è chi polemizza con le scelte di Rossi e Serra. Ne è un esempio la lettera anonima pubblicata dal periodico La Vigilia, in cui l’avvocato è accusato di voler sacrificare il gruppo socialista alle proprie ambizioni. Il circolo cosentino reagisce compatto, ma la polemica sortisce comunque un suo risultato: Rossi lascia la carica di assessore comunale dopo pochi mesi.
    Tuttavia, la rielezione spiana la strada a Serra in un’altra importante istituzione cittadina: l’Accademia Cosentina, di cui l’avvocato diventa socio corrispondente nel dicembre 1895 e socio ordinario pochi mesi dopo.

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    Pasquale Rossi

    Nicola Serra in crisi col Psi

    Risalgono al 1897 le prime avvisaglie della crisi dei socialisti cosentini. Infatti, Crispi ritorna al potere e riprende le sue abituali repressioni, che polverizzano il circolo cosentino.
    Ma pure nel resto della provincia le cose non vanno benissimo, perché Giovanni Domanico subisce un’accusa infamante almeno a livello politico: sarebbe stato, nientemeno, che un confidente della polizia.
    Nicola Serra si ritrova nel mezzo della polemica. Prima, per amore di partito sostiene la candidatura di Domanico nel collegio di Rogliano alle Politiche del 21 marzo 1897. Poi, a dicembre dello stesso anno, fa parte del collegio di probiviri che espelle Domanico dal Psi.
    Il resto sono colpi di coda: nel 1899 Serra ricostituisce assieme a Rossi e a Luigi Aloe, il circolo cosentino. Poi si candida alle Amministrative del 1900 e risulta eletto assieme al solito Rossi, al giornalista Antonio Chiappetta, ad Aurelio Tocci e ad Aloe. Ma la giunta cade poco meno di un anno dopo e la città rivà alle elezioni.
    Stavolta Serra non ce la fa. Ma, forte del ruolo acquisito nel notabilato locale, cambia partito e se ne va coi radicali.

    Un notabile di sinistra

    A questo punto, è doverosa una riflessione sul ruolo di Nicola Serra nel notabilato (non solo) cosentino. Giusto per capire come certi rapporti sociali superano da sempre le appartenenze politiche.
    Un primo rapporto forte è con gli esponenti di punta della massoneria cosentina. Ci si riferisce, in particolare, a Luigi Fera, parlamentare di lungo corso nel Partito radicale e poi ministro giolittiano, e a Oreste Dito, storico e maestro venerabile della loggia Bruzia-De Roberto. Serra, nel 1898 fonda assieme ai due big in grembiule la rivista Cosenza Laica, con cui polemizza contro gli ambienti cattolici cittadini.
    Anche i legami familiari hanno il loro peso: nel 1906 Serra sposa Maria La Costa, baronessa di Malvito. Dal matrimonio nasce Lydia, che diventa la prima avvocata calabrese.

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    Lydia Toraldo Serra

    Nicola Serra e i legami coi cattolici

    Dopo essersi laureata a 23 anni a Napoli, Lydia lavora assiduamente nello studio paterno. Ha come collega un altro praticante di talento: Gennaro Cassiani, il classico ragazzo di belle speranze. Originario di Spezzano Albanese, Cassiani è nipote per parte di madre di Ambrogio Arabia, un altro principe del foro. Di orientamento cattolico-popolare, Arabia diventa sindaco di Cosenza nel 1913.
    Per Gennaro è solo questione di tempo: nel dopoguerra è uno dei primi deputati Dc e diventa sottosegretario e ministro a più riprese.
    Torniamo a Lydia, che è l’altro tassello dei legami tra Serra e il mondo cattolico. Nel 1933 la giovane avvocata sposa un altro promettente cattolico: Pasquale Toraldo, ingegnere e marchese di Tropea. Lydia segue il marito nella cittadina vibonese, dove viene ben accolta. Al punto di diventare, nell’aprile ’46, sindaca di Tropea in quota Dc.
    È la seconda sindaca della Calabria. La batte di un mese Ines Nervi Carratelli, prima cittadina di San Pietro in Amantea.

    Nicola Serra parlamentare e poi ministro

    Chi cambia partito trova un tesoro. Nicola Serra, diventato nel frattempo anche vicepresidente dell’Accademia Cosentina (1906), si candida alla Camera nel 1909.
    Il risultato non è male: 964 voti al primo turno e 1.883 al secondo. Ma non bastano e l’appuntamento è rinviato.
    Per la precisione, al 1913, quando l’avvocato prende 5.497 preferenze e diventa deputato col Partito radicale.
    Ci riprova nel 1919 e prende più voti: 5.686, che tuttavia non gli bastano per il bis. Il quale arriva due anni dopo, quando cambia collegio (non più Cosenza ma Catanzaro) e lista (l’Unione nazionale democratica, di ispirazione giolittiana), prende 19.660 voti e partecipa da “governativo” ai lavori dell’ultimo Parlamento dell’età liberale.
    Chiude la carriera come sottosegretario alla Marina mercantile nel secondo governo Facta. La sua parabola politica finisce qui.
    Già: i fascisti decidono di non aver bisogno di Serra e non lo includono nel listone coi liberali.

    Gennaro Cassiani

    Interludio: la strage di Firmo

    È il 29 gennaio 1923. Siamo a Firmo, paese arbëreshe dell’entroterra cosentino.
    Un’antica rivalità divide due gruppi di famiglie. Il primo, guidato dal sindaco e segretario del fascio Celeste Frascino, è composto da ceti emergenti, che hanno trovato nel fascismo un notevole ascensore sociale. Il secondo, invece, è composto da alcuni notabili, che – da abitudine cosentina – militano a sinistra o addirittura nel Psi.
    Tra questi due gruppi il sangue è cattivissimo e i malumori sono esasperati dalla contrapposizione fascismo-antifascismo, che sfocia in provocazioni e atti di violenza continui. Il 29 gennaio Frascino provoca di brutto l’appaltatore Angelo Feraco, che per tutta risposta gli dà un pugno in faccia e fugge.
    Il sindaco lo raggiunge, afferra la pistola e spara. Ferisce Feraco e Raffaele Lo Tufo, un contadino che passa per caso. E uccide Domenico Gramazio, un ufficiale in pensione, arrivato sul posto per aiutare Feraco.
    Da questo fattaccio scaturisce un processo durissimo, che termina con la condanna di Frascino. Tra gli accusatori, nel ruolo di avvocato di parte civile, c’è Nicola Serra.

    Nicola Serra e il fascismo

    Serra va giù durissimo, nel processo contro Frascino e accusa direttamente il fascismo che, a suo giudizio, è responsabile del clima di violenza diffuso.
    In realtà, il fascismo, subito dopo la presa del potere, inizia a scaricare i vari Frascino e tenta la pesca nel notabilato di età liberale. Chi non si espone, è cooptato e prosegue la carriera, come il deputato liberale Tommaso Arnoni, che diventa podestà di Cosenza.
    I notabili che si sono esposti, invece, finiscono sostanzialmente nel freezer. Di solito, perdono gli incarichi pubblici ma non i ruoli professionali né il prestigio sociale. È quel che capita a Serra, che continua la carriera da avvocato ma perde il ruolo di presidente dell’Accademia Cosentina.
    Tuttavia, questo notabilato riemerge nel secondo dopoguerra, spesso grazie alla mediazione della Dc, che recupera una buona fetta della classe dirigente liberale, e la fa coesistere con gli antifascisti ma anche coi fascisti meno compromessi.
    Nicola Serra non partecipa a questo recupero solo per raggiunti limiti di età.

    Luigi Facta

    Una celebrazione particolare

    Inizialmente duro col regime, Serra modera i toni. Ma comunque non cerca cariche né tessere.
    Muore a Cosenza il 22 aprile 1950 all’età importante di 83 anni.
    Quattro giorni dopo, lo ricordano in una seduta alla Camera Fausto Gullo, Gennaro Cassiani e Adolfo Quintieri, altro astro nascente della Dc cosentina.
    Classe 1887, Quintieri proviene dal mondo dell’associazionismo cattolico. Non è antifascista, ma a-fascista e, tranne per il solito giro di parentele che ammorbidisce tutto, non ha legami sostanziali con la classe dirigente liberale di cui fa parte Serra.
    Con l’ascesa di questa nuova dirigenza (e la contemporanea estinzione anagrafica di quella precedente) la politica, anche calabrese, volta pagina.
    Ma questa è un’altra storia.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Medico per professione, studioso per vocazione, rivoluzionario per tradizione (familiare) e missione. Pasquale Rossi è una figura forte del panorama socialista, non solo calabrese, di fine ’800, grazie a una vita intensa, anche se non proprio avventurosa, divisa tra attività politica e produzione intellettuale.
    Cultore curioso e profondo di sociologia, può essere considerato una versione italiana di Gustave Le Bon, l’iniziatore degli studi sulla psicologia di massa.
    Peccato solo che Le Bon sia stato praticamente rimosso dalle riflessioni culturali (e politiche) contemporanee. Altrimenti Pasquale Rossi avrebbe avuto di più delle consuete dediche toponomastiche.

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    Pasquale Rossi

    Pasquale Rossi, la rivoluzione in famiglia

    La dedica per eccellenza è la strada che porta all’ingresso dell’autostrada di Cosenza: la mitica via Pasquale Rossi, che i più conoscono per essere obbligati ad attraversarla quando entrano in città o ne escono.
    Il Nostro nasce a Cosenza il 12 febbraio 1867. Il cognome è piuttosto comune, molto meno le tradizioni familiari.
    È il terzo dei quattro figli di Francesco, classe 1807 e avvocato di grido, e di Cornelia Via, possidente più giovane di 25 anni del marito, tra l’altro sposato in seconde nozze.
    I Rossi sono la classica famiglia altoborghese cosentina dell’epoca, per estrazione economica e culturale e per attitudini politiche.

    Pasquale Rossi sr: il nonno carbonaro di Tessano

    Anzi, la politica fa parte della storia di famiglia: Pasquale Rossi, il nonno e omonimo di Pasquale, è stato un cospiratore antiborbonico. Maestro venerabile della vendita carbonara (l’equivalente di una loggia massonica) di Dipignano, Pasquale senior aderisce alla Repubblica Napoletana del 1799. A questo punto, la sua vicenda si intreccia con quella di Vincenzo Federici, detto il Capobianco, rivoluzionario e carbonaro di Altilia, dapprima filofrancese e poi oppositore di Gioacchino Murat.
    Federici, che finisce al patibolo nel 1813, è un raro caso di un rivoluzionario giustiziato per eccesso di zelo liberale.
    Finita anche l’esperienza napoleonica, nonno Pasquale continua a cospirare, anche in maniera piuttosto seria: la sua ultima esperienza forte avviene nei moti costituzionali del biennio 1820-21. Questi cenni dovrebbero far capire il background socio-culturale di Pasquale: sinistra altoborghese ma non fighetta, caratterizzata da un certo amore per la cultura, merce sempre più rara nelle classi politiche calabresi.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Piementel, l’eroina della Repubblica Napoletana

    L’esordio telesiano di Pasquale Rossi

    Tappa obbligata della Cosenza bene (non solo) dell’epoca: il Liceo Telesio. Secondo una certa retorica cosentina dura non solo a morire, ma persino a star male, ci sarebbe una differenza tra i “telesiani” e tutti gli altri: i primi sarebbero dei predestinati, pronti a diventare classe dirigente, gli altri, anche se più bravi no.
    Oggi non è vero: per accorgersene basta un’occhiata, anche distratta, ai curricula della Cosenza-che-conta, non pochi dei quali risultano addirittura carenti di titoli. A fine ’800, invece, è più che vero: Pasquale Rossi si diploma nel 1885, assieme a due compagni di classe destinati a carriere importanti. Cioè Nicola Serra e Luigi Fera. E scusate se è poco.
    Sembra l’identikit di un leader della sinistra contemporanea: figlio di papà con storia familiare alle spalle, studi importanti e amicizie altolocate.
    Ma nel caso di Pasquale Rossi, la differenza vera la fanno altri fattori: l’impegno e la capacità.

    Laurea e primi guai a Napoli

    Anche l’iscrizione all’Università di Napoli e la scelta della Facoltà, Medicina e Chirurgia, confermano lo stile molto cosentino di Pasquale Rossi.
    Forse è cosentina anche la passione politica. Ma, soprattutto, la propensione ai guai.
    Il Nostro studia con profitto. Ma, nel tempo libero, segue anche delle lezioni extra facoltà. Ad esempio, quelle di Silvio Spaventa, filosofo, deputato ed ex ministro dei Lavori pubblici e zio di Benedetto Croce. Oppure quelle di Giovanni Bovio, filosofo, storico del diritto e deputato repubblicano.
    Giusto una curiosità per gli amanti della musica: Bovio è anche il papà di Libero Bovio, poeta e paroliere della grande canzone napoletana. Suoi i testi di superclassici come Guapparia, Reginella, Lacreme Napuletane, ’O paese d’o sole, ’O marenaro, Zappatore e Signorinella.

    Il filosofo e politico Silvio Spaventa

    Torniamo a Pasquale Rossi, che in quegli anni si occupa poco di musica e molto di politica. Proprio a Napoli, l’aspirante medico incontra il socialismo. Infatti, fonda due circoli politici, il primo di studenti repubblicani e socialisti, il secondo di socialisti e anarchici. Con un pizzico di Calabria in più: ci si riferisce al ferroviere di Fiumefreddo Bruzio Francesco Cacozza e al cosentino Antonio Rubinacci, tipografo e poi segretario della Camera del lavoro della sua città.
    Tanta passione porta i primi guai: nel 1891 finisce in manette e subisce una condanna per aver partecipato ai disordini del Primo Maggio. Ma questo disguido non gli impedisce di laurearsi l’anno successivo col massimo dei voti. E, da buon notabile, di tornare a Cosenza.

    Medico e socialista in prima fila

    C’è una differenza tra i figli di papà di allora e quelli odierni: per molti dei primi, il socialismo o l’ultra-sinistra erano cose serie, capaci di marchiare a fuoco tutta la vita.
    Così è stato per Pasquale Rossi, che, una volta rincasato, apre un ambulatorio medico per i poveri e fonda un circolo socialista a Cosenza.
    Per la precisione, è il secondo della provincia, perché il primato cosentino spetta a Celico, dove sorge un circolo nel 1892, praticamente a ridosso della nascita del Psi.
    Ma ciò non toglie nulla al ruolo di Rossi, che nel 1893 è delegato dei due circoli al congresso di Reggio Emilia e finisce sotto l’ala di Filippo Turati. A questo punto, il Nostro si lancia alla grande, sia come intellettuale sia come politico.

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    Il leader socialista Filippo Turati

    Giornali ed elezioni

    Appena tornato dall’Emilia, Pasquale Rossi lancia due testate giornalistiche: Il Domani, un settimanale pensato per spingere i socialisti nelle elezioni suppletive di luglio 1893, e Rassegna Socialista, un mensile di alto profilo cultural-ideologico.
    Più borderline l’attività politica vera e propria. Nel 1895 Rossi gestisce un’operazione delicatissima: l’appoggio alla candidatura alla Camera del repubblicano amanteano Roberto Mirabelli contro il longobardese Luigi Miceli, ex garibaldino e supernotabile della sinistra.
    L’operazione riesce, ma ha un prezzo: l’alleanza, per le Amministrative di Cosenza, con il blocco liberaldemocratico. Quest’altra operazione è, addirittura, mediata dalla massoneria cosentina, in guerra con Miceli.
    Ma l’alleanza è innaturale e Rossi si ritrova isolato. Diventa assessore comunale ma è costretto a scegliere: o il municipio o il partito. Infatti, si dimette.
    Ma ha ruoli di primo piano nei successivi congressi regionali socialisti: quello di Paola (1896) e quello di Catanzaro (1897), a cui partecipa addirittura il mitico Andrea Costa.

    Andrea Costa, il pioniere del socialismo italiano

    La psicologia delle folle

    Il Pasquale Rossi studioso lascia almeno un’opera importante: L’animo della folla (Cosenza, 1898), che riprende e aggiorna La psicologia delle folle (1895), il superclassico di Le Bon.
    Al riguardo, è doverosa una riflessione: il socialismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha poco idealismo e non (ancora) molto marxismo. In compenso, è zeppo di positivismo, che è la corrente culturale egemone, almeno fino all’avvento di Gentile e Croce. Questo mix di socialismo e positivismo è tipico della sinistra dell’epoca e, per fare un esempio, condiziona anche i big successivi, a partire da Gramsci (che, non a caso, si forma a Torino, la capitale del positivismo italiano).
    Tuttavia, questo socialismo ha due caratteri particolari. È più umanitario che militante, più dialogante che rigido. Soprattutto, è aperto allo studio dell’irrazionalità.
    Che è poi il nodo centrale della psicologia delle masse, che riguarda Le Bon e il suo allievo italiano, cioè Pasquale Rossi.
    Il problema di Le Bon nella successiva storia della cultura socialista, è essenzialmente uno: le sue riflessioni non hanno alcuno sbocco “progressista”, ma si prestano davvero a tutti gli usi. E non è un caso che proprio Le Bon abbia influenzato la metamorfosi intellettuale e politica di un altro socialista, destinato a ben altra carriera: Mussolini.
    Forse anche questi motivi stanno dietro alla “rimozione” dell’intellettuale parigino dal panorama culturale Novecentesco. Una guerra tra egemonie, insomma, che ovviamente travolge i pesci più piccoli, anche se di grande spessore. Come Rossi, appunto.

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    Gustave Lo Bon

    La morte prematura di Pasquale Rossi

    Dalla fine del XIX secolo, la parabola di Pasquale Rossi è condizionata da una domanda: dove sarebbe arrivato, se non fosse morto a soli 38 anni?
    Le premesse per fare ancora molto, per lui c’erano tutte. Nel 1898 subisce un doppio processo, a Portici e a Reggio Calabria, con un’accusa particolare: aver incitato all’odio sociale nella rivista Calabria Nuova, in cui commenta i moti di Milano e la pesantissima repressione. Il rischio è grande, ma il tipo di reato (d’opinione), è un gol per un socialista.
    Che in effetti ritenta il colpaccio: una candidatura alla Camera nel 1904, che va male per un soffio. Tra una cosa e l’altra, il medico cosentino, si sposa (1898) e diventa padre cinque volte.
    Poi la morte improvvisa, a Tessano, la frazione di Dipignano da cui proveniva la sua famiglia, il 23 febbraio 1905.
    Una brusca interruzione per una vita intensa e non sempre in linea con i canoni del notabilato.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Oggi ci si ricorda di Bonaventura Zumbini con un timore un po’ prosaico: a lui è dedicata la piazza che collega il centro di Cosenza al Tribunale.
    Una zona dov’è quasi impossibile parcheggiare e, al contrario, è facilissimo beccarsi una multa.
    Zumbini, a cui è dedicata anche una scuola, è uno degli intellettuali più prestigiosi di Cosenza e del Sud a cavallo tra l’Unità d’Italia e la Prima guerra mondiale. Soprattutto, è un intellettuale che ha fatto carriera più per meriti culturali che politici.
    Cosa non facilissima nella Calabria di tutti i tempi. Ma andiamo con ordine.

    Bonaventura Zumbini: un figlio di papà con l’amore per i libri

    La biografia di Bonaventura Zumbini non è troppo diversa da quella di altri notabili meridionali della sua epoca.
    Nasce a Pietrafitta, un paesone alle porte di Cosenza, il 10 maggio 1836. È un figlio di papà di famiglia numerosa: è il primo dei sette figli di Tommaso, un facoltoso terriero, e di Maria Orlando. E, a quel che risulta, l’unico della nidiata col pallino dei libri.
    Una passione che coltiva nella biblioteca di casa. Infatti, Zumbini non frequenta le scuole ma fa la classica trafila dei precettori domestici, tipica dei rampolli della società-bene. Infatti, il suo unico titolo di studio è la laurea, conseguita a trentadue anni a Napoli (1868).

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    Bonaventura Zumbini

    Il ragazzino e il professore

    Nel 1848 Francesco de Sanctis, professore di letteratura alla Nunziatella di Napoli, è il classico intellettuale di belle speranze finito in bassa fortuna.
    Infatti, proprio in quell’anno, l’intellettuale irpinate finisce nel mirino della polizia borbonica per la partecipazione ai moti liberali al seguito di un altro intellettuale “radical”, almeno secondo i criteri dell’epoca: Luigi Settembrini.
    Quest’ultimo, avvocato mancato e letterato di grido, finisce in galera assieme ai patrioti antiborbonici. Invece de Sanctis ripara in Calabria, prima a San Marco Argentano e poi a Cervicati, dove fa il precettore a casa del barone Francesco Guzolini.
    Proprio in questo periodo, conosce il giovane Bonaventura, che ha appena quattordici anni, e resta colpito dalla sua intelligenza precoce e dalla sua erudizione, a dispetto della mancanza di titoli.
    È l’inizio di una lunga amicizia, testimoniata da un corposo epistolario.

    Intermezzo: l’odissea di de Sanctis

    A dispetto delle protezioni altolocate, de Sanctis finisce nelle maglie della polizia, che lo spedisce a Castel dell’Ovo, all’epoca temutissima galera borbonica, dove resta fino al 1853, quando re Ferdinando II lo espelle con una destinazione da cui non dovrebbe più nuocere alla monarchia delle Due Sicilie: gli Stati Uniti d’America.
    Ma il destino – o, più prosaicamente, l’equipaggio della nave su cui è imbarcato – vuole altrimenti: complice una tappa a Malta, il campano se la batte e si rifugia a Torino, che per i patrioti e i liberali è un po’ come la Parigi tra le due guerre per gli antifascisti.
    Lì si dedica alla grande alla politica e all’attività culturale, prima come mazziniano e poi come garibaldino. La conquista delle Due Sicilie apre a de Sanctis nuove prospettive: prima Garibaldi lo nomina governatore di Avellino. Subito dopo, diventa ministro della Pubblica istruzione del neonato Regno d’Italia.
    A questo punto, torniamo a Zumbini.

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    Francesco de Sanctis

    Bonaventura Zumbini: prima prof poi preside

    Mentre de Sanctis passa i suoi bravi guai e poi fa carriera, Zumbini fa l’intellettuale ricco, come dopo di lui avrebbe fatto Benedetto Croce. Studia e, soprattutto, scrive.
    Pubblica un bel po’ di articoli per Il calabrese rigenerato, l’ambiziosa rivista culturale di un altro supernotabile: Alessandro Conflenti.
    Al foglio, che vanta il primato di essere l’unico periodico non napoletano del Regno delle Due Sicilie, collaborano altri due pezzi grossi: il poeta acrese Vincenzo Julia e il nobile e intellettuale cosentino Mariano Campagna. E scusate se è poco.
    Poi Zumbini decide di mettersi in proprio e fonda La Libertà, una testata dedicata anche alle analisi socio-politiche.
    Negli anni travagliati dell’Unità, lo studioso cosentino entra nell’Accademia Cosentina, altro trampolino importante che, assieme all’amicizia di de Sanctis, si rivela fondamentale. Infatti, il neoministro nomina l’amico cosentino ispettore delle Scuole primarie del Regno.
    Poi, a partire dal 1865, Zumbini diventa prof e direttore della Scuola normale maschile di Cosenza (per capirci, l’antenata dell’attuale Liceo Lucrezia della Valle). Infine, decide di andare a Napoli per conseguire la laurea in Lettere, che ottiene a tempi di record.

    Autodidatti di successo

    A questo punto, è necessaria una riflessione sull’autodidattismo di Zumbini. Possibile che una persona come lui, coltissima ma analfabeta per lo Stato, potesse fare una carriera così notevole?
    All’epoca sì. E questo dettaglio deve far riflettere anche sul presunto analfabetismo del Sud nell’epoca preunitaria.
    In realtà, nel Regno delle Due Sicilie non è carente l’istruzione in sé ma il sistema scolastico pubblico. Detto altrimenti: le scuole sono poche, rispetto alla popolazione, ma gli alfabetizzati sono comunque di più perché, chi può, anche i “piccoloborghesi”, va dal precettore.
    Di questo aspetto curioso della società meridionale si è accorto a suo tempo lo storico Alessandro Barbero che nel suo Prigionieri dei Savoia analizza le corrispondenze dei militari borbonici e nota, anche con un po’ di meraviglia, che quello delle Due Sicilie non è in realtà un esercito di contadini analfabeti ma è pieno di artigiani, commercianti e piccoli professionisti, con un tasso di alfabetizzazione non proprio disprezzabile.
    Ciò fa presumere, come ha notato anche lo studioso Lorenzo Terzi, che i dati sull’analfabetismo meridionale al momento dell’Unità potrebbero essere falsati, perché basati solo sull’istruzione pubblica, forte al Nord, ma carente in tutto il resto del Paese.
    Come mai lo scarso interesse dei Borbone verso l’istruzione pubblica? La risposta è banale e poco retorica: l’allergia ai debiti e alle tasse della monarchia napoletana.

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Borbone oscurantisti? No, tirchi

    I Borbone, soprattutto Ferdinando II, basano molto del loro consenso sul fisco piuttosto mite. Quindi investono poco e si indebitano poco. Al momento dell’Unità, l’ex Regno delle Due Sicilie ha le casse solide, una riserva aurea apprezzabile e, soprattutto, titoli finanziari ben quotati (ad esempio, il Neapolitan Bond). Peccato solo che tutto questo non giovi molto alla popolazione, che produce a livelli di sussistenza senza una reale prospettiva di sviluppo.
    Lo Zumbini intellettuale di carriera autodidatta non è, come sarebbe stato Croce, l’eccezione che conferma la regola. È la regola, in quel tipo di società.

    Bonaventura Zumbini accademico in carriera

    Subito dopo la laurea, Zumbini pubblica Le lezioni di letteratura del prof. Settembrini e la critica italiana, che lo fa notare positivamente, grazie anche a una recensione articolata dell’amico de Sanctis.
    Come tutti i notabili, anche il Nostro si fa tentare dalla politica e si candida alla Camera in Calabria nel 1870 ma fa un passo indietro a favore di Luigi Miceli, ex garibaldino e astro nascente della politica calabrese.
    Non demorde, invece, a livello intellettuale: nel 1874 diventa presidente dell’Accademia Cosentina, nel 1877 fa carriera all’Università di Napoli grazie all’interessamento del solito de Sanctis e di Bertrando Spaventa, fratello maggiore del ministro Silvio e zio di Benedetto Croce.
    Anche in questo caso, la carriera è “lampo”: prima ottiene la libera docenza alla Scuola di Magistero (l’antenata dell’odierna Scienza della formazione), poi azzecca il concorso a professore ordinario, infine (1878), succede a de Sanctis nella cattedra di Letteratura. Non finisce qui: il cosentino, forte di appoggi ma capace anche di farsi benvolere, fa il colpaccio e, nel 1881, diventa rettore.

    Castel dell’Ovo

    Un cosentino giramondo

    Ormai Zumbini è napoletano al cento per cento: si è stabilito a Portici ma non dimentica Cosenza, dove va di tanto in tanto.
    Soprattutto, non dimentica l’Accademia Cosentina, dove fa conferenze e presso la quale promuove, in qualità di presidente, la creazione di una biblioteca. Detto altrimenti, è anche merito suo se è esistita la Civica.
    Anche l’appuntamento con la politica, rimandato negli anni ’70 dell’Ottocento, riprende alla grande: fa parte di varie commissioni ministeriali (sua l’istituzione degli esami delle Scuole medie) e viene nominato senatore nel 1901.
    Viaggia tanto, per approfondire lo studio delle letterature straniere, in particolare quelle tedesca e inglese. Al netto di ogni altra disquisizione estetico-letteraria, si può attribuire a Zumbini una specialità accademica: la letteratura comparata.
    Muore a Portici il 21 marzo del 1816 alla ragguardevole età, per l’epoca, di ottant’anni. Uno di suoi ultimi pensieri è rivolto a Cosenza e alla sua Accademia, a cui regala la propria biblioteca. Che purtroppo, finisce in cenere durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
    Restano di lui un busto marmoreo realizzato dallo scultore Mario Rutelli, esposto ancora nei locali dell’Accademia Cosentina, più varie dediche toponomastiche. A Cosenza, di cui si è già detto, e a Pietrafitta.
    Il minimo, per un intellettuale illustre, esponente di una élite di livello europeo. Forse l’ultima che abbia avuto Cosenza.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Lucrezia della Valle: una poetessa nella Cosenza di Telesio

    Lucrezia della Valle: una poetessa nella Cosenza di Telesio

    Di lei resta poco: la dedica di una scuola importante di Cosenza, un sonetto e qualche elemento biografico, tra l’altro non proprio preciso. Eppure, Lucrezia della Valle, una nobildonna vissuta a cavallo tra XVI e XVII secolo, vanterebbe almeno un primato (in assenza di documentazione contraria): è la prima intellettuale cosentina di cui si hanno tracce. Non proprio solide, ma pur sempre tracce. Ricostruiamole un po’.

    Lucrezia della Valle, l’enigma della nascita

    La data di nascita di Lucrezia della Valle è pressoché sconosciuta. A tentoni, si può ipotizzare che la poetessa sia venuta alla luce attorno al 1565.
    Lo si apprende da una lettera indirizzata da Sertorio Quattromani, lo zio di Lucrezia, al patrizio cosentino (e barone di Brunetto) Celsio Mollo.
    La missiva è datata 1597. In essa, il celebre letterato e presidente dell’Accademia Cosentina, invita l’amico Mollo a tranquillizzare Lucrezia, preoccupata del carattere a dir poco esuberante di suo figlio, Teseo Sambiasi, che si è ficcato in una bella rissa a Napoli. «Persuadela a non prendersi molto affanno di queste cose, che produce la fanciullezza», scrive Quattromani all’amico.
    È quanto basta per un calcolo presuntivo: se per “fanciullezza” s’intende la post adolescenza, Lucrezia all’epoca doveva avere almeno trentadue-trentatré anni per poter essere madre di un sedicenne.

    Sertorio Quattromani

    Una poetessa di buona famiglia

    Riavvolgiamo il nastro: sappiamo, da queste informazioni, che Lucrezia della Valle fa parte della Cosenza-che-conta del tardo Cinquecento.
    Sappiamo che suo zio è l’illustre accademico Sertorio Quattromani (infatti, è figlia di Giulia Quattromani, sorella minore di Sertorio, e di Sebastiano della Valle, proprietario e giurista legato ai Sanseverino di Bisignano).
    Suo marito è un altro accademico e, va da sé, nobile: Giambattista Sambiasi.
    Si apprende, da altre testimonianze, a partire da quelle contenute nell’epistolario dello zio, che Lucrezia ha una vita tutt’altro che irrequieta: è mamma di sei figli e, a parte la letteratura e gli impegni nell’Accademia Cosentina, dove è iscritta con il nome d’arte di Olimpia, non ha altre passioni.
    Insomma, la classica notabile d’epoca senza grilli per la testa ma con un amore solido per la cultura. Non propriamente un’aspirante Eleonora Fonseca Pimentel.

    Il giallo della morte

    Anche sulla morte di Lucrezia della Valle c’è un piccolo giallo. Nulla di grave, intendiamoci: riguarda solo le date.
    Al riguardo, trae in inganno proprio la ricca corrispondenza di Sertorio Quattromani con i colleghi accademici. In particolare, è fuorviante una lettera di Sertorio a Francesco Mauro, in cui il letterato piange la morte di una nipote, avvenuta nel 1602.
    L’incomprensione è acuita da un sonetto di Fabrizio Marotta, composto per consolare Sertorio della perdita di una donna di nome Olimpia. L’equivoco c’è tutto.
    Ma basta poco a dissiparlo. Innanzitutto, i due testamenti di Sertorio Quattromani. I documenti risalgono entrambi al 1603, il primo a ottobre, il secondo al 19 novembre, un mese prima della morte dell’accademico.
    In quest’ultimo è compreso un inventario della biblioteca dell’illustre critico e, soprattutto, la nomina ad erede di Lucrezia.

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    Il duomo di Cosenza, ultima dimora di Lucrezia della Valle

    Lucrezia della Valle riposa nel Duomo

    Il secondo dato toglie ogni dubbio: riguarda il luogo di sepoltura della poetessa, il Duomo di Cosenza.
    Questo dato è presente nel volume Cosenza Sacra (1933), di Cesare Minicucci. L’autore riporta anche la data precisa della morte di Lucrezia: 26 settembre 1622.
    Entrambi gli elementi, data della morte e luogo di sepoltura, tornano in I libri di un letterato calabrese. Sertorio Quattromani 1541-1603, un saggio dello storico napoletano Carlo De Frede (1999). E torna tutto il resto: cioè che la Lucrezia sepolta nel Duomo fosse proprio quella e non un’omonima.
    A questo punto, sappiamo che la poetessa ha vissuto poco meno di cinquant’anni a cavallo tra Cinque e Seicento, che è parte integrante del “generone” cosentino e milita nell’Accademia Cosentina. E poi?

    Solo una poesia per dire brava?

    Di Lucrezia della Valle resta solo un sonetto. Lo ha trascritto il giurista e storico cosentino Salvatore Spiriti nel suo Memorie degli scrittori cosentini (1750), in cui traccia una breve biografia della poetessa.
    Nelle due pagine (102-104) del suo libro dedicate alla poetessa, Spiriti tramanda varie notizie, tra cui quelle sulla produzione letteraria di della Valle, che comunque si riduce a poco. Un Canzoniere composto da quarantadue sonetti, una canzone, tre sestine, sei ballate e un capitolo dedicato all’amore di ispirazione platonica.
    Il tutto, in stile petrarchesco. Ma ci sta: da degna nipote e allieva, la Nostra si ispira molto a zio Sertorio che, guarda caso, è un patito di Petrarca.
    Comunque, Spiriti attribuisce a della Valle anche un’opera latina: De elegantiis latinae linguae melioribus scriptoribus excerpitis. Peccato solo che sia andato tutto perso, anche perché alle soglie dell’età moderna non esistono i file epub e pdf che possono dare l’eternità a tutto.

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    Il liceo Lucrezia della Valle

    Fu vera gloria?

    Ovviamente c’è chi polemizza e mette in discussione un po’ di cose. È il caso del napoletano Pietro Napoli Signorelli, che nel suo Vicende della coltura nelle due Sicilie
    (1810) mette in guardia i lettori dalle «congetture» di Spiriti su Lucrezia.
    Forse Signorelli non ha proprio tutti i torti: Spiriti, animato da orgoglio di appartenenza, cerca di riportare l’Accademia ai suoi vecchi fasti e perciò scrive le Memorie, che contengono un bel po’ di propaganda.
    Ma ciò non toglie che la poetessa cosentina resti una intellettuale di punta del Sud che scivolava (e non sempre bene) dal rinascimento al barocco. Lucrezia della Valle è stata paragonata ad altre letterate della sua epoca, come la laziale Vittoria Colonna, che appartiene alla generazione precedente.
    Al netto di qualche esagerazione retorica o di critiche postume c’è un dato, da non sottovalutare: Lucrezia della Valle è un’esponente di una élite di grande caratura, inserita a pieno titolo nelle classi colte europee. Il che, per una città come Cosenza, che a malapena tocca all’epoca i 10mila abitanti non è davvero poco.
    Un risultato notevole, che la città non avrebbe più ripetuto.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.