Le modalità di spesa dei fondi comunitari in Italia – soprattutto nelle regioni meridionali – illustrano un itinerario di scelleratezze che getta ombre inquietanti sul futuro prossimo. Da un lato si è verificata costantemente una forbice rilevante tra risorse disponibili e capacità effettiva di spesa. Dall’altro, spesso è capitato che i fondi comunitari siano stati occasione per frodi ed irregolarità. In entrambe queste specialità poco commendevoli la Calabria si è sinora distinta. A metterlo nero su bianco è stata la Corte dei Conti col suo report su “I rapporti finanziari con l’Unione Europea e l’utilizzazione dei fondi comunitari”.
Calabria regina delle frodi
Per il periodo 2014-2020 la Calabria ha ottenuto in programmazione 1,9 miliardisui fondi per lo sviluppo regionale e 0,4 miliardi attraverso il fondo sociale europeo. Alla fine del 2020, gli impegni ammontavano rispettivamente al 63,3% e al 30,2% delle risorse, i pagamenti al 35,3% e al 24,6% del totale. Le irregolarità e le frodi comunicate nel solo 2020 sui fondi strutturali comunitari sono state complessivamente in Italia 155, di cui 91 (pari al 58,7%) in Calabria; il valore complessivo è pari a livello nazionale a 65,5 milioni di euro, di cui 34,3 in Calabria (52.5%).
In Italia è stato recuperato il 10% del valore, in Calabria nulla. Se ci riferiamo alla politica agricola le irregolarità e frodi sono state pari nel 2020 a 326 casi in Italia, di cui 68 in Calabria (20,9%); il valore complessivo è pari a 35,6 milioni di euro di cui 7 in Calabria (19,7%); in Italia sono stati recuperati 5,4 milioni di euro (15,2%), in Calabria 0,97 milioni (13,8%).
La sede della Regione Calabria a Germaneto
Fondi recuperati? Pochissimi
Queste pessime abitudini sono radicate nel tempo. In Italia, considerando la somma dei piani territoriali per il fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) nel periodo 2007-2013, i casi di irregolarità e frode sono pari a 1.324: il valore complessivo degli importi irregolari pesa per 401,7 milioni di euro, con un valore da recuperare pari 236,1; l’importo recuperato è di 63,5 milioni di euro.
Il POR della Calabria registra per lo stesso FESR, sempre nel periodo 2007-2013, 513 casi (38,7% sul totale nazionale); l’importo irregolare complessivo è pari 129,9 milioni di euro (pari al 32,3% del totale italiano), con importo irregolare da recuperare di 63,4 milioni (26,8% del valore nazionale), ed un importo recuperato pari a 2,9 milioni (il 4,5% del totale nazionale).
Se si considerano i casi irregolari e di frode segnalati nel periodo 2007-2013 per il fondo sociale europeo (FSE), i casi complessivi in Italia sono 278. La Calabria svolge la parte dominante per la numerosità (38,8% dei casi), mentre la regione pesa per il 10,7% in termini di valore dell’importo irregolare complessivo. E incide per il 17,6% sull’importo irregolare da recuperare e l’8,7% dell’importo recuperato.
Nel caso dei fondi europei per l’agricoltura, i casi irregolari in Calabria sono 584, pari all’8,3% in termini di numerosità sul totale nazionale, all’8.6% in termini di valore economico, al 9,6% in termini di importo ancora da recuperare.
Un passato da lasciarsi alle spalle
Questa è la storia recente dalla quale veniamo. Ora è richiesto al nostro sistema istituzionale ed amministrativo di fare un salto di qualità rispetto al passato, in uno scenario che è ancora più complesso. L’intero sistema del Next Generation EU è caratterizzato da un regime di condizionalità (definita anche “aggravata”) riferita quindi non più alla dimostrazione delle spese effettuate, ma ai risultati raggiunti, anche in termini di riforme che devono essere attuate con l’obiettivo di essere maggiormente conformi con il contesto comunitario. Le risorse disponibili sono complessivamente ingenti. Ma vanno conquistate con serietà.
Il bilancio a lungo termine dell’UE 2021-2027, insieme al Next Generation EU, rappresenta una “risorsa combinata” complessivamente pari a 2.018 miliardi di euro a prezzi correnti. Il pacchetto comprende da un lato il bilancio a lungo termine per il periodo 2021-2027 (il quadro finanziario pluriennale), da 1.211 miliardi di euro a prezzi correnti e dall’altro lo strumento temporaneo per la ripresa, Next Generation EU, da 806,9 miliardi di euro a prezzi correnti.
Il saldo cambierà?
Se il nostro Paese sarà in grado di gestire con efficacia ed efficienza il processo di gestione delle risorse comunitarie, cambierà anche il saldo per la contabilità nazionale. Secondo i dati della Commissione europea, nel 2020 l’Italia ha partecipato al bilancio unionale con versamenti a titolo di risorse proprie per complessivi 18,2 miliardi (+1,4 miliardi rispetto al 2019). Le risorse assegnate all’Italia dal bilancio UE nel 2020 sono state pari a 11,66 miliardi di euro, in aumento di circa 486 milioni rispetto all’anno precedente (+4,4%).
Nell’esercizio considerato, il saldo netto tra versamenti e accrediti è stato dunque negativo per 6,5 miliardi, più ampio rispetto a quello del 2019, in cui era stato di 5,6 miliardi. Nel periodo 2014-2020, il saldo netto cumulato è negativo per un ammontare di 37,92 miliardi. In tale periodo, l’Italia ha pertanto contribuito alle finanze dell’Europa con un saldo medio annuo di 5,4 miliardi. Gli Stati membri con i saldi positivi più rilevanti, nel settennio in considerazione, sono in ordine decrescente: Polonia, Ungheria, Grecia, Romania, Repubblica Ceca e Portogallo.
Fondi, la duplice sfida per la Calabria
I dati che fotografano la situazione a fine 2020 rappresentano il portato di una forza inerziale che andrà gradualmente, ma decisamente, spegnendosi, a condizione che le amministrazioni sappiano impiegare le risorse che saranno assegnate. La tradizionale posizione di contributore netto dell’Italia, con ogni probabilità, andrà incontro ad una inversione. Si può, anzi, affermare che tale inversione è già visibile nelle stime effettuate sui flussi del 2021: l’accredito netto per l’Italia sarebbe di poco superiore a 3 miliardi di euro. L’Italia ha davanti una duplice sfida, in relazione alle prossime mosse da mettere in atto: su un fronte, dovrà considerare le “normali” attività, quali la conclusione della Programmazione 2014-2020 ed il contestuale avvio di quella 2021-2027; sull’altro fronte, peraltro strettamente connesso, l’impegno forte riguarderà il pieno sfruttamento delle risorse messe a disposizione per il PNRR.
Roberto Occhiuto e il generale Guido Mario Geremia firmano il protocollo
Dai tanti errori che sono stati commessi negli anni precedenti, in Italia ed in Calabria in particolare, dobbiamo trarre gli insegnamenti necessari per non ripercorrere le stesse orme. Nelle ultime ore il presidente regionale Occhiuto ha firmato un protocollo d’intesa integrativo con la Guardia di Finanza. L’addendum mira proprio a ridurre le frodi nella spesa dei fondi Ue e favorire il recupero delle somme erogate erroneamente. C’è da sperare che l’integrazione basti, visti i risultati dell’accordo precedente.
Nel decreto Sostegni ter il Governo ha disposto, tra l’altro, la soppressione della riduzione (al 30%) dell’accisa sui prodotti energetici utilizzati “nei trasporti ferroviari di passeggeri e merci”. Come spesso accade, la mano destra non sa cosa fa la mano sinistra. Mentre ci si continua a sciacquare la bocca di intermodalità e misure per favorire il riequilibrio modale, in nome della transizione ecologica, puntualmente, per calmierare gli effetti degli incrementi dei costi energetici sulle bollette, si spezzano le gambe al trasporto ferroviario nel suo segmento più delicato e vulnerabile, vale a dire le manovre nei porti, negli interporti e nei raccordi industriali.
Sembra quasi una congiura giocata nel silenzio. Le manovra costituiscono uno degli elementi più delicati tra le operazioni ferroviarie, perché sono costose ed avvengono proprio nei luoghi che possono alimentare maggiormente i traffici. A cosa serve che nel PNRR siano previsti investimenti per migliorare la qualità dei raccordi ferroviari nei porti se poi si determina un appesantimento dei costi industriali che spiazza la competitività della soluzione ferroviaria?
Gioia Tauro e la retorica della politica
Accade troppo spesso, e sempre più spesso, nel nostro Paese che la distanza tra retorica della politica ed interventi di politica economica si allarghi a dismisura, fino a diventare insostenibile. Pensiamo al porto di Gioia Tauro, che per decenni ha inseguito la propria competitività anche sulla capacità di giocare la carta intermodale.
Ora che finalmente, dopo ritardi davvero inenarrabili, si comincia a disporre di una architettura infrastrutturale sostanzialmente adeguata, questa misura allontana la possibilità di mettere in campo una soluzione di connessioni ferroviarie capace di allargare la catchment area del mercato potenzialmente servito.
Viene davvero da chiedersi se sia mai possibile continuare con un meccanismo di interventi pubblici così scoordinati e pasticcioni. Per ottenere incassi davvero ridicoli da questa manovra, si buttano all’aria investimenti da decine e decine di milioni di euro.
Al prossimo convegno, il politico di turno si alzerà a parlare e declamerà l’auspicio di un futuro intermodale per il porto di Gioia Tauro. Sarebbe finalmente il caso di cercare di imitare il quasi inimitabile Antonio De Curtis, in arte Totò, intonando senza tema di smentita una sonora pernacchia.
L’alta velocità ferroviaria nel tratto Salerno-Reggio Calabria sembra una commedia degli equivoci. Vi è una confusione lessicale che non aiuta a comprendere le scelte tecniche per la nuova linea. Si parla di alta velocità di rete (AVR), alta capacità, alta velocità passeggeri. Il rischio è quello di generare un gioco delle tre carte che non va verso l’efficienza nell’allocazione delle risorse pubbliche e l’efficacia nella qualità delle connessioni. I tre termini non sono affatto sinonimi e conducono a costi di investimento, modelli di esercizio ed effetti trasportistici molto differenti.
È indubbio che l’alta velocità realizzata da Salerno verso il Settentrione abbia rappresentato una delle poche innovazioni infrastrutturali a sorreggere la competitività dell’economia italiana, soprattutto nel centro-nord. È noto che oggi la rete veloce con caratteristiche ad alta capacità si ferma sostanzialmente ad Eboli, per riecheggiare il romanzo di Carlo Levi.
La decisione di investire per il collegamento ferroviario Salerno-Reggio Calabria costituisce dunque una scelta opportuna per accorciare il Paese. Tuttavia, dobbiamo entrare nel merito delle scelte che saranno operate, per misurarne l’impatto e comprenderne le ricadute sul tessuto economico nazionale.
L’equivoco (e il flop) dell’alta capacità
Occorre partire da quanto accaduto con la realizzazione dell’investimento nei decenni passati per la rete attualmente operativa. La discussione fu allora molto animata e vivace. Si decise di costruire quella che fu definita alta capacità, perché consentiva di far transitare sulla nuova rete convogli passeggeri e merci al tempo stesso.
Era una esperienza unica nel mondo, perché nessuna altra rete di alta velocità ferroviaria consente anche il transito dei convogli merci. Altrove si realizzavano reti funzionali al solo transito di treni passeggeri. Qui, invece, per far transitare i convogli merci si rese necessario realizzare pendenze coerenti, moduli adeguati, sagome ampie, resistenze indispensabili per il passaggio di treni pesanti. E il costo di investimento, per questa sola ragione, risultò più elevato di un terzo rispetto alle esperienze internazionali comparabili.
Un treno ad alta velocità (low cost) in Francia
A distanza di due decenni, possiamo trarre conclusioni inequivocabili. Non un solo convoglio merci, ad eccezione di un treno ETR 500 viaggiatori adattato al suo interno per trasportare merce leggera, ha utilizzato la esistente rete italiana ad alta capacità. Le ragioni sono, e forse anche erano, evidenti: il mercato del trasporto commerciale non è in grado di pagare per il costo di un servizio che, solo per la componente del pedaggio di accesso alla rete, è superiore al prezzo di mercato delle modalità di trasporto alternative alla ferrovia. Non pare il caso di insistere in questo errore.
Il trasporto ferroviario delle merci
Una svolta rivoluzionaria, però, è in corso nel trasporto ferroviario delle merci, anche qui da noi. DB Cargo Italia, la società delle ferrovie tedesche che opera nel nostro Paese, grazie alle modifiche introdotte da Rfi, ha cominciato a far circolare – sulle linee del Nord Italia che lo consentono – treni da 2.500 tonnellate. Nel Sud, invece, per limiti indotti dall’acclività e dalla vetustà delle linee circolano convogli da 800 tonnellate.
Un treno della DB Cargo
Bisogna considerare anche il pedaggio di accesso alla infrastruttura. La rete alta velocità presenta un valore economico molto più elevato rispetto a quella tradizionale. Ciò sconsiglia di prendere in considerazione la prima per il trasporto delle merci: il mercato non richiede servizi ad elevata velocità, bensì prestazioni affidabili e tempo di consegna certo.
La chimera
Non serve una rete di alta capacità al Sud perché mai i treni merci circoleranno su una rete ad elevato pedaggio. Tanto più con una domanda che si orienta prevalentemente su altri parametri prestazionali. Sarebbe uno spreco di soldi: se l’armatura industriale del centro-nord non è stata in grado di attivare una domanda per servizi merci veloci, questa aspirazione nel Mezzogiorno diventa una pura chimera.
I treni merci per essere competitivi devono raggiungere uno standard di portata incompatibile con le caratteristiche di una rete ad alta velocità, se non a costi proibitivi. Occorrerebbe, quindi, investire nell’adeguamento della rete ferroviaria tradizionale alle caratteristiche necessarie per la competitività del trasporto ferroviario merci. Servono convogli più lunghi e più pesanti, almeno di 1.600 tonnellate. Bisogna adeguare la sagoma delle gallerie, i raccordi nei porti e nei siti industriali, allungare i moduli di stazione, riclassificare il peso assiale.
Passeggeri ed alta velocità
Potremmo dedicare così la nuova rete di collegamento veloce nel Mezzogiorno solo ai servizi passeggeri di lunga percorrenza, garantendo viaggi più rapidi. Una rete ad alta velocità che riguardi unicamente i passeggeri costa molto meno e assicura una drastica riduzione dei tempi di percorrenza. Spostamenti più rapidi e un aumento nella frequenza dei convogli consentono al trasporto ferroviario di allargare molto la quota di mercato, generando anche nuova domanda di mobilità.
Insomma, per il Mezzogiorno servono due approcci specifici dal punto di vista ferroviario: uno focalizzato sulle merci, per intervenire sulla competitività rispetto agli altri modi di trasporto; l’altro sui passeggeri, che deve guardare alla riduzione dei tempi di percorrenza e al miglioramento della connessione anche verso il centro-nord dell’Italia.
Il cronoprogramma degli interventi
La variabile temporale nella realizzazione degli investimenti costituisce un elemento decisivo per il futuro del Mezzogiorno. Se leggiamo le risorse finanziarie stanziate nel PNRR per le ferrovie, ci accorgiamo che quello che sarà realizzato entro il 2026 racconta un’altra storia.
Esiste una diversa articolazione temporale degli interventi: su totale di 24,77 miliardi di euro destinati agli interventi per investimenti sulla rete ferroviaria, le risorse a disposizione dell’alta velocità verso il Sud per passeggeri e merci (4,64 miliardi) sono circa la metà di quelle per le linee che collegano il Nord all’Europa (8,57 miliardi di euro). Il grado relativo di connettività delle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali, dunque, è destinato a peggiorare in termini di tempi di percorrenza rispetto ai mercati.
L’errore nella scelta del tracciato
Infine, c’è il tema della scelta dei tracciati. Sulla Salerno-Reggio Calabria sarebbe irragionevole e sciagurato investire in un collegamento che segue un itinerario nelle aree interne. Toccherebbe creare un sistema di gallerie lungo decine e decine di chilometri, con tempi di realizzazione che andrebbero verso le calende greche e col rischio di un aumento esponenziale dei costi.
Come sostiene spesso Mario Draghi, farsi guidare dal buon senso è un eccellente viatico per proseguire su un corretto tracciato. Così direbbe anche un ferroviere. Ma sono proprio i ferrovieri, in questo caso, a generare una commedia degli equivoci pericolosa.
Il tracciato ipotizzato per la nuova tratta ad alta velocità Salerno-Reggio Calabria
Il documento di RFI sulla Salerno-Reggio Calabria
In un documento di 211 pagine della Direzione Investimenti di Rfi, invece di fare chiarezza sulle scelte tecniche, si intorbidiscono ulteriormente le acque. È esattamente quello che non dovrebbero fare i tecnici. Il testo manca di due requisiti indispensabili per una valutazione trasportistica: l’analisi della domanda potenziale e la costruzione di un modello di esercizio. È, al contrario, un caleidoscopio di opzioni possibili per singole tratte della linea: questo metodo non restituisce chiarezza di scelte. Siamo più in presenza di uno spezzatino ferroviario, che lascia impregiudicate le decisioni che devono essere assunte.
Sull’alimentazione elettrica resta non sciolto il nodo tra tensione a 3.000 o a 25.000 mila Volt. Pare un dettaglio ma non lo è, perché determina nel secondo caso una integrazione con la rete AV esistente, lasciando fuori gli operatori normalmente privi di materiale rotabile idoneo a circolare con detta tensione (es. Imprese Ferroviarie merci) oppure nel primo caso una scelta per una velocizzazione di rete.
I ferrovieri sanno bene che per ottimizzare il modello di esercizio non si possono concepire tratte singole con caratteristiche tecniche differenti. Quanto alla analisi della domanda, se non si definiscono i tempi di percorrenza manca uno degli elementi fondamentali per comprendere la domanda potenzialmente catturabile.
Il collegamento trasversale merci
Va valorizzato, in un documento deludente, un elemento che può essere invece una chiave di volta importante per le operazioni logistiche. Un collegamento trasversale dal porto di Gioia Tauro verso l’asse adriatico può costituire una soluzione interessante. L’itinerario adriatico è stato già dotato di quelle caratteristiche, per modulo, sagoma e peso assiale, che sono coerenti con la circolazione di treni merci con standard europei. Gioia Tauro è un porto di transhipment: serve quindi confrontare l’assetto potenziale dei meccanismi competitivi tra soluzione ferroviaria e navi feeder.
Il porto di Gioia Tauro
Insomma, siamo tutti d’accordo sulla necessità di realizzare un collegamento ferroviario veloce al servizio delle regioni meridionali. Come lo si realizzerà, con quale progetto, con quale tracciato, con quali caratteristiche e con quali costi sarebbe necessario discuterlo in modo serio. Gli equivoci che si annidano nelle scelte tecniche vanno sciolti. Non vorremmo ripercorrere la triste storia della Salerno-Reggio Calabria autostradale.
Dal 2000 ad oggi si sono succeduti in Calabria sei presidenti di regione, con una continua alternanza di schieramenti. L’elenco comprende Giuseppe Chiaravalloti (centrodestra, 2000-2005), Agazio Loiero (centrosinistra, 2005-2010), Giuseppe Scopelliti (centrodestra, 2010-2014), Mario Oliverio (centrosinistra, 2014-2020). Il trend prosegue con l’elezione di Jole Santelli con una coalizione di centrodestra, ma questa esperienza si interrompe drammaticamente dopo pochi mesi per la morte prematura della forzista. E, complice forse la brevità del suo mandato, un anno dopo a uscire sconfitta dalle urne è ancora la gauche, con l’elezione dell’azzurro Roberto Occhiuto.
Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto
Questa quasi simmetrica alternanza dovrebbe evidenziare e segnalare, secondo gli schemi dei manuali di politica, indirizzi e scelte economiche e sociali differenti durante l’esercizio dei mandati. L’analisi dei dati sulla performance della Regione mette invece in evidenza esattamente l’opposto. Vale a dire una linea di indirizzo costante verso il declino di tutti i principali indicatori nella produzione di ricchezza, nella demografia, nella qualità della vita.
La Calabria che si svuota
La demografia, che costituisce la radiografia del tessuto civile, ha cominciato a declinare proprio nel ventunesimo secolo. In particolare dal 2010 è cominciata una costante caduta della popolazione residente in Calabria, interrotta soltanto per un anno, nel 2013. Si è passati da poco più di 2 milioni di abitanti nel 2001 a poco più di 1,8 milioni nel 2020, con una riduzione del 10%. Di converso, è aumentato il numero delle famiglie, passato da poco più di 730mila a più di 805mila. Intanto è tornata a crescere l’emigrazione. La Calabria conta oggi 430mila residenti all’estero, quasi un quarto della popolazione totale della regione: il 42,8% è nella fascia tra i 18 ed i 49 anni.
Investimenti dimezzati negli anni
La spesa pubblica regionale è rimasta sostanzialmente stabile nel corso dell’ultimo ventennio, pur nella diversità delle maggioranze politiche. Ad assorbirla sono state molto più le spese correnti che gli investimenti, diminuiti invece in valore assoluto e percentuale.
Dal 2010 in avanti la spesa per investimenti si è sostanzialmente dimezzata come peso sul totale della spesa. Siamo passati dal 12% del 2010 al 6% del 2012, per poi risalire lentamente sino al 9% del 2020. Va osservato che la spesa pubblica in Calabria dipende per il 98,16% dal governo nazionale, per lo 0,57% dal governo regionale e per l’1,19% dalle municipalità. I margini di manovra per fare la differenza sono quindi molto ristretti.
Cambiano le maggioranze, non le scelte
In buona sostanza, nel primo ventennio del ventunesimo secolo si è alternata sempre la maggioranza politica alla guida della Regione, ma sono rimaste identiche le scelte. E queste hanno condotto ad un arretramento costante della Calabria nelle classifiche della competitività.
La scarsa incidenza delle scelte di politica regionale sull’andamento del tessuto economico e sociale della Calabria si riflette nella analisi di Ernesto Galli della Loggia ed Aldo Schiavone, nel libro appena pubblicato Una profezia per l’Italia (Mondadori 2021). Da almeno quattro decenni il Mezzogiorno è uscito dal discorso pubblico, divenendo soggetto di fiction televisive più che di politiche di sviluppo.
Ernesto Galli della Loggia
Una questione meridionale al quadrato
Dagli Anni Settanta del Novecento ad oggi, il prodotto pro capite del Sud è passato dal 65% al 55% rispetto a quello del Nord, mentre gli investimenti si sono più che dimezzati. Le Regioni, in tutto il Mezzogiorno, sono state una palla al piede per lo sviluppo. Ne hanno frenato le prospettive, ed hanno solo appesantito il tessuto burocratico senza aggiungere alcun valore. Con le Regioni si è affermato quello che Isaia Sales ha chiamato il populismo territoriale.
L’intero impianto del regionalismo, dati di fatti alla mano, sta franando per manifesta incapacità di sostenere lo sviluppo economico dei territori. La Calabria è diventata una nuova questione meridionale nella questione meridionale. In qualche modo ne è il cuore dolente, con il 90% del territorio costituito da montagne e colline, nonostante un apparato costiero che si estende per 800 chilometri e pesa il 10% del totale nazionale.
Differenze tra istituzioni
In questi vent’anni le politiche regionali, sia pur di segno apparentemente diverso per appartenenza politica, hanno solo contribuito ad accompagnare il declino della Calabria. Nella sanità la Regione ha accumulato un debito di oltre un miliardo di euro. E spende ogni anno circa 320 milioni di euro per rimborsare i costi del turismo sanitario dei calabresi che, non trovando risposta di servizio sul loro territorio, si recano in altre regioni.
Gianni Speranza
Non tutte le istituzioni esprimono lo stesso grado di disarmante inerzia. Mentre la Regione Calabria è rimasta sospesa a mezz’aria sospesa nel nulla, Gianni Speranza, sindaco di Lametia tra il 2005 ed il 2015, ha costruito – in soli dieci anni e senza una solida maggioranza consiliare a supportarlo – 50 km di fognature, 35 di illuminazione pubblica, marciapiedi, parchi pubblici, rotatorie, impianti sportivi, un lungomare.
Un patto da riscrivere
Insomma, contano le istituzioni, ma anche le persone. Per altro verso, nell’intero Mezzogiorno contiamo oggi 240 comuni commissariati per collusioni degli amministratori con organizzazioni criminali. Si tratta di una popolazione complessiva di 5 milioni di cittadini italiani e meridionali che si trovano sotto scacco della peggiore arretratezza, in una situazione evidentemente intollerabile. Sono tutti segnali che ci dicono chiaramente che il patto tra cittadini, istituzioni e territori va riscritto con estrema urgenza. A cominciare dalla Calabria, dove nemmeno l’alternanza tra maggioranze politiche con matrici opposte sortisce alcun effetto.
La Giunta regionale ha approvato, con delibera 480, il Documento di Economia e Finanza per il triennio 2022-2024. Emerge un quadro preoccupante sullo stato della Calabria: robusta evasione tributaria sulle tasse automobilistiche, gestione del patrimonio regionale senza adeguato controllo, mancata riscossione delle entrate in conto capitale, perché non si riesce a governare la rendicontazione, a fronte di spese in conto capitale che continuano a crescere.
La voragine sanitaria ed il Pnrr costituiscono le sponde opposte della complessa matassa che va dipanata per dare una prospettiva diversa alla regione. Da un lato c’è una decennale situazione di sbandamento nell’amministrazione finanziaria e nella gestione dei servizi sanitari per i cittadini. Dall’altro si prospetta l’opportunità delle risorse del Pnrr, che costituiscono l’ultima vera occasione per imprimere una svolta verso lo sviluppo.
Il nostro viaggio dentro il Def non può che partire dai numeri, quelli delle entrate e delle uscite. Emergono indicazioni che spiegano meglio di tante altre considerazioni astratte le ragioni della crisi regionale.
Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto
La difficoltà di rendicontare le entrate
Nel 2020 il volume delle entrate totali accertate a consuntivo nel bilancio regionale è pari a 5,74 miliardi di euro, in leggera diminuzione rispetto all’anno precedente (-0,29%). Quanto alle previsioni per gli anni successivi, il valore nettamente più alto registrato nel 2021 per le entrate in conto capitale non è attribuibile a più elevate assegnazioni statali o comunitarie. Riguarda, invece, risorse per contributi a rendicontazione non utilizzate nel corso del 2020, riprogrammate in attesa di definirne l’utilizzo o differite negli anni successivi.
Il valore percentuale del 2021 delle entrate in conto capitale rispetto al volume totale delle entrate (31,9%) rispecchia una difficoltà strutturale nell’utilizzo delle risorse destinate agli investimenti ed allo sviluppo. Eppure, nonostante questa sia la fotografia di un drammatico punto di debolezza, si stima di passare in un anno da un valore rendicontato di poco più di mezzo miliardo di euro del 2020 a 2,7 miliardi nel 2021.
Le previsioni
Considerato che siamo ormai avviati verso la conclusione dell’anno, varrebbe davvero la pena di augurarci che sia così quando dovrà essere redatto il bilancio consuntivo del 2021. I valori molto bassi delle entrate in conto capitale previsti nel biennio 2022 e 2023 scontano, invece, nella scelta di pianificazione condotta dalla Regione, la mancata previsione delle risorse destinate all’attuazione della programmazione comunitaria e nazionale 2021-2027 ancora tutta da definire.
Eppure, forse, qualche stima poteva essere messa in conto, considerando che le risorse di investimenti per il PNRR dovranno tutte essere utilizzate entro il 2026. Non c’è mica molto tempo per spendere e rendicontare questi ingenti finanziamenti disponibili.
Virtuosi all’improvviso? È il contrario
Nel 2020 il volume complessivo degli impegni risulta pari a 5,6 miliardi di euro circa, in aumento rispetto al 2019 (+1,2%). Dall’analisi della composizione della spesa distinta per tipologia si delinea un andamento divergente: aumentano le spese correnti (+0.9%) e soprattutto quelle in conto capitale (+8.8%), diminuiscono le spese per rimborso mutui (-57,3%). In apparenza, siamo entrati improvvisamente nel pianeta dei virtuosi: le spese in conto capitale aumentano molto più rapidamente delle spese di parte corrente, mentre gli oneri finanziari si riducono.
La realtà sta al polo opposto. Mentre corrono le spese in conto capitale, crollano in modo simmetricamente opposto le riscossioni delle entrate in conto capitale, per la incapacità di rispettare i meccanismi della rendicontazione. Si rischia di aprire in questo modo una voragine nei conti regionali, tale da dare il colpo di grazia alla finanza locale. Soprattutto se teniamo in conto il volano di risorse molto ingente che attiveranno contestualmente il PNRR e la prossima tornata di fondi comunitari 2021-2027.
La diminuzione delle spese per il rimborso dei mutui si deve alla sospensione delle rate di ammortamento a carico del bilancio statale in scadenza non pagate nel 2020 per effetto della legge n. 27 del 24 aprile 2020, ma che devono essere coperte nell’annualità 2021 con oneri a carico del bilancio regionale(oltre 3 miliardi di euro), e alla rinegoziazione con Cassa Depositi e Prestiti dei mutui in ammortamento con oneri di rimborso a carico del bilancio regionale per far fronte alle esigenze di liquidità determinate dal Covid 19.
Le riscossioni crollano
Le riscossioni delle entrate in conto capitale sono pari, sul totale delle entrate del 2021, solo all’1,5% rispetto all’11,1% del 2016. Il dato dell’anno in corso di conclusione, anche se parziale, rende in ogni caso ancora più evidente la difficoltà di riscossione dei contributi a rendicontazione. Il suo ammontare desta al momento forti preoccupazioni, soprattutto se rapportato al livello dei pagamenti. La riscossione delle entrate in conto capitale è passata da 579,5 milioni di euro nel 2016 a 58,1 milioni nel 2021.
Evasione fuori controllo
L’altro fenomeno da ricondurre ancora sotto controllo è l’elevato livello di evasione fiscale, che riguarda innanzitutto le tasse automobilistiche. Ogni anno vengono inviati in Calabria oltre 250.000 accertamenti, per un valore approssimato pari circa al 33% del tributo dovuto (180 milioni di euro).
Nonostante le azioni attivate per il recupero, resta circa un 20% di introiti fiscali che non vengono incassati dalla Regione Calabria per le tasse automobilistiche. La situazione sta andando a peggiorare: nel 2021 le riscossioni spontanee ammontano a 91 milioni di euro, rispetto ai 123,3 milioni di euro del 2018. Per gli altri tributi regionali la situazione è meno preoccupante, ma non certo tranquillizzante perché i soggetti passivi sono inferiori di numero e si tratta prevalentemente di persone giuridiche.
Gestione patrimoniale: una catastrofe
Il patrimonio regionale costituisce un altro fronte aperto di dimensioni significative. A fronte di 37 atti di concessione, di cui 10 a titolo gratuito e 27 a titolo oneroso, si registra un introito annuo per la Regione di 31.661 euro. Non è un errore di battitura: trentunomilaseicentosessantuno euro. Sembra una barzelletta, ma le cose stanno proprio così.
Per sole otto concessioni sono stati versati i canoni dovuti, per 6 è stato emesso un decreto di risoluzione con contestuale pagamento degli arretrati, per altre 6 è stato avviato lo stesso procedimento, mentre per altre 7 sono in corso gli accertamenti sui pagamenti effettuati.
Poi c’è il capitolo dolente del contenzioso. Al 31.12.2020 la Regione ha accantonato un fondo rischi per potenziali soccombenze pari a 136,6 milioni di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente del 51%. Nel bilancio 2021 ne sono stati accantonati altri 23,1 milioni, con una previsione di ulteriori 11,2 milioni per ciascuna successiva annualità del 2022 e del 2023.
Altri 3 milioni di euro se ne vanno ogni anno per debiti fuori bilancio e per esecuzione di pignoramenti da parte di terzi. L’importo dei pignoramenti viaggia attorno ai 30 milioni di euro all’anno. Deriva in parte rilevante dalla esecutività di sentenze originate da situazioni debitorie di soggetti terzi a loro volta debitori verso la Regione Calabria.
Le società partecipate tra liquidazioni e fallimenti
Sono quindici le società partecipate dalla Regione Calabria: tre sono pienamente controllate con il 100% delle azioni (Ferrovie della Calabria, Terme Sibarite e Fincalabra), cinque sono in fallimento, quattro in liquidazione: sembra più un ospedale che una sistema di organizzazione economica.
L’indirizzo della Regione consiste nel mantenere l’assetto azionario in sei casi, alienare sotto forma di cessione a titolo oneroso in un caso (Comalca scrl), seguire le procedura di liquidazione per le restanti tre ed attendere l’esito delle altre 4 procedure fallimentari.
La diga del Menta, gestita dalla Sorical, società partecipata della Regione Calabria
Crescono le addizionali
A distanza di circa undici anni dall’avvio del commissariamento, la gestione sanitaria costituisce la più grave problematica della regione, per via di un persistente debito che si mantiene ancora molto elevato, oltre che per una qualità dei servizi molto modesta.
Per ridurre quell’enorme disavanzo è stato approvato un piano di rientro. In nome del risparmio, oltre a ricalcare i tagli già previsti a livello nazionale, ha smantellato diversi ospedali, comportando disagi alla popolazione. Ha previsto inoltre riduzioni di spese, producendo una carenza di servizi, che non garantiscono, ancora dopo undici anni, la risposta alle esigenze di salute per troppo tempo compromesse nella regione.
Non si è nemmeno riusciti a ricostruire il quadro del contenzioso che grava come ulteriore spada di Damocle sulla già pesante situazione debitoria. Nel 2020 il 67,4% del bilancio regionale è destinato al funzionamento del Servizio sanitario, comprese le risorse derivanti dalla fiscalità regionale finalizzata alla copertura dei disavanzi.
In considerazione del disavanzo non coperto per gli anni 2018 e 2019, portato a nuovo, si sono realizzate nel 2020 le condizioni per l’applicazione degli automatismi fiscali previsti dalla legislazione vigente. Ciò comporta l’ulteriore incremento delle aliquote fiscali di IRAP e addizionale regionale IRPEF per l’anno d’imposta in corso, rispettivamente nelle misure di 0,15 e 0,30 punti.
La Calabria storicamente mostra uno scarsissimo indice di attrattività sanitaria, a fronte di una elevatissima mobilità passiva, determinata, principalmente, dalla carenza di servizi sanitari. Nel 2020 il saldo di mobilità sanitaria extraregionale è pari a -287,3 mln di euro, mentre quello di mobilità sanitaria internazionale è pari a -1,5 mln di euro.
La presentazione del Pnrr con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio, Mario Draghi
Verso il Pnrr
Questo è lo stato di forma con la quale l’istituzione territoriale si presenta all’appuntamento del PNRR. La forbice tra rendicontazione delle entrate in conto capitale e aumento delle stesse spese in conto capitale è una questione che rischia di essere deflagrante per i prossimi anni.
La Calabria viene specificamente citata nel PNRR per diversi cantieri di attività:
la conversione verso l’idrogeno delle linee ferroviarie non elettrificate e caratterizzate da elevato traffico in termini di passeggeri con un forte utilizzo di treni a diesel;
le misure per garantire la piena capacità gestionale nei servizi idrici integrati;
gli interventi infrastrutturali e tecnologici nel settore ferroviario con particolare riferimento alla realizzazione dei primi lotti funzionali delle direttrici Salerno-Reggio;
i collegamenti ferroviari ad Alta Velocità verso il Sud per passeggeri e merci permettendo di ridurre i tempi di percorrenza e di aumentare la capacità;
il miglioramento delle stazioni ferroviarie nel Sud;
il rafforzamento delle Zone Economiche Speciali (ZES) mediante una riforma che punti a semplificare il sistema di governance delle ZES e a favorire meccanismi in grado di garantire la cantierabilità degli interventi in tempi rapidi.
Trecento milioni di euro dovrebbero inoltre essere assegnati alla Calabria per interventi destinati a migliorare le infrastrutture sanitarie. Una cifra sostanzialmente identica spetta alla Calabria per interventi per la mobilità sostenibile e per il miglioramento della qualità nelle ferrovie regionali. Si tratta di un volume di investimenti di estremo rilievo in settori dove la debolezza competitiva della Calabria oggi genera scenari che non consentono di liberare adeguate energie per lo sviluppo del territorio.
La giunta regionale ha licenziato il Documento di Economia e Finanza, che costituisce la base di riferimento per delineare le politiche economiche e finanziarie che il nuovo Governo regionale intende realizzare nel triennio 2022-2024. Per garantire alla Calabria adeguate linee di sviluppo e di crescita economica. Dalla Sanità, il cui governo dopo tanti anni è stato restituito ai calabresi con l’assegnazione da parte del governo del ruolo di commissario al presidente della Regione, al Turismo e alla tutela dell’Ambiente, dall’emergenza idrica allo sviluppo delle imprese, dalle politiche attive per il lavoro alle emergenze della mobilità e delle infrastrutture.
La sfida più importante che va affrontata, e che costituisce la leva decisiva di politica economica regionale, è rappresentata dalla nuova programmazione dei Fondi Comunitari 2021-2027, e soprattutto dall’attuazione del Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Il Pil della Calabria perde il 9,6 % nel 2020
La pandemia lascia in eredità alla regione la peggiore recessione mai sperimentata in tempo di pace, con una caduta del PIL nel 2020 di 9,6 punti percentuali, il valore più elevato tra le regioni meridionali. Ma non è solo questo crollo imputabile alla crisi pandemica che ha segnato le vicende economiche della Calabria nel corso dei primi due decenni del ventunesimo secolo.
Il porto di Gioia Tauro
Già negli anni precedenti la crescita era molto più rallentata rispetto alle altre regioni meridionali. Nel periodo 2001-2007 il tasso di crescita annuale cumulato del PIL è stato del 3,1%, inferiore a quello del Mezzogiorno (+4,0%) e delle altre ripartizioni territoriali e della media nazionale che ha registrato un incremento del 8,1%.
In particolare, la crisi economica ha affondato l’andamento del Pil della Calabria segnando una flessione tra il 2008 ed il 2014 del 14,3% (la media nazionale è stata di -8,5%), sensibilmente superiore anche rispetto al Mezzogiorno (-12,6%). Tra il 2008 ed il 2014 la Calabria ha registrato un vero e proprio crollo degli investimenti, pari al 42,5%, in uno scenario comunque negativo per l’intero Paese (-29%).
Pochi occupati tra i giovani laureati
Segnali positivi erano apparentemente emersi nel periodo 2015-2018. Durante questa fase la Calabria registrava, seppur di poco, valori positivi (+0,6%). Ma si trattava di un dato non confortante se confrontato con il resto del Paese: era significativamente inferiore sia rispetto al Mezzogiorno (+2,5%) sia rispetto all’Italia (+4,8%).
Non esiste insomma indicatore economico, nei primi due decenni del ventunesimo secolo, nel quale la Calabria non registri un andamento peggiore non solo rispetto all’andamento dell’Italia, ma anche a quello del Mezzogiorno. Questo dato strutturale significa che non si può procedere per modifiche incrementali, o per leggere correzioni di rotta.
Secondo gli ultimi dati di Eurostat, inoltre, la Calabria si posiziona tra le peggiori per occupazione di giovani laureati tra i 20 e i 34 a tre anni dal conseguimento del titolo: risulta occupato appena il 37,2%, dato più basso dell’intero contesto regionale europeo. La media nazionale è del 59,5% a fronte dell’81,5% della media Ue a 27. La demografia segue gli stessi trend: ne abbiamo parlato recentemente in un altro articolo.
Un export che vale solo l’1,4 % del Pil
L’economia calabrese si presenta come un sistema chiuso, poco orientato agli scambi con l’estero. L’export calabrese, infatti, rappresenta in modo strutturale appena l’1,4% del PIL regionale, contro il 12,4% del Mezzogiorno e il 26,6% della media nazionale.
Siamo in presenza di una economia asfittica, poco densa nella sua articolazione manifatturiera, con caratteristiche di impresa squilibrate verso la piccola e piccolissima dimensione, a scarso tasso di innovazione, con mercati prevalentemente locali o limitrofi.
Anche nell’anno in corso, mentre il Paese fa registrare una ripresa economica più significativa rispetto alle altre nazioni dello spazi economico comunitario, la Calabria cresce meno.
La Calabria supera solo la Basilicata
Nel 2021 si stima che la Calabria registri un aumento del PIL del 2,1%, aumento più basso di tutta la penisola, con il Mezzogiorno che cresce del 3,3% e l’Italia del 4,7%.
La tendenza non varia anche nel 2022, sulla base delle previsioni che vengono formulate dai modelli econometrici: la Calabria, con una crescita del 3% precede solo la regione Basilicata (mezzogiorno +3,2 e Italia +4). La ripresa calabrese avanza con un passo meno veloce rispetto alle altre regioni. Senza un colpo di reni, ed una decisa inversione di tendenza, il percorso di marginalizzazione e declino della Calabria non è destinato a modificarsi.
Gli economisti hanno spesso cercato spiegazioni sull’andamento dell’economia italiana, spesso paragonata al paradosso del calabrone: tutte le leggi indurrebbero a ritenere che non possa alzarsi in volo, eppure accade. Sta succedendo anche in questo 2021, con l’Italia che fa registrare incrementi della ricchezza prodotta superiori a quella degli altri principali Paesi occidentali. Ma la regola del calabrone non vale per la Calabria. Cerchiamo di capire perché.
Una crisi anomala
Quella del Covid è stata una crisi anomala rispetto alle esperienze del capitalismo moderno. Se nelle recessioni tradizionali le componenti della domanda che registrano le contrazioni più ampie sono i consumi di beni durevoli, questa volta è caduta molto, e più a lungo, la domanda di servizi che solitamente presenta tendenze relativamente stabili (turismo, viaggi aerei e ferroviari, alberghi, ristoranti, spettacoli), nonché alcuni consumi che hanno risentito in maniera indiretta della crisi per effetto del mutamento degli stili di vita, come l’abbigliamento e le calzature. Per contro, si sono verificati andamenti positivi per altre filiere, come le attività legate alla digitalizzazione ed all’informatica, ed i servizi di trasporto e logistica, per effetto della diffusione dell’e-commerce.
I valori in picchiata del 2020
Il calo del Pil è stato nel 2020 relativamente omogeneo a livello territoriale, con un Sud leggermente meno colpito: -8,2% nella media delle regioni meridionali e -9,1% nel Centro-Nord, con una punta del -9,4% nel Nord-Est e una dinamica al Centro in linea con la media nazionale (-8,9%). Nel 2020 il valore aggiunto del settore agricolo, meno toccato dal rallentamento complessivo, ha segnato una contrazione del 3,8% rispetto al 2019. La flessione è leggermente più intensa al Centro-Nord (-4,4%) rispetto al Mezzogiorno (-2,9%); tuttavia, a differenza del Centro-Nord, la contrazione del comparto interviene nel Sud dopo un 2019 molto positivo (+3,6%).
La crisi ha determinato effetti differenziati nelle varie regioni meridionali. La contrazione maggiore tra il 2019 e il 2020 è stata quella della Calabria (-11,6%): questo crollo non è assolutamente connesso alle caratteristiche pandemiche, e traccia un solco profondo rispetto al resto del Paese. Questo è il primo segno di una anomalia calabrese che va osservata con estrema attenzione.
Clementine della Sibaritide, una delle eccellenze agricole calabresi
La crisi del settore manifatturiero
Considerando il comparto manifatturiero, la differenza di performance tra le due macro-aree dell’Italia è risultata più accentuata: il valore aggiunto manifatturiero è diminuito del -10,1% al Sud, mentre per le industrie localizzate nelle regioni centro-settentrionali la riduzione è stata del -11,6%.
Anche nel terziario, il cuore della crisi pandemica, il crollo delle attività è stato molto rilevante. Il valore aggiunto prodotto dai servizi in Italia segna un calo dell’8,1% nel 2020 rispetto al 2019: al Centro-Nord leggermente più alto (-8,2%) rispetto al Mezzogiorno (-7,8%). Complessivamente, il valore aggiunto della Calabria mostra durante la pandemia un calo più alto della media della circoscrizione meridionale (-9,3%): questo andamento è dovuto alla maggiore flessione di agricoltura (-11,6%), costruzioni (-11,2%) e servizi (-9,1%); inferiore alla media del Sud risulta la flessione dell’industria in senso stretto (-9,1%).
Il paradosso del calabrone
Il calabrone calabrese non si libra in volo perché da tempo sta perdendo capacità competitiva. Le ragioni sono molteplici, sinteticamente le individuiamo nella demografia, nella giustizia, nella sanità e nell’innovazione. Cominciamo dalla demografia. Se osserviamo il periodo tra il 2010 ed il 2018, prima della pandemia, la Calabria è una delle sei regioni italiane che perde addetti, ed è la terza in questa speciale graduatoria (-5.447 unità), preceduta solo da Sicilia e Sardegna.
Nel 2020, il saldo migratorio interno è in media negativo al Sud per oltre 50mila unità a favore delle regioni del Centro-Nord (era pari a – 71 mila nel 2019). Questo fenomeno non è omogeneo nelle diverse aree. Il saldo demografico dei comuni delle aree interne tra il 2012 ed il 2020 è stato negativo per il 9,4% in Calabria, la seconda performance più negativa del Paese, migliore solo rispetto all’Abruzzo (9,8%).
Tempi lunghi per i procedimenti civili
Passiamo al nodo della giustizia, che pesa sul contesto sociale ed economico. Il Mezzogiorno presenta la più alta domanda di giustizia, con una media di 777 nuovi casi (ogni 10mila abitanti) iscritti a ruolo ogni anno a fronte dei 704 del Centro e dei 541 del Nord. Non è solo questione di personale. Il Sud dispone in media di una dotazione di personale togato superiore alla media nazionale: nel 2019 operavano al Sud circa 11 magistrati ogni 100mila abitanti (con punte di 15 magistrati in Calabria e 13 in Campania) a fronte dei circa 9 del Centro e 7 al Nord.
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Nel 2019 per chiudere un procedimento civileoccorrevano circa 280 giorni nei tribunali del Nord, 380 al Centro e quasi 500 nel Mezzogiorno (dati pesati per la popolazione). Va tuttavia segnalato come il sistema giustizia al Sud, partito da una situazione molto critica (nel 2004 occorrevano in media 650 giorni per chiudere un procedimento), nei 15 anni osservati sia riuscito a registrare il miglioramento più significativo contraendo i tempi dei processi di circa il 25%.
Per la giustizia penale si brancola nel buio
Mentre si è registrato un progresso, sia pure in un ritardo persistente, nel settore della giustizia civile nel Mezzogiorno, per la giustizia penale si brancola ancora nel buio. Nel 2019 un processo penale si chiudeva al Nord in 290 giorni (+9% rispetto al 2004), in 450 giorni al Centro (+23% rispetto al 2004) e in 475 giorni (+7%) nel Mezzogiorno.
Non è migliore la situazione nel settore della salute. Se prendiamo in considerazione i punteggi regionali sui livelli essenziali di assistenza nella sanità, la Calabria si colloca nel 2019 al penultimo posto nella graduatoria nazionale, seguita solo dalla Sardegna. Rispetto alle regioni settentrionali del Paese i valori sono pari quasi alla metà e nel confronto con le altre regioni del Sud siamo ad un valore inferiore di un quarto. Non bisogna poi stupirsi di quello che è accaduto in Calabria durante la pandemia.
Calabria ultima per ricercatori
Nela ricerca e nella innovazione la situazione è catastrofica. La Calabria è assisa sul podio negativo per numero di ricercatori ogni 10mila abitanti, con un indicatore pari a 0,9, preceduta solo da Valle d’Aosta e Basilicata. Anche in termini di numero di ricercatori occupati nelle imprese in percentuale sul totale degli addetti la Calabria si colloca all’ultimo posto in graduatoria in Italia assieme alla Basilicata (0,2%). Il numero degli incubatori in Calabria è pari solo a due, con una performance migliore esclusivamente rispetto al Molise, che ne registra uno solo. Infine, la graduatoria sulla percentuale di persone che usano regolarmente Internet vede la Calabria all’ultimo posto (67%), assieme alla Puglia ed alla Basilicata.
Il calabrone calabrese è appesantito dunque da diversi fattori strutturali che piombano le ali. Su questi elementi si deve lavorare per tentare di spiccare il volo, come ancora riesce a fare il resto dell’Italia. Non c’è più molto tempo per recuperare i gap che affossano ancora la Calabria.
La Banca d’Italia ha recentemente pubblicato tra gli Occasional Papers della serie Questioni di Economia e Finanza il lavoro “I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso” a cura di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller.
Si tratta di uno studio che, per misurare l’adeguatezza delle infrastrutture in un determinato territorio, sia economiche (reti di trasporto su strada e su ferro; porti e aeroporti; reti elettriche, idriche e di telecomunicazioni) sia sociali (ospedali e impianti di smaltimento dei rifiuti), propone un nuovo approccio.
I risultati non fanno altro che attestare un quadro desolato di accentuate differenze nella dotazione delle diverse aree del Paese, evidenziando il più delle volte una situazione di svantaggio del Sud e delle Isole.
Occorre precisare che vi sono notevoli difficoltà di ordine metodologico nel misurare il capitale infrastrutturale di un territorio. La letteratura, infatti, ha elaborato una pluralità di indicatori – monetari, fisici e, più recentemente, di accessibilità. Tuttavia, essi colgono aspetti parziali (l’entità delle risorse spese, l’estensione fisica delle reti, la marginalità geografica di un’area) senza consentire di valutare come effettivamente le infrastrutture incidano sulla vita economica e sociale dei territori. In tal senso, l’analisi promossa da Banca d’Italia differisce da altre basate su indicatori fisici o di spesa pubblica, che offrono una visione unidimensionale che il più delle volte si rivela fuorviante.
Meno investimenti? Colpe da dividere
In Italia le risorse destinate sia all’ampliamento sia alla manutenzione delle infrastrutture sono diminuite nell’ultimo decennio. La riduzione della spesa per investimenti pubblici è stata particolarmente intensa fra il 2009 e il 2019 (dal 4,6% al 2,9% del PIL). Ne è conseguito un allargamento del divario quantitativo e qualitativo rispetto agli altri paesi d’Europa. La dotazione di capitale pubblico delle aree del Paese che già segnavano un ritardo ne ha risentito notevolmente.
L’indebolimento infrastrutturale delle regioni meridionali non è da attribuirsi soltanto, come retorica vuole, alle scelte sbagliate dello Stato centrale. Il contesto italiano, infatti, si caratterizza per il sovrapporsi delle responsabilità fra più livelli di governo in materia di infrastrutture (sanità, istruzione, trasporto pubblico locale, smaltimento dei rifiuti urbani). Pertanto la responsabilità ricade per una parte significativa nella sfera decisionale delle amministrazioni locali, che erogano oltre la metà della spesa pubblica per investimenti.
Il federalismo fiscale e la ricognizione mai effettuata
Le capacità tecniche delle amministrazioni locali di selezionare i progetti e di portare a termine i lavori nei tempi programmati si sono rivelate troppo spesso inadeguate.
In termini pro capite, nella media dell’ultimo decennio, l’entità delle risorse per investimenti infrastrutturali è stata all’incirca pari a 780 euro per le regioni meridionali e insulari, contro gli oltre 940 delle regioni centrosettentrionali. È evidente che questa non sia la premessa migliore per affrontare l’ormai prossimo avvio del PNRR.
Nel 2009 la legge di attuazione del federalismo fiscale aveva previsto l’individuazione dei divari territoriali circa «le strutture sanitarie, quelle assistenziali e scolastiche, la rete stradale, autostradale e ferroviaria, quella fognaria, idrica, elettrica, di trasporto e distribuzione del gas, nonché le strutture portuali e aeroportuali». Ad oggi, tale ricognizione non è stata ancora realizzata.
Sud e isole fuori dai mercati
I dati disponibili, tuttavia, sono eloquenti. Dal momento che la competitività delle imprese è strettamente legata alla disponibilità di una rete adeguata di trasporti e di telecomunicazioni, nonché alla qualità del servizio energetico e idrico, che rappresentano input essenziali dei processi di produzione, è evidente che le opportunità di accesso ai mercati sono molto ridotte per la maggior parte delle aree localizzate nel Meridione e nelle Isole, come nelle zone appenniniche interne. Infatti, i territori con i collegamenti più veloci sono collocati nelle regioni settentrionali, soprattutto nella parte orientale.
In merito alle telecomunicazioni, un forte ritardo caratterizza il Paese nel suo complesso circa la disponibilità della tecnologia più innovativa: la connessione di rete fissa a banda larga ultraveloce. La Calabria, fatta pari a 100 la media italiana, raggiunge un indice di appena 15,9, nettamente inferiore anche a quello del Mezzogiorno (37,6).
I problemi con acqua e luce
Per quanto concerne il servizio elettrico, nelle regioni meridionali e insulari i buchi di tensione si verificano con una frequenza significativamente maggiore rispetto al resto del Paese. Per non parlare del servizio idrico: in molte provincie del Sud si registrano perdite di entità rilevante tali per cui alcune realtà sono soggette a fenomeni di razionamento dell’acqua per uso domestico. Addirittura, in capoluoghi quali Catanzaro, Palermo, Enna e Sassari, il razionamento idrico non è limitato ai periodi estivi ma interessa, per alcune ore al giorno, l’intero arco dell’anno.
A fronte di questo impietoso scenario, come agire per colmare o almeno ridurre, i divari?
Tenendo conto sia della componente ordinaria che di quella aggiuntiva dell’attività di investimento dell’operatore pubblico alle regioni meridionali e insulari dovrebbe essere destinata una quota di spesa almeno pari al 45%, in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione residente.
Una impresa calabrese paga mediamente, secondo dati della Banca d’Italia, un tasso di interesse pari al doppio del livello nazionale e superiore di due terzi rispetto alle regioni settentrionali. L’accesso al credito in condizioni così onerose è un’autostrada per consegnare interi settori di attività economica alle tentazioni della criminalità organizzata.
Il sistema creditizio della ‘Ndrangheta conduce istruttorie rapide, la burocrazia è ridotta al minimo, all’inizio non vengono richieste nemmeno garanzie reali. Poi, entrate dalla finestra del credito, le organizzazioni criminali si impadroniscono delle aziende passando per la porta principale, per gestire business, riciclare denaro e rafforzare il controllo sul territorio.
Fare azienda in queste condizioni diventa davvero arduo. Pagare alle banche il denaro in modo così più elevato rispetto al resto del Paese rende le imprese calabresi molto più vulnerabili. E soprattutto molto più esposte alle sirene del denaro offerto in prestito dalla criminalità organizzata. Spezzare questa trappola costituisce una delle sfide che non si sono nemmeno cominciate.
Tassi d’interesse per le imprese raddoppiati
Dunque, la Calabria fa registrare un tasso di interesse per le imprese poco più che doppio rispetto alla media nazionale: 6,76% rispetto a 3,36%. È il valore più alto di tutto il Paese, ed anche nettamente. Solo il Molise e la Sardegna, registrano valori superiori al 5%, rispettivamente il 5.38% ed il 5,07%.
La media dei tassi di interesse per le attività economiche nel Mezzogiorno è pari al 4,67%, comunque due punti sotto rispetto alla Calabria. Per non parlare di quello che accade nel resto delle regioni del Nord.
Il costo del denaro per le aziende in Lombardia è pari sostanzialmente ad un terzo rispetto alla Calabria: 2,93%, con qualche altra regione settentrionale che si situa sotto la soglia del 3%, come accade anche all’intero Nord Est.
Per le piccole imprese calabresi il tasso di interesse arriva addirittura al 9,55%; solo la Sardegna registra nell’intero Paese un valore leggermente più alto (9,57%), mentre per le piccole imprese del Mezzogiorno la media è pari all’8,39% ed al 6,48% per la media nazionale.
Va meglio alle famiglie
Per le famiglie consumatrici i tassi di interesse non registrano invece una significativa varianza tra le diverse regioni dell’Italia, e si collocano su livelli comunque molto bassi, molti più bassi rispetto al costo del denaro per le attività economiche. In Calabria le famiglie pagano alle banche un interesse dell’1,65%, più basso della media del Paese (1,69%) e del Mezzogiorno (1,73%). La situazione è in qualche modo simmetricamente opposta rispetto a quella che abbiamo analizzato per le attività economiche.
Fare impresa in Calabria è molto più difficile. Pagare per l’approvvigionamento del denaro il doppio della media nazionale e due terzi in più del Nord alza la soglia delle convenienze. E spiazza soprattutto la nascita di aziende, che devono ricorrere maggiormente al capitale di debito per finanziare gli investimenti iniziali e l’avviamento.
Per le attività economiche che sono già presenti sul mercato, tassi di interesse così elevati possono indurre a tentazioni di ricorso ad altre fonti di approvvigionamento, certamente meno burocratiche delle banche ma molto più pericolose.
Le organizzazioni criminali, ed ovviamente la ‘Ndrangheta in Calabria, sono il vero rivale di un sistema bancario che gioca sulla difensiva e non si schiera a sostegno delle forze economiche e sociali che tentano una strada di riscatto basata sullo sviluppo. Nei passaggi cruciali per la vita di una impresa, poter contare sull’accesso al credito costituisce uno degli elementi vitali per affrontare un passaggio difficile di crisi, oppure per crescere realizzando investimenti.
I rischi per le banche
Ovviamente, non mancano le ragioni economiche per questo drammatico divario nel costo del denaro per le imprese della Calabria. Non conta il destino cinico e baro o la cattiveria delle banche. Il deterioramento del credito per le imprese calabresi è il più alto del Paese (2,6%), rispetto all’1,4% dell’Italia ed all’1,8% del Mezzogiorno.
Le regioni italiane con il minore rischio di credito bancario sono la Valle d’Aosta (0,6%) ed il Friuli Venezia Giulia (0,7%). Va comunque notato che non si giustifica tutto il divario che abbiamo visto in termini di differenziale dei tassi di interesse per le imprese calabresi, ma non vi è dubbio che il rischio di svalutazione dei crediti per le banche è più elevato rispetto al resto del Paese.
Il rischio di credito per le famiglie consumatrici calabresi è pari all’1,4%, leggermente migliore rispetto alla media del Mezzogiorno (1,5%), ma inferiore rispetto alla media nazionale (1,1%). Tra le regioni italiane il valore più alto di rischio creditizio per le famiglie si registra in Sicilia (1,9%). Sono due, invece, le regioni che si collocano al valore più basso dello 0,6%: Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia.
Non si può non considerare questa del credito una delle maggiori emergenze che vanno affrontate per il futuro economico della Calabria. Non solo perché tassi di interesse così divergenti per le imprese del territorio limitano le prospettive di sviluppo. Ma anche perché questo assetto lascia spazio alle forze criminali per giocare un ruolo di condizionamento nei destini delle imprese.
«In Italia il mondo criminale non si è mosso mai lontano dal mondo delle élite. Il suo successo sta soprattutto in questo aspetto: mai essere lontani e contrapposti alle élite. E, il mondo criminale, non ha mai avuto il monopolio dell’illegalità. In Italia l’illegalità è una cosa frequentata assiduamente dalle classi dirigenti, che hanno sempre pensato di poter ottenere dei risultati più al di fuori della legge che dentro la legge. Hanno ritenuto, cioè, che l’illegalità fosse un loro campo di appartenenza. E quando lo hanno dovuto, in qualche modo, dividere con altri hanno accettato questa condizione. Non hanno fatto neanche una battaglia per averne il monopolio».
Isaia Sales continua ad essere tra i più attenti analisti dei fenomeni criminali nelle regioni meridionali. Dopo la laurea in Filosofia, ha iniziato la sua vita pubblica come collaboratore de l’Unità. È stato poi dirigente del PCI e, in seguito, dei DS, segnalandosi come uno dei politici più impegnati nella lotta alla camorra. A questo tema era dedicato il suo primo libro – La camorra, le camorre – nel 1988.
Isaia Sales, storico delle mafie
Con lui analizziamo quali siano stati i rapporti delle mafie con le classi dirigenti, le massonerie, la società meridionale. E quali siano i mutamenti in corso e le ragioni che hanno reso ‘ndrangheta e camorra più pericolose di Cosa Nostra. Ne viene fuori un quadro dell’inquinamento civile e politico che sta alla base del potere criminale, ormai non più radicato solo nel Sud Italia ed avviato ad una crescente globalizzazione.
Quali sono le origini della criminalità organizzata nel Mezzogiorno?
«Penso che le mafie, così come le conosciamo, abbiano inizio nella prima parte dell’Ottocento, quando le sette segrete arrivano nel regno borbonico e negli altri stati pre-unitari dietro le truppe napoleoniche. È nelle carceri che si incontrano i delinquenti disorganizzati e gli aristocratici borghesi, organizzati, oppositori del sistema politico. Dalla disorganizzazione della criminalità e dall’organizzazione dell’opposizione politica nascono le mafie. La massoneria e la carboneria forniscono il modello organizzativo alle mafie».
Come si inserisce la violenza in questo scenario?
«Le mafie nobilitano la violenza allo stesso modo delle sette segrete. La violenza è necessaria in quella fase storica per abbattere i poteri assolutistici. Le mafie ne fanno un modello, prendendosi tutto l’armamentario della massoneria, compreso l’uso dellaviolenza come strategia di potere o di contrapposizione al poterecostituito.
Questa operazione è impressionante per come avviene e per le similitudini che hanno le sette segrete con i primi statuti che noi conosciamo delle mafie, in maniera particolare della Camorra napoletana. È in questa ritualizzazione delle violenza che sta il segreto storico del successo delle mafie. Si può dire che tramite la massoneria l’onorabilità della violenza compie il suo tragitto: la violenza non è una cosa di cui vergognarsi, che ti isola o allontana, ma può avere tutti i presupposti dell’onore. Tra questi, l’obbedienza».
Esistono radici sociali della criminalità meridionale?
«Nell’Ottocento le “classi pericolose” avevano la stessa pervasività e pericolosità a Parigi, Londra, Napoli e Palermo. La differenza è che a Londra e Parigi la criminalità si organizzò attorno ai mendicanti, che non ritualizzarono la violenza. Lì ci fu una distanza netta tra le due classi. La storia delle mafie italiane e quella del Paese, invece, sono costellate da casi di intreccio tra classi dirigenti e classi pericolose».
Perché l’omertà ha svolto da sempre una funzione centrale?
«C’è stato anche un grande dibattito storico attorno al concetto di omertà, con una grandissima confusione operata in Sicilia. L’etnologo Pitrè la usò in un processo nei confronti di un personaggio importante dell’epoca, il parlamentare Palizzolo, accusato di essere il mandante del delitto Notarbartolo. Invitato a deporre in tribunale, alla domanda “cos’è la mafia?” rispose che era un comportamento e non un’organizzazione. “Mafioso è, in alcuni quartieri palermitani, essere di bell’aspetto”. E poi disse “vedete, la stessa parola omertà viene da “ominità”, viene dal considerarsi “uomo”. Uomo è colui che risolve le questioni di giustizia da solo, senza ricorrere alle autorità”.
Ma Pitrè commise un errore gravissimo, perché omertà deriva da umiltà, che in napoletano diventa “umirtà”. E infatti la camorra si chiama bella società riformata o società dell’umirtà. Una delle regole delle società segrete è la totale obbedienza, ed è normale nelle società segrete richiedere l’obbedienza.
Teniamo conto che nel concetto di onore che i mafiosi prendono dalle classi dirigenti c’è sia onore come guadagno senza fatica (che era tipico degli spagnoli), ovvero è onorato colui che può disporre di ricchezza senza averla prodotta con le sue mani, sia un’altra idea di onore: è onorato colui a cui si dà obbedienza, perché l’obbedienza è una forma, uno strumento dell’onore».
I riti del giuramento della ‘ndrangheta assumono un’identità autonoma?
«I riti di giuramento – e quelli della ‘ndrangheta meriterebbero libri e libri di approfondimenti – andrebbero studiati permanentemente dall’antropologia italiana. Attraverso essi si manifesta pienamente l’idea che l’obbedienza alla setta segreta è una delle massime espressioni dell’onorabilità. La camorra ha gli stessi riti di quella ottocentesca: nella camorra esiste la società maggiore e la società minore, cosa tipica della massoneria.
Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta
Nella ‘ndrangheta, invece, nel giuramento esiste il dialogo, chi vuole aderire deve rispondere ad alcune domande interlocutorie: lo stesso meccanismo di domanda e risposta che si fa nella massoneria. Aggiungiamoci i caratteri mutualistici e solidaristici che hanno le mafie, anche essi copiati dalla massoneria. All’inizio, per esempio, la mafia siciliana si articolava in “fratellanze”. Si pagava una quota per entrare che serviva nei momenti di necessità: un welfare criminale per soccorrersi nelle difficoltà. Le relazioni sono fondamenti per aiutarsi, sia nella visione massonica che in quella mafiosa.
Come si articola la struttura del potere criminale nel Mezzogiorno?
«Le mafie, all’inizio, sono “scimmie” delle classi dirigenti, copiandone il modello di successo. Il percorso di questi due poteri non è lineare, perché inizialmente copiano il modello, ma le relazioni non sono permanenti perché le mafie incontrano le classi dirigenti anche al di fuori della massoneria. Non hanno bisogno di questo rapporto particolare, ma ne copiano il metodo: stare insieme, ritualizzare la violenza, stabilire relazioni privilegiate. È proprio questo aspetto che cambia radicalmente le mafie italiane rispetto al tradizionale crimine organizzato urbano, che pure esisteva in altre città europee.
Man mano che le mafie hanno contezza di un potere, e con l’inizio di una prima repressione dello Stato italiano, gli incontri di classi dirigenti e classi pericolose hanno avuto necessità della segretezza. Nella storia della ‘ndrangheta tutto ciò è importantissimo, perché siamo di fronte ad un caso unico: una delle criminalità più trascurate e fuori dall’obiettivo della pubblica opinione che, in pochi decenni, diventa una delle più potenti al mondo».
Attraverso quali meccanismi si è determinato il successo della ‘ndrangheta?
«A proposito della lunga presenza della ‘ndrangheta, non dimentichiamoci che nel 1869 il primo scioglimento di consiglio comunale in Italia per infiltrazione della criminalità avviene a Reggio Calabria. Nei primi lavori della ferrovia tirrenica la ‘ndrangheta c’entra. Qual è la confusione? La ‘ndrangheta aveva un altro nome: Camorra reggina o Camorra calabrese. Essa aveva preso più delle altre mafie le modalità di giuramento della camorra napoletana. Ma il termine specifico di criminalità autoctona si scopre, forse, nel secondo dopoguerra, perché prima il nome con cui sarà conosciuta la ‘ndrangheta è camorra».
Qual è il primo punto di svolta nella storia recente della ‘ndrangheta?
«La ‘ndrangheta si troverà negli anni ‘60al di fuori della storia italiana sia per ragioni geografiche che geoeconomiche, per problemi di scarsa accumulazione e scarse relazioni. La classe dirigente calabrese conta meno di quella napoletana o di quella siciliana nelle dinamiche dello Stato italiano. Quindi gli affari che si possono fare in Calabria non sono equiparabili a quelli che si possono fare nelle altre regioni.
La ‘ndrangheta inventa una forma di accumulazione del denaro che non è consona alle altre mafie. Si tratta dei sequestri di persona, dettati dalla necessità di una rapidissima accumulazione di denaro che possa permettere di partecipare agli affari. Poi ci sono due opportunità che riportano la Calabria nel circuito nazionale: la costruzione della Salerno-Reggio Calabria (e poi il suo ammodernamento) e quella del quinto centro siderurgico, che non si utilizzerà mai dopo la sua costruzione».
Come è stato costruito il sistema delle relazioni della ‘ndrangheta?
«Vengono cambiate le vecchie tradizioni. Per uno ‘ndranghetista una doppia affiliazione è fuori dal proprio orizzonte: la doppia fedeltà è inconcepibile per i vecchi capi della ‘ndrangheta. De Stefano fa fuori contemporaneamente tre capi: Macrì, Nirta e Tripodo. Con questo gesto ha possibilità di rompere con il vecchio mondo e di aprire strade nuove. E per farlo deve mantenere il massimo della segretezza possibile.
Paolo De Stefano, boss dell’omonima famiglia, ucciso nel 1985
Nasce una struttura inusuale dentro la storia della mafia: una terza organizzazione, in bilico tra mafia e massoneria, che si chiamerà la Santa. Ha relazioni così delicate che neanche tutti gli aderenti alla ‘ndrangheta vi possono partecipare ed esserne perfino a conoscenza. Inizialmente saranno solo 33 coloro che ne potranno far parte, poi inizierà un’inflazione di queste presenze».
Quali funzioni svolge la Santa?
«Nella storia d’Italia, dove si intrecciano reti illegali, criminali, politiche, affaristiche, sono fondamentali gli “incroci”. Ecco, la Santa è uno di questi crocevia. Èun’organizzazione di relazioni, perché il circuito delle influenze e delle conoscenze, in Italia, è più efficace del talento individuale. Le conoscenze e le relazioni stabiliscono un capitale che nessun merito personale può sostituire».
C’è qualche legame con il concetto di clientela?
«In qualche modo potremmo spiegare così anche il fenomeno della clientela. Ma saremmo fuori strada se la riducessimo soltanto a qualcosa di spregiativo e non a qualcosa di utile. Dobbiamo invece parlare di traffico di relazioni, di commercio di relazioni, di capitale di relazioni: una persona non potrà mai essere influente se non è in possesso di un circuito di relazioni. Oggi chiameremmo la clientela “traffico di influenze”.
Questo consente alla massoneria come alla ‘ndrangheta di avere tre tipi di relazioni: con il mondo politico, con quello imprenditoriale, con la magistratura e gli avvocati. Quest’ultimo tipo è fondamentale per l’onore mafioso, che consiste nel fatto di non essere sottoposto all’ingiuria della legge. Tutti sanno che sono un criminale, ma nessuno mi può mettere in galera; e se mi mettono in galera, sono in grado di uscirne».
L’impunità è una chiave di rafforzamento del potere criminale?
«È proprio l’impunità il massimo dell’onore mafioso, perché tutti devono sapere chi sono, la violenza che posso esercitare, ma nessuno mi può prendere e mettere dentro. Ed è l’impunità il grande capitale che i mafiosi contrattano nelle relazioni, allo stesso livello dei rapporti politici o imprenditoriali che servono per fare affari.
Questo è un perno fondamentale: la massoneria è in grado di offrire tutte e tre queste relazioni.
Non dimentichiamo mai che nella storia del successo delle mafie in Italia c’è il fatto che la magistratura è stata fino in fondo parte degli interessi delle classi dirigenti. Solo con la scuola di massa si è rotta questa continuità e contiguità storica, permettendo l’ingresso in magistratura di altri ceti. Questo ha consentito un ricambio fondamentale ai fini della repressione del fenomeno. Tutto questo si verifica tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del Novecento. È l’impunità la chiave del successo dei mafiosi a garantirla era, in gran parte, la magistratura.
Può fare un esempio a riguardo?
Ricordo il discorso funebre del capo dei magistrati italiani, primo presidente della Corte D’Appello, Giuseppe Lo Schiavo, in onore di Calogero Vizzini. Già che il capo dei magistrati italiani tributi onori al capo della mafia è incredibile. Ma se lo si fa poi sulla rivista giuridica Processi, nel 1955, risulta tutto ancora più incredibile. Lo Schiavo era colui che aveva scritto Un giorno in Pretura, da cui Pietro Germi aveva tratto poi In nome della legge, uno dei film più ambigui sulla mafia, in cui si vede che il capomafia consegna l’assassino nelle mani del giovane pretore.
Donne di VIllalba al funerale di Calogero Vizzini
In quell’occasione dice: “È morto il capo della mafia Calogero Vizzini, si è sempre detto che la mafia è contro lo stato, contro le istituzioni e contro i rappresentanti della legge; io posso affermare che mai la mafia è stata contro lo stato, contro le istituzioni e men che mai contro i rappresentanti della legge, anzi in diversi momenti storici ha aiutato la legge a venire a capo di delitti che altrimenti non avremmo scoperto”. Aggiunge inoltre: “Già si conosce il nome del suo successore, mi auguro che possa continuare sulla strada del suo predecessore“».
La violenza, l’omertà e le relazioni sono le chiavi interpretative del modello criminale?
«Il potere dei mafiosi in Italia non è dovuto in modo esclusivo alla loro violenza, ma al fatto che questa violenza è stata riconosciuta e legittimata da altri poteri ed esercitata senza concreta repressione. La storia delle mafie, quindi, è una storia di integrazione della violenza popolare dentro le strategie delle classi dirigenti. E in questa storia di integrazione bisogna andare a leggere e analizzare tutti i crocevia di queste relazioni.
La massoneria, non tutta, ha rappresentato uno di questi. Se non analizziamo questi crocevia non potremo mai comprendere la storia dell’Italia. Se esistono dei luoghi in cui si organizzano le influenze, o si riescono ad aumentarle attraverso un potere occulto, prima o poi questo meccanismo non potrà che portare sulla scena del potere anche le mafie, che hanno uno straordinario bisogno di relazioni.
La storia del rapporto massoneria-mafia è la sintesi dell’opacità del potere in Italia. L’opacità del potere ha permesso tante forme illegali e la mafia è una di queste, ma le classi dirigenti non hanno mai consentito ai criminali di essere gli unici monopolisti dell’illegalità. Anzi, l’hanno condivisa, l’hanno accettata, hanno stabilito delle modalità per servirsene, non l’hanno mai combattuta né al tempo stesso hanno accettato che i mafiosi fossero gli unici a utilizzarla. In questo atteggiamento c’è continuità nella storia italiana».
Conta più sfuggire alla legge?
«È stato affermato dalle classi dirigenti, fino ad una diffusione di massa, questo assunto: la legge dà potere quando la eserciti, ma dà più potere quando la raggiri. Ecco, da questo punto di vista penso che i mafiosi abbiano imparato dalle classi dirigenti. E le classi dirigenti hanno accettato la mafia come parte di quel mondo oscuro, opaco, con cui hanno costruito grandi architetture».
Quali crocevia abbiamo conosciuto nei recenti decenni?
«Nel mondo delle mafie si sono manifestate alcune novità dirompenti nel corso degli ultimi decenni. La prima ha che fare con il cambio di gerarchie nel mondo mafioso. Dalla seconda metà degli anni Novanta le ‘ndrine calabresi e le camorre napoletane (e casertane) hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo di leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla cattura di Totò Riina.
Il boss dei Corleonesi, Totò Riina
E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile. Tutte le previsioni in materia si sono rivelate, dunque, sbagliate. La camorra la si dava per finita alla fine degli anni sessanta quando tutta l’attenzione era catturata dalla mafia siciliana, la ‘ndrangheta non era neanche conosciuta con il nome attuale e la si riteneva una criminalità assolutamente secondaria».
Perché la mafia siciliana è stata maggiormente oggetto di studio e di analisi?
«Fino a qualche decennio fa gli esperti non concedevano “dignità” di studio né alla ‘ndrangheta e né alla camorra. Non corrispondevano ai canoni della “mafiosità” modellati sulle caratteristiche di Cosa nostra. Le Commissioni parlamentari antimafia cominciarono ad occuparsi delle altre “consorelle” mafiose solo a partire dagli anni ’90 con una organica relazione sulla camorra del presidente Luciano Violante nel 1993. Mentre bisognerà aspettare il 2008 per una specifica relazione sulla ‘ndrangheta da parte del presidente Francesco Forgione.
La prima Commissione parlamentare antimafia non si occupò affatto di camorra, né tantomeno di ‘ndrangheta. Riteneva che i fenomeni criminali di tipo mafioso coincidessero quasi esclusivamente con la mafia siciliana. Con difficoltà fu inserito il termine camorra nel testo che nel settembre 1982 introdusse il reato mafioso in base all’art. 416 bis del codice penale (dopo il delitto del generale dalla Chiesa, prefetto di Palermo);, Solo nel marzo 2010 la parola ‘ndrangheta viene espressamente introdotta nell’articolo 416 bis (Associazione di stampo mafioso). E solo nel 2016 la Cassazione ne ha riconosciuto l’unitarietà in una sentenza del 17 giugno. “La ’ndrangheta è una mafia cresciuta nel silenzio”, ha sintetizzato Nicola Gratteri».
Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
Possibile che solo pochi si siano occupati di ‘ndrangheta? Perché?
«Il primo ampio studio sull’argomento è del 1992, scritto da Enzo Ciconte: ‘Ndrangheta dall’Unità a oggi. Conteneva già tutti gli elementi di previsione della sua rapida ascesa tra le prime criminalità del mondo. Perché questa sottovalutazione della ‘ndrangheta sia durata fino ai giorni nostri è questione storica, politica, culturale, non ancora risolta.
Nel periodo 1970-1988, la ‘ndrangheta ha effettuato ben 207 sequestri di persone, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord dell’Italia, in particolare in Lombardia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro, poi a quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E, infine, di ritagliarsi un ruolo da protagonista nel traffico internazionale di stupefacenti. Eppure l’attenzione su di essa non superava qualche riferimento folcloristico sui rifugi dell’Aspromonte e qualche similitudine con il banditismo sardo. Era il periodo del terrorismo in Italia e le priorità repressive dello Stato erano concentrate su di esso».
Insomma, la ‘ndrangheta operava in silenzio, ma si rafforzava…
«Non è vero che fino a 30 anni fa la ‘ndrangheta non rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale. Né che fosse impossibile pronosticare il successo che poi ha avuto nel mondo criminale globale. Nelle migliori delle ipotesi si tratta di una imperdonabile leggerezza degli apparati di sicurezza del nostro Paese.
Camorre e ‘ndrangheta non erano affatto silenti quando, a partire dagli inizi degli anni ’70, la mafia siciliana occupa la scena criminale e monopolizza l’attenzione della pubblica opinione, della politica e degli apparati di sicurezza. Non erano in una fase di scarsa attività criminale, solo che su di esse – per ragioni varie – non c’era l’attenzione degli investigatori e degli apparati istituzionali dello Stato.
Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente, se non ha un lungo retroterra storico, un lungo «apprendimento», una lunga sedimentazione alle spalle. E le servono una lunga disattenzione o sottovalutazione degli ambienti istituzionali, delle forze di sicurezza e svariate “agevolazioni” da parte di chi doveva contrastarla e combatterla».
L’Italia ha sottovalutato la pericolosità di ‘ndrangheta e camorra?
«I fatti hanno capovolto il paradigma interpretativo delle mafie e la sottovalutazione da parte di studiosi e degli apparati di sicurezza italiani. La camorra, considerata una semplice forma di moderno banditismo urbano sembrava quella più fuori dai canoni mafiosi. Oggi invece è quella più in ebollizione per l’alta conflittualità interna e per le sue capacità di espansione nell’economia legale.
La ‘ndrangheta, che sembrava più secondaria ed era praticamente semisconosciuta, era considerata una forma di ancestrale banditismo rurale. Poiha letteralmente colonizzato, dal punto di vista criminale, il Centro-Nord. Tutte le previsioni in materia di evoluzione dei fenomeni mafiosi si sono dimostrate sbagliate. I servizi di intelligence non hanno fatto una bella figura: la sottovalutazione di camorra e ‘ndrangheta fa parte dei grandi limiti e compromissioni dei servizi di sicurezza italiani di quegli anni».
In tempi di globalizzazione, come si sono comportate le mafie meridionali?
«Innanzitutto si è determinato un processo di “nazionalizzazione” delle mafie, cioè la formazione di una presenza stabile e duratura delle organizzazioni mafiose nelle strutture economiche delle regioni del Centro- Nord che rappresentano il cuore pulsante dell’apparato industriale, produttivo e commerciale dell’Italia. Un esito del genere era considerato assolutamente impossibile dagli studiosi, dagli apparati di sicurezza, dalle forze politiche e dalla pubblica opinione rappresentata dalla stampa e dalle Tv.
Questa novità si era già percepita negli anni ’50 e ’60 del Novecento con la presenza al soggiorno obbligato di boss delle varie mafie meridionali, con investimenti nella piazza finanziaria di Milano. Ma si era trattato di incursioni, presenze sporadiche, finalizzate a qualche obiettivo limitato e non a una presenza stabile e duratura come quella odierna. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a previsioni sbagliate. Nessuno aveva ipotizzato che le mafie potessero insediarsi nel cuore produttivo italiano».
Come mai tutti hanno sbagliato previsioni?
«Si riteneva che il Centro-Nord, e soprattutto le regioni più ricche, fossero un ambiente ostile, inadatto allo sviluppo delle mafie o non in grado di ospitare fenomeni così arcaici. Insomma si pensava che essendo le mafie fenomeni di arretratezza economica e di primitività civile, mai e poi mai avrebbero sfondato in realtà ricche e di avanzata civilizzazione.
Quello che non si era capito e non si vuole capire (nonostante tutte le smentite) è che le mafie non hanno a che fare solo con la mentalità dei territori dove si sono sviluppate prima e dopo l’Unità d’Italia, ma possono espandersi e superare tranquillamente le colonne d’Ercole – o la linea delle palme, come la chiamava Sciascia – se si mette in moto una “affinità elettiva” con l’economia di altri luoghi e con gli interessi imprenditoriali di territori ad alto tasso civico e di benessere».
L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg
Quanto hanno contato i contesti nel Mezzogiorno e nel Nord del nostro Paese?
«Se nel Sud sono state le condizioni economiche, sociali e politiche a dettare le ragioni del successo delle mafie, ora sembra essere la struttura produttiva ed economica del Nord a presentarsi come ospitale e invitante per le mafie. Per capire il radicamento al Nord delle mafie oltre ogni previsione e aspettativa, bisogna interrogare l’economia di questa parte dell’Italia e i comportamenti delle sue classi dirigenti, quelle politiche e quelle imprenditoriali».
Qual è il vettore principale della globalizzazione delle mafie?
«È il traffico di droga ancora oggi a determinarla. Una spinta ancora più significativa perché non è causata dal fatto che in Italia, o in Paesi vicini, si produca droga. È questo il caso di un ruolo internazionale non dettato da ragioni geo-politiche, ma da ragioni commerciali. Cioè dalla capacità di entrare in un mercato dove non si possiede la materia prima, ma la si procura in relazioni con i produttori di altri continenti».
Stanno cambiando – per effetto della nuova dimensione geografica dei mercati – le gerarchie nel mondo delle organizzazioni criminali?
«Il cambiamento di gerarchie all’interno dell’universo mafioso ha avuto recentemente numerosi e ampi riscontri nelle relazioni degli organi di governo e del parlamento preposti al contrasto, negli atti della magistratura, nei dati sugli scioglimenti dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, nelle statistiche sui beni sequestrati e confiscati, nel numero di omicidi commessi negli ultimi 25 anni, e perfino nel numero complessivo dei pentiti.
Il Ministero dell’interno, in un recente studio, ha stimato le entrate economiche della camorra in 3.750 milioni di euro e quelle della ‘ndrangheta in 3.491, mentre Cosa nostra si attesta a 1.874 milioni di euro e la criminalità pugliese a 1,124. Camorra e ‘ndrangheta, dunque, cumulano ben il 67% di tutti i ricavi mafiosi. La Calabria risulta essere la regione italiana con la più elevata densità di reati in rapporto alla popolazione, Napoli invece ha il primato per omicidi ogni centomila abitanti (tra le città a presenza mafiosa) e il record assoluto nel numero di clan e di affiliati.
Se si analizzano le ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre del 2020 per il reato di 416 bis, si può verificare come la camorra tocchi la cifra di 3.219 arrestati (il numero più alto in assoluto) la ‘ndrangheta quella di 2,800 (il numero più alto in rapporto alla popolazione) Cosa nostra 2.193, mentre la criminalità mafiosa pugliese arriva a 811. Dei 759 reclusi al 41 bis, cioè al carcere speciale per i mafiosi, 266 sono camorristi, 210 ‘ndranghetisti e 203 appartenenti a Cosa nostra: i calabresi e i campani superano il 60% del totale.
Se poi si prendono in considerazione i delitti commessi dal 1983 al 2018, si può notare come la camorra abbia commesso 3,026 omicidi (ben il 45,4% di tutti gli omicidi di mafia) Cosa nostra 1.701 (il 25, 5%) e la ‘ndrangheta 1.320 (il 19,85). Quest’ultimo dato, se rapportato alla popolazione, è di gran lunga il più alto».
Quali dialetti si parlano oggi nel mondo criminale?
«Sempre più il napoletano e il calabrese, non il siciliano. Questo cambiamento è stato in qualche modo registrato anche dall’industria culturale, in particolare da quella cinematografica. Dal 2006 al 2018 su 61 film prodotti sul tema delle mafie, ben il 50% di essi ha riguardato la camorra. E per segnalare le perifericità del tema ndrangheta nella opinione pubblica italiana, va ricordato che su 337 film girati dal 1948 al 2018, solo 16 hanno avuto come argomento la ‘ndrangheta, cioè il 4%, come ricorda Marcello Ravveduto nel libro Lo spettacolo della mafia».
Come sta cambiando la struttura della ‘ndrangheta a seguito del suo processo di globalizzazione?
«Così come la mafia siciliana ha assunto un ruolo centrale grazie al rapporto con Cosa Nostra americana che l’ha proiettata nel corso del Novecento tra le protagoniste del crimine mondiale, anche la ‘ndrangheta deve oggi il proprio ruolo nazionale e internazionale alla proiezione globale che le è stata fornita dai legami vasti con le ‘ndrine presenti fuori dai territori calabresi. Ancora una volta sono le relazioni internazionali a decidere del successo di una mafia rispetto a un’altra. Caso a parte è quello delle bande di camorra napoletana».
E la camorra come si sta ristrutturando?
«L’ascesa della ‘ndrangheta tra le principali criminalità del mondo va considerata come un successo di una colonizzazione avvenuta a ridosso delle aree storiche di emigrazione dei calabresi. Per la camorra, invece, il processo di “nazionalizzazione” e “internazionalizzazione” non sembra legato alla riproduzione di un proprio modello tra gli emigrati napoletani o campani in Italia e nel mondo.
I calabresi riproducono all’estero o nel Nord dell’Italia il modello delle ‘ndrine. La camorra non esporta un suo modello organizzativo né un modello di vita, ma solo criminali in affari che si stanziano nei posti strategici della produzione e delle rotte del narcotraffico o in ogni luogo dove è possibile fare investimenti, smerciare prodotti contraffatti, senza seguire necessariamente le rotte dell’emigrazione napoletana e campana. La camorra, dunque, esporta camorristi, la ‘ndrangheta trapianta un suo modello criminale fuori dalla sua zona di origine».
Cosa nostra assume oggi una posizione defilata?
«Il ridimensionamento internazionale di Cosa nostra (ridimensionamento, si badi, non sconfitta) è stato confermato nel 2014 quando un’indagine della Procura di Reggio Calabria ha dimostrato che Cosa nostra americana, per un cinquantennio principale partner della mafia siciliana, preferiva avere rapporti con la ‘ndrangheta piuttosto che con la sua consorella sicula. E un’altra indagine ha accertato che la mafia siciliana è costretta a comprare la droga dalla ‘ndrangheta perché non è più in grado di approvvigionarsi da sola sui mercati di produzione».
Possiamo definire una gerarchia criminale tra le tre grandi strutture meridionali?
«Nel cambio di gerarchia all’interno della criminalità italiana hanno operato più fattori. Ma quello essenziale riguarda la perdita da parte di Cosa nostra del controllo del mercato delle sostanze stupefacenti. In particolare, quello dell’eroina. Questa caduta di ruolo comincia a manifestarsi a metà degli anni ’90 con l’aumento esponenziale della domanda di cocaina. Al contempo, a causa dell’alto numero di morti e del conseguente allarme della pubblica opinione, si registra la flessione di quella di eroina, droga in cui si era specializzata Cosa nostra grazie ai rapporti storici con la mafia negli USA.
Sempre in quel periodo, l’azione dello Stato si fa più dura in Sicilia dopo l’uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino. È in questo momento storico che camorristi e ‘ndranghetisti vanno ad occupare il vuoto lasciato da Cosa nostra. Si propongono come interlocutori privilegiati di numerosi gruppi criminali internazionali, a partire dai narcotrafficanti del Sud America, area produttrice di tutta la cocaina del globo. Se la ‘ndrangheta godrà nel mondo criminale del prestigio di chi paga sulla parola e rispetta i patti grazie alle grandi disponibilità economiche e alla drastica punizione di chi sgarra, la camorra riesce a “democratizzare” il consumo della cocaina, mettendo a disposizione vaste aree di spaccio controllate militarmente, prezzi bassi, facilità di approvvigionamento e rifornimento di altre piazze di smercio in Italia».
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