Autore: Sacha Malgeri

  • Siccità in Calabria: il peggio deve arrivare

    Siccità in Calabria: il peggio deve arrivare

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    Siccità in Calabria: l’emergenza ancora non c’è, ma sicuramente siamo in preallarme.
    Nel suo bollettino di maggio, l’Osservatorio Siccità del Cnr-Ibe ha aggiunto la Calabria tra le regioni che possono registrare nel breve periodo un grado di siccità severo-estremo. Mancano le piogge dei mesi primaverili che, insieme a quelle autunnali, contribuiscono a ricaricare i corsi d’acqua.

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    Ramona Magno, responsabile dell’Osservatorio siccità

    «In Calabria, per ora, non c’è un allarme», spiega a I Calabresi Ramona Magno, responsabile dell’Osservatorio Siccità.
    Però occorre monitorare i segnali: «Da inizio anno, il deficit si attesta intorno al 30-35%». Una mancanza significativa, ma lontana dai livelli raggiunti in certe zone del Nord. In Piemonte, ad esempio, ci sono stati più di 100 giorni consecutivi senza pioggia.
    L’attenzione deve rimanere alta, perché avremo, molto probabilmente, un’estate rovente, che potrebbe contribuire alle carenze idriche: «I nostri modelli, e anche quelli europei, sono abbastanza concordi nello stimare che questa sarà un’estate più calda e un po’ più secca della media. Ma ancora non ci sono certezze».

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    La Sila innevata

    Siccità: pioggia e neve salvano la Calabria

    Nonostante tutto, «la Calabria, come più o meno tutte le regioni meridionali, è stata più fortunata perché in inverno e in autunno delle precipitazioni ci sono state», continua Magno.
    La siccità è influenzata da tanti fattori. Quelli che conosciamo meglio sono le precipitazioni e la temperatura. «Poi risultano utili altri indicatori indiretti, come quelli che usiamo noi da satellite, in cui vediamo lo stato della vegetazione quando ci sono precipitazioni scarse e temperature alte», spiega ancora Magno.

    Importante, anche, la presenza della neve, che da noi non è mancata. Anzi, le montagne calabresi ne hanno accumulato una quantità tale da riuscire a ricaricare le falde acquifere. Ciò che non è avvenuto per il Po.
    «La Calabria si è salvata dalla siccità anche perché il centro-est del Mediterraneo ha avuto diverse nevicate nell’inverno. Il fatto che la Calabria sia un po’ più esposta a queste perturbazioni che vengono da oriente – quindi più fredde – ha aiutato».
    Ma è un equilibrio comunque delicato. L’aumento delle temperature in tutto il Mediterraneo porta una diminuzione delle precipitazioni totali annuali.

    Occhio ai fiumi

    Sul lungo periodo, va monitorata la capacità dei corsi d’acqua, per capire l’impatto di tutti questi fattori: «Quando cominciano a essere intaccate proprio le risorse idriche, allora vuol dire che il problema dura già da un po’», precisa Magno.
    Secondo il report settimanale sulle risorse idriche dell’osservatorio Anbi, i livelli della diga di Monte Marello sono in linea con gli anni precedenti.
    Diversa la situazione del bacino Sant’Anna a Isola Capo Rizzuto. Le alte temperature causate dalle ondate di calore hanno favorito l’evaporazione dell’acqua: è ai livelli più bassi da 7 anni a questa parte.

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    Il bacino Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto

    Piove meno, piove più forte

    Non solo piove meno: piove anche in modo diverso. I cambiamenti climatici rendono più frequenti e intense anche le cosiddette bombe d’acqua.
    «Osserviamo spesso periodi sempre più lunghi in cui non c’è pioggia, o ce n’è molta meno del normale, intervallati da momenti in cui le precipitazioni arrivano tutte insieme, concentrate in uno spazio», spiega ancora Magno.
    Queste piogge rendono l’accumulo dell’acqua più complicato, perché mettono le infrastrutture sotto stress. Provocano danni, smottamenti, disagi.
    Tutto succede per lo più in estate. «Su scala annua, in Calabria, come in buona parte del Meridione, diminuisce il totale delle precipitazioni. Tuttavia, è una tendenza che non registriamo in tutte le stagioni», racconta Roberto Coscarelli dell’Istituto di Ricerca per la Protezione idrogeologica del Cnr e responsabile della sede di Crotone.

    Le piogge di quest’estate

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    Roberto Coscarelli

    D’estate, prosegue Coscarelli, si tende a un lieve incremento delle precipitazioni: «I temporali estivi diventano più frequenti. Le proiezioni delle ultime settimane per l’estate in corso prevedono proprio questo: lunghi periodi senza pioggia, anche con temperature molto elevate, intervallati da periodi brevi di piogge intense, che spezzano il buon tempo estivo».
    In generale, sia per le piogge brevi ed intense, sia per i lunghi periodi secchi, si dimezzano quasi i tempi di ritorno: «Un evento, ad esempio, che succedeva mediamente una volta ogni cinquanta anni, adesso accade ogni venticinque».

    I danni all’agricoltura

    È vero che la siccità ancora non ci colpisce a fondo, tuttavia alcune zone iniziano a sentirne gli effetti. La costa jonica è la più delicata, da questo punto di vista.
    «Alcuni territori, soprattutto quelli della fascia ionica, sono notoriamente più prossimi all’aridità e alla desertificazione, anche per le loro caratteristiche climatiche e idrologiche», specifica Coscarelli.
    Non è un caso se il settore agricolo arranca. Coldiretti lamenta da qualche tempo problemi nella produzione ortofrutticola calabrese.

    Un campo riarso dalla siccità

    «La siccità ha fatto registrate una caduta di fiori e frutti negli uliveti. La media regionale del danno si attesta al 10%, mentre la costa jonica a tratti raggiunge picchi di perdite che superano il 60%», riporta un comunicato sulle condizioni dell’agricoltura in tutte le regioni d’Italia. Le coltivazioni più esposte sono quelle di olive, frutta e ortaggi.

    Siccità: anche la rete idrica fa la sua parte

    Buona parte dell’acqua che utilizziamo in casa e per irrigare si disperde, a causa delle condizioni delle tubature.
    In tutta Italia sprechiamo un terzo dell’acqua che passa dalle reti di distribuzione. Ed è proprio al Sud che le infrastrutture sono più fatiscenti.
    «Bisogna sempre fare un conto fra quello che arriva attraverso le precipitazioni e quello che si disperde prima dell’uso. Quindi bisogna essere anche parsimoniosi e cercare di ottimizzare l’utilizzo della poca risorsa», raccomanda Magno.

    Emergenza idrica: autobotti in azione a Reggio

    La prova del fuoco

    L’eventuale peggioramento della siccità nella Regione rischia di aggravare un altro problema: gli incendi.
    I terreni più secchi e le alte temperature rischiano di rendere i roghi più indomabili e ampliano le aree bruciate. Le piante stesse potrebbero diventare più vulnerabili con meno acqua a disposizione.
    Sia Coscarelli sia Magno insistono su un punto: sfatiamo il mito dell’autocombustione. È un fenomeno molto raro e, specie sul territorio nazionale, alquanto improbabile.

    Un canadair in azione durante i roghi della scorsa estate

    «L’innesco dipende sempre dalla mano dell’uomo. La propagazione invece è propiziata dalle condizioni climatiche». Cioè, dalle temperature molto elevate, dai venti, e poi dall’aridità e dalla scarsa umidità di un terreno.
    Coscarelli ha pochi dubbi: «Chi innesca questi roghi, sa benissimo quali sono le condizioni climatiche più opportune per estenderli e fare più danni».

    Prevenire la siccità: chi lo fa e chi dorme

    Ogni disaster movie inizia con gli scienziati ignorati dalla società. L’emergenza idrica non fa eccezione.
    Da anni, la comunità scientifica chiede disperatamente ai politici di tutto il mondo di prepararsi al peggio.
    E, ricorda ancora Magno, chi ha voluto si è preparato prima: «In questi giorni si parla di quanto si sta facendo a livello comunale, provinciale e regionale. Ed emerge a malapena solo ora che alcune regioni si erano già mosse».
    Altri, invece, continuano a oscillare da un’emergenza all’altra, refrattari alla pianificazione. Che invece è fondamentale per affrontare i cambiamenti climatici. «Bisogna monitorare la situazione e cercare di essere pronti a intervenire prima che i danni siano eccessivi, come ora succede a Nord, dato che questo è un fenomeno che scende di latitudine».

    In attesa del piano acqua

    Per ora, le Regioni spingono affinché l’esecutivo dichiari il prima possibile lo stato di emergenza. La ministra per il Sud e la coesione territoriale Mariastella Gelmini, ha detto che da sei mesi lavora insieme ai governatori a un “piano acqua”, di cui ancora non si conoscono i dettagli.
    Per i prossimi mesi, non è escluso che possano essere imposti razionamenti idrici in alcune parti d’Italia. Tanti Comuni calabresi, nel frattempo, emettono ordinanze per evitare gli sprechi.
    Bisogna prepararsi a un futuro difficile, dove l’acqua sarà un bene da gestire con cura. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 2000 sono aumentati del 29% il numero e la durata delle siccità, con un bilancio di 650mila morti dal 1970 al 2019. Un bambino su quattro vivrà in aree con estrema carenza d’acqua entro il 2040.

  • Mare da bere? Il potenziamento del depuratore può attendere

    Mare da bere? Il potenziamento del depuratore può attendere

    In questi giorni avremmo dovuto assistere all’inizio dei lavori di potenziamento del depuratore di Paola. Un progetto ambizioso: 4 milioni di euro sono stati investiti per migliorare l’impianto esistente, in località Pantani, e per allacciare 8 zone della città alle reti fognarie. Tutto rimandato.
    In teoria, è quasi tutto pronto: il progetto prevede di aumentare la portata dell’impianto da 38mila a 50mila abitanti equivalenti. La gara d’appalto è stata vinta dalla Mansueto Snc, che si occuperà sia della gestione che della manutenzione del depuratore di Paola. C’è già l’ok a progetto esecutivo e relative modifiche. Eppure, è ancora tutto fermo.

    Cinque anni senza autorizzare il depuratore di Paola

    Sullo sfondo, ci sono le elezioni comunali, che ancora devono vedere un vincitore. Al primo turno c’è stata la batosta per il sindaco uscente, Roberto Perrotta, che non è riuscito ad arrivare al ballottaggio per pochi voti. Il 25,2% non è bastato per garantirsi un posto al secondo turno. Il prossimo 26 giugno saranno Emira Ciodaro e Giovanni Politano a sfidarsi per ottenere la poltrona di primo cittadino.
    Sul depuratore di Paola, quindi, ci sarà una nuova amministrazione a prendere le decisioni. E ci sono ancora delle questioni rimaste in sospeso.

    Il lungomare di Paola

    Il Comune non ha l’autorizzazione per lo scarico delle acque reflue del depuratore. «Scaricano, ma l’autorizzazione non c’è. La richiesta è del lontano 2017», racconta Chiara Polizza, referente locale della associazione Mare Pulito, che si è confrontata con l’amministrazione sul progetto.
    Il Comune ha presentato ben 5 anni fa la domanda alla Provincia per l’impianto esistente. Sostiene di non aver mai ricevuto una risposta. Non è un dettaglio di poco conto: senza un’autorizzazione vera e propria, non si capisce chi dovrebbe fare le analisi delle acque reflue, fondamentali per capire le performance del depuratore.

    Il tempo corre

    Un’altra questione irrisolta è quella della manutenzione, che fino almeno al 30 settembre prossimo sarà sotto le mani della Ecotec, la società che ha gestito il depuratore di Paola fino a questo momento e che ha ottenuto una nuova proroga del contratto. «Però il Comune voleva implementare il lavoro della Ecotec con la nuova ditta assegnataria dei lavori». Così come andrà deciso chi deve fare le analisi delle acque (e con quale frequenza) del depuratore di Paola.

    https://www.facebook.com/watch/?v=432000725112992&ref=sharing

    Salvo miracoli, è difficile pensare che i lavori possano partire durante l’estate. «Il processo di attivazione di una linea richiede 4 settimane. La depurazione è un processo naturale, sono batteri che mangiano la parte organica, la trasformano in minerale. Per avere una colonia di batteri che soddisfi il fabbisogno, bisogna avere il tempo di farli crescere. È un processo che va attivato per tempo» ci spiega Luigi Sabatini, co-presidente del comitato scientifico di Legambiente.
    Per ora, la situazione sul Tirreno cosentino è di calma apparente. Il mare è pulito, anche se ci sono già stati i primi avvistamenti delle chiazze marroni in alcune spiagge, a Paola come nel resto del territorio della provincia.

    Il depuratore di Paola e l’interventismo regionale

    Lo stesso Roberto Occhiuto si è mostrato attento alla situazione del depuratore di Paola. Ad aprile, durante un punto stampa con i giornalisti, il presidente della Giunta regionale l’aveva citata, insieme a Fuscaldo, come città particolarmente problematica, dove «forse anche edifici pubblici non sono collettati. Un inquinamento che non è arginabile nemmeno dal buon funzionamento dei depuratori».
    Per quest’estate, non si vedono rivoluzioni in vista. «Io spero che si riuscirà ad avere un mare almeno per il 40-50% più pulito», aveva dichiarato il presidente.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Però, da quando si è insediata la nuova giunta, la Regione ha incarnato un nuovo interventismo sul tema, e in generale sulla salvaguardia dell’ambiente.
    Lo scorso 17 marzo, la Regione ha preso in mano la gestione dei fanghi da depurazione nei comuni più in difficoltà sulla fascia tirrenica, tra Tortora e Nicotera. L’ultimo intervento “muscolare” è del 17 giugno. Con un’ordinanza, Occhiuto ha deciso che il Corap dovrà sovrintendere la gestione di 14 impianti, fino al prossimo 30 settembre.
    Il commissario Sergio Riitano gestirà i depuratori di:

    • Nocera Terinese
    • San Lucido
    • Ricadi
    • Fuscaldo
    • Pizzo
    • Tropea
    • San Nicola Arcella
    • Belvedere Marittimo
    • Guardia Piemontese
    • Sangineto
    • Belmonte Calabro
    • Parghelia
    • Zambrone
    • Briatico

    In queste strutture la Regione ha «accertato il mal funzionamento di sezioni impiantistiche deputate alla depurazione delle acque reflue con la conseguente compromissione del processo di trattamento e con conseguente pericolo per la salute umana e per l’ambiente». Occhiuto ha annunciato ulteriori dettagli sull’ordinanza per la mattina di lunedì 20 giugno.

    La caccia agli abusivi

    Per prendere il toro per le corna, la Regione ha rafforzato i controlli sui corsi d’acqua, sia con l’aiuto di Arpacal, sia con la stazione zoologica Anton Dohrn, con cui ha  stipulato una convenzione per la tutela del mare e delle coste calabresi, a novembre 2021.
    Durante l’anno c’è stata la mappatura di corsi d’acqua, scarichi, vari siti inquinati. «La Regione Calabria, attraverso Arpacal ha recentemente attivato un piano di rafforzamento per il monitoraggio delle acque superficiali e sotterranee. Quest’ultima attività consentirà una classificazione delle acque sotterranee della Calabria secondo quanto previsto dalla Direttiva Acque», ci ha raccontato Michelangelo Iannone, direttore scientifico di Arpacal.

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    Uno scatto relativo all’operazione Deep

    Il fermento ha portato a nuovi interventi delle forze dell’ordine, per colpire gli scarichi abusivi o irregolari. Lo scorso 24 marzo è stata la volta della operazione Deep. I carabinieri hanno messo i sigilli a 5 impianti nelle province di Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia.
    Un mese dopo, gli inquirenti si concentrano sulla provincia di Reggio Calabria, con l’operazione Deep 1. I Carabinieri hanno controllato 48 strutture in provincia di Reggio Calabria, dichiarandone irregolari 14. Per tre di queste è scattato il sequestro, insieme ad un impianto di sollevamento (a Campo Calabro) e a un canale di collegamento delle acque reflue (Sant’Agata del Bianco). Le operazioni Deep 2 e Deep 3 hanno continuato su questa falsariga.

    Avanti piano

    I passi avanti sono evidenti, ma ci vorrà molto tempo e lavoro per avere un quadro preciso. E, come sottolineato dal generale Salsano alla Gazzetta del Sud, non basta la repressione. Continuare a potenziare il monitoraggio renderà più facile individuare i siti problematici. Michelangelo Iannone, presentandoci i dati, ci ha raccontato che su 102 impianti controllati dai tecnici dell’Agenzia nel 2021, «oltre un terzo è risultato irregolare per la mancata conformità dei parametri sia chimici che biologici». Di questi, 11 sono nella provincia di Cosenza.

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    Anche sui comuni non collettati non sono stati fatti grandi passi avanti dai tempi dell’ultima procedura di infrazione europea contro l’Italia sul trattamento delle acque reflue. In Calabria ci sono quasi 150 centri che hanno zone scollegate dalla rete fognaria, stando ai dati del Commissario Straordinario Unico per la Depurazione.
    La Calabria è l’unica Regione dove persino il capoluogo ha delle parti di città non coperti dalla rete fognante. Avremmo dovuto metterci in regola nel lontano 2005, ma non è successo.

    I fanghi spariti e la manutenzione inesistente

    La Calabria è piena di «impianti fermi, impianti da efficientare, ed impianti inesistenti». Ci ricorda Sabatini, citando il caso del depuratore di Pizzo Calabro, in località Carcarella: una delle strutture commissariate dalla Regione. «Da 5 anni monitoro la situazione dei depuratori. Per me, non è cambiato nulla. Quello che c’era nel 2016, c’è nel 2022. Ci sarà qualche piccola novità, come Priolo, che è riuscito a sistemare qualche impianto. Ma niente che stravolge la situazione attuale»
    Quelli che ci sono, potrebbero fare molto di più: «Su una capacità totale di 3 milioni di abitanti equivalente, viene servito 1 un milione di abitanti, l’acqua dovrebbe essere ottima, ma non è così».

    Un’altra incognita è quella dei fanghi prodotti della depurazione. Nel senso che i dati sono quasi inesistenti. Le città li comunicano a macchia di leopardo, quando non mancano del tutto. Sul sito della Regione, i dati dei report provinciali sono aggiornati al 2017. E, senza dati costantemente aggiornati e accessibili, non si può valutare a fondo le condizioni di un impianto. I fattori da valutare sono tanti, così come le cose che possono andare storte.
    I fanghi incastrati nelle tubature degli impianti contribuiscono a renderli più inefficienti. Dalle ultime inchieste è emerso che oltre 22mila tonnellate di scarti stanno bloccando gli impianti di tutta la Regione.

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    La manutenzione è un altro dei punti focali: dovremmo aver imparato la lezione, dopo anni di malagestione in tutto il territorio. «Tutti i comuni dichiaravano quantità di fanghi inferiore rispetto a quello che ci aspetta dalla letteratura scientifica. Per ogni metro cubo di acqua trattata dovrebbe uscirne fuori 2 kg di fanghi», ci spiega Sabatini.
    Il sistema attuale, ad esempio, non incentiva allo smaltimento regolare dei fanghi. Chi se ne occupa, di solito, riceve un pagamento forfettario, che non è legato alla quantità di fanghi che vengono lavorati: «Fingere di depurare bene aiuta a risparmiare. I fanghi devono essere pagati in base alla misura».
    Legambiente propone da tempo di non affidare allo stesso soggetto la gestione e la manutenzione dell’impianto. Una scelta che viene fatta spesso, per semplicità, ma che carica di spese e lavoro un solo soggetto.

    Il peso dell’acqua inquinata

    Sappiamo che è un problema vasto, che non riguarda solo gli scarichi abusivi. In mezzo ci stanno infrastrutture fatiscenti, progetti mai finiti, paesi non collegati alla rete fognaria, impianti dimensionati male, e altri che non dividono il trattamento delle acque nere e quelle bianche. E una diffusa insensibilità verso ciò che ci circonda, e che ci tiene in vita.
    Stare a contatto con l’acqua contaminata è sempre un rischio. In particolare, ingerirla può far insorgere delle malattie gastrointestinali. «Importante in termini di possibili ricadute sulla salute può essere la presenza di sostanze in grado di interferire col sistema endocrino, specialmente nelle acque potabili», spiega Iannone. Un fattore monitorato costantemente dall’Arpacal è quello legato alla presenza di metalli pesanti, «alcuni dei quali sono causa riconosciuta di patologie neurologiche».

    I contaminanti, poi, possono finire nel cibo che mangiamo. «Metalli pesanti, sostanze come PFAS, pesticidi ed altre vengono continuamente monitorate, sulla base delle indicazioni dettate dalla legge, proprio allo scopo di mettere in evidenza l’eventuale presenza di tali inquinanti, con il fine ultimo di identificare e rimuovere la causa dell’inquinamento», precisa ancora Iannone.
    Poi, ci sono le evidenze economiche. Un turismo che plana, ma non decolla mai. Non è un caso se, come riportato dal Sole 24 Ore il 15 giugno, il Sud, in generale, è la macro regione dove ci sono meno turisti. Mancano sia i viaggiatori interni, che esterni. E se il trend è in risalita, è difficile pensare che possa avere un impennata in tempi brevi, se le infrastrutture sono queste.

  • In Calabria arrivano i taser, ma è una buona notizia o no?

    In Calabria arrivano i taser, ma è una buona notizia o no?

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    Nella fondina di poliziotti, carabinieri e finanzieri calabresi potreste notare qualcosa di diverso. Un’arma in più: delle grosse pistole gialle, che possono sparare due elettrodi collocati su dei piccoli dardi. Al momento dell’impatto, i muscoli del soggetto colpito si contraggono, impedendone i movimenti per qualche secondo.

    Dal 6 giugno, il taser è a disposizione – in un numero limitato – delle forze dell’ordine di Gioia Tauro, Tropea, Cirò Marina, Soverato, Roccella Ionica, Paola e Sellia Marina.
    Non sono i primi agenti ad averlo. Già dal 23 maggio, i taser sono entrati a far parte dell’equipaggiamento dei loro colleghi di Catanzaro, Cosenza e Locri. E dal 31 maggio, il governo ha autorizzato la sua distribuzione alle forze di polizia di Crotone, Corigliano-Rossano, Vibo Valentia, Lamezia Terme, Melito di Porto Salvo e Rende.

    Queste pistole vengono viste soprattutto come un buon deterrente verso i violenti: secondo i sostenitori e le aziende che le producono, contribuiscono ad aumentare la sicurezza degli agenti e dei civili.
    Tra entusiasmi e sbrodolamenti, quello che manca è un dibattito serio ed informato sulla questione. I taser sono armi non letali, ma non sono esenti da rischi per l’incolumità delle persone che subiscono la scossa.

    Le prove balistiche finite male

    Le pistole ad impulsi elettrici sono comunemente note come taser a causa del principale player sul mercato.
    La Taser International è stata l’azienda più nota per la produzione di queste armi. Esiste ancora, ma ha cambiato nome in Axon nel 2017. Ed è proprio lei a fornire l’arma agli agenti italiani.
    La sperimentazione del taser a livello nazionale ha avuto una storia complicata. Se n’è parlato per la prima volta nel 2014, con Angelino Alfano come ministro dell’Interno e Matteo Renzi Presidente del Consiglio. Con la conversione in legge del decreto Stadi, venne autorizzata la prima sperimentazione.

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    L’allora ministro Salvini al centro nazionale di specializzazione e perfezionamento al tiro VIII Reparto Mobile

    Ma è nel 2018, con Salvini al Viminale, che l’iter è partito per davvero. L’acquisto dei taser era stato inserito persino nel contratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle, per la formazione del Conte I. A luglio di quell’anno, 30 taser sono stati distribuiti alle forze dell’ordine di 11 città, per iniziare la sperimentazione.

    https://www.facebook.com/salviniofficial/videos/348241469201928

    Il 21 luglio 2020 arriva il primo stop. Le prove balistiche non sono andate bene. I dardi non avrebbero avuto la giusta precisione, e tendevano a staccarsi dal cavo elettrico. Problematiche che mettevano a repentaglio l’incolumità dei civili e degli agenti.
    Ai tempi, il dipartimento della polizia di Stato aveva spiegato in una nota che «sono state riscontrate delle criticità relative alla fuoriuscita dei dardi, che hanno dato risultanze non conformi alle previsioni del Capitolato tecnico». Una circolare del ministero ordina il ritiro dei dispositivi già dati agli agenti. Axon aveva protestato molto, ritenendo le sue armi conformi alle specifiche tecniche del bando di gara.

    Il 23 febbraio 2021, l’ex Taser International viene esclusa da un nuovo bando. Oltre ai già noti problemi tecnici, emersero nuove criticità, secondo quanto riportato da L’Espresso: dalle fondine sbagliate, alla mancanza di istruzioni in italiano.
    Il giorno dopo è il Viminale a sbloccare la situazione. Invece di istituire un nuovo bando, si sceglie una procedura negoziata: sarà l’offerta economica più vantaggiosa ad essere decisiva. Partecipano le tre aziende che hanno partecipato ai bandi precedenti, ma è di nuovo Axon ad avere la meglio.

     

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    Una schermata del sito della Axon

    Il taser è uno strumento sicuro?

    Il mese dopo arriva l’acquisto di 4.482 pistole TX2 della Axon per la sperimentazione in 14 città metropolitane. Tra queste c’è Reggio Calabria, il primo centro calabrese in cui Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza hanno i taser in dotazione.
    A parte il Silp, che ha denunciato la troppa fretta nell’implementare i taser, la maggior parte dei sindacati di polizia hanno espresso la loro soddisfazione.

    In Calabria, Gianfranco Morabito, segretario provinciale del Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia (Siulp) a Catanzaro, ha accolto favorevolmente la cosa: «L’utilizzo e la distribuzione di tale dispositivo eviterà il rischio del contatto diretto con l’antagonista fuori controllo, inibendone la furia aggressiva e dando il tempo necessario a contenerlo». Sulla stessa falsariga la reazione di Sergio Riga, segretario provinciale del Sap di Catanzaro.

    La destra canta vittoria

    Sia a livello locale che nazionale, è stata soprattutto la destra a cantare vittoria. Domenico Furgiuele, deputato calabrese della Lega, lo ha definito «uno strumento di non violenza che ha dato ottimi risultati».
    Come ha spiegato il sottosegretario Molteni, «l’utilizzo operativo del taser è stato avviato lo scorso 14 marzo e sta seguendo un cronoprogramma serrato», compreso della formazione degli agenti.

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    Molteni e Salvini

    L’intenzione è quella di estendere la dotazione a tutti i reparti delle forze dell’ordine «uno strumento indispensabile per tutelare l’incolumità e la sicurezza degli operatori delle forze di polizia, un’arma di difesa e non di offesa, di sicurezza e non di violenza, un deterrente straordinario per i nostri agenti di polizia».
    Quello che non emerge spesso nel dibattito è quanto il taser sia rischioso per chi lo subisce. Nonostante i proclami sulla sicurezza, “non letale” non significa priva di rischi.

    Eccessi di violenza

    Nel 2007, una commissione dell’ONU li aveva equiparati a strumenti di tortura, che violano la Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite. Un modello diverso da quello attualmente in dotazione in Italia.
    Negli anni, sono molte le voci che si sono alzate contro queste armi, dalle associazioni, ai centri di ricerca, fino alle redazioni di alcuni giornali, che con il loro lavoro hanno documentato i dubbi, gli incidenti, le morti sospette.

    Uno degli aspetti messo più in risalto dagli attivisti è che la pistola ad impulsi elettrici renderebbe le forze dell’ordine più propense ad utilizzarla quando non ce ne sarebbe il bisogno. «Proprio per la sua minore letalità può essere usata con eccesso di disinvoltura», spiegava ad Huffpost Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International.

    Quella disinvoltura che ha spinto Alex Galizzi, consigliere leghista della Regione Lombardia, a provarlo su sé stesso.
    Nel video, Galizzi dice convinto: «Non è un’arma». Ma non è vero. Per la legislazione italiana, infatti, è un’arma propria, soggetta alla regolamentazione sulle armi. Questo vuol dire che solo chi ha un porto d’armi può acquistarla, e non può essere portata in giro per strada.

    Tutto quello che non sappiamo sui taser

    È difficile dire che si è fatto tutto con la massima sicurezza possibile, come fa il sottosegretario Molteni, quando non esistono nemmeno studi scientifici e clinici sui pericoli delle scosse elettriche dei taser sulle persone.
    Come ha evidenziato uno studio portato avanti dal Dipartimento di Igiene e Sanità Pubblica dell’Università della Sapienza, a Roma, è stata la stessa Axon a commissionare più della metà delle ricerche. Un enorme problema di conflitto di interesse.

    sapienza-ingresso
    La Sapienza di Roma

    Sappiamo però che ci sono dei rischi. Le scariche del taser possono causare aritmia cardiaca a delle persone sane.
    Anche in questo caso, però, sono i soggetti più fragili ad avere la peggio, e ad essere più esposti a rischio di arresto cardiaco e di una possibile morte improvvisa.
    In particolare, a rischiare di più sarebbero i cardiopatici, le persone che fanno uso di droghe, o chi si sottopone a sforzi fisici prolungati (ad esempio, come chi scappa da un inseguimento della polizia). Inoltre, i pacemaker rischiano di subire delle interferenze.

    Arma letale

    Infine, la mortalità. Nel 2019, un’inchiesta di Reuters aveva svelato un dato allarmante: 1081 americani sarebbero morti tra il 1983 al 2018 a causa delle scariche dei taser della polizia. La maggior parte sono morti nei primi anni 2000. A subire le conseguenze sono state soprattutto le comunità afroamericane.

    Uno studio del Criminal Justice Service della Standford University era arrivato alla conclusione che la maggior parte della popolazione non poteva essere soggetta alle scariche del Taser. L’arma può essere usata in sicurezza solo «su individui in salute che non sono sotto l’effetto di droga e alcol, non sono in stato di gravidanza e non soffrono di disturbi mentali, a patto che il soggetto riceva una scossa standard della durata di cinque secondi su una delle aree del corpo approvate».
    Condizioni che un agente non può di certo garantire in situazioni di emergenza.

  • Crotone: la città dell’eterna crisi idrica

    Crotone: la città dell’eterna crisi idrica

    Crotone è rimasta per qualche giorno senz’acqua, per l’ennesima volta. È una storia che si ripete quasi all’infinito. Un tubo si rompe, si grida allo scandalo, si chiedono tavoli tecnici, si parla di soluzioni definitive. E poi si rimane fermi, fino alla prossima emergenza.
    Questa volta, la rottura dell’adduzione principale, che collega la vasca di Calusia con il potabilizzatore, è avvenuta nel momento peggiore possibile. I rubinetti della città sono rimasti senza acqua durante i giorni della festa della madonna di Capocolonna. Un danno d’immagine ed economico, viste le difficoltà delle attività commerciali.

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    La sacra effige della Madonna di Capo Colonna in processione (foto pagina facebook Santuari Italiani)

    Il permesso della Procura per riparare la perdita

    Da 12 al 14 maggio, buona parte della città non ha ricevuto niente, oppure ha visto il servizio funzionare ad intermittenza. A rallentare ancora di più il tutto, il fatto che è servito il via libera della Procura per riparare la perdita: la tubazione, in località Margherita, si trovava in un’area sottoposta a sequestro.
    Per mettere una pezza, la Sorical ha attivato un piano di emergenza. La società ha attivato una condotta di emergenza per prendere l’acqua grezza dal bacino Sant’Anna. Una mossa insufficiente: i livelli del bacino non possono garantire la copertura di tutta la città. infatti, fin da subito il commissario della società, Cataldo Calabretta, ha avvisato che il servizio non sarebbe stato ripristinato completamente.

    Al momento, l’allarme è rientrato. Il guasto è stato riparato, ma il lavoro di manutenzione non è finito. Dal 25 al 28 maggio, Crotone rimarrà di nuovo senz’acqua. Il Corap è al lavoro per degli interventi di manutenzione straordinaria sulla condotta di adduzione.
    Le scuole di ogni grado rimarranno chiuse per 3 giorni. Per limitare i disagi, delle autobotti verranno piazzate in varie zone della città, per distribuire l’acqua agli abitanti. «Congesi prevede una serie di manovre da effettuare sui serbatoi cittadini per garantire, attraverso turnazioni, equamente il servizio idrico in tutti i quartieri della città», si legge nel comunicato del Comune.

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    Salvini e Cataldo Calabretta

    L’eterno ritorno dell’uguale

    Ad alimentare l’eterna crisi dell’acqua in città è la condizione pietosa delle tubature. Ciclicamente, le vecchie tubature di cemento armato si rompono. Il più delle volte, accade nei mesi di luglio e agosto.
    Negli ultimi anni, quasi ogni estate ci sono verificati dei guasti, sparsi in varie zone della città, o della provincia, come la rottura della conduttura a Belvedere Spinello, nel 2021. A maggio 2020 si ruppe una condotta gestita dal Corap, in località Iannello di Rocca di Neto. Il mese dopo, un altro guasto ad una tubatura Corap. E così, ogni volta.
    Le rotture tendono a concentrarsi sulla condotta di adduzione principale, che porta l’acqua del fiume Neto che si trova nella vasca di Calusia fino al potabilizzatore di Crotone, gestito dalla Sorical.

    Tre società per una condotta

    A complicare le cose è la gestione labirintica della fornitura d’acqua, che è di competenza regionale. L’impianto idrico è affidato a tre società: la Sorical, la Corap e il Consorzio di Bonifica Ionio Crotonese. Ogni volta che si verifica un guasto, la prima cosa da fare è capire di chi sia il tratto, e attivare chi di competenza.
    Il servizio integrato, invece, fa capo alla Congesi, il consorzio di 14 comuni della provincia crotonese.
    Questa frammentazione è uno dei motivi per cui il rinnovamento delle infrastrutture va a passo di lumaca. Gli accordi tra le parti sono sempre complicati, e i litigi sono frequenti, tra accuse di mancati pagamenti e di forniture mai ricevute.

    Ora che si fa?

    Nel frattempo, si cercano soluzioni per ovviare all’eterna crisi. Il sindaco della città Vincenzo Voce, lo scorso 18 maggio ha chiesto il ripristino del serbatoio di San Giorgio.
    L’impianto ha più di 20 anni: è stato costruito nel 2000, e non è mai stato attivato.

    «Il serbatoio non è stato mai messo in funzione e negli anni ha subito danneggiamenti, con l’asportazione di tutte le attrezzature elettromeccaniche, ed anche le condotte di alimentazione e di presa, essendo realizzate in acciaio e prive di protezione catodica, risultano in pessimo stato di conservazione», ha fatto sapere il sindaco Voce in una nota.
    Anche se il progetto dovesse andare in porto, la rimessa in funzione richiederà del tempo. Nei giorni scorsi, comunque, il sindaco ha chiesto un nuovo incontro a tutte le parti coinvolte, per trovare una soluzione condivisa. L’ennesima tavola rotonda.

    L’acqua potabile che finisce in mare

    La dispersione dell’acqua dovuta da un infrastruttura obsoleta è un problema che riguarda tutto il paese. Nel 2020, secondo i dati dell’Istat, il 36,2% dell’acqua immessa nella rete italiana è andata perduta, si tratta di 0,9 miliardi di metri cubi, una cifra che è difficile anche immaginare.
    Il problema è più accentuato a sud, e Crotone ne è uno degli esempi massimi. il presidente della Congesi, Claudio Lotti, nel 2021 si lamentava che la metà dell’acqua consegnata da Sorical si perdeva sotto terra.
    Senza contare che una buona porta dell’acqua viene persa a causa delle perdite delle tubature fatiscenti. Quando non finisce direttamente a mare.
    Proprio il Consorzio di Bonifica dello Ionio crotonese, ad agosto del 2021, ha denunciato un enorme spreco d’acqua. Secondo loro più di 200 milioni di litri cubi di acqua potabile all’anno finiscono per essere scaricati in mare.

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    Lungomare di Crotone (foto © Agostino Amato)

    «Un privato – spiega Claudio Lotti – viene legittimato a produrre energia e profitti con concessioni di uso di acqua pubblica e […], può tranquillamente sversare l’acqua a mare mentre, nei periodi di piena emergenza, pretende, dalla stessa Regione Calabria, quei rilasci in più che invece sono indispensabili per comuni ed imprese agricole e turistiche».
    L’attacco è rivolto alla A2A, la società idrica proprietaria delle centrali idroelettriche di Orichella, Timpagrande e Calusìa. Dall’azienda avevano fatto sapere che «quanto avviene alla risorsa idrica a valle dello scarico della centrale di Calusia non rientra nelle proprie prerogative di concessionaria né nelle proprie correlate responsabilità». Un rimpallo, che non aiuta di sicuro a mettere un freno allo spreco.

    Da ultimo, dobbiamo considerare la mancanza di piogge. Le province di Catanzaro e Crotone sono quelle dove la piovosità è stata più bassa negli ultimi anni. Un trend che rischia di aggravare una situazione che è già molto precaria.

    Se Crotone piange, la provincia non ride

    La malagestione delle condutture idriche è un male che infetta tutta la provincia di Crotone.
    La Sorical, lo scorso 18 maggio, ha chiesto ai sindaci di 15 comuni della zona di ridurre al massimo gli sprechi e di reprimere i furti d’acqua. Una richiesta quasi beffarda, per prepararsi ad un’estate che potrebbe essere problematica. A San Giorgio Albanese è stato sospeso il servizio di mensa scolastica per due giorni, per un guasto di una tubatura in località San Cosmo.
    Belvedere Spinello, Carfizzi, Casabona, Cirò, Cirò Marina, Crucoli, Melissa, Pallagorio, Rocca di Neto, San Nicola dell’Alto, Santa Severina, Savelli, Strongoli, Umbriatico e Verzino rischiano di subire interruzioni durante la stagione estiva.Alcuni centri stanno già vivendo le prime difficoltà.

    Molto spesso, a farsi sentire sono gli agricoltori, una delle categorie più colpite dalla mancanza d’acqua. Se manca l’acqua nei momenti sbagliati, i raccolti possono risentirne. Alcune colture possono andare perdute, vanificando mesi di lavoro.
    Lo scorso 20 aprile, gli agricoltori di Cutro ed Isola Capo Rizzuto si sono presentati in Regione, per parlare della mancanza d’acqua per i loro raccolti. A risentirne, sarebbero soprattutto le produzioni di finocchio e grano.

    L’estate scorsa, avevano scelto un metodo più vistoso. Il 27 agosto 2021, per esempio, è stata la volta dei trattori in autostrada. Una rappresentanza di questi agricoltori ha percorso le Statali 106 e 107 sui loro trattori, per protestare contro la A2A di fronte all’invaso di Calusia, nel comune di Crotonei. Una protesta simile l’avevano già portata avanti nel 2020.
    Nella storia dell’infinita crisi idrica crotonese, è difficile togliersi questa sensazione che tutto stia girando a vuoto.

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    Palazzine di edilizia popolare (Aterp) nella periferia di Crotone (foto © Agostino Amato)

     

  • Termovalorizzatore: la Danimarca fa marcia indietro, la Regione Calabria vuole raddoppiarlo

    Termovalorizzatore: la Danimarca fa marcia indietro, la Regione Calabria vuole raddoppiarlo

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    Lo scorso 10 maggio, il presidente della Regione Roberto Occhiuto e i rappresentanti della città metropolitana di Reggio Calabria si sono riuniti alla Cittadella per parlare del raddoppio e l’ammodernamento dell’unico termovalorizzatore di Gioia Tauro.
    Due ore d’incontro, per accordarsi sull’essere in disaccordo.
    Un intervento che la Regione ha voluto inserire nel nuovo piano rifiuti, per liberarsi dalla dipendenza dalle discariche ed evitare accumuli di rifiuti prima della stagione estiva, oltre che per migliorare l’impatto ambientale della struttura.

    Gli amministratori e le comunità della Piana non ne vogliono sapere. «Serve una politica seria, nero su bianco, che ponga come ultima fase la chiusura degli impianti di termovalorizzazione. Se ti dai questo obiettivo, diventi credibile» ci dice, polemico, Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro, che era presente all’incontro. Qualche giorno prima, il 7 maggio, nella città c’è stata una prima manifestazione di protesta.

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Il territorio di Gioia è particolarmente sensibile al tema della salute. Nel 2018, uno studio dell’Asp di Reggio insieme ad Arpacal e all’Irccs di Bari ha attestato un tasso più alto di incidenza e di mortalità per le neoplasie polmonari nella città e, in generale, nell’area tirrenica. Se non è possibile collegarlo direttamente all’impianto, è vero che la zona della Piana presenta più siti ambientali a rischio.
    Gli impianti di nuova generazione danno più garanzie, da questo punto di vista. Ma rimangono tanti dubbi sulle emissioni e sul ruolo che possono avere nel compromettere lo sviluppo della raccolta differenziata sul territorio.

    Gioia Tauro, un termovalorizzatore a mezzo servizio

    La gestione dell’impianto è la croce più grande che la città si è dovuta caricare sulle spalle, secondo il sindaco Alessio: «Non sono state fatte a dovere né le manutenzioni ordinarie né le straordinarie. E ora ci raccontano la barzelletta che con le nuove misure dovrebbe andare tutto bene. Perché dovrei credergli?». Le due linee che lo costituiscono sono ormai obsolete, sorpassate dagli impianti di nuova generazione, che permettono un controllo più stretto su cosa si brucia, e di inquinare meno.

    A confermare il quadro tragico del termovalorizzatore in contrada Cicerna è un documento tecnico del dipartimento regionale Ambiente che è stato allegato alla manifestazione d’interesse per il project financing. Il documento parla di «continui fermi d’impianto» e di una produzione bassa. Le linee inceneriscono «quantitativi molto inferiori rispetto alla potenzialità autorizzata», che si attesta sulle 120mila tonnellate ogni anno.

    Alessio non si fida più delle promesse: «Ci stanno raccontando delle favole. E le favole sono tutte belle. Anche 22 anni fa, quando sono state costruite la prima e la seconda linea, la favola era che non avremmo respirato sostanze nocive. E che avremmo avuto il teleriscaldamento. Ormai nessuno ne parla più».
    La gestione dell’impianto attuale non è mai stata chiara. «Non c’è mai stata una gara pubblica con un assegnamento definitivo. La Regione l’ha consegnata ai privati. Rimaniamo nella transitorietà: le cose funzionano così in Calabria. E non fa scandalo, qui è tutto normale».

    I nuovi impianti abbattono i rischi per la salute

    Secondo molti studi sul tema, le nuove tecnologie permettono di ridurre significativamente sia le emissioni che i rischi per la salute, legati soprattutto agli impianti obsoleti ancora in funzione.
    La pericolosità degli inquinanti per i cittadini è forse il tema che sta più a cuore alla comunità di Gioia Tauro. Come accennato all’inizio, da tempo si denuncia un aumento dell’incidenza e della mortalità di alcuni tipi di tumore. È complicato, però, trovarne le cause profonde.

    Gli impianti di nuova generazione, da questo punto di vista, potrebbero essere un grande passo in avanti. Come si legge nel libro bianco italiano sull’incenerimento dei rifiuti, pubblicato nel 2021, «è scientificamente riconosciuto che le preoccupazioni sui potenziali effetti sulla salute degli inceneritori riconducibili a inquinanti potenzialmente presenti nelle emissioni, quali metalli pesanti, diossine e furani, sono da ricondurre a impianti di vecchia generazione e a tecniche di gestione utilizzate prima della seconda metà degli anni Novanta».

    L’ingresso del campus dell’Imperial College di Londra

    Una conclusione simile a quella di Anna Hansell, scienziata dell’Imperial College di Londra. In una ricerca, la professoressa non aveva escluso del tutto che i nuovi impianti possano avere delle conseguenze sulla salute (un’affermazione che sarebbe comunque difficile da verificare, a livello scientifico), ma «gli inceneritori moderni e ben regolamentati possono avere un piccolo, se non addirittura impercettibile, impatto sulle persone che vivono nelle loro vicinanze».

    I dubbi sulle emissioni del termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Nella visione della Regione, le nuove linee abbatterebbero anche le emissioni di anidride carbonica. Occhiuto insiste soprattutto su un dato: il raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, secondo i calcoli effettuati dagli uffici della Regione, potrebbe abbattere le emissioni inquinanti dell’88% rispetto a quelli attuali. Questi ultimi rimarrebbero comunque in funzione, quindi è un dato da prendere con le pinze.
    Ma è vero che gli impianti di nuova generazione inquinano molto meno? La risposta breve è… .

    Ci sono tanti fattori da considerare. In primis, abbiamo un problema di metodo. Di solito, i dati contano solo le emissioni di CO₂ fossile, come quello emesso quando viene incenerita la plastica, ad esempio. Ma esiste un altro tipo, la CO₂ biogenica, che deriva da fonti naturali, come il legno. Anche questa inquina, eppure non viene conteggiata nelle statistiche: una falla che non permette di capire realmente gli impatti di questi impianti. Inoltre, è difficile quantificarne l’impatto ambientale, se non si sa cosa verrà bruciato. Anche accettando il fatto che le emissioni di anidride carbonica e altri inquinanti calino con i nuovi impianti, è vero che non esiste l’impatto zero. Queste strutture continueranno ad inquinare.

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    Gioia Tauro ha un altro problema, molto più concreto: ci vorranno anni per finire l’allargamento del termovalorizzatore. Nel frattempo, le prime due linee continueranno ad inquinare, con una produzione aumentata.
    Durante l’ultimo incontro, i sindaci della Città Metropolitana hanno portato una controproposta: dismettere le prime due linee del termovalorizzatore, quando le nuove saranno pronte. È stata bocciata.

    C’è chi ha già cambiato idea: il dietrofront della Danimarca

    Allargando lo sguardo, vediamo che la discussione sui termovalorizzatori tende a riproporsi nei contesti più vari. Negli ultimi giorni se ne sta parlando anche a Roma, dove la proposta ha un consenso decisamente più largo rispetto alla Calabria.
    Anche a livello internazionale, la pressione per la costruzione di nuovi impianti è forte. Molti stati vogliono fare in fretta, per liberarsi delle proprie discariche e aumentare la produzione di energia elettrica. Ma non mancano i ripensamenti.

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    Amager Bakke, il termovalorizzatore di Copenhagen celebre per ospitare una pista da sci

    Uno degli stati più “entusiasti” ha fatto una brusca marcia indietro. La Danimarca, infatti, è uno dei paesi europei che ha investito di più nei termovalorizzatori. 23 impianti generano il 5% dell’energia elettrica prodotta nel paese, ed un quinto del teleriscaldamento.
    I danesi, però, non producono abbastanza rifiuti da tenere in funzione le centrali. Ed è qui che si genera il paradosso: la Danimarca è costretta ad importare i rifiuti dall’estero, spingendo la produzione più in alto possibile e compromettendo i propri obiettivi climatici.

    Se il termovalorizzatore inquina di più: il caso del Regno Unito

    Come ha raccontato nel 2020 a Politico il ministro danese per il Clima Dan Jørgensen: «Importiamo rifiuti ad alto contenuto di plastica per utilizzare l’energia in eccesso generata dagli impianti. Il risultato è un aumento delle emissioni di CO₂».
    Per questi motivi, il governo danese ha invertito la rotta. Nel prossimo decennio, verranno chiusi 7 inceneritori (su un totale di 23). Inoltre, la capacità di incenerimento dovrà scendere almeno del 30%. L’alternativa di lungo periodo è di puntare sul rafforzamento della raccolta differenziata.

    Può anche succedere di scoprire dopo anni che gli impianti che utilizzi siano più inquinanti di quello che pensi. È quello che è successo in Regno Unito.
    Secondo un report della società di consulenza Eunomia per ClientEarth, la produzione di energia dai termovalorizzatori inglesi è più inquinante di quella creata utilizzando il gas. Insomma, servirà un monitoraggio molto preciso, se vogliamo misurarne gli effetti sull’ambiente.

    Il colpo di grazia alla raccolta differenziata?

    Il problema più grosso è che i termovalorizzatori diventano un grosso ostacolo per la raccolta differenziata e, in generale, per l’idea dell’economia circolare.
    Una volta creato un impianto, bisogna tenerlo in funzione. È difficile che venga dismesso dopo pochi anni.
    Di solito, sono progettati per rimanere in attività per almeno 20 anni, e ci sono dei contratti da rispettare. Le scelte degli amministratori rischierebbero di essere vincolate al mantenimento degli impianti, e non agli obiettivi ambientali. Esattamente com’è successo in Danimarca.

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    L’ultima emergenza rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Sappiamo, inoltre, che le alternative sono poche: dobbiamo ridurre la produzione di rifiuti. Per rispettare gli impegni degli accordi di Parigi, in Italia bisognerà riciclare almeno il 55% dei rifiuti urbani entro il 2025, e il 65% dei rifiuti da imballaggio. Percentuali che hanno soglie più alte per i 10 anni a venire.
    In questo ambito, la Calabria è molto indietro. Tra le Regioni d’Italia, è la penultima per raccolta differenziata. Una percentuale intorno al 50%. E pensare che l’obiettivo regionale per il 2012 era quello di raggiungere il 65%.
    Sarà fondamentale investire bene i fondi europei, per creare degli impianti che ci permettano di rispettare i nostri obiettivi. Sul termovalorizzatore si può anche discutere, ma non c’è alternativa al riciclo.

  • Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

    Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

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    Tra le tante voci del Pnrr dedicate ai trasporti, ci sono i treni ad idrogeno. Sei regioni italiane saranno le prime che nei prossimi anni sperimenteranno i treni che emettono acqua nel trasporto locale, sulle tratte non elettrificate. Lombardia, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Umbria e Calabria potranno accedere ad un finanziamento di 300 milioni complessivi dedicato a questo esperimento.

    Queste regioni riceveranno le prime tranche nel 2023. Oltre all’acquisto dei treni, il piano è di installare 9 stazioni di rifornimento su 6 linee ferroviarie entro il 2026. Per la Calabria, il tratto interessato è Cosenza-Catanzaro.

    I finanziamenti europei saranno fondamentali per ammodernare il disastrato trasporto locale, che negli ultimi anni ha subito cali drastici nell’offerta e nel traffico ferroviari. Secondo il rapporto Pendolaria 2022 di Legambiente, in 10 anni l’offerta di treni si è ridotta di un quarto. Per non toccare il tema dell’alta velocità, dove regna la confusione.

    La Regione, inoltre, ha bisogno di liberarsi il prima possibile dei vecchi treni diesel. L’età media delle locomotive locali è di 21,3 anni. L’82,1% dei treni calabresi ha più di 15 anni.

    I treni a idrogeno sono una delle soluzioni messe in campo per gli anni a venire. In particolare, potrebbero essere una risposta per le tratte in cui è particolarmente complicato o costoso elettrificare le strutture esistenti. Ma ci sono molti fattori da considerare.

    50 sfumature di idrogeno

    Partiamo dalla base: l’idrogeno può essere usato come combustibile ecologico. Non emette anidride carbonica, ma vapore acqueo. Croce e delizia dell’idrogeno stanno nella sua produzione. L’elemento chimico più abbondante nell’universo, infatti, è poco presente in natura nella sua forma pura, la molecola H2. Di solito, lo si trova in forma combinata, cioè attaccato ad altri elementi, come nell’acqua.

    Per ottenerlo, bisogna separarlo dagli altri. Un processo che richiede molta energia. Ed è proprio qui che sta il problema. Ci sono molti modi per ottenere l’idrogeno, ma quello largamente più diffuso e conveniente è quello più inquinante. La maggior parte dell’idrogeno nel mondo viene ottenuto separandolo dal gas. L’idrogeno grigio, infatti, produce più gas serra delle combustioni del diesel.

    idrogeno-treni-pro-contro-nuova-tecnologia-greenOgni tanto, nei dibattiti politici si sente nominare l’idrogeno blu. È quello che viene prodotto da fonti fossili, ma per il quale la CO₂ viene catturata e stoccata.

    La versione più ecologica è l’idrogeno verde. Questo si genera tramite l’elettrolisi: in parole povere, si utilizza l’elettricità per separare l’idrogeno dall’acqua. Se questa elettricità viene prodotta da fonti rinnovabili, l’impatto sull’ecosistema diventa praticamente zero.
    L’idrogeno ha un altro grande vantaggio: può essere stoccato sottoterra quasi dappertutto.

    Il Coradia iLint

    Il primo treno ad idrogeno al mondo lo abbiamo visto sfrecciare già a partire dal 2018 tra le rotaie della bassa Sassonia, in Germania. Il mezzo, però, è stato creato da una società francese. Il Coradia iLint è stato progettato a partire dal 2014 dalla multinazionale francese Alstrom, una delle più grandi aziende produttrici di treni sul mercato europeo. La conosciamo bene anche in Italia: tra le tante cose, fornisce i treni elettrici POP, dedicati al trasporto regionale, e il Pendolino.

    Nell’iLint, i serbatoi di idrogeno sono posti sul tetto. Una cellula combustibile fa combinare l’idrogeno con l’ossigeno dell’aria, generando l’elettricità di cui si servirà il treno per muoversi. Una batteria in litio, invece, permette di conservare l’energia durante le frenate e di aumentare la potenza quando è necessario.

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    Il Coradia iLint

    Secondo i produttori, il calo delle emissioni sarebbe significativo. Per ogni treno ad idrogeno, si risparmierebbero 700 tonnellate di CO₂ l’anno, l’equivalente di quanto emesso da 400 auto.

    Nel 2023 lo vedremo anche in Italia: 6 modelli di questo convoglio sono stati comprati per la tratta Brescia-Iseo-Edolo. Trenord e Fnm vogliono sostituire l’intera flotta di mezzi diesel entro il 2025.

    I problemi dell’idrogeno

    L’ostacolo più grosso, al momento, è quello più banale: il costo. L’idrogeno verde è ancora molto lontano dall’essere competitivo, non solo rispetto alle altre fonti rinnovabili, ma rispetto ai diversi tipi di idrogeno.
    Un chilo idrogeno verde costa tra i 4 e gli 8 dollari, ben più del doppio rispetto a quello grigio (1,5 dollari). Quello blu si attesta sui 3,5 dollari. L’UE, però, prevede che entro il 2030 il prezzo di quello verde scenda a livello molto più competitivi e scenda quasi agli 1,5 dollari del grigio.

    Serviranno grossi investimenti iniziali, prima di arrivare a questo obiettivo. Soprattutto perché costano molto anche gli elettrolizzatori, le macchine che permettono la scissione tra acqua e idrogeno. Per farlo, l’Unione sta investendo 470 miliardi di euro nelle installazioni in tutti i paesi membri.

    costi-idrogenoSul fronte italiano, bisognerà trovare un modo di favorire al massimo l’utilizzo dell’idrogeno verde, a discapito degli altri. Una garanzia che ancora non abbiamo, come sottolinea Pendolaria 2022: «Se ha senso sperimentare questa soluzione su alcune linee dove l’elettrificazione è costosa e complessa, sarebbe bene aspettare i risultati prima di scegliere di farla diventare un’alternativa all’elettrificazione per il potenziamento dei collegamenti sulle linee ancora sprovviste».

    Rischiamo di cadere nella Maladaptation, uno dei problemi della transizione ecologica messi in un luce dall’Ipcc in uno dei suoi ultimi rapporti. È il paradosso delle buone intenzioni. Implementare male una soluzione ambientale rischia di fare più danni del previsto. Come piantare gli alberi sbagliati nel posto sbagliato, ad esempio.
    L’idrogeno, se prodotto da fonti fossili, non può essere considerato una soluzione ambientale. E rischia di pestare i piedi all’elettrico.

    L’idrogeno a Gioia Tauro?

    In Italia, l’obiettivo dichiarato dalla Strategia Nazionale Idrogeno è far arrivare al 2% la penetrazione dell’H2 nella domanda energetica finale. Entro il 2050, questa percentuale deve arrivare al 20%. Per ottenere questo risultato, bisognerà spingere sulla creazione delle Hydrogen valley, cioè gli hub in cui si concentra sia la produzione sia il consumo dell’idrogeno in un certo territorio.

    Tornando ai trasporti in Calabria, anche Ferrovie della Calabria si è mossa verso la transizione all’idrogeno. A maggio 2021, ha stretto un accordo con il Dimeg, il Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Unical per realizzare una centrale di produzione di idrogeno verde a Vaglio Lise, nei pressi della stazione di Cosenza.

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    Il porto di Gioia Tauro

    La Alstom, inoltre, sta già lavorando con la Regione per il trasporto ferroviario locale. E, durante il Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai, ha manifestato il suo interesse nell’investire nel porto di Gioia Tauro.

    «Potremmo sviluppare un concetto sinergico con il porto di Gioia Tauro per quanto riguarda l’idrogeno. La produzione di idrogeno potrebbe essere un’idea molto interessante, a partire dall’eolico e dal solare» ha detto l’ad di Alstom Michele Viale, collegato al Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai.

  • Deserto blu: meglio mangiare bianchetto oggi o pesce domani?

    Deserto blu: meglio mangiare bianchetto oggi o pesce domani?

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    «È dal 15 gennaio che non facciamo pescato, tra maltempo e altro. Ad andare con 200 nasse, spesso non prendiamo nemmeno un gambero». In circa 50km di costa, tra Capo Spartivento e il Golfo di Squillace, Nino ormai non prende quasi più niente.
    Da qualche anno è cambiato tutto. L’abbondanza di una trentina d’anni fa è finita. Niente più banchi di cefali. Niente più sacchi di polpi, come era abituato il vecchio Turiddu: «Non aveva secchi, né casse: portava solo dei sacchi. Li riempiva con i polpi, 100 chili tutti i giorni, era normale per lui un pescato del genere. Ora, anche il polpo… Negli ultimi 7 anni, vedrà circa 10 esemplari in tutto l’anno. È una situazione drammatica».

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    Pescatori sullo Jonio

    Sostenere i costi della sua attività, la cooperativa Argonauta a Marina di Gioiosa Ionica, è sempre più difficile. «Io l’inverno e in primavera riuscivo a lavorare, tempo permettendo. C’è stata una volta in cui sono stato in mare per 260 giornate. Adesso molte meno, con la scusa del maltempo. Ma la verità è che manca il pescato».
    E quando non si trova il pesce, i giri a vuoto sono sempre più frequenti. E costosi. «Qualsiasi cosa fai non sai se ti conviene. Le spese aumentano esponenzialmente. Un esempio, andare con i palangari. Servono almeno 10 casse di sarde: sono 200 euro solo per le esche».

    Estinzione di massa

    Quella di Antonino non è la prima, né l’ultima storia di pescatori che stanno arrancando, che non sanno come si evolverà il proprio lavoro nel giro dei prossimi anni. Un’incertezza che ci porteremo dietro per molto tempo. Uno studio della rivista Nature rivela che non rispettare i limiti alle emissioni di gas serra previsti dagli accordi di Parigi potrebbe innescare un’estinzione di massa della vita marina nel giro di due secoli, così grande da avere effetti simili alle cinque estinzioni di massa già avvenute sulla terra.

    Senza dimenticare quello che già sappiamo su quello che sta avvenendo all’oceano. L’IPCC, nel report dedicato a Impatti, adattamento e vulnerabilità, ha evidenziato come il Mar Mediterraneo ha registrato temperature in aumento ed un innalzamento del 1,4 mm l’anno nel corso di tutto il XX secolo. Un quadro che mette a rischio anche una lunga serie di città costiere.
    In tutto questo, come sta il Mar Jonio?

    Pochi pesci nello Jonio?

    La prima cosa da chiedersi è se la popolazione ittica è veramente diminuita nel corso degli ultimi anni. La risposta, come al solito, è complessa. «C’è una spinta naturale al ripopolamento, accompagnata invece una pressione antropica che genera un equilibrio in diminuzione. Questo è il combattimento quotidiano che avviene lungo le coste ioniche».

    A spiegarci cosa succede è Emilio Cellini, direttore del Centro Ragionale di Strategia Marina, la struttura dell’Arpacal dedicata allo studio delle condizioni del mare e della costa.
    Da un lato, ci sono delle dinamiche naturali che spingono verso il ripopolamento. In generale, il Mar Jonio ha acque povere di nutrienti. Un fenomeno che, da circa un decennio, sta vedendo un capovolgimento: «Le acque superficiali del mar Jonio si stanno arricchendo di nutrienti, perché si sta osservando il movimento di acque di risalita dei fondali dello Jonio».

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    Guardavalle, fondale sabbioso con relitto che diventa oasi/tana per i pesci (foto Wolfgang Poelzer, per gentile concessione della Megale Hellas Diving Center di Marina di Gioiosa Ionica)

    È la morfologia della zona a scatenare questi fenomeni di upwelling. Lo Jonio calabrese è caratterizzato da grandi canyon, come quello del Golfo di Squillace. «A queste profondità, si parla di canyon di oltre 1300 metri di profondità, c’è un meccanismo di risalita di acque fredde levantine provenienti dalla Grecia, cariche di nutrienti». Stavolta, a parlarci è Silvio Greco, direttore della sede calabrese della Stazione Zoologica Anton Dohrn, uno dei più importanti centri di biologia marina al mondo.

    Tutto questo rende l’acqua più ricca di fitoplancton e altri nutrienti che permettono alla vita marina di sostenersi e prosperare. Oltre a rendere le acque più pulite: «Nello Jonio si arriva subito sul fondo, e questi fenomeni permettono alle sue acque di avere un forte idrodinamismo. Sul Tirreno, dove la piattaforma è più lenta a scendere, è più complicato, l’impatto dei contaminanti è diverso».

    Pescare meno, pescare meglio

    Abbiamo una risorsa che ha una spinta naturale ad essere molto più abbondante. Perché allora le nasse dei pescatori sono vuote?
    «L’overfishing, accompagnato dall’inquinamento, ha portato a un crollo delle risorse di pesca negli ultimi 20 anni». Per Silvio Greco, i dubbi sono pochi: la risorsa è stata gestita malamente. «Fino a pochi anni fa, la logica del pescatore era quella di pescare il più possibile. Usciva la mattina per prendere tutto quello che trovava».

    La pesca eccessiva ed illegale ha un grosso peso, ma misurarne l’impatto non è semplice. Secondo l’ultimo report Mare Monstrum di Legambiente, solo nel 2020 sono stati sequestrati più di 40 mila chili di prodotti ittici pescati illegalmente.
    La Calabria sarebbe la quarta regione d’Italia per numero di infrazione, pari al 7,2% del totale italiano. Sono numeri in calo, ma che risentono degli effetti della pandemia. Inoltre, è molto complicato individuare le infrazioni.

    Il futuro dello Jonio? Siamo fritti

    In particolare, i calabresi stanno pagando a caro prezzo la loro passione per il bianchetto (o sardella o rosamarina che dir si voglia). È una passione particolarmente distruttiva. Qualche chilo di novellame di alici e sarde corrisponde a quintali di pesci adulti: sono cicli di vita che vengono interrotti prima che possano fiorire e riprodursi. Una perdita immensa, sotto forma di frittella. La loro pesca è illegale dal 2006, da quando è entrato in vigore il regolamento europeo 1967/2006.
    Lo stesso Nino è convinto: «Nel dicembre del ‘91 andavo al mercato di Crotone. Quello che mi colpiva è che tutte le sere ogni barca portava almeno 20 casse di scampetti, che saranno stati della dimensione di un mignolo. Quel ciclo è stato distrutto, te lo posso garantire. E chissà quante altre volte è successo».

    Frittelle di bianchetto

    Uno sfruttamento che ha colpito duramente proprio i pescatori. O almeno, le generazione più giovani di pescatori. Secondo Greco, è emblematico il crollo delle registrazioni nel registro barche e natanti negli ultimi 20 anni: «Per ogni attrezzo e imbarcazione, si registra una forte riduzione. E senza i pescatori, si perde anche un patrimonio materiale di conoscenza, saperi, che spariscono insieme a loro».

    Gli scarichi abusivi e l’emergenza depurazione

    Se è vero che non mancano le storie di inquinamento industriale in Calabria, come l’infinita epopea del Sin di Crotone, a caratterizzare il Mar Jonio è soprattutto l’inquinamento microbiologico, dovuto alle acque di scarico non controllate e non depurate. Piccole emergenze sparse, che ne fanno una gigantesca.
    Per Cellini, quella delle acque reflue è la questione che va attaccata con più decisione: «Il problema principale è questa selvaggia politica di non governo degli scarichi abusivi, reflui che vengono rilasciati in mare da impianti di depurazione non funzionanti. Ed è anche e soprattutto un’emergenza culturale».

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    Carabinieri in azione durante la recente operazione Deep

    La condizione dei depuratori sarebbe tragica in tutto il territorio. «Le posso dire che su dieci impianti costieri, saranno solo 2 o 3 quelli efficientati. Gli altri vanno assolutamente sotto stress». Questo perché molto spesso gli impianti sono stati concepiti per coprire un numero di abitanti inferiore rispetto al carico estivo.
    In quest’ambito, la Regione sembra aver preso il toro per le corna. Proprio la stazione zoologica Anton Dohrn, a novembre del 2021, ha stipulato un accordo per la tutela del mare calabrese con la giunta regionale di Roberto Occhiuto: il centro si occupa soprattutto del monitoraggio del sistema di depurazione. Nello stesso periodo, la Stazione ha firmato un protocollo d’intesa con la Procura di Vibo Valentia.

    L’invasione aliena

    Con l’aumentare delle temperature, si sta rimescolando la popolazione ittica. Pesci tropicali, che non dovrebbero arrivare nel mar Jonio, iniziano a farsi largo e a competere per il predominio sul territorio con quelli autoctoni.
    Secondo il WWF, in tutto il Mediterraneo sono entrate quasi 1.000 nuove specie invasive. In certe zone, le specie locali sarebbero crollate del 40%. Non solo: le specie aliene intaccano profondamente gli ecosistemi che invadono.
    In Turchia ed in Grecia, ad esempio, i pesci coniglio hanno ridotto del 65% le grandi piante marine, ed il 60% delle alghe. L’impatto si è sentito su tutta la fauna: la popolazione ittica è calata del 40%.

    Aplisia dagli anelli, specie atlantica, in un fondale sabbioso del basso Jonio (foto Wolfgang Poelzer, per gentile concessione della Megale Hellas Diving Center di Marina di Gioiosa Ionica)

    Le specie aliene hanno due ingressi naturali sul Mar Jonio: il canale di Suez, e lo stretto di Gibilterra. «Stiamo registrando da circa 40 anni, grossomodo da quando ho iniziato lavorare, un aumento delle cosiddette specie aliene invasive. Abbiamo registrato almeno duemila specie aliene tra crostacei, molluschi e alghe. Molte di queste sono diventate specie commerciali», racconta Silvio Greco.
    Un esempio è la vongola. «Quando mangiamo gli spaghetti alle vongole pensiamo di mangiare delle vongole mediterranee, in realtà molto spesso sono filippine», spiega di nuovo Cellini. La Ruditapes philippinarum, infatti, è diventata molto più popolosa della vongola verace italiana

    Antonino, in questi anni, ne ha visti di tutti i tipi: «Saranno almeno 15-20 anni che troviamo il pesce palla. Così come mi è capitato spesso di pescare dei barracuda. Quando ho lavorato su Bagnara, avrò visto un banco di 15-20 quintali, che pesavano almeno 15 chili».
    Oltre alle “frontiere” naturali che possono attraversare, i pesci possono sfruttare le cosìddette ballast waters, le acque di sentina delle navi. «Quando arrivano, per esempio, nel porto di Livorno, scaricano quell’acqua e caricano i container con i materiali. In quell’acqua, però, c’è di tutto. È successo che una di queste navi scaricasse un’alga, la Ostreopsis ovata, che era tossica e creava problemi di tossicità ai bagnanti che erano sulla spiaggia», ci racconta Greco.

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    Granchi blu pescati da Nino. Il Callinectes sapidus è originario dell’Atlantico: non dovrebbe trovarsi nello Jonio

    Jonio, quello sconosciuto

    Nonostante tutto, Cellini ci ricorda che «le condizioni ambientali dello Jonio, fatta salva come dicevo la contaminazione microbiologica dovuto ad acque reflue non trattate, è un mare che ha tutto il carattere delle eccellenze».
    Se, da un lato, il quadro sembra rassicurante, va ricordato che è un equilibrio delicato, precario, in cui il cambiamento climatico continuerà ad avere un ruolo decisivo, stravolgente.

    Inoltre, non abbiamo mai avuto il quadro completo. «Noi abbiamo in generale una abissale ignoranza sui mari italiani, che diventa ancora più profonda quando si va a parlare di Mar Jonio. Abbiamo mappato meno dello 0,1 % dei fondali marini del paese» lamenta Silvio Greco.
    Una mancanza di expertise e conoscenze che abbiamo pagato nel tempo. Non esiste nemmeno una facoltà di biologia marina in tutta la Regione. Per Cellini, «la Calabria, per troppi anni, ha voltato le spalle al mare, guardando più ai monti e alle colline».

     

    Il primato alla rovescia dell’Arpacal

    Per non parlare delle risorse. Cellini ha voluto sottolineare i passi in avanti degli ultimi anni, ma c’è ancora tanto da fare. L’Arpacal, ad esempio, è una delle poche Arpa d’Italia che non ha a disposizione un battello oceanografico: «Tutte le Arpa d’Italia hanno una barca dedicata allo studio degli impatti e della valorizzazione dell’ambiente marino, la Calabria no». Un problema condiviso con lo stesso Silvio Greco, che si sta impegnando per lasciare un batiscafo al centro di Amendolara.

    Potenziare il monitoraggio sarà fondamentale per gestire il futuro della pesca, e dei territori in generale. Per il direttore Cellini basterebbe che li mettessero in condizione di poter fare nel migliore dei modi quello che già fanno, «con del personale adeguato, un piano di tutela delle acque accompagnato da un controllo puntuale su tutti i corpi idrici superficiali e di tutti i depuratori».
    Senza il quadro completo, sarà impossibile «mettere il sale sulla coda ai violentatori dell’ambiente marino-costiero calabrese».

  • Vent’anni di solitudine: l’ex Sin e la bonifica che non si fa mai

    Vent’anni di solitudine: l’ex Sin e la bonifica che non si fa mai

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    Cinquantaquattro conferenze dei servizi dopo, non è successo niente. Seguire le notizie sul Sin di Crotone può far venire un senso di nausea e ridondanza. Una serie infinita e sfiancante di proclami, promesse non mantenute, tavoli di discussioni mai conclusi, attese. E una tragica mancanza di progettualità, di visione del futuro per una zona immobile da troppo tempo.

    Il prossimo 26 novembre la città festeggerà un triste anniversario. Saranno 20 anni da quando l’ex zona industriale tra Crotone, Cerchiara e Cassano dello Ionio è finita nell’elenco dei Siti d’Interesse Nazionale. Sotto questo titolo si raggruppano le aree più inquinate del nostro Paese, contaminate ad un livello tale da essere un rischio per la salute umana.
    Pezzi d’Italia compromessi da sostanze nocive, che hanno bisogno di interventi di bonifica profondi prima di tornare alla comunità, quando è possibile farlo.

    Lo sviluppo che contamina

    A Crotone il sito più inquinato è stato il motore dello sviluppo economico per molti anni, dagli anni ’20 fino agli inizi degli anni ‘90.
    Un’illusione di crescita, in un luogo dove ora è tutto completamente fermo, improduttivo e contaminato. Una mancanza dal quale non è riuscita più a riprendersi.

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    Paolo Asteriti (WWF)

    «La città ha perso tutta la sua economia, basata sulle industrie, e ancora non si capisce cosa succederà su quel terreno di fronte al mare», ci spiega, con tono rassegnato, Paolo Asteriti, segretario provinciale del WWF, una delle tante associazioni ambientaliste presenti a Crotone che sta lottando per tenere alta l’attenzione sul tema delle bonifiche.

    Metalli pesanti

    Con il Sin di Crotone ci riferiamo, soprattutto, a 530 ettari di terreno che costeggiano lo Ionio poco al di fuori della città. Una grossa ex area industriale, legata al reparto chimico e al trattamento dei rifiuti, con una buona presenza di industrie alimentari. Gli impianti principali appartenevano all’ex Pertusola. In quegli stabilimenti si fabbricava soprattutto lo zinco: è stata la più grande fabbrica della Regione, fin quando è stata operativa. Inoltre, la zona comprende gli stabilimenti della ex Fosfotec, la ex Agricoltura, e la ex Sasol Italia/ex Kroton Gres.

    «Crotone è stata un’area particolarmente importante per tutta Europa per la produzione dello zinco dalle blende, nella zona dell’ex Pertusola. Però, è emersa la presenza di contaminazione legata alle industrie della produzione dell’acido fosforico, di ammoniaca e così via. Una sorta di contaminazione mista, legata soprattutto al tema dei metalli pesanti» ci spiega Mario Sprovieri, dirigente di ricerca del CNR e responsabile scientifico del progetto Cisas, il Centro Internazionale di Studi Avanzati su Ambiente, Ecosistema e Salute umana.

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    Mario Sprovieri

    Tra le tante cose, il centro ha portato avanti il progetto SENTIERI, lo studio epidemiologico più completo sui siti d’interesse nazionale, volto a monitorare gli impatti delle sostanze inquinanti sulle popolazioni circostanti. Stando alle rilevazioni, gli inquinanti presenti nel terreno e nel mare di Crotone sono soprattutto cadmio, zinco, piombo e arsenico: la zona del porto, inoltre, ha registrato alti livelli di mercurio, cromo e rame, così come di DDT2.

    Le bonifiche e la mappatura del Sin di Crotone

    Oltre alle aree industriali, il Sin di Crotone comprende una discarica e la fascia costiera, altri 1469 ettari di territorio da bonificare che si trovano a mare, tra la foce del fiume Passovecchio, a nord, e l’Esaro a sud. Una stima ottimistica, secondo gli esperti del Cnr. Infatti, ci spiega ancora Sprovieri, il Sin di Crotone ha una particolarità: a causa della conformazione costiera, forti eventi alluvionali possono «trasportare contaminanti presenti nell’area portuale, più contaminata rispetto alle altre, nelle aree più offshore».

    Crotone è circondata da colline di argillose che la dividono in due. © copyright Agostino Amato

    Il Sin, comunque, non si ferma a Crotone: l’area si estende anche ai comuni di Cassano allo Ionio e Cerchiara, dove si trovano tre discariche. Il quadro, però, non è completo. Secondo il report di Legambiente Liberi dai veleni del 2021, la mappatura del Sin è ancora al 50%. Di questa porzione, le bonifiche riguardano solo il 13% dei terreni, e l’11% dell’area marina. Praticamente niente.

    Una città ferita

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    Queste palazzine di edilizia popolare (Aterp) nella periferia di Crotone fanno parte dei siti “altamente contaminati”. © copyright Agostino Amato

    La contaminazione non si ferma alla sola area del Sin. Nel settembre nel 2008, con l’operazione “Black Mountains”, è venuto fuori che dagli anni ’90 gli scarti industriali dell’ex Pertusola, sono stati mescolati con materiali edili, utilizzati per le costruzioni in varie parti della città. «Il cubilot veniva regalato alle ditte, che lo prendevano, probabilmente ignare della tossicità», continua Asteriti.

    Questa miscela forma il Conglomerato Idraulico Catalizzato. Lo hanno utilizzato per costruire gli alloggi popolari “Aterp” nei quartiere Lamparo e Margherita, la scuola San Francesco ma anche per costruire vie, strade e persino il parcheggio della Questura.

    La questura di Crotone fa parte dei siti contaminati, come ricorda il cartello “Attenzione accertata la presenza nel sottosuolo di materiali che, se privi di copertura, potrebbero rivelarsi nocivi per la salute…” © copyright Agostino Amato

    Assoluzioni e prescrizioni

    Nonostante la scoperta, l’inchiesta s’è conclusa nel 2012 senza produrre alcun colpevole tra i dirigenti delle aziende coinvolte. Sia il gup di Crotone che, successivamente, la Corte di Cassazione hanno prosciolto tutti i 45 indagati, per i reati di disastro ambientale e avvelenamento delle acque. I reati legati alle discariche abusive, invece, sono caduti tutti in prescrizione.

    La questione del Sin, insomma, ha toccato tutta la città, che nel corso degli anni si è mobilitata più volte per protestare contro le condizioni ambientali e l’alta incidenza di tumori. La questione è così sentita da diventare politicamente decisiva: alle amministrative del 2020 ha trionfato l’ingegnere ambientale Vincenzo Voce, uno dei protagonisti dei movimenti ambientalisti e con una lunga storia di lotte per la bonifica del Sin. Col sostegno di una serie di liste civiche, tra cui Tesoro Calabria di Carlo Tansi, ha vinto con il 63,95% dei voti.

    Vent’anni e non sentirli

    La fetta più grossa delle bonifiche spetta a Eni Rewind, la società controllata del colosso dell’energia che si occupa di risanamento ambientale.
    Il processo di bonifica di quella fetta del Sin è partito solo nel 2010 e si è inceppato molto spesso, tra rimodulazioni e piani molto contestati.

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    Il silos della Pertusola Sud coperto da un murales commissionato dall’Eni, che dirige la bonifica della zona industriale. © copyright Agostino Amato

    In particolare, negli ultimi due anni lo scontro si è concentrato sulla rimodulazione del Progetto operativo di bonifica (POB) Fase 2, autorizzato nel marzo del 2020. Secondo gli attivisti ambientali – tra cui lo stesso Voce, prima di diventare sindaco – il piano da 305 milioni di euro mira alla messa in sicurezza permanente e non ad una vera e propria bonifica, che permetterebbe di riqualificare le aree.

    Le ultime notizie su questo fronte parlano di tavoli, intese e collaborazioni tra le autorità pubbliche e la società. Troppo poco, dopo tutto questo tempo.
    Di recente, sembra si stia muovendo qualcosa su uno dei temi più sentiti dalla città: il recupero dell’area archeologica dell’antica Kroton, che ricopre il 15% del Sin.

    In questo caso, la bonifica è di competenza del Ministero della Cultura: il sindaco Voce ha annunciato lo scorso 7 aprile di voler riaprire in tempi brevi il castello di Carlo V. Anche qui, però, le tempistiche sono incerte.
    Nella confusione di norme, competenze e territori sparsi, un dettaglio non va trascurato: dal 2018 manca un commissario straordinario alle bonifiche. Il Governo aveva nominato nel 2019 il generale Giuseppe Vadalà, ma non si è ancora insediato, tant’è che Voce ha scritto a Draghi per avere delucidazioni in merito.

    Le buone notizie

    Se c’è una buona notizia, in tutto questo, è che i dati non mostrano al momento un livello di inquinamento tale da essere un rischio per la popolazione. Secondo le analisi del progetto SENTIERI, «si può dire che il Sin di Crotone ha un impatto sulla popolazione ridotto, rispetto ad altre situazioni in cui i fenomeni di impatto sono più significativi».

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    Lungomare. Secondo uno studio effettuato nel 2004 da Legambiente e WWF nel mare di Crotone, durante il primo e il secondo semestre del 2002, sono stati rilevati, rispettivamente, 33.360 e 29.704 microgrammi per chilo di arsenico, mentre nel secondo semestre 2003 il dato era di 39.557. Il valore limite è 12.000. © copyright Agostino Amato

    Nello studio, i professori del Cisas hanno analizzato quattro matrici: l’aria, il suolo, i sedimenti marini ed il pesce. Una serie di fattori hanno permesso di abbassare il livello di inquinamento. Secondo Sprovieri, il più importante è stato, paradossalmente, un’alluvione: quella del 14 ottobre 1996.
    La grossa bomba d’acqua che si è generata ha causato una specie di «effetto di lavamento della falda e dei suoli. Ciò ha abbassato in maniera significativa la contaminazione proprio su queste due matrici. Alcuni inquinanti sono ancora presenti, ma con livelli di gran lunga inferiori rispetto a quelli che erano stati rilevati nel periodo precedente».

    I rischi legati al cibo

    Anche i dati sulla qualità dell’aria hanno registrato parametri nella norma. La questione che preoccupava di più gli studiosi del Cisas è quella legata al cibo: «I sedimenti all’interno dell’area portuale, ed in parte nell’area esterna, mostrano valori di concentrazioni soprattutto dello zinco, ma anche degli altri metalli pesanti, che sono importanti».

    Il rischio è che i pesci bentonici, cioè quelli che vivono a contatto con il fondo del mare, possano brucare i sedimenti depositati sul fondo del mare: in questo modo, gli inquinanti verrebbero assimilati dagli animali, per poi finire sui piatti dei consumatori. Anche in questo caso, però, i dati raccolti dagli studiosi del Cnr non hanno evidenziato nessuna contaminazione significativa: «Siamo stati contenti di poter verificare che sostanzialmente questi contaminanti oggi nei pesci non sono presenti nella maggior parte dei casi».

    I tumori e l’ex Sin di Crotone

    Non bisogna però illudersi. Le indagini epidemiologiche e d’impatto ambientale hanno bisogno di un salto di qualità, per avere il quadro completo della situazione.
    Tanti dubbi rimangono sull’incidenza dei tumori. Il gruppo di ricerca aveva scelto il Sin di Crotone proprio sull’eccesso di mortalità: i dati di SENTIERI registrano un numero superiore alla media di decessi per tutte le tipologie di tumore.
    Questo è il dato statistico. Il problema, in questi casi, è stabilire il nesso causale tra l’inquinamento e l’insorgere di una malattia.

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    In questa zona sorgevano le cosiddette Black Mountains dove venivano stoccati i rifiuti della Montedison. © copyright Agostino Amato

    Una questione già difficile di per sé, lo è ancora di più se non si riceve collaborazione nella ricerca. Il team del Cisas non ha potuto fare un’indagine epidemiologica specifica sulla popolazione di Crotone, lamenta Sprovieri. L’unica cosa che hanno potuto fare, a causa dei ritardi burocratici, è stata una collaborazione con un reparto pediatrico: un’indagine sulle coppie madre-figlio che deve ancora essere portata a termine.

    Il problema delle alluvioni

    Non dimentichiamo, inoltre, il tema delle alluvioni e dello spargimento dei sedimenti inquinati su altre zone marine. Un fenomeno che potrebbe estendere ancora di più l’area contaminata e danneggiare gli ecosistemi più delicati che non sono stati ancora toccati dalle scorie industriali.
    «Qual è il senso di procrastinare questa cosa, se non proteggere l’ENI? Non si è mai voluto parlare col le realtà del territorio», si chiede Asteriti, amaro. «Non ci arrendiamo, perché chi resta qua ama il suo territorio, e continua a lottare. È difficile trovare la luce dopo anni di buio. Magari c’è, ma noi non la vediamo».

  • Energia gratis contro il caro bollette? La Calabria ci prova

    Energia gratis contro il caro bollette? La Calabria ci prova

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    «Arrivare secondo inizia già a darmi fastidio, voglio arrivare primo nelle cose che faccio». Ha fretta Giuseppe Condello, sindaco di San Nicola da Crissa (VV). Il suo piccolo paese, “balcone delle Calabrie” alle pendici del Monte Cucco, è uno dei primi comuni nella regione che porterà a regime in tempi brevi una comunità energetica rinnovabile solidale, nel quartiere delle case popolari di Critaro.

    Qui le procedure amministrative sono state completate. L’istituzione della Comunità risale allo scorso 19 gennaio: nel giro di un mese, secondo i piani della giunta comunale, si procederà all’installazione degli impianti fotovoltaici. Le famiglie coinvolte sono 32. «Prima di Pasqua potremmo installare l’impianto, e ci vorranno 15 giorni. Contiamo di renderlo operativo entro maggio», ci spiega Illuminato Bonsignore, amministratore unico della 3E Environment Energy Economy s.r.l e sviluppatore della Comunità.

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    Un panorama di San Nicola da Crissa

    L’operazione vuole regalare ai cittadini energia pulita, il controllo dei propri consumi e bollette più basse. Stando ai dati del Comune, i beneficiari possono risparmiare tra i 250 ed i 300 euro all’anno. Tutto questo senza spese di installazione, grazie al finanziamento della BCC del vibonese. L’ambizione è quella di estendere la Comunità a tutti i 1000 abitanti del centro entro la fine dell’anno.

    Insieme ad altri Comuni, San Nicola da Crissa punta a diventare uno dei modelli per la transizione ecologica, specialmente nei piccoli comuni. E le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) saranno un pezzo molto importante di questa trasformazione.
    Si tratta di gruppi di soggetti, sia pubblici che privati, che decidono di produrre insieme energia elettrica tramite fonti rinnovabili da utilizzare per l’autoconsumo.

    I benefici delle Comunità energetiche

    Partiamo da una delle questione più sentite degli ultimi tempi, quella del peso in bolletta. I membri di una CER in funzione posso ottenere tre tipi di introiti. Il primo è il Ritiro Dedicato, cioè quello che si ottiene dalla semplice vendita dell’energia prodotta dagli impianti. Il secondo è l’incentivo sull’energia consumata nel momento della produzione, pari a 110 euro al MWh.

    È una questione di equilibrio: «Se produco 100 e riprendo 100, il bilancio non perturba il sistema», ci spiega Daniele Menniti, ordinario del dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Unical.
    In questo caso, hanno un ruolo decisivo le tecnologie di monitoraggio in tempo reale dell’energia, così come i sistemi di accumulo, che permettono di conservare l’energia in eccesso ed ottenere l’incentivo durante le ore serali.

    Il terzo contributo è di circa 8 euro a MWh, che lo Stato restituisce perché gli utenti utilizzano meno la rete. Come funziona? I membri della CER continuano ad essere legati ai loro vecchi fornitori. Questi aggiungono in fattura i costi di trasporto dell’energia: lo Stato, però, sa che è stata autoprodotta, quindi restituisce i soldi ai beneficiari, per il tramite del Gestore dei Servizi Energetici (GSE).
    Non dimentichiamo, inoltre, che si tratta soprattutto di una lotta contro le emissioni. Le CER, secondo i dati di Legambiente ed Elemens, possono contribuire in Italia per il 30% degli obiettivi climatici per il 2030.

    Come si costituiscono

    Nel concreto, però, come si attiva una Comunità Energetica? A livello normativo, siamo in una specie di limbo: si possono fare, ma non si sa con che parametri potranno essere costituite in futuro.
    Le CER, infatti, sono state introdotte in Italia con l’art. 42 bis del Decreto Milleproroghe del 2019, con una serie di limiti restrittivi che dovevano essere superati con il Dlgs 199/2021, documento che recepisce in maniera completa la direttiva europea intitolata RED II.
    Il problema, però, è che ancora non sono stati stilati i decreti attuativi. Per ora, rimangono alcuni vincoli significativi, come la vicinanza fisica alla cabina secondaria o il limite di potenza degli impianti (attualmente di 200 KW).

    In attesa delle novità, e nonostante la mancanza di un piano energetico regionale, si può comunque creare una Comunità. Il primo passo è l’individuazione delle cabine secondarie, così da delimitarne il perimetro. «Con la normativa attuale possono far parte solo di una CER le persone il cui contatore è collegato a questa cabina», ci spiega Illuminato Bonsignore, che con la sua azienda ha reso possibile la creazione della Comunità di San Nicola Da Crissa. Nel paese, ad esempio, si è scelto di costruire l’impianto fotovoltaico sopra il tetto di una scuola, che era allacciata alla stessa rete del quartiere di Citrato.
    Delineato il perimetro, si può iniziare la ricerca dei membri della comunità, che dovranno fornire i dati dei consumi diurni. La parte più complicata, inevitabilmente, è l’installazione degli impianti. Sia per la lentezza della macchina burocratica, sia per la ricerca dei finanziatori.

    Il PNRR e il piano della Regione

    Il PNRR mette a disposizione 1,6 miliardi per i progetti di condivisione dell’energia nei comuni sotto i 5.000 abitanti: «Sebbene appaiono tanti, sono semplicemente il 10% di quanto ha speso il governo per tentare di combattere il caro bollette, senza neanche riuscirci», riprende Menniti. Se la Regione vuole finanziare i centri più grandi, invece, dovrà usare le sue risorse, come in parte già previsto dal nuovo POR 2021-2027.
    Una volta presentato il progetto e installate le tecnologie necessarie, la Comunità può entrare a regime.

    Le CER garantiscono dei vantaggi economici, ambientali e sociali, dando però una serie di responsabilità all’utente/gestore. «Non basta mettersi insieme, firmando un pezzo di carta. Dobbiamo far si che l’energia condivisa sia la massima possibile, ed essere capaci di consumarla nel momento in cui viene prodotta» ci ricorda Menniti.
    Nonostante l’enfasi da parte della politica, il professore chiede prudenza: «Bisogna stare attenti perché le comunità energetiche non sono la panacea di tutti i mali. Sono comunque un contributo importante, un primo passo verso la democratizzazione dell’energia» e la fine della dipendenza da fonti straniere.

    Di investimenti sulle comunità energetiche ha parlato anche di recente l’assessore regionale Rosario Varì. L’intenzione è di «sostenere i comuni che hanno più di cinquemila abitanti. Nell’ambito del Pnrr abbiamo soltanto per il supporto alle comunità energetiche 121 milioni di euro, la Regione Calabria ne ha stanziati circa 42 per il primo supporto e circa 41 per tutta la tecnologia a supporto», il suo annuncio. Seguito da quello di Roberto Occhiuto secondo cui la prima comunità energetica sorgerà proprio nella Cittadella: «Ho chiesto all’assessore che se ne facciano anche nei nostri aereoporti perché hanno bisogno di energia».

    Andamento lento

    La priorità delle varie amministrazioni deve essere l’installazione delle tecnologie rinnovabili, specialmente i pannelli fotovoltaici. Secondo il report di Legambiente Comunità rinnovabili: quale energia per una Calabria proiettata nel futuro?, la crescita degli impianti è stata costante, ma molto lenta: al momento, il tasso annuale di costruzione degli impianti è inferiore all’1%. Una lentezza che si accompagna a quella dell’intera nazione. Secondo il dossier Scacco alle Rinnovabili, per rispettare gli impegni internazionali presi, l’Italia dovrebbe installare almeno 6 GW di potenza da fonti rinnovabili ogni anno. Al 2021, non arriviamo a 1,8 GW.

    «È come se io dovessi regolare il traffico in un centro città, avendo le strade, le autovetture e tutto il resto. Allora mi pongo il problema di creare meno caos», spiega Menniti con un esempio. «Qui non siamo a questo punto. Qui ancora abbiamo installato i pannelli fotovoltaici giusto su qualche tetto, Non abbiamo esaurito la risorsa minimale, la più scontata, che non richiede di pianificare nulla».

    centrale_idroelettrica
    Una centrale idroelettrica

    Infatti, su 10.438 GWh di energia elettrica prodotta in Regione, il fotovoltaico contribuisce solo con 681 GWh. In generale, il 36% dei consumi non sono prodotti da fonti rinnovabili, secondo i dati messi a disposizione dall’Unical. A farla la padrona sono ancora le fonti termoelettriche tradizionali, che sfruttano il gas: producono 13.000 GWh, 13 volte in più dell’idroelettrico.
    E se è vero che la nostra Regione genera un grosso surplus di energia elettrica rispetto a quella che consumiamo (+180%), bisogna ricordare che questo proviene dall’utilizzo del gas, una risorsa che prendiamo dall’estero, che inquina e sulla quale non abbiamo il controllo. Senza dimenticare che «il 90% per cento dei Comuni che hanno impianti a fonti rinnovabili hanno impianti che non funzionano perché non fanno la manutenzione».

    Le altre comunità energetiche

    San Nicola da Crissa punta a diventare la prima Comunità Energetica Solidale della Regione. «La differenza con quelle normali, fatte dai privati, è che questi investono per guadagnare. In questo caso, invece, nessuno investe. Le famiglie non mettono e non rischiano un euro, e guadagneranno. In questo modo si viene incontro alle famiglie che hanno difficoltà a pagare le bollette, perciò è solidale», specifica ancora Bonsignore.

    Ed è proprio per combattere la povertà energetica che a San Nicola si è scelto di creare la comunità nel quartiere delle case popolari. Il sindaco Condello si è voluto ispirare ad una delle prime esperienze in Italia, la CER solidale di Napoli Est, finanziata dalla Fondazione Famiglia di Maria e operativa dallo scorso 17 dicembre. Un modello che è stato citato anche dal New York Times.
    Gli esempi da cui prendere spunto non mancano nel nostro Paese. Già nel 2018, in Veneto, Coldiretti Veneto e ForGreen hanno iniziato a collaborare alla creazione di una comunità energetica agricola. Esperienza da non confondere con il filone dell’agrivoltaico, un modello che prevede l’installazione dei pannelli fotovoltaici direttamente sui campi agricoli.

    Napoli, i pannelli sui tetti della prima CER italiana

    I progetti in Calabria

    Tutte le regioni, poco alla volta, stanno iniziando a promuovere le comunità. Tornando in Calabria, San Nicola da Crissa non è l’unico progetto regionale che è quasi pronto per l’attivazione. L’Università della Calabria, da mesi, sta lavorando con i piccoli comuni calabresi. La prima convenzione tra Comuni, il dipartimento DIMEG dell’Unical ed il Consorzio Regionale per L’energia e la Tutela Ambientale (CRETA) ne ha coinvolti 16, che stanno vedendo i loro progetti realizzarsi. Dopo pochi mesi, il numero è salito a 60.
    Uno di questi è il comune di Panettieri, cittadina di poco più di 300 abitanti. Qui, un privato ha finanziato un grosso impianto fotovoltaico da 600 KW, che metterà a disposizione dei membri della CER, senza costi aggiuntivi.

    L’Università della Calabria

    Secondo Daniele Menniti, coinvolto direttamente nella loro realizzazione, «anche Francica è pronta. In dirittura di arrivo c’è pure il comune di Triolo, che fu uno dei primi a iniziare il percorso insieme a noi».
    Una strada simile a quella di San Nicola è stata battuta da Amendolara, in provincia di Cosenza. Qui, i costi della costruzione dell’impianto di Fotovoltaica Srl verranno coperti in parte da finanziamenti pubblici, ed in parte con il sostegno di alcune banche.
    Sul loro aumento, comunque, ci sono pochi dubbi. E non solo per motivi ambientali ed energetici, ma anche di opportunità politica. «Ci sono un po’ di movimenti anche su Catanzaro. Molti, in vista delle nuove elezioni, vogliono inserire nel loro programma amministrativo proprio il tema delle comunità energetiche», conclude Menniti.