Autore: Pietro Spirito

  • Sacal, se la Regione privatizza a sua insaputa

    Sacal, se la Regione privatizza a sua insaputa

    Ci sono molti modi per privatizzare una società pubblica. Ne abbiamo viste di ogni colore e risma nel nostro Paese: dal nocciolino duro (Telecom) ai capitani coraggiosi (Alitalia). Per non parlare delle privatizzazioni ripubblicizzate con plusvalenza per i privati, sul modello autostradale. Eppure, mai prima era accaduto di veder portare a compimento una privatizzazione inconsapevole, una sorta di cessione della maggioranza della proprietà pubblica a propria insaputa.
    È accaduto così con la Sacal, la società regionale che gestisce gli aeroporti del territorio calabrese.

    Sacal, il socio privato conquista terreno senza sforzi

    Era stato deciso un aumento di capitale che ha visto i soci pubblici lasciare inoptate le quote, che sono state a quel punto acquisite da un socio privato. L’azionista privato a quel punto ha conquistato senza colpo ferire la maggioranza della società. E senza nemmeno pagare il sovrapprezzo che è normale venga valutato, e corrisposto, quando un soggetto acquisisce il potere di controllo su una impresa.

    Privatizzazione a propria insaputa

    Quali sono le conseguenze di questa privatizzazione a propria insaputa? Si tratta innanzitutto di una procedura per così dire insolita, che ha escluso il mercato da qualsiasi contendibilità. Solo gli azionisti presenti al momento dell’aumento di capitale potevano difatti optare le azioni dell’aumento di capitale. È stata evitata in questo modo ogni forma di pubblicità e di trasparenza. Si è creato il cerchio magico della possibile cessione della proprietà ai privati.

    Sacal, una privatizzazione da oligarchia postsovietica

    Procedere ad una privatizzazione chiusa al mercato è stata la prima anomalia. Nessuna forma di partecipazione di terzi alla operazione era possibile. E dunque è come se si fosse operato entro un recinto chiuso di interessi. Già questo fatto delinea gli elementi di una privatizzazione oligarchica, sul modello di quelle che sono state realizzate nella confusione post-sovietica degli anni Novanta del secolo passato.

    Un capitalismo amorale e familistico

    La seconda incredibile modalità, coerente con un capitalismo amorale e familistico, è stata quella di cedere la maggioranza delle azioni, non sottoscrivendo i soci pubblici l’aumento di capitale, senza riscuotere in questo modo il valore del premio per la maggioranza stessa.
    In questo caso siamo in presenza di un regalo vero e proprio, costruito nella forma di mancata sottoscrizione delle azioni da parte delle istituzioni pubbliche che fanno parte della compagine societaria. Una smemoratezza degna di approfondimento politico e legale.
    Infine, e non è questione irrilevante, la Sacal è una società concessionaria dello Stato che gestisce aeroporti. In quanto tale, è soggetta ad obblighi di trasparenza verso il concedente. Per questa ragione Enac ha sporto denuncia.

    Il precedente che mancava

    Il panorama italiano delle privatizzazioni, che già non presentava un pedigree particolarmente felice, si arricchisce ora di una perla di cui non si sentiva francamente il bisogno.
    Gli aeroporti sono un tassello strategico per la mobilità e la competitività di un territorio. Ancora una volta la Calabria rischia di fare l’ennesimo autogol. A segnare stavolta è un azionista privato che si frega le mani per l’affare che ha realizzato.
    Una stupidità così palese non si era mai vista da parte di un azionista pubblico. Al punto tale che è legittimo avanzare sospetti di interessi inconfessabili. Lo vedremo nelle prossime puntate di questa brutta storia.

  • Calabria spopolata: da qui se ne vanno tutti, migranti compresi

    Calabria spopolata: da qui se ne vanno tutti, migranti compresi

    I dati Istat che registrano la popolazione residente in Calabria parlano chiaro: dopo una crescita pressoché costante sino al secondo dopoguerra e la stabilizzazione tra gli anni Cinquanta e Novanta, a partire dal 1991 l’andamento è decrescente. E dal 2010 nella nostra regione è cominciata una costante caduta, che pare inarrestabile.

     

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    La Calabria non cresce dal 1951

    A confronto con le variazioni della popolazione italiana, quella calabrese registra in una sola occasione un divario positivo, nel censimento del 1951. Per il resto, il saldo ha assunto per ben tre volte valori negativi: nel 1971, nel 2001 e nel 2011. Il dato è, naturalmente, da mettere in relazione alla dinamica conseguente i fenomeni migratori che hanno interessato e continuano a interessare in particolare le regioni meridionali d’Italia.

     

    Dove emigrano i calabresi

    La destinazione prevalente per i calabresi è l’Europa (48,6%), seguita dall’America centro-settentrionale (33,7%). Se consideriamo il singolo paese, i calabresi sono presenti maggiormente in Argentina (24,1%). Il comune che presenta in Calabria il più alto numero di emigranti è Corigliano-Rossano (14.053). Se, invece, consideriamo il tasso di incidenza sulla popolazione residente quello di Paludi è il caso in cui gli emigranti superano la popolazione residente (1.972 rispetto a 1.007).
    Dal 2006 la percentuale dei residenti all’estero è aumentata dell’82%: i connazionali all’estero sono ormai 5,6 milioni, di cui il 45,5% è ascrivibile alla fascia d’età tra i 18 ed i 49 anni.

    La Calabria è una regione per over 65

    E mentre coloro che sono nel pieno dell’età lavorativa e produttiva si allontanano dall’Italia e dalla regione, i dati sulla popolazione residente mostrano che la Calabria costantemente si sposta verso la prevalenza degli over 65: dal 17,1% (1961) al 22,6% nel 2021. L’indice di vecchiaia per la regione è oggi pari a 175, il che significa che ogni 175 anziani ci sono 100 giovani sino ai 14 anni. Il dato era pari a 102,6 circa un ventennio fa. Le implicazioni dal punto di vista sociale, istituzionale e politico che comporta questo slittamento verso la sempre più forte incidenza degli anziani sono evidenti.

    L’indice di ricambio della popolazione attiva – che rappresenta il rapporto percentuale tra la fascia di popolazione che sta per andare in pensione (60-64 anni) e quella che sta per entrare nel mondo del lavoro (15-19 anni) – è pari, in Calabria, a 138,5. Dal momento che la popolazione attiva è tanto più giovane quanto più l’indicatore è minore di 100, se ne deduce che quando nel 2002 lo stesso indice era pari a 50,9, il futuro pareva più roseo.

    Un’ulteriore frenata per la Calabria

    Le previsioni che l’Istat ha elaborato sulla popolazione nazionale e sulle dinamiche regionali all’orizzonte del 2065 non sono rincuoranti: si prevede una Calabria in ulteriore e drastica frenata rispetto ai rallentamenti di questi anni, con una popolazione pari a 1,2 milioni di abitanti. Se non intervenissero fattori di discontinuità rispetto al trend evidenziato, si registrerebbe, quindi, un’accelerazione in un tempo relativamente breve per i cambiamenti di natura demografica.

    La popolazione straniera

    Per quanto riguarda la popolazione straniera, in Calabria (dati aggiornati al primo gennaio 2021) gli stranieri residenti sono 102.302 e rappresentano il 5,4% della popolazione. Si tratta di un valore che, evidentemente, non corrisponde alla percezione – molto più ingigantita – del fenomeno, in tutta Italia.

    Nel Rapporto 2021 “Italiani nel Mondo”, curato dalla Fondazione Migrantes, si sottolinea che la popolazione immigrata non cresce più. Parallelamente, quella autoctona si trasferisce all’estero, come attestano le cancellazioni dall’anagrafe per emigrazioni.

    Nel 2019 in Italia tali cancellazioni sono state complessivamente 180mila, con un aumento del 14,4% rispetto all’anno precedente. In Calabria, 3 cittadini per ogni 1.000 residenti si trasferisce all’estero (la media italiana è 2,4). Tra le province calabresi, si distingue Cosenza, dove il dato sale a 3,6.

    Da tener da conto anche i dati relativi alla migrazione interna: oltre 9 residenti su 1.000 lasciano la regione per trasferirsi al Centro-Nord.

     

    Pur prendendo in considerazione dati sino al 2019 con l’intento di neutralizzare la particolarità dell’emergenza pandemica, il quadro delineato mette in luce che i fenomeni demografici presi in considerazione sono oggetto di tendenze consolidate negli ultimi due decenni.

    La pandemia ha inciso sulla struttura demografica

    Il 2020 e il 2021 sono stati certamente segnati dalla pandemia, che in qualche modo ha inciso sulla struttura demografica, sia in termini di una maggiore mortalità sia in termini di trasferimenti in altri territori determinati dalla emergenza sanitaria. In ogni caso, è dal 2010 che il movimento naturale della popolazione – determinato dalla differenza fra le nascite e i decessi in un anno – risulta essere un dato in caduta libera. E da molti anni ormai si sente il solito ritornello: cosa fare per invertire la rotta e frenare lo spopolamento in Calabria?

  • L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    Tra qualche mese saranno passati cinquanta anni dalla decisione di istituire l’Unical,  l’Università della Calabria. Mezzo secolo è un tempo più che congruo per fare il punto sulle modalità con le quali si è determinato il rapporto tra territorio e cultura accademica. Ne parliamo con Alessandro Bianchi, ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi e, dal 1999 al 2006, rettore dell’Università Mediterranea, istituzione con una storia di ormai quaranta anni.

    Era il 1972, e qualcuno fece una scommessa: Beniamino Andreatta e Paolo Sylos-Labini crearono, ad Arcavacata di Rende (ai confini di Cosenza), l’Università della Calabria, che nel 2019 ha conquistato il secondo posto, dopo Perugia, nella graduatoria stilata dal Censis dei grandi atenei statali italiani (da 20 mila a 40 mila iscritti). La valutazione ha riguardato i servizi, le strutture, le borse di studio offerte agli studenti, la comunicazione e l’internalizzazione.

    Da allora le università calabresi si sono ritagliate isole d’eccellenza nelle discipline del futuro, come l’Intelligenza Artificiale, ma non sono riuscite, almeno sinora, a generare una ricaduta positiva sul territorio. Nella società contemporanea, che è sempre poi guidata dalla conoscenza e dai saperi, i legami tra società locale ed istituzioni universitarie sarebbero preziosi per innescare processi di sviluppo: nell’economia per promuovere imprenditorialità ed innovazione, nella società per orientare la discussione culturale e la consapevolezza dei cittadini. Cerchiamo di capire perché non si è saldata la cultura accademica prodotta dalle Università con il territorio calabrese. L’opinione di Alessandro Bianchi è preziosa per la sua esperienza diretta alla direzione della Università Mediterranea.

    Attraverso quali strumenti le Università calabresi hanno interagito con i diversi stakeholders del territorio (politica, industria, società civile, associazioni)?

    «In generale direi che l’interazione è stata molto marginale sia con il mondo produttivo che con la società civile, e le ricadute sul funzionamento delle Università di modesta consistenza. Un caso a parte quanto riguarda il versante della politica, ma solo perché le interazioni sono state indispensabili con le amministrazioni locali, in particolare quelle comunali, perché legate alla realizzazione delle nuove sedi che per tutte e tre le Università hanno comportato lavori complessi e di lunga durata.

    Un rapporto che poco a che fare con quello che dovrebbe essere un legame strutturale tra Università e Territorio che, a mio parere, non si è mai costruito per una duplice responsabilità: delle Università, che hanno teso a rinchiudersi nei loro confini culturali e disciplinari; e della Regione, che non ha mai considerato l’Università un interlocutore a tutto campo, un soggetto con il quale condividere le scelte di politica economica, sociale e territoriale».

    Quali sono i punti di forza e di debolezza che l’Unical ha espresso nel corso della sua decennale esperienza?

    «L’esperienza è stata molto più che decennale soprattutto per UNICAL e Università Mediterranea che nascono nei primi anni Settanta. Per UNICAL il punto di forza è sempre stato quello contrassegnato dal suo stesso atto di nascita: un’apposita legge istitutiva, il requisito statutario della residenzialità, una sede appositamente costruita, finanziamenti cospicui per le diverse attività, un corpo docente fondativo di alta qualità. Poi su questa solida condizione di partenza ha saputo costruito una ricerca e una didattica di alto livello, come viene riconosciuto ormai da molti anni a livello nazionale.

    Il punto di maggiore debolezza è stato nell’atteggiamento di distacco tenuto nei confronti delle altre realtà universitarie che nel tempo sono nate, quasi che queste nascite rappresentassero un delitto di lesa maestà. Questa è una delle ragioni principali della mancata costruzione di un sistema universitario regionale.

    E quelli della Mediterranea?

    La Mediterranea ha vissuto una vicenda completamente diversa, molto controversa fin dalla nascita (la legge istitutiva della UNICAL diceva che doveva essere l’unica Università in Calabria): è stata avviata come semplice Istituto Universitario di Architettura ed ha avuto per lungo tempo sedi molto precarie e scarsi finanziamenti. Tuttavia ha saputo emergere progressivamente grazie all’azione esercitata da tre rettori che si sono susseguiti dai primi anni Settanta fino a metà degli anni Duemila.

    Antonio Quistelli, che anche grazie al supporto di una personalità insigne come Ludovico Quaroni, ha saputo attrarre a Reggio Calabria una moltitudine di docenti di grande prestigio soprattutto nelle aree scientifiche dell’architettura, della storia e dell’urbanistica, che per molti anni hanno fatto acquisire una posizione di primo piano alla Facoltà di Architettura. Rosario Pietropaolo che ha svolto un lavoro analogo per la Facoltà di Ingegneria e che ha saputo portare a compimento, superando difficoltà di ogni genere, la realizzazione della nuova sede universitaria.

    Il sottoscritto, che si è giovato del solido retroterra costruito dai suoi predecessori per proiettare l’Università in una dimensione nazionale e internazionale giocando sul rapporto con l’area mediterranea (a cominciare dalla denominazione Mediterranea da me introdotta). È stata una scelta vincente, testimoniata dalla rete di relazioni con molte delle principali università della Riva Sud oltre che della Spagna e della Francia, e dalla continua presenza nelle sue iniziative scientifiche e culturali di personalità del calibro di Asor Rosa, Umberto Eco, Gustavo Zagrebelski, Gil Aluja, Francesco Rosi, Bernardo Secchi, per citare quelli di maggiore spicco. Non a caso il punto di debolezza della Mediterranea è stato l’aver abbandonato quella dimensione e quella tensione culturale, il che l’ha riportata nel ristretto di una dimensione locale».

    Perché le forze della cultura non sono state in grado di far maturare un capitale di legalità indispensabile per la modernizzazione della Calabria?

    «Credo che le ragioni vadano trovate nel fatto che le forze della cultura esterne all’Università, pur potendo annoverare punte prestigiose, sono poche e molto fragili, mentre quelle presenti all’interno delle Università hanno preferito rimanere chiuse nei loro fortilizi al riparo dalla pervasività del mondo illegale che ha continuato ad essere dominante nella società calabrese.

    La dimostrazione che un diverso comportamento avrebbe potuto cambiare le cose è rappresentato dal fenomeno Progetto Calabrie, una associazione nata dalla convergenza di un pugno di docenti dell’Unical e della Mediterranea, che puntò ad assumere la guida della Regione con una proposta innovativa sulla quale raccolse consensi vasti e diffusi. Ma la politica ufficiale avvertì il pericolo e oppose una resistenza intransigente, sicché il progetto naufragò».

    Quali sono le azioni che devono essere poste in campo per rivitalizzare il patrimonio culturale delle Università calabresi in rapporto con il territorio?

    «A questa domanda non so rispondere perché per farlo bisogna essere all’interno e al governo delle strutture universitarie per fare scelte comunque non facili anche perché il cosiddetto territorio non mostra grande attenzione per le Università. Certamente non lo mostra la Regione; in misura maggiore lo fanno singoli Comuni, ma sempre con rapporti episodici e di scarsa consistenza».

    Avrebbe senso costruire una rete delle Università meridionali per rilanciare un pensiero e una cultura meridionalista?

    «Avrebbe certamente un senso ma direi di più, direi che è una necessità stringente anzitutto per equilibrare i rapporti con le Università del Centro-Nord, oggi totalmente sbilanciati a favore di queste ultime. Da lì si potrebbe partire per affermare un pensiero e una cultura meridionalista.
    Ma sul punto sono del tutto pessimista perché non vedo un solo segnale in quella direzione, mentre ne vedo molti in quella opposta della difesa dei propri localistici interessi».

    Cosa potrebbero fare le Università calabresi per sostenere gli sforzi del PNRR?

    «Nella situazione attuale assolutamente nulla. Si sarebbero dovute fare avanti già da molto tempo, ora i giochi sono in fase avanzata e non ci sono spazi per azioni significative. Né, bisogna dirlo, qualcuno dal centro ha chiesto un qualche coinvolgimento delle Università calabresi. Possiamo solo auspicare un loro coinvolgimento nella fase attuativa dei progetti, ma anche questo dipende dai comportamenti che assumerà la Regione».

    Quanto ha pesato e pesa il deficit infrastrutturale anche per lo sviluppo della cultura e delle Università in Calabria?

    «Ha pesato moltissimo nel periodo a partire dal dopoguerra e fino alla prima metà degli anni Duemila, durante il quale la carenza di infrastrutture e dei connessi servizi ha reso difficoltosa la mobilità verso l’esterno e all’interno dell’intero territorio calabrese, che per questo aspetto ha rappresentato un caso estremo anche rispetto al resto del Mezzogiorno. Di questo le Università hanno certamente risentito in modo negativo. Negli anni più vicini la situazione è in qualche misura migliorata (penso al completamento della infinita Salerno-Reggio Calabria) ma le carenze restano enormi.

    Che dire dei cinquanta anni trascorsi senza dare soluzione adeguate al porto di Gioia Tauro? O al collegamento ferroviario Lamezia-Catanzaro? O all’aeroporto di Crotone? O all’attraversamento (non al Ponte) dello Stretto? O alle autostrade del mare? O, più di recente, alle reti di connessione telematica? Il punto è che una attenzione e una progettualità per il territorio calabrese non esiste a livello centrale a motivo della prevalenza della questione settentrionale, né a livello regionale per la inadeguatezza della classe politica».

  • Imprese e Calabria, le ragioni della crisi di competitività

    Imprese e Calabria, le ragioni della crisi di competitività

    Il censimento industriale 2019  condotto dall’Istat in tutte le Regioni d’Italia mette a disposizione degli osservatori e dei decisori una radiografia produttiva dei territori prima della pandemia. Attraverso questi dati, possono essere messi in evidenza punti di forza e punti di debolezza dell’economia industriale nel nostro Paese.

    Prevalenza delle microimprese, deindustrializzazione, terziarizzazione commerciale, assetto proprietario e gestionale di carattere marcatamente familiare, scarsa attenzione alla internazionalizzazione e sottocapitalizzazione delle aziende costituiscono gli elementi dominanti che emergono dalla lettura dei dati espressi dal censimento industriale in Calabria al 2018.

    Troppo piccole per sfidare il mercato

    La distribuzione dimensionale delle imprese registra in Calabria una più marcata presenza delle micro e piccole imprese rispetto all’Italia. Circa l’87% delle aziende rientrano nella categoria delle microimprese (con 3-9 addetti). Le piccole (10-49 addetti) rappresentano il 12,2% del totale regionale.
    Le medie (50- 249 addetti) e le grandi imprese (250 e più addetti) sono costituite complessivamente solo da 255 unità, ossia circa l’1,2% del totale regionale. Il peso delle medie e grandi imprese a livello nazionale è pari al doppio rispetto alla Calabria, vale a dire il 2,3%.

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    Le caratteristiche della competizione internazionale si sono orientate verso la formazione delle catene globali del valore. Queste mettono le microimprese nella condizione di essere meno adeguate alla logica di sviluppo dei mercati, guidati dalle multinazionali capaci di innovare e di guidare il processo di accumulazione della ricchezza.

    La presenza di una struttura industriale fortemente frammentata è ancora più evidente se leggiamo le informazioni sul mercato del lavoro. Oltre il 50% degli addetti regionali calabresi lavorano in microimprese (a livello nazionale lo fa il 29,5%) e oltre il 28% nelle piccole imprese. Medie e grandi aziende impiegano quasi il 22% degli addetti complessivi regionali. La corrispondente quota a livello nazionale supera il 44%, un valore più che doppio.

    Prevalgono le imprese di servizi

    La struttura produttiva calabrese è sempre più caratterizzata da una forte prevalenza delle imprese di servizi rispetto a quelle industriali. Sono attive nel settore industriale più del 25% delle aziende, contro il circa 30% misurato a livello a nazionale. Il processo di terziarizzazione appare uniformemente avanzato in tutte le province del territorio regionale. La percentuale di imprese di servizi varia dal 73,8% di Cosenza e Catanzaro al 76,8% di Reggio Calabria.

    Le imprese di servizi sono circa 15.500 e rappresentano quasi i due terzi del totale regionale. Circa il 44% è costituito da aziende attive nel commercio all’ingrosso e al dettaglio. Il restante 56% è rappresentato da imprese che offrono servizi non commerciali. Le imprese attive nell’offerta di servizi di alloggio e ristorazione rappresentano oltre un quinto delle aziende di servizi.

    La crisi delle costruzioni e il crollo degli addetti

    Rispetto al 2011 la numerosità delle imprese calabresi è pressoché rimasta invariata, con una lievissima diminuzione dello 0,6%. Tale riduzione, inferiore a quella registrata complessivamente in Italia (-1,3%), è dovuta ad una compensazione tra una forte contrazione del comparto industriale (-23,6% nel complesso, e in particolare 32,2% nel settore delle costruzioni) rispetto ad un incremento osservato nel numero di imprese operanti nel terziario (+10,7%), dovuto ad un consistente aumento (+21,0%) delle aziende che offrono servizi non commerciali.

     

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    Parallelamente alla riduzione del numero di aziende, il periodo 2011-2018 ha registrato una perdita ben più robusta di oltre 12 mila addetti (il 7,3%). È il riflesso soprattutto del ridimensionamento del settore industriale. Più di un terzo delle imprese calabresi (il 36,8%) è localizzata in provincia di Cosenza, più di un quarto in quella di Reggio Calabria, un quinto nella provincia di Catanzaro. Il peso delle province di Crotone e Vibo Valentia è simile, invece, con un totale del 17,1%.

    Come effetto di una maggiore presenza della media e grande impresa, il peso della provincia di Catanzaro in termini di addetti (quasi il 25% del totale regionale) è superiore a quello misurato in termini di imprese (19,6%). L’opposto vale nelle restanti province, dove la quota regionale di addetti oscilla fra il 7,6 % di Vibo Valentia e circa il 35 % di Cosenza.

    Tutto (o quasi) in famiglia

    Non diversamente dal resto del Paese, anche in Calabria la struttura produttiva del settore privato è caratterizzata dalla prevalenza di imprese a controllo individuale/familiare. Nel 2018 le imprese calabresi con 3 e più addetti controllate da una persona fisica o famiglia sono circa 16.488, ossia il 79,6 % del totale (un dato più elevato di quello nazionale, pari al 75,2%).

    Solo nella provincia di Crotone la quota di imprese a controllo familiare non raggiunge il 75%. La quota di unità produttive a controllo individuale e/o familiare diminuisce al crescere della fascia dimensionale; in Calabria è oltre l’80% nel segmento delle microimprese, ma risulta comunque relativamente elevata (quasi il 70%) anche per le imprese con 10 e più addetti.

    La natura prevalentemente familiare delle imprese calabresi ed italiane non riguarda solo la dimensione del controllo, ma investe anche le caratteristiche gestionali. Considerando le sole imprese controllate da persona fisica o famiglia nella fascia dimensionale da 10 addetti in su, in Calabria il soggetto responsabile della gestione è nel 75,9% dei casi l’imprenditore o socio principale/unico e nel 18,6% un membro della famiglia controllante.

    Le situazioni nelle quali la responsabilità gestionale è affidata ad un manager – selezionato all’interno o all’esterno dell’impresa – o altro soggetto riguardano soltanto il 5,5% delle imprese, un dato in linea con quello nazionale.

    Estero e collaborazioni interessano poco

    La larga maggioranza delle aziende calabresi vede nella difesa della propria posizione competitiva uno dei principali obiettivi strategici. In particolare, nel segmento delle imprese con 10 addetti e più, la quota delle aziende che indicano tale obiettivo gestionale fra quelli che intendono perseguire nel triennio 2019-2021 è pari in Calabria all’84%, in linea col dato nazionale uguale all’84,3% . Seguono per ordine di importanza l’obiettivo di ampliare la gamma di beni e servizi (62,9%) e quello di aumentare l’attività in Italia (50,1%).

    L’accesso a nuovi segmenti di mercato è un obiettivo strategico per più di un terzo delle imprese, mentre l’attivazione (o l’espansione) di collaborazioni interaziendali è rilevante per poco più del 24%. Infine, l’espansione dell’attività all’estero è un obiettivo perseguito da solo il 14,8 per cento delle imprese calabresi, meno di quanto rilevato complessivamente nel Paese (24,3%). Questa scarsa proiezione sui mercati internazionali costituisce certamente un fattore di debolezza strategica per le imprese calabresi, che finiscono per operare prevalentemente sul mercato nazionale, se non più limitatamente solo sul mercato locale.

    Di conseguenza, per la maggioranza delle aziende, la competizione assume un carattere essenzialmente locale. Solo il 41,5% di esse vendono oltre i confini regionali sul mercato nazionale e ancora meno, il 13,7%, sui mercati europei. In modo simile, più del 40% delle imprese indica le altre regioni italiane come area di localizzazione dei principali concorrenti, mentre la medesima percentuale è circa dell’8% quando riferita all’Unione Europea.

    Il crollo degli investimenti pubblici

    Infine, appare rilevante osservare il fenomeno di riduzione della intensità di capitale investito, nel corso dell’ultimo decennio. Tale valore misura gli investimenti fissi lordi in percentuale del Pil. In Calabria L’indicatore è pari al 14,8% nel 2018, in netto calo rispetto al 25,5% del 2008. Il valore nazionale di tale indice nel 2018 risulta pari al 18,3%, con il Nord Est che raggiunge il 20,5% ed il Mezzogiorno il 16,5%. Se anche in questi caso confrontiamo tali dati con l’andamento di dieci anni prima, il Mezzogiorno registrava il 21,4%, lo stesso valore medio italiano, mentre in Nord Est per questi indicatore raggiungeva il 23,9%.

    Sono in particolare gli investimenti pubblici ad essere crollati nelle regioni meridionali, contribuendo alla radicalizzazione della crisi industriale ed all’aumento della forbice nella formazione del reddito. Vedremo se il PNRR riuscirà ad invertire l’andamento registrato nell’ultimo decennio.

  • Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    La cultura di un territorio è determinata da molti fattori convergenti: il grado di scolarizzazione, la diffusione della lettura, la conoscenza e le competenze che si esprimono anche nelle attività economiche e sociali.
    I musei costituiscono una cartina al tornasole che racconta il radicamento nelle proprie radici, la capacità di illustrare le origini ed il presente della propria storia, il meccanismo di attrazione culturale verso un turismo della conoscenza che si è molto sviluppato nel corso degli ultimi decenni in tutti i Paesi che dispongono di un patrimonio culturale di adeguato livello.

    L’indagine dell’Istat

    L’Istat, l’Istituto Nazionale di Statistica, conduce da diversi anni una indagine sui musei del nostro Paese, mettendo a disposizione una serie di indicatori che specificano le caratteristiche di offerta, a livello nazionale ed in ciascun territorio regionale.
    Possiamo in questo modo verificare il grado di armonizzazione o di scostamento tra il modello museale nazionale e la singola realtà territoriale.

    Proprio per questa ragione abbiamo messo a confronto per gli indicatori presi in considerazione dall’indagine i risultati che emergono dalla realtà museale nazionale rispetto a quella calabrese, considerando per ogni indicatore il valore totale, oltre che la sua articolazione tra musei privati e pubblici.

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    Ne viene fuori un quadro a tinte abbastanza fosche. Soprattutto per quel che riguarda una serie di indicatori: l’accessibilità per i disabili, l’adeguamento dei musei alle nuove tecnologie, lo svolgimento di attività didattiche integrative e la capacità di attrarre turisti stranieri sui visitatori totali. I musei privati calabresi in qualche caso riescono a stare nei valori nazionali, mentre sono i pubblici a registrare i maggiori divari.

    I punti di forza

    Cominciamo con qualche dato nel quale la Calabria riesce a posizionarsi meglio della media nazionale. In tema di grado di apertura al pubblico dei musei pubblici l’Italia registra il 62,9%, contro il 64,3% della Calabria. Lo stesso indicatore per quelli privati a livello nazionale è pari al 57,9%, contro il 63,3% della Calabria. Nel valore totale di questo indicatore l’Italia raggiunge il 58,5% contro il 60,8% della Calabria.

    Anche quando andiamo a misurare il grado di diffusione di musei con ingresso gratuito verifichiamo che in Italia tale indicatore è pari al 41,7% rispetto al 48,8% della Calabria. Tale forbice si allarga in particolare quando andiamo a misurare i musei privati con ingresso gratuito, che in Italia sono pari al 46,1% mentre in Calabria si arriva al 61,2%. Nel caso di quelli pubblici tale indicatore in Italia è pari al 42,2%, mentre in Calabria raggiunge il 46,8%.

    Disabili penalizzati

    Le dolenti note cominciano ad emergere quando andiamo a confrontare il grado di accessibilità e fruibilità per persone con disabilità. Nel totale dei musei italiani è pari al 7,7%, mentre in Calabria si raggiunge il 6%. Nei musei privati la percentuale in Italia raggiunge il 5,9%, mentre in Calabria si attesta al 4,2%. Nei musei pubblici in Italia l’accessibilità per i musei pubblici è pari all’11,7%, con la Calabria che si attesta al 7,8%.

    Pubblico e digitale, il divario cresce

    Quando mettiamo a confronto il grado di offerta di servizi e supporti digitali, in Italia la percentuale complessiva è pari al 44,7%, mentre in Calabria si attesta al 36,1%. Nel caso dei musei privati il dato nazionale raggiunge il 41,9%, mentre in questo caso la Calabria è maggiormente performante, con il 46,9%. Se prendiamo in considerazione i musei pubblici, il valore di digitalizzazione nazionale è pari al 49,3%, contro il 33,9% della Calabria.

    Se analizziamo il grado di servizi digitali per visite virtuali sul totale dei musei la
    Calabria raggiunge il 18,6%, mentre i musei italiani arrivano al 24,3%. Tra i musei privati c’è maggiore parità sulla digitalizzazione per le visite virtuali, con la Calabria che arriva al 24,5 , mentre i musei italiani privati si collocano al 25,4%. Nei musei pubblici la forbice di digitalizzazione per visite virtuali è particolarmente rilevante, con la Calabria che arriva al 16,5% e l’ Italia che si attesta 25,3%.

    Poche attività didattiche nei musei

    Nella diffusione di attività didattica educativa la forbice dei musei calabresi rispetto al valore italiano è molto rilevante: 39,8% contro il 51,4% nazionale. Non è così per quelli privati, nel cui caso il grado di diffusione di attività didattiche è pari al 51% per la Calabria rispetto al 48,6% dell’Italia. Molto distante risulta invece la condizione calabrese nei musei pubblici per quanto riguarda la diffusione delle attività didattiche: 37,6% contro il 56,4% dell’Italia.

    Scarso appeal sugli stranieri

    Guardiamo infine alla percentuale di visitatori stranieri sul totale: in Italia è pari al 45,6% rispetto al 26,4% della Calabria. Nei musei privati stavolta la forbice non viene colmata (24,9% in Calabria contro il 48,1% dell’Italia). Ed anche nei musei pubblici si conferma una scarsa presenza di turisti stranieri in Calabria sul totale dei visitatori (26,7%) contro un valore nazionale pari al 44,6%.

    C’è insomma molto lavoro da fare per valorizzare il patrimonio museale calabrese, al fine di allinearlo alle performance nazionali. Soprattutto c’è da rendere queste strutture più vitali dal punto di vista della digitalizzazione, dello sviluppo di attività didattiche, della conoscenza e della apertura verso visitatori stranieri. Una storia culturale così ricca come quella della Calabria merita di essere valorizzata in modo adeguato.

  • Benvenuti a Crotone, la città che vive in fondo alle classifiche

    Benvenuti a Crotone, la città che vive in fondo alle classifiche

    Misurare le grandezze economiche e sociali per comprendere meglio il livello di sviluppo delle comunità è questione di crescente interesse nella comunità degli esperti e dei decisori. Il principale indicatore della crescita – il prodotto interno lordo – era stato introdotto a valle della Grande Crisi del 1929. Include tutti i tasselli del reddito prodotto, che però non necessariamente stabiliscono il grado di benessere delle popolazioni.

    Dal Pil al Bes

    Già nel 1968 Robert Kennedy affermava che «il nostro Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per liberare le autostrade dalle carneficine. Mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le forzano…In breve misura qualsiasi cosa, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Il lavoro di analisi finalizzato a riformulare gli indicatori con cui leggiamo la struttura della società e dell’economia è partito nel 2009, proseguendo per un decennio. Ha portato formalizzare una nuova metrica dello sviluppo, basata sulla misurazione del benessere economico e sociale (Bes).

    Anche l’Istat si adegua

    Da qualche anno l’Istat ha cominciato a pubblicare l’andamento degli indicatori nazionali secondo i nuovi criteri di benessere a livello provinciale. Questa nuova chiave di lettura consente di leggere la dotazione di capitale sociale sotto numerosi profili. Tiene conto, infatti, di sanità, servizi sociali, pubblica istruzione, mercato del lavoro, competenze educative, efficienza delle pubbliche amministrazioni, diffusione della criminalità, ampiezza delle istituzioni culturali, qualità del territorio, energia proveniente dalle fonti rinnovabili, struttura della raccolta dei rifiuti, innovazione nei brevetti.

    Qual è il posizionamento delle province della Calabria rispetto all’Italia ed al Mezzogiorno? La serie storica Istat mette anche a disposizione l’evoluzione degli indicatori dal 2004 al 2020. Noi ci limiteremo a fotografare l’istantanea dell’ultimo anno, rinviando ad una successiva occasione l’osservazione dei mutamenti che si sono determinati nel corso degli ultimi quindici anni.

    Quanto viviamo

    Partiamo dalla durata della vita, espressa come speranza di vita alla nascita, misurata in numero medio di anni. In Italia tale indicatore arriva ad 82 anni nel 2020, con un calo vistoso rispetto al 2019 (83,2), sostanzialmente per effetto della pandemia. Il Mezzogiorno registra 81,6 anni nel 2020, con un calo meno vistoso rispetto al 2019 (82,4), segno di una minore aggressività mortale della pandemia.

    La Calabria registra nel 2020 una speranza di vita alla nascita pari allo stesso dato della media nazionale (82 anni), con un calo ancora meno vistoso rispetto al dato del 2019 nei confronti del valore nazionale e meridionale (82,4). Il miglior dato provinciale è quello di Catanzaro con 82,5 anni, mentre il peggiore è quello di Crotone con 81,1.

    Infanzia: mortalità e servizi

    Se però analizziamo il dato della mortalità infantile, espresso come numero per ogni 1.000 nati vivi, la forbice tra Italia e Mezzogiorno è più visibile, ed il risultato della Calabria è complessivamente più allarmante.
    Il numero dei bimbi morti è pari a 2,9 nella media nazionale ed a 3,7 nel Sud. La Calabria registra un valore peggiore rispetto a quello meridionale, con un dato pari a 4. La peggiore performance tra le province calabresi è quella di Reggio Calabria con 4,9, mentre il dato più confortante è quello di Vibo Valentia con 2,4. Rispetto a Reggio Calabria fanno peggio in Italia solo Trapani (6,4), Enna (6), Avellino (5,6), Ragusa (5,1).

    Servizi per l’infanzia

    Passiamo ora alla percentuale di bambini che hanno usufruito di servizi per l’infanzia. In questo caso il differenziale tra Italia e Mezzogiorno è particolarmente robusto: mentre il valore nazionale è pari al 14,7%, nel Sud l’indicatore non arriva neanche alla metà (6,4%) e la distanza rispetto al Centro è abissale (21%).
    In Calabria la situazione è disastrosa, con l’indicatore regionale che è pari al 3,1%. Solo Crotone si colloca sopra il valore della media meridionale (8,8%), mentre Vibo Valentia sta all’1,8% e Reggio Calabria arriva appena ad 1,9%, con una sola provincia in Italia che riesce a fare peggio rispetto alle due province calabresi: si tratta di Caserta (1%).

    Diplomati e laureati

    Se guardiamo alla percentuale della popolazione nella fascia di età 25-34 con almeno il diploma di scuola superiore, in Italia tale valore raggiunge il 62,9%, rispetto al 54,7% delle regioni meridionali. La Calabria si allinea sostanzialmente alla circoscrizione meridionale (54,9%), ma in una forbice di forte differenziazione a livello regionale, con un valore molto basso a Crotone (44,7%) ed un risultato molto più elevato a Cosenza (58,8%). L’unica provincia italiana che registra un valore peggiore per questo indicatore rispetto a quello di Crotone è Barletta-Andria-Trani (43,5%).

    Se, nella stessa fascia di età, andiamo a misurare la percentuale dei laureati, la forbice tra Italia e Mezzogiorno torna ad allargarsi. Mentre l’intera nazione registra il 28,3% di laureati, il Sud si ferma al 22%.
    La Calabria a livello regionale è in linea con il Mezzogiorno, con il 22,1%, ma anche in questo caso le differenze sono molto sensibili a livello provinciale: si passa dal massimo di Cosenza, con il 27,3%, al minimo di Crotone con il 14,6%, poco più della metà rispetto alla migliore performance calabrese. Solo Oristano, con il 13,7%, fa peggio di Crotone in Italia per questo indicatore.

    Il primato dei Neet

    I giovani che non lavorano e che non studiano (Neet) sono in Italia il 23,3%, ma arrivano a sfiorare un terzo nel Mezzogiorno (32,6%). In Calabria questo indicatore supera un terzo a livello regionale (34,6%), ed addirittura arriva a sfiorare la metà a Crotone (47,2%). Per questo indicatore Crotone registra la peggiore performance dell’intera nazione, un primato certamente poco invidiabile.

    Le prove Invalsi

    Nella competenza alfabetica non adeguata, misurata dalle prove Invalsi, l’Italia registra il 34,1%, indicatore già preoccupante in sé. Il Mezzogiorno sta al 43,4%: quasi uno su due dei giovani meridionali deve colmare competenze di base nella espressione e nella comprensione linguistica. La Calabria varca questa soglia già drammatica, ed arriva al 49%, quasi uno su due dei giovani meridionali deve colmare competenze di base nella espressione e nella comprensione linguistica. Crotone, ancora una volta, si spinge oltre, ed arriva al 56,9%, ancora una volta il peggiore indicatore a livello nazionale.

    Nella competenza numerica, sempre misurata con i risultati delle prove Invalsi, la situazione è persino peggiore, per il Paese, per il Sud e per la Calabria.
    In Italia il tasso di inadeguatezza numerica è pari al 39,2%, mentre nel Mezzogiorno si supera la metà: 53,4%. La Calabria a livello regionale arriva al 60,3%, con la punta avanzata nella solita Crotone al 65,9%, anche in questo caso con la peggiore performance nazionale.

    I dati sul mercato del lavoro

    Se misuriamo il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro, in Italia l’indicatore è pari al 19%, rispetto ad un Mezzogiorno che arriva ad un terzo della popolazione in età attiva (33,5%%). La Calabria si colloca su un valore regionale più elevato rispetto alla media meridionale (37,7%), ma con una forbice rilevante al suo interno tra il 33,5% di Cosenza ed il 48,7% di Crotone, ancora una volta in testa in questa poco invidiabile graduatoria.

    L’occupazione giovanile

    Il tasso di occupazione giovanile, nella fascia di età tra 15 e 29 anni, registra in Italia un valore pari al 29,8%, con il Mezzogiorno che arriva stentatamente ad un occupato per ogni cinque giovani (20,1%). In Calabria il valore regionale e poco inferiore alla media meridionale (19,6%), con una varianza interna provinciale molto marcata: si passa dal 23,2% di Cosenza al 12,6% di Vibo Valentia ed al 12,7% di Crotone.

    Cosenza è la città con meno no profit in Calabria

    Misuriamo infine la presenza sui territori delle organizzazioni no profit, espresse per ogni 10.000 abitanti: in Italia sono 50,7 mentre nel Mezzogiorno arrivano a 38,5. Questo indicatore esprime il capitale sociale diffuso e dedicato a specifiche finalità meritevoli di tutela e di impegno diretto da parte dei cittadini.
    In Calabria il dato è leggermente più positivo del Mezzogiorno (40,6). Vibo Valentia registra il valore più elevato a livello regionale (45,1), seguita da Catanzaro (44). Ancora una volta è Cosenza ad essere fanalino di coda nella graduatoria regionale.

    La popolazione esposta a rischio frane

    Per verificare la qualità del territorio, analizziamo l’indicatore che esprime la percentuale di popolazione esposta al rischio di frane. In Italia questo valore è pari al 2,2%, mentre questa percentuale sale al 3,2% per le popolazioni meridionali. In Calabria questo dato schizza al 4,5%, con una punta del 6,2% a Catanzaro.
    Nella raccolta differenziata dei rifiuti l’Italia ha raggiunto il 61,3%, contro poco più della metà nel Mezzogiorno (50,3%). La Calabria su scala regionale si colloca poco sotto (47,9%), ancora una volta con una forbice molto vistosa tra Cosenza (58,6%) e Crotone (30,8%).

    Crotone prima in Calabria per servizi on line dei Comuni

    Se si osserva la fornitura di servizi interamente on line da parte dei Comuni alle famiglie questo indicatore arriva al 25,1%. Un quarto delle amministrazioni comunali italiane si è attrezzato digitalmente. Questa percentuale scende al 15,6% nel Mezzogiorno.
    In Calabria questa percentuale quasi si dimezza ancora (8,7%), con una punta più positiva nella provincia di Crotone (13,9%) ed un risultato più negativo nella provincia di Cosenza (6,4%), tra i peggiori a livello nazionale.

    La Calabria delle differenze

    Il quadro d’assieme che emerge dalla lettura degli indicatori di benessere economico e sociale relativo alla Calabria evidenzia due questioni strategiche che bisogna prendere in carico. Da un lato la condizione giovanile è in estremo disagio, sia sotto il profilo delle competenze sia sotto il profilo delle opportunità di lavoro. Dall’altro lato, nel disagio generale della Calabria, non esiste una realtà omogenea: per molto indicatori la forbice differenziale tra le province è molto elevata.

    Occorre quindi comprendere innanzitutto che esistono diverse Calabrie, che viaggiano a velocità differente rispetto ad un disagio mediamente allineato a quello del Mezzogiorno. I tasti che le politiche pubbliche devono cogliere sono differenziati in funzione di questi divari interni.
    Poi, senza politiche per la qualificazione delle competenze giovanili e senza la capacità di offrire una prospettiva alle nuove generazioni, la regione sarà destinata ad incartarsi su se stessa. E ad essere un territorio, se va bene, accogliente per i vecchi.

  • PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    L’impatto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), non solo per quanto riguarda gli aspetti territoriali, dipenderà moltissimo dalla sua attuazione. Questo percorso di implementazione sarà condizionato dalle regole di semplificazione e dalla capacità amministrativa. Nella esecuzione degli interventi saranno compiute scelte politiche rilevanti, attraverso i criteri di riparto e allocazione e i bandi, che ne determineranno gli effetti. Sarà certamente indispensabile battersi per meccanismi di trasparenza di tutti i passaggi decisionali, e di monitoraggio di tutti gli interventi, che consentano di conoscere e per quanto possibile influenzare queste scelte.

    Mancano quasi 70 miliardi

    Insomma, chi pensa che il Governo abbia deciso di fare investimenti pubblici al Sud per un valore di oltre 80 miliardi è fuori strada. Sarà il percorso di attuazione che determinerà il montante delle risorse effettivamente indirizzate verso il Mezzogiorno.
    E molto dipenderà dalla capacità delle amministrazioni meridionali di progettare e realizzare coerentemente gli interventi che sono nella agenda del PNRR. Va poi valutato il meccanismo delle ricadute delle risorse destinate al Mezzogiorno sugli operatori economici. Per ogni miliardo speso al Sud, poco meno della metà, comunque, rimbalzerà al Nord, per l’acquisto di semilavorati, attrezzature, dispositivi vari.

    Il differenziale che abbiamo sin qui misurato tra le risorse teoricamente destinate al Mezzogiorno e quello che poi effettivamente finiranno nella contabilità degli investimenti, apre un altro ragionamento differenziale, che pure è opportuno tenere presente.
    Mancano infatti, calcolatrice alla mano, circa 70 miliardi per il Sud, anche rispetto agli 80 miliardi teoricamente assegnati dal Governo nel PNRR.

    Stessa formula, risultati differenti

    Il metodo applicato dal Governo italiano è lo stesso che utilizza l’Unione Europea, ossia una formula matematica che compara Pil, popolazione, reddito nazionale, regionale e tasso di disoccupazione di ogni Paese, per determinare l’ammontare delle risorse da assegnare a ogni Paese Ue. Proprio con questa formula sono state calcolate le distribuzioni delle risorse spettanti all’Italia.

    Applicando la stessa formula alla suddivisione territoriale delle risorse destinate all’Italia e sostituendo i parametri europei con quelli su base regionale, si otterrebbe che al Sud spetterebbero circa 150 miliardi, 68 miliardi di euro in più rispetto a quelli attualmente stanziati in teoria dal PNRR.
    Insomma, ci troviamo di fronte ad un duplice differenziale: da un lato quello che si genera tra l’applicazione della formula comunitaria di ripartizione delle risorse e l’ammontare dei finanziamenti teoricamente assegnati dal Governo al Mezzogiorno, e dall’altro quello che si determina se andiamo a misurare le teoriche assegnazioni con le effettive titolarità territoriali formulate nel PNRR.

    Più lenti a spendere e realizzare

    Ma la questione non si ferma qui. I dubbi, forse anche più radicali, si generano se andiamo a valutare l’effettiva capacità di spesa delle istituzioni territoriali del Mezzogiorno.
    A fronte di questa mole di risorse, comunque la si voglia misurare o determinare, la domanda chiave da farsi è se vi sarà la capacità di spendere e di realizzare le opere.

    Secondo un’analisi della Banca d’Italia, basata sui dati dell’Agenzia di Coesione, la realizzazione delle opere richiede in media quasi un anno in più rispetto al Centro-Nord. Le regioni meridionali presentano inoltre i tassi più elevati di inutilizzo dei fondi europei assegnati e di opere incompiute. Ci troviamo di fronte ad un programma estremamente articolato, che richiede elevata capacità di programmazione e controllo, con un governo ferreo delle scadenze temporali.

    Servirebbe una Cassa del Mezzogiorno

    Il nostro PNRR comprende infatti 135 “investimenti” e 51 “riforme”, un totale di 186 interventi. Ed al Sud manca una piattaforma di attuazione, come è stata la Cassa del Mezzogiorno, capace di gestire un complesso ed articolato programma di interventi.
    L’esperienza dei passati decenni in tema di spesa da parte delle amministrazioni meridionali delle risorse comunitarie derivanti dai fondi europei di coesione sta a dimostrare che non si sono generati effetti particolarmente virtuosi. Né dal punto di vista della qualità degli interventi, né dal punto di vista della tempestività nella attuazione.

    Esiste infine un’altra questione decisiva, che riguarda il tessuto economico e sociale del Mezzogiorno, inserito nel sistema produttivo nazionale ed internazionale. Nessun investimento nelle infrastrutture e nelle tecnologie digitali è destinato a generare effetto duraturo se non si determina una trasformazione dell’ambiente economico.

    Il gap con l’Europa si allarga

    L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, viene da due decenni di crescita sterile: dopo gli anni ‘90, dai primi anni Duemila l’andamento della produttività totale dei fattori ha iniziato prima a piegarsi verso il basso per poi mostrare una sostanziale stagnazione. Nelle altre principali economie avanzate (come Germania, Francia e Stati Uniti) – crisi 2009 a parte – ha seguito, invece, un percorso di crescita. La perdita di competitività del nostro Paese su un orizzonte temporale di lungo periodo evidenzia l’esistenza di una serie di nodi strutturali che non hanno permesso al tessuto produttivo di cogliere a pieno le opportunità legate alla rivoluzione digitale.

    Tra i fattori che fino ad oggi hanno contribuito ad allargare il gap di competitività con gli altri Paesi va sottolineata in particolare la ridotta dimensione aziendale (addetti nelle micro-imprese: Italia 42,6% vs UE 29,1%; anno 2018); il rallentamento degli investimenti (variazione % media annua 2010-19 in termini reali: Italia -0,8% vs UE +2,5%), compresi quelli ICT (Italia +1,9% vs Germania +2,5% e Francia +7,8%); la bassa spesa in ricerca e sviluppo (% su Pil: Italia 1,5% vs UE 2,2%, anno 2019); la carenza di competenze digitali (imprese che fanno formazione su ICT skills: Italia 15% vs UE 20%; anno 2020)4; l’elevata percentuale di imprese con governance familiare.

    Affari di famiglia

    In merito a quest’ultimo punto, mentre in termini di proprietà familiare l’Italia è in linea con gli altri Paesi europei con l’85,6% di imprese di proprietà familiare, vicino all’80,0% della Francia, all’83,0% della Spagna e al 90% della Germania, è in termini di management familiare che l’Italia si differenzia notevolmente per una bassa propensione a ricorrere a manager esterni alla famiglia. Infatti, le imprese familiari in cui il management è nelle mani della stessa famiglia proprietaria sono ben due terzi in Italia (66,3%), a fronte di un terzo in Spagna (35,5%) e circa un quarto in Francia (25,8%) e in Germania (28,0%).

    Le caratteristiche del nostro sistema produttivo unite alle recenti esperienze di incentivazione agli investimenti in digitalizzazione mettono in luce una serie di rischi rispetto all’obiettivo della piena transizione digitale.

    Le disparità tra Nord e Sud

    Il primo rischio riguarda le disparità territoriali: l’esperienza dell’iper-ammortamento ha mostrato uno sbilanciamento delle risorse assorbite, rispetto alla consistenza imprenditoriale dei territori, al Nord (con particolare riferimento a Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna). E non sembra che le cose vadano meglio neanche nell’ultimo anno. Un’indagine 2020 Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere sulle imprese manifatturiere 5-499 addetti evidenzia come la quota di imprese che al 2020 hanno adottato o stanno pianificando di adottare Industria 4.0 è superiore proprio al Nord rispetto al Mezzogiorno (19% vs 14%).

    Questo potrebbe seriamente contribuire ad ampliare i divari di crescita territoriali alla luce di una certa relazione positiva tra ripresa delle attività post-lockdown e decisione dell’impresa di accelerare verso la transizione digitale.
    Forse sarebbero proprie le determinanti del divario in termini di produttività dei fattori e di competitività industriale gli elementi sui quali fare leva maggiormente nel PNRR per imprimere un recupero di efficienza manifatturiera del territorio meridionale, inserendolo finalmente nel tessuto delle catene globali del valore dalle quali deriva lo sviluppo industriale dei nostri tempi.

  • Ricerca e sviluppo: la Calabria maglia nera negli investimenti

    Ricerca e sviluppo: la Calabria maglia nera negli investimenti

    Nella classifica comunitaria sulla spesa per ricerca e sviluppo l’Italia si colloca, in base agli ultimi dati disponibili (2018), al tredicesimo posto, superata non solo dai Paesi dell’Europa Settentrionale ma anche da diversi Paesi dell’Est Europa (Slovenia, Repubblica Ceca ed Ungheria). Lo sottolinea una recente pubblicazione dell’Istat su questo tema.
    Si tratta di un dato preoccupante, considerato che siamo la seconda nazione manifatturiera dell’Unione e che dovremmo pertanto investire risorse coerenti al nostro tessuto industriale. In Italia la spesa per ricerca e sviluppo è stata pari nel 2018 complessivamente a 25,2 miliardi di euro, pari all’1,43 del prodotto interno lordo.

    La spesa delle imprese

    La spesa delle imprese costituisce la componente principale degli investimenti in ricerca e sviluppo (63,1%), in aumento rispetto al 2008 (56,6%). In termini di incidenza sul Pil, la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è pari allo 0,9% del Pil.
    Le imprese inevitabilmente puntano in modo prevalente sulle fasi di ricerca applicata e sviluppo sperimentale, mentre una quota marginale (7,6%) investe nella ricerca di base. Le imprese italiane finanziano poco, in misura inferiore all’andamento europeo, la ricerca delle Università e del settore pubblico.

    Crescono gli investimenti delle Pmi

    Cresce la quota di investimenti da parte delle piccole e medie imprese, con meno di 50 addetti, che passano da 856 milioni di euro di investimenti nel 2008 a 2,7 miliardi nel 2018, con una incidenza sugli investimenti delle imprese che raddoppia, passando dall’8,4% al 17,3%. Al contrario, il contributo delle gradi imprese cala di quasi 20 punti percentuali.
    Ancor più rilevante è la correlazione stretta tra appartenenza a gruppi industriali ed investimenti in ricerca e sviluppo: l’87,5% della spesa è sostenuta da imprese che appartengono a gruppi, il 75,7% da multinazionali ed oltre un terzo della spesa (36,3%) da multinazionali con vertice residente all’estero.

    Ricerca di base: la prima del Sud è Isernia

    Nell’ultimo decennio si registra un deciso spostamento della spesa dal settore istituzionale pubblico verso il settore delle imprese, in netta controtendenza rispetto alle evidenze che dimostrano la rilevanza degli investimenti pubblici per favorire l’innovazione.
    Un terzo della ricerca di base si concentra nelle province di Milano e di Roma. Tra le province meridionali si segnala l’incidenza di Isernia, sesta nella graduatoria nazionale con il 2,9%, mentre Napoli si colloca al tredicesimo posto con l’1,7%. Nella ricerca applicata Milano e Roma concentrano il 27,9%; superano il valore medio nazionale solo 22 province, e di queste nessuna è meridionale. Nello sviluppo sperimentale Roma e Torino raggiungono il 47,2% del valore totale, è solo Napoli, tra le province meridionali, si colloca sopra la media nazionale, con una incidenza pari all’1,4%.

    Classifiche e record negativi

    Due terzi della spesa delle imprese per ricerca e sviluppo sono investite da aziende del settore manifatturiero. Il 75% della spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è concentrata in sole cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto e Lazio. L’intero Mezzogiorno copre solo poco più del 10% della spesa nazionale per ricerca e sviluppo delle aziende. La Calabria è all’ultimo posto della graduatoria.

    Se si osserva l’andamento della spesa per ricerca e sviluppo a livello regionale nel quadriennio 2015-2018, la Calabria registra, assieme alla Valle D’Aosta, la più decisa regressione, con un calo nel periodo del 21,5%, dovuto in particolare alla contrazione della ricerca effettuata dall’Università (-38,7%), mentre cresce con il tasso più elevato del Paese la ricerca e sviluppo finanziata in Calabria dalle imprese (91,7%), anche se partiva da un battente iniziale molto basso. A diminuire nel Mezzogiorno sono, oltre la Calabria, la Puglia e la Sicilia.

    Un cambiamento

    L’incidenza della spesa per ricerca e sviluppo sul prodotto lordo calabrese cala nel quadriennio considerato, passando dallo 0,72% allo 0,54% del Pil, in questo accomunata al calo che fa registrare la Puglia, che però partiva da valori più elevati (dall’1,02% del 2008 allo 0,79% del Pil nel 2018).
    Se guardiamo alla dinamica degli addetti nel settore della ricerca e sviluppo, articolato per composizione percentuale tra i settori esecutori, va sottolineato un cambiamento radicale in Calabria: mentre nel 2015 l’Università pesava per il 65,6% e le imprese occupavano solo il 16,4%, nel 2018 le aziende hanno raggiunto il 46,2% degli addetti, superando l’Università, che raggiungeva il 44,1%.

    Investimenti necessari

    Costruire l’innovazione è possibile solo se si investono risorse adeguate in ricerca e sviluppo. Questo dati segnalano la criticità di un sistema nazionale poco attento agli investimenti verso nuovi prodotti e nuovi servizi. L’Italia registra una situazione critica in confronto a diversi Paesi della Unione Europea.
    Il Mezzogiorno è in una condizione maggiormente asfittica, contribuendo per solo un decimo alle attività nazionali di ricerca e sviluppo.

    Una delle azioni che dovrebbero essere messe in campo nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) consiste nella decisa ripresa della ricerca di base da parte delle istituzioni pubbliche. Serve non solo per investire nella innovazione embrionale che non può essere compito dei privati, ma serve anche a sostenere gli sforzi degli imprenditori nella sperimentazione e nella ricerca applicata. Per il Mezzogiorno, e per la Calabria, questa azione ha un carattere strategico ancor più rilevante.
    Se resteremo inchiodati a valori bassi negli investimenti in ricerca e sviluppo, non ci sarà alcuna politica industriale capace di generare una effettiva rivitalizzazione del territorio meridionale.

  • PNRR e Mezzogiorno: risorse incerte, riusciremo a usarle?

    PNRR e Mezzogiorno: risorse incerte, riusciremo a usarle?

    Stiamo ormai entrando nella fase di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non abbiamo dinanzi a noi un tempo molto lungo per realizzare tutti gli obiettivi che sono stati tracciati: entro il 2026 le azioni definite debbono essere completate.
    Il futuro del Mezzogiorno si lega in buona parte agli investimenti ed alle riforme da completare in questo arco temporale, mettendo a terra quella montagna di risorse finanziarie a disposizione grazie al PNRR. Veniamo da una lunga stagione difficile, nella quale il divario tra il Sud ed il resto del Paese si è allargato.

    La spesa pubblica dimezzata in dieci anni

    Il PNRR dovrebbe consentire di invertire il trend che, tra il 2008 e il 2018, ha visto scendere di più della metà la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno, da 21 miliardi di euro a poco più di 10. Secondo quanto espressamente indicato nel documento del Governo, il Piano mette a disposizione del Sud un complesso di risorse pari a non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili del PNRR (pari a circa 82 miliardi), incluso il Fondo complementare, per le otto regioni del Mezzogiorno, a fronte – si sottolinea nel Piano – del 34 per cento previsto dalla attuale normativa vigente in favore del Sud per la ripartizione degli investimenti ordinari destinati su tutto il territorio nazionale.

    Non solo risorse europee

    Il Piano prevede, in aggiunta alle risorse europee, ulteriori 30,6 miliardi di risorse nazionali che confluiscono in un apposito Fondo complementare al PNRR finanziato attraverso lo scostamento di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile e autorizzato dal Parlamento, a maggioranza assoluta, nella seduta del 22 aprile scorso.

    Il Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR è stato approvato dal decreto legge n. 59 dal 6 maggio 2021, con una dotazione di 30.6 miliardi di euro per gli anni dal 2021 al 2026. Il D.L. n. 59/2021 provvede altresì alla ripartizione delle risorse del Fondo tra le Amministrazioni centrali competenti, individuando i programmi e gli interventi cui destinare le risorse ed il relativo profilo finanziario annuale.

    I conti che non tornano

    Il PNRR si propone insomma l’ambizioso obiettivo di ridurre sensibilmente il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. La quota del Mezzogiorno sul PIL nazionale salirebbe dal 22 per cento del 2019 al 23,4 per cento nel 2026.
    Secondo il governo 82 miliardi sono destinati al Mezzogiorno nel PNRR. Per verificarlo, per ogni misura Gianfranco Viesti ha controllato se sia stata indicata una precisa e vincolante allocazione territoriale delle risorse.

    Si è così potuto appurare che una precisa quantificazione dell’investimento nel Mezzogiorno è contenuta in 33 delle 157 misure del PNRR, e in 5 del Fondo Complementare (FC). Tali misure indirizzano verso il Mezzogiorno investimenti per un totale di 22,2 miliardi di euro. Nei documenti ufficiali è quindi individuabile solo poco più di un quarto delle risorse ipoteticamente destinate al Mezzogiorno.

    Quanto andrà davvero al Sud?

    Tuttavia, in altre 22 Misure del PNRR e in altre 6 del FC vi sono degli indirizzi tali da lasciar prevedere che una parte delle risorse disponibili sarà allocata nel Mezzogiorno. Su ciascuna di queste misure è stata operata una stima, con un margine di errore. Il totale degli importi di queste misure ammonta, secondo le stime effettuate da Gianfranco Viesti, a 13,126 miliardi. Sommando le cifre appostate chiaramente al Mezzogiorno (22,2 miliardi) con le stime riconducibili al Sud (13,1 miliardi), si ottengono 35,3 miliardi di euro, ben al di sotto della metà della somma teoricamente destinata al Mezzogiorno dal PNRR.

    Quali sono le misure che non hanno un’allocazione territoriale predefinita? Da che cosa dipenderà questa allocazione? Vi sono in primo luogo alcune misure di incentivazione degli investimenti di imprese, che saranno allocate sulla base delle richieste. In altre misure i beneficiari non sono le imprese ma soggetti del settore pubblico.
    Laddove non vi è alcun indirizzo di allocazione territoriale, essa scaturirà dalle decisioni relative al riparto delle risorse effettuate dai decisori pubblici nazionali incaricati dell’attuazione delle misure. Assai frequenti sono i casi nei quali ciò avverrà attraverso meccanismi a bando fra le amministrazioni pubbliche destinatarie finali.

    Nessun indirizzo chiaro

    Il principale problema consiste nella mancanza di un indirizzo politico verso la perequazione delle dotazioni infrastrutturali e della disponibilità dei servizi nelle diverse aree del paese, in presenza di divari territoriali estremamente ampi.
    Particolarmente interessante è il caso degli asili nido, per i quali vengono destinati ben 4,6 miliardi; la misura, sia pur con una indicazione generica, è priva di qualsiasi indirizzo territoriale, in presenza di disparità estremamente ampie.
    Ciò significa che il Governo non ha ritenuto di dover garantire, seppur tendenzialmente, pari diritti ai cittadini italiani in più tenera età, ma di affidarli all’alea di procedure competitive.

    L’allocazione delle risorse tra le ripartizioni territoriali del Paese dipenderà in buona parte dai criteri che saranno definiti nei bandi competitivi previsti per la realizzazione di una parte consistente degli investimenti del PNRR.
    Da questo punto di vista l’esperienza italiana è particolarmente critica e richiederà la massima attenzione. Sono infatti molto numerosi i casi in cui i criteri per i bandi hanno contenuto indicatori e criteri tali da penalizzare le regioni più deboli del Paese.

    Le amministrazioni locali saranno all’altezza?

    Certamente conteranno anche le capacità delle amministrazioni di volta in volta chiamate a concorrere per queste risorse. Pur non essendovi evidenze univoche a riguardo, è possibile ipotizzare che proprio nelle aree più deboli del paese, le amministrazioni possano essere meno attrezzate proprio a queste progettualità. Tutto ciò si vedrà con i processi di attuazione degli interventi previsti dal PNRR e dal Fondo Complementare.
    Quindi, solo 35 miliardi di euro sono certamente allocati nel Mezzogiorno. Ciò non significa, è bene ricordarlo, che il resto delle risorse del PNRR siano allocati tutti fuori dall’area. Ma lascia un dubbio assai rilevante, dato lo scarto fra le cifre, sull’esito finale.

    La cifra di circa 82 miliardi di investimenti nel Mezzogiorno indicata nel Piano appare dunque, seguendo l’attenta analisi di Gianfranco Viesti, come un “totale in cerca di addendi”. Conseguentemente, l’impatto del PNRR sull’economia e l’occupazione del Mezzogiorno, così come presentato nel Piano è anch’esso al momento solo una ipotesi; è possibile, ma non garantito.

  • Gioia Tauro, un porto che serve a tutti tranne alla Calabria

    Gioia Tauro, un porto che serve a tutti tranne alla Calabria

    Il porto di Gioia Tauro nasce da una tragedia italiana, vale a dire dal fallimento abortivo nella costruzione del quinto centro siderurgico nazionale. Tutto cominciò con l’invettiva “boia chi molla” dei fascisti a Reggio Calabria. Serviva dare anche una risposta politica a quella rivolta. E la costruzione della grande fabbrica era esplicitamente presentata come una misura compensativa rispetto alla scelta di Catanzaro come capoluogo della Regione.

    L’affare del secolo

    Altre promesse mai mantenute erano contenuto nel cosiddetto “pacchetto Colombo”.
    Il giorno della memoria della Resistenza, il 25 aprile 1975, l’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, pose la prima pietra di una fabbrica che non nascerà mai. Ma fu, in compenso, un affare del secolo per i mammasantissima, proprietari per gran parte di quei 300 ettari di terreni nella Piana, che lo Stato espropriò a valori stratosferici.
    Al servizio dello stabilimento siderurgico mai nato si costruirono cinque chilometri di banchine portuali. Poi non successe più nulla. Tutto rimase nell’abbandono più totale e desolante: sino al 1993 non attraccò neanche una nave. Edoardo Scarpetta avrebbe detto, parafrasando Gabriele D’Annunzio, neanche ’o vuttazziell ‘e zi Nunzio.

    L’ombra delle ‘ndrine

    Angelo Ravano, un brillante imprenditore marittimo genovese, comprese che quella risorsa infrastrutturale – rimasta senza alcuna utilizzazione – si adattava perfettamente alle dinamiche del traffico commerciale emergente, vale a dire i collegamenti navali transoceanici tra Asia ed Europa.
    Sin dall’inizio delle attività, il porto è stato tenuto sotto scacco dalle cosche Piromalli e Molè. La Commissione parlamentare antimafia – nel febbraio del 2008 – ha concluso che la ‘ndrangheta «controlla o influenza gran parte dell’attività economica interna al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale».

    Eppure, nonostante i pesanti condizionamenti della criminalità organizzata, Gioia Tauro, a cavallo tra la metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, si è conquistata un posto nelle rotte della globalizzazione. Poi, per una parentesi durata un decennio, anche il ruolo di snodo nelle grandi rotte delle navi portacontenitori è entrato in crisi. Il gestore del terminal container ha bloccato il piano di investimenti necessario per mantenere e rilanciare la competitività.

    I rischi di un’unica vocazione

    Questa paralisi di recente è stata superata, con il cambio nell’asseto proprietario della società che gestisce il terminal. E nel 2020, nonostante la crisi, il porto di Gioia Tauro è tornato a superare la soglia dei 3 milioni di teu. Va bene così? Siamo tornati su un corretto tracciato di sviluppo? La mia risposta è negativa, per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, il porto Gioia Tauro non ha mai superato la caratteristica monovocazionale, vale a dire la assoluta dipendenza dal solo traffico di transhipment dei contenitori. Si tratta di un posizionamento rischioso. Se cambiassero le convenienze del mercato, ci si mette un attimo a perdere tutto il traffico, come ha dimostrato l’esperienza recente del porto di Taranto.

    Hinterland e trasbordo

    Le navi impiegano nulla a virare la prua e andare dove si dovessero manifestare convenienze economiche maggiormente interessanti. Oltretutto parliamo di un posizionamento in un segmento di mercato a basso valore aggiunto per il porto che gestisce questa attività.
    Ma soprattutto il porto non parla al territorio della sua Regione. Arrivano le grandi navi portacontenitori, si effettuano le operazioni di riordino sulle banchine e partono le navi di minore dimensione per le destinazioni finali dei container. Nel gergo marittimo si distingue tra container “hinterland”, destinati o in origine dal territorio circostante al porto, e container di “trasbordo”, che non escono dalla cinta daziaria e vengono movimentati solo per il transito da una nave madre ad una nave figlia.

    I container “hinterland” per il porto di Gioia Tauro sono pari a zero, mentre tutto il traffico gestito riguarda i container di “trasbordo”. Il valore aggiunto per il territorio regionale è praticamente nullo, se si esclude l’attività all’interno del porto stesso, che consiste sostanzialmente nel riordino dei contenitori da una nave di dimensioni maggiori verso le navi “feeder”, che portano la merce alla destinazione finale.

    Nessuna ricaduta

    Qualche numero ci può aiutare meglio a comprendere il ragionamento sul destino di Gioia Tauro, sostanzialmente sganciato dalle dinamiche del territorio regionale calabrese. Se consideriamo il traffico commerciale nella sua interezza, prendendo in considerazione tutte le tipologie di merci movimentate, Gioia Tauro è completamente assente nei segmenti delle rinfuse liquide e solide, mentre concentra la sua attività nelle merci varie, esclusivamente per il traffico dei contenitori.
    Lo si legge nel Grafico 1: il porto di Gioia Tauro non esiste per nulla nelle rinfuse solide e liquide. Invece pesa nel 2020 per il 16,5% sul totale del traffico nazionale, espresso in tonnellate, nel segmento delle merci varie; Gioia Tauro incide per il 9% sulla movimentazione delle merci complessive dell’Italia.

    Grafico 1

    grafico1_porto_di_gioia_tauro

    La rilevanza dei numeri che sono movimentati dal porto di Gioia Tauro sul volume del traffico nazionale di merci non riflette però una ricaduta che si esprime nel radicamento del porto rispetto al territorio regionale. Si tratta di uno degli effetti della globalizzazione: si può essere snodo della rete globale senza essere snodo per il territorio in cui si è collocati.
    La chiave di interpretazione strategica è ancora più chiara quando facciamo riferimento nello specifico al traffico dei contenitori. Nel Grafico 2 si verifica che, in base ai dati 2020, sempre espressi in tonnellate. Mentre il traffico “hinterland” non esiste per nulla nel porto calabrese, Gioia Tauro pesa per il 78,4% nel traffico di trasbordo sul totale nazionale.

    Serve a tutti tranne alla Calabria

    Complessivamente, l’incidenza totale sul traffico contenitori nazionale è pari al 29,9% Insomma, Gioia Tauro serve al mondo, all’Italia, forse alla criminalità organizzata, ma non alla Calabria. Questo è il punto nodale sul quale occorre riflettere, per le implicazioni di politica regionale e meridionale. Ovviamente, non si tratta di perdere una caratteristica che costituisce un elemento di forza, ma di rendere questo aspetto non l’unico fattore sul quale puntare per il futuro del porto di Gioia Tauro.
    L’evoluzione strategica della portualità internazionale nel corso dell’ultimo decennio dimostra che i porti di “transhipment” si sono trasformati anche in porti “gateway”, capaci di dialogare con il territorio nel quale sono presenti. È accaduto ad Algesiras ed a Valencia, tanto per fare due esempi.

    Grafico 2

    grafico2_porto_di_gioia_tauro

    Un deserto industriale

    Perché si è determinato questo andamento? Innanzitutto perché la Calabria è un deserto industriale. Un porto non genera merce, ma trasporta ciò che il territorio è in grado di esprimere. Quindi il primo punto per determinare una svolta riguarda la necessità di inspessire una struttura produttiva gracile.
    Da questo punto di vista la zona economica speciale può costituire una opportunità da cogliere, se si è in grado di attrarre investimenti manifatturieri che possono capitalizzare la rete di collegamenti mondiali di cui il porto di Gioia Tauro è dotato.

    Poi, un secondo punto riguarda la rete delle altre infrastrutture di connessione, che costituisce un elemento di debolezza competitiva del porto calabrese. Per decenni si è parlato della necessità di migliorare la qualità della rete ferroviaria per il traffico merci, ma le chiacchiere stanno ancora quasi a zero. Solo a tale condizione si può allargare quella che si chiama la catchment area, vale a dire il territorio di influenza della infrastruttura portuale. Un intervento di tale natura consentirebbe non solo di consegnare per ferrovia una parte consistente dei container rivolti ai più rilevanti mercati italiani, ma anche di cominciare a lavorare i contenitori stessi, non solo per lo stoccaggio ma anche per operazioni a maggior valore aggiunto.

    Una trasformazione necessaria

    Trasformare il porto anche in una fabbrica logistica può mettere al riparo dalla fluttuazione dei traffici dei contenitori, che dipendono, quando si è specializzati solo nel segmento del trasbordo, esclusivamente dalle dinamiche della globalizzazione.
    Nella fase successiva alla pandemia certamente il modello di specializzazione internazionale del lavoro e di dislocazione delle fabbriche è destinato a cambiare. È presto per dire esattamente quali saranno queste dinamiche, ma è molto probabile che le grandi macroregioni del mondo tenderanno a scambiare merci più all’interno dei grandi blocchi, che non su scala globale.

    Qualche segno lo si comincia a cogliere, proprio a Gioia Tauro. Lo vediamo nel Grafico 3. Nel primo semestre del 2021, l’incidenza del porto calabrese sul totale dei contenitori movimentati a livello nazionale è scesa, rispetto dato annuale del 2020. Nel trasbordo si è passati dal 78,4% al 75,6%, mentre sul totale del traffico contenitori si è passati dal 29,9% al 26,1%.

    Grafico 3

    grafico3_porto_di_gioia_tauro

    Insomma, stare solo sul business del trasbordo dei contenitori non lascia nulla alla Calabria, e non costruisce un futuro solido per lo stesso porto di Gioia Tauro. Servono le opere di completamento delle infrastrutture ferroviarie. Serve un serio piano di industrializzazione regionale, assieme ad un disegno logistico per rendere più robusto il posizionamento competitivo dello scalo calabrese. In altri termini, va messa in campo una strategia, e la capacità di attuarla. La zona economica speciale e gli investimenti del PNRR possono essere le due gambe per mettere in campo una operazione di innovazione industriale, logistica e sociale.