Autore: Pietro Spirito

  • Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

    Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

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    L’armatore Mario Mattioli inizia a lavorare nei primi ’80 nelle aziende di famiglia legate al Gruppo Cafiero Mattioli, dove ricopre numerosi incarichi, fino all’attuale presidenza di Ca.Fi.Ma. Cafiero Mattioli Finanziaria Spa.

    Per venti anni è stato membro del Consiglio confederale e del Comitato esecutivo di Confitarma-Confederazione Italiana Armatori.

    Dall’11 ottobre 2017 è presidente di Confitarma. Inoltre, è stato presidente di Assorimorchiatori. È inoltre vicepresidente dell’Accademia italiana della Marina mercantile, vicepresidente dell’Unione industriali Napoli con delega per la Formazione e il Centro studi.

    Siamo bombardati dalle notizie di guerra in Ucraina. Che caratteristiche presenta questo conflitto, visto dal mare? Come cambierà le nostre vite?

    «Le notizie che arrivano dai teatri di guerra sono sempre raccapriccianti. E guardare a questo conflitto dal mare non tranquillizza. La guerra in Ucraina e le relative sanzioni che Usa ed Europa stanno imponendo alla Russia aumenteranno la pressione sul commercio globale. L’interruzione dei traffici marittimi in queste aree si ripercuote sulle catene logistiche internazionali, con gravi conseguenze per vasti settori dell’industria che dipendono da tutte le importazioni e non solo da gas e petrolio».

    La guerra evidenzia la necessità di una transizione energetica più accelerata rispetto a quanto credevamo necessario. Quale contributo può dare l’economia marittima al ridisegno del sistema energetico nazionale?

    «La guerra ha imposto l’attuazione repentina della transizione energetica. Tuttavia, questa transizione è in corso da tempo nei trasporti marittimi. I dati dimostrano quanto lo shipping mondiale sia impegnato nella decarbonizzazione. In particolare a raggiungere la riduzione di Co2 decisa dall’Imo, che prevede entro il 2050 la riduzione del 50% delle emissioni rispetto al 2008. Serve, però, un’azione condivisa a livello internazionale, per evitare che interventi di diversa tipologia (e quindi con diversi impatti) adottati dai singoli Paesi danneggino la competitività.

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    Un’immagine della guerra in Ucraina

    Per lo shipping la partita si giocherà con l’individuazione di fonti del nuovo green fuel a cominciare dallo sviluppo delle reti di distribuzione e rifornimento. Ma per rendere concreta la transizione ecologica occorrono ricerca e sviluppo, strumenti finanziari adeguati e, soprattutto, occorre sapere che i tempi non sono così immediati come invece appare dai tanti slogan sul tema.

    La transizione è ineludibile, ma il governo ci deve sostenere. Le azioni e le proposte che potrebbero dare slancio al nostro Paese partono da un assunto semplice, che gli armatori ribadiscono con forza: rimettere il mare al centro. Confitarma si prepara così alle numerose sfide del settore, specie quelle che ci impegneranno nella rotta verso l’impatto zero».

    La globalizzazione è sorta dall’economia marittima e dalle rotte transcontinentali, che hanno generato il decentramento produttivo spinto. Sarà così anche nei prossimi decenni, oppure assisteremo a un ripiegamento della globalizzazione su scala macro regionale?

     «Il trasporto marittimo ha dato prova del suo ruolo strategico di garanzia alla continuità delle catene di approvvigionamento globale durante la pandemia. Anche di recente, ha consentito il regolare flusso delle merci e dell’energia da cui dipendiamo. Basti pensare che in Italia, in pieno lockdown (cioè nel 2020) il Covid ha colpito più il fatturato delle aziende con una flessione media del 20/25%, che la consistenza della flotta di bandiera che mantiene la sua posizione nella graduatoria mondiale con circa 14,5 milioni di gt. Quindi non credo che assisteremo ad una totale “regionalizzazione” della globalizzazione. Credo, tuttavia, che per alcune commodity strategiche i singoli Stati cercheranno di dipendere sempre meno dall’estero».

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    La nave Sky Lady del Gruppo Cafiero Mattioli

    Quale politica marittima dovrebbe esprimere l’Europa per essere attore delle trasformazioni globali? Quale sarebbe il ruolo del Mediterraneo in questo scenario?

     «Credo che Draghi nella sua recente visita al Parlamento abbia spiegato benissimo cosa è la politica europea del futuro. Innanzitutto, occorre maggiore attenzione al Mediterraneo, data la sua funzione di ponte verso l’Africa e il Medio Oriente. Non possiamo guardare al Mediterraneo solo come a un confine, su cui ergere barriere. Sul Mediterraneo si affacciano molti Paesi giovani, pronti a infondere il proprio entusiasmo nel rapporto con l’Europa. L’Ue deve costruire con i Paesi mediterranei, come dice Draghi, “un reale partenariato non solo economico, ma anche politico e sociale. Il Mediterraneo deve essere un polo di pace, di prosperità, di progresso”. Soprattutto nella politica energetica, i paesi del Mediterraneo possono giocare un ruolo fondamentale per il futuro dell’Europa. Specie se si considerano la posizione strategica del Mezzogiorno e la sua esigenza di sviluppo. Ciò è tanto più valido a seguito della guerra in Ucraina, che ha mostrato la forte dipendenza di molti paesi dalla Russia. In primis l’Italia, che importa circa il 40% del gas naturale dalla Russia».

    Joe Biden ha emanato a fine febbraio un ordine presidenziale con cui ha invitato le istituzioni di governo a regolamentare l’eccessivo potere di mercato delle tre grandi Alleanze nel settore del trasporto dei containers. L’Europa, invece, consente sino al 2024, grazie alla regola di eccezione (exemption rule), non solo la legittimità delle tre Alleanze, ma anche un carico fiscale molto vantaggioso, con un onere pari al 7%. Perché questa asimmetria forte tra il regolatore americano ed il regolatore europeo?

     «Purtroppo, lo scenario dei mercati mondiali è stato sconvolto dalla pandemia, iniziata circa due anni fa. Sono molte le situazioni critiche venutesi a creare, come dimostra la congestione nel porto di Shanghai, che ripropone problematiche vissute nel marzo 2021. Mi riferisco all’incidente della Ever Given nel Canale di Suez, che portò alla ribalta l’importanza del settore marittimo nei rifornimenti e la complessità delle catene di approvvigionamento globali.

    Siamo di fronte ad eventi inaspettati che incidono su un sistema equilibrato su cui tutti facevamo affidamento, e che sono strettamente connessi al rialzo dei prezzi di varie commodity e ai colli di bottiglia in alcune catene globali.

    Joe Biden, il presidente Usa

    Inoltre, la grave situazione dell’Ucraina innesca, oltre alle devastanti conseguenze umanitarie, ulteriori tensioni con evidenti impatti sull’attività economica mondiale, al momento ancora difficili da quantificare. L’aumento del costo del trasporto nel settore dei contenitori incide anche sull’inflazione: è chiaro che la legge del mercato determina situazioni in cui c’è chi guadagna e chi perde. Di fatto, le decisioni di Usa o Ue sono decisioni politiche. L’auspicio è che non si creino nuove problematiche per la logistica, già fortemente colpita dagli eventi straordinari degli ultimi anni».

    Quale impatto avrà il Pnrr sul mondo marittimo, nazionale ed europeo? C’è una visione per gestire le transizioni imminenti, oppure ci portiamo ancora dietro i fardelli del passato senza riuscire a determinare la necessaria discontinuità?

     «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione irripetibile di rinascita e crescita del sistema economico nazionale ma necessita di una strategia orientata verso il mare che assicuri lo sviluppo di un sistema di collegamenti adeguato, con particolare attenzione alla transizione ecologica e digitale. Numerosi nostri partner europei, attraverso i fondi stanziati dal Next Generation Eu, investono risorse pubbliche per sostenere gli ulteriori importanti passi che le aziende del settore marittimo saranno chiamate ad effettuare sulla via della transizione ecologica.

    Di fatto, a fronte di investimenti di decine di miliardi di euro che gli armatori italiani continuano a fare per mantenere e incrementare elevate performance, l’industria armatoriale non sembra essere percepita come risorsa prioritaria del Paese. Il Fondo complementare al Pnrr, che mira a rendere le nostre navi più green, stanzia circa 500 milioni di euro. Qualora fosse un primo passo per verso il rinnovo green della flotta italiana, la partenza è buona. Ricordo però che, al momento rimane esclusa da questa misura una quota molto rilevante di navi appartenenti ad imprese radicate in Italia. Perciò servono altre iniziative. Anche in questo caso, credo che siano importanti sbocchi per i numerosi progetti che interessano lo sviluppo del Mezzogiorno».

    Un cantiere navale in attività

    Negli ultimi anni, gli interessi armatoriali in Italia si sono disarticolati. Sono nate, oltre a Confitarma, nuove associazioni datoriali. Perché si è determinata questa frammentazione? C’è possibilità che la frattura nel tempo si componga?

    «L’esistenza di rappresentanze diverse per gli stessi interessi è sempre un errore, anche nel caso degli armatori. Questo è ancora più vero in fasi storiche complesse, come la pandemia. Infatti, le divisioni, da un lato indeboliscono la categoria e, all’altro, confondono il regolatore politico che spesso “decide di non decidere”. Ad esempio, durante l’emergenza le due associazioni armatoriali hanno chiesto alla politica le stesse cose ma, per differenziarsi, lo hanno fatto in modi diversi. Il risultato è stato nullo. L’unità avrebbe creato un beneficio maggiore per le aziende di entrambe le associazioni».

     

     

  • Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

    Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

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    Marco Esposito è giornalista professionista di lungo corso. Già redattore economico di Milano Finanza e in forza a La Voce di Indro Montanelli, passa nel 1995 a Repubblica. Quindi, nel 2000, approda a Il Mattino di Napoli, dove guida la redazione economica.

    Insignito nel 2008 col premio Sele d’Oro per gli articoli sul federalismo fiscale, Esposito diventa nel 2009 responsabile delle Politiche per il Mezzogiorno di Italia dei valori. Entra nella giunta De Magistris nel 2011 come assessore alle attività produttive e vi resta fino al 2013, quando viene eletto segretario di Unione Mediterranea.

    Eposito torna al giornalismo nel 2015 e prosegue le inchieste sul federalismo fiscale. Nel 2018 pubblica con Rubbettino Zero al Sud. Due anni dopo esce per Piemme (Mondadori) Fake Sud. con prefazione di Alessandro Barbero.

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    La copertina di Fake Sud di Marco Esposito

    Il Piano nazionale ripresa e resilienza riprende due scenari: uno riguarda il “prima” dell’invasione russa, l’altro, ovviamente, il “dopo”. Cosa è cambiato? Quali saranno gli aspetti che dovranno essere manutenuti?

    «Il Pnrr è una risposta collettiva dei Paesi dell’Ue alla pandemia. Non era mai accaduto che si facesse debito comune. Forse un giorno scopriremo che questa reazione imprevista ha mandato all’aria i piani di chi, dall’esterno e dall’interno, puntava a destabilizzare l’Ue. Mi auguro che l’invasione russa e lo scontro sul gas portino una continuità strategica: solo le risposte collettive possono essere efficaci, appunto».

    Il Piano sembra rivolto essenzialmente al passato, ma pare privo di una visione strategica che proietti l’Italia, ed il Mezzogiorno in particolare, verso il futuro. Come si può correggere questa impostazione?

    «Un Paese sano ha grandi sogni e risorse per forza di cose limitate. I primi indicano la direzione di marcia e i secondi dettano in concreto i tempi di realizzazione. L’Italia però era, da tempo, un Paese malato, privo di sogni e quindi di grandi progetti. Così, lo ha denunciato il Parlamento europeo, nel Pnrr ci siamo impegnati soprattutto a “reimpacchettare” (non a caso, si è usato il termine “repackaging”) vecchi progetti, senza reale valore aggiunto. Correggere in corsa è difficile. Però credo che la crisi internazionale aperta dalla Russia spingerà l’Europa a rivedere il Pnrr, dilatandone i tempi rispetto al termine del 30 giugno 2026 e accelerando sull’innovazione energetica e digitale, con un occhio particolare alla sfida della comunicazione globale. Il Mezzogiorno italiano può essere protagonista in entrambi campi».

    Una metafora per il Sud: gli spagnoli sottomettono gli Incas
    Si parla del Mezzogiorno per conservarlo in naftalina. Il comportamento è simile a quello degli Spagnoli con gli Incas: chincaglieria in cambio le risorse del territorio. Stavolta lo specchietto per le allodole è nella riserva del 40% dei fondi. Come si può ribaltare questo apparecchio francamente irritante?

    «Prodi diceva che la regola europea del 3% per il deficit era stupida come lo sono tutte le regole rigide. Anche il 40% è stupido. Tuttavia credo che l’assenza di una soglia avrebbe portato risultati peggiori. Il punto è che a noi meridionali non dovrebbe importare di “quanti soldi” arrivano. Invece  dovremmo pretendere uguali diritti di cittadinanza: asili nido, tempo pieno a scuola, trasporti, sanità, assistenza sociale. Questi diritti non possono mutare in base alla residenza. Nel 2022 abbiamo assegnato un fabbisogno standard per i servizi di istruzione pubblica del 4,9% del totale nazionale al Comune di Milano e del 2,1% al Comune di Napoli, ma Napoli non è meno della metà di Milano e i suoi studenti non dovrebbero avere “per legge” meno diritto al tempo pieno o al trasporto scolastico. Per cambiare questo stato di cose dovremmo indignarci. Lo abbiamo fatto, nel 2018, contro gli zeri per gli asili nido e nel giro di un anno quegli zeri li hanno dovuti cancellare».

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    Asili nido: uno dei problemi del Sud secondo Esposito
    La formula magica, è: i bandi “competitivi”. Ma come si possono mettere a gara tra le istituzioni i diritti dei cittadini? Dove si è smarrito il senso della nostra Costituzione?

    «La logica dei diritti messi a bando tra territori è agghiacciante. Chi vorrebbe vivere in un paese che mette a bando i Pronto soccorso e poi trovarsi in un posto che ne resta privo perché magari l’Azienda sanitaria locale non si è attivata? E allora come si può accettare di costruire un asilo nido o una palestra scolastica in base all’abilità del Comune di presentare la domanda? Non capire la differenza tra il bando (necessario) per stabilire quale impresa debba costruire l’asilo nido e il bando (insensato) per decidere in quale posto è utile aprire il servizio è segno di pochezza di tutta la classe dirigente. Al riguardo, non ho visto finora una reazione sufficiente da parte di sindacati, associazioni di genitori e quella che definiamo “società civile”».

    Nella esecuzione degli investimenti del Pnrr si ripresentano i nodi mai risolti di un federalismo sgangherato. Quanto sta pagando il Mezzogiorno questa struttura istituzionale neofeudale che proprio al Sud dà il peggio?

    «Il Sud paga da sempre l’incapacità di fare squadra. Il federalismo, per quanto sgangherato, può essere governato se gli enti locali con interessi simili – Regioni, Città metropolitane, Comuni – comprendono l’importanza di operare insieme. Lo fanno con efficacia – è noto – tre Regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che nella loro storia non hanno mai avuto un identico indirizzo politico. Le regioni del Mezzogiorno non lo hanno fatto mai, neppure quando tutti i presidenti appartenevano al medesimo partito. Michele Emiliano, presidente della Puglia, mi raccontò che in occasione di una Fiera del Levante aveva invitato tutti i colleghi meridionali per aprire un ragionamento comune. Ma dalla sede romana del Pd arrivarono telefonate ai singoli presidenti per invitarli a disertare».

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    Michele Emiliano, il presidente della Puglia
    Non esiste un Mezzogiorno: ce ne sono tanti, con problemi convergenti ma con un tasso di complessità spesso differente. Come può il Pnrr affrontare questo mezzogiorno “plurale”?

    «Questa storia dei tanti Sud, devo dire, non mi ha mai convinto. E’ ovvio che il Meridione non è tutto uguale. Forse è tutta uguale la Lombardia? O la Baviera? Il punto è che in statistiche fondamentali come il tasso di occupazione nella fascia di età 20-64 anni su 286 regioni europee le ultime quattro sono Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Ciò vuol dire che non in Italia ma in Europa c’è un gigantesco problema che riguarda un territorio che ha quasi il doppio degli abitanti della Svezia».

    Il Mezzogiorno vive un declino demografico accelerato, dovuto al calo della natalità, alla ripresa dell’emigrazione dei giovani e alla scarsa attrattività verso gli immigrati. Il Pnrr affronta questo problema che potrebbe cambiare radicalmente, tra qualche decennio, il panorama sociale dei territori meridionali?

    «Il Pnrr non solo non affronta il problema ma, addirittura, in alcuni bandi si dà per scontato che il declino demografico debba continuare. E si prende come riferimento non la popolazione del 2021 o, al limite, quella stimata al 2026 ma addirittura quella prevista dall’Istat per il 2035 nell’ipotesi che i flussi migratori restino stabili. Il che avverrebbe se il Pnrr non incidesse per nulla sulle opportunità a disposizione nei diversi territori. Ciò vuol dire che il Piano postula il suo fallimento. Detto questo, occorre capire che quella demografica è “la” sfida dell’intera Europa e la si vince se le nostre università diverranno attrattive per giovani di tutto il mondo. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, c’è stato il problema delle centinaia di studenti universitari indiani che dovevano lasciare le università di quel Paese. Il Mezzogiorno vincerà la sua sfida quando i giovani di qualsiasi paese del mondo penseranno che non c’è nulla di meglio per il proprio futuro di trascorrere gli anni di formazione in atenei prestigiosi e pronti ad accoglierli: Napoli, Bari, Cosenza, Palermo e così via».

    L’Università della Calabria
    Le organizzazioni criminali condizionano da sempre il funzionamento delle società meridionali. Quanto è elevato il rischio che questi soggetti si impadroniscano delle leve che governano gli investimenti del Pnrr per consolidare il loro potere?

    «L’interesse di organizzazioni criminali a intercettare flussi di risorse pubbliche non è un rischio ma una certezza. E non solo al Sud, come dimostrano le inchieste su appalti pilotati, dal Terzo Valico al Mose. L’attenzione quindi deve essere alta, senza però spingerci nell’errore di affondare Venezia perché qualcuno ha rubato sul Mose».

    Nella governance del Pnrr non pare emergere una piattaforma di comando e controllo in grado di contrastare l’inerzia di cui il Mezzogiorno è storicamente prigioniero. Potrebbe valere la pena di attivare la regola dei poteri sostitutivi quando emergono lentezze e ritardi delle istituzioni locali?

    «Se mettiamo al centro i cittadini, la risposta è ovvia. La Consulta è stata chiara nel chiedere allo Stato di definire i livelli essenziali delle prestazioni prima di attuare il Pnrr e la Costituzione lo è altrettanto nell’assegnare allo Stato poteri sostitutivi qualora i Lep non siano garantiti n tutto il territorio nazionale. Purtroppo la governance del Pnrr prevede poteri sostitutivi per l’ente locale che si assicura un progetto ma poi stenta a realizzarlo, non per l’ente locale che non si attiva affatto. Si può cambiare questa linea di marcia? Certo. Se ci convinciamo che è il tempo dell’ambizione, non della pigrizia».

  • Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

    Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

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    Oggi è consigliere comunale di Napoli, ma Antonio Bassolino ne è stato sindaco per due mandati consecutivi. Deputato alla Camera per due legislature nel gruppo PCI-PDS, poi ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel primo governo D’Alema, presidente della Regione Campania per due mandati di fila. Già esponente del PCI, del PDS e dei DS, è stato tra i fondatori del Partito Democratico, che ha in seguito abbandonato nel 2017.

    Viviamo tempi drammatici. Da due mesi, nel cuore dell’Europa è tornata la guerra, con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Cosa cambierà questo terribile conflitto nelle relazioni internazionali e nelle nostre vite?

    «L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è un fatto molto grave. Bisogna sempre usare un linguaggio di verità: siamo di fronte all’aggressione di un paese libero e sovrano da parte di un altro. Bisogna fare ogni sforzo perché si ponga fine al conflitto armato e si affermi la strada del negoziato e della pace. Più forte deve dunque essere il ruolo dell’Europa che proprio in questa tempesta ha di fronte a se stessa il compito di ripensare e rilanciare il suo ruolo e di cominciare finalmente a dare vita ad una propria e comune politica estera e di difesa».

    Palazzi devastati a Kharkiv

    Con la pandemia l’Europa ha impresso un passo di accelerazione, con la decisione di varare un programma di rilancio con risorse comuni, anche indebitandosi sul mercato finanziario. Stiamo cogliendo questa opportunità, come europei, come italiani e come meridionali?

    «Sulla pandemia l’Europa è riuscita ad andare oltre le politiche di austerità degli anni scorsi e a varare impegnativi programmi di investimenti sul terreno dello sviluppo e nel campo sociale. È un passo in avanti, ed ognuno deve fare la sua parte. Per un paese come il nostro, in particolare per il Mezzogiorno, è una grande opportunità. La sfida è tutta aperta ed è in corso. Dalla capacità delle istituzioni, delle forze politiche e sociali di saperne essere all’altezza dipende in gran parte il futuro del nostro paese».

    Ma il PNRR riesce a cogliere e ad esprimere tutte le esigenze di trasformazione che sono necessarie per il rilancio delle regioni meridionali?

    «È necessario considerare il PNRR assieme alle altre risorse europee e alle nostre scelte nazionali. Questo vale soprattutto per il nostro Sud. Saper utilizzare tutte le risorse disponibili è fondamentale anche per creare un ambiente favorevole all’attrazione e all’impegno di capitali imprenditoriali privati. Sono dunque indispensabili una piena collaborazione tra tutte le istituzioni nazionali, regionali e comunali e, aggiungo, un clima che consenta la nascita di un patto sociale e per lo sviluppo con le forze produttive e sindacali».

     

    Nella politica nazionale si sta manifestando quella maturità necessaria per comprendere che senza la ripresa del Mezzogiorno non potrà ripartire l’economia del nostro Paese?

    «Soltanto in parte, ed invece è proprio questa la questione fondamentale. È nel Mezzogiorno la principale chiave di volta per consentire a tutto il paese di fare il salto necessario valorizzando tante potenzialità ancora inespresse. È nel Nord che deve davvero e fino in fondo maturare questa convinzione: mai come ora è nei prossimi anni il destino del paese è legato da un filo unitario. Spetta poi a noi meridionali far crescere questa consapevolezza con l’esempio di buone pratiche istituzionali ed amministrative e stare attenti a non far diffondere illusioni sudiste perché noi abbiamo di sogno di un Nord forte così come il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte di quello di oggi».

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    Sono passati tre quarti di secolo dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Quanto hanno pesato nei decenni recenti la fine dell’intervento straordinario nel Sud e l’arretramento della industria pubblica nel ripiegamento delle regioni meridionali?

    «La Cassa per il Mezzogiorno ha avuto fasi diverse. All’inizio – e per tutto un periodo – è stata una scelta significativa, il tentativo di portare anche in Italia il meglio delle teorie e delle esperienze anglosassoni in materia di paesi in via di sviluppo.
    Fu così che si realizzarono interventi di rilievo nelle campagne e in molte città meridionali. E fu così che via via si affermava anche una industria pubblica. Poi però da fattore positivo la Cassa è andata via via cambiando negativamente nella sua funzione fino alla sua crisi e alla sua scomparsa.
    Resta oggi il tema di un necessario coordinamento tra il livello nazionale delle politiche per il Mezzogiorno e le istituzioni meridionali per superare il doppio rischio del centralismo e del localismo».

    Nel Mezzogiorno, ma ormai nell’intero Paese e nel mondo, si sono radicate le forze della criminalità organizzata, che hanno impresso il marchio del proprio potere economico e sociale nei nostri territori. Come possiamo tornare a combattere con decisione le forze criminali che condizionano ed inquinano anche la politica nei territori?

    «La mafia, la ‘ndrangheta e la camorra sono il nostro principale nemico, un nemico interno, che vive in mezzo a noi. Queste potenze criminali vivono dentro l’economia e la società e cercano sempre di penetrare nella vita delle istituzioni e dello Stato. È dunque su tutti i terreni che dobbiamo condurre questa battaglia: su quello politico-istituzionale e su quello culturale e civile. Una grande prova viene oggi dal PNRR e dagli altri finanziamenti: impedire alla mafia e alla camorra di metterci sopra le mani è determinante per costruire un nuovo futuro per le nostre terre».

    Quanto pesa nel malfunzionamento delle istituzioni un federalismo sbilenco che ha indebolito il governo centrale senza rafforzare quelli territoriali? Come si esce da questa frammentazione? Quanto può danneggiare il Mezzogiorno questa architettura istituzionale?

    «Durante la pandemia si è prodotto uno sbilanciamento nei rapporti tra le istituzioni: il governo nazionale e i comuni hanno deciso di non utilizzare pienamente i loro poteri e le Regioni hanno visto accrescere le loro responsabilità e funzioni.
    Si è trattato in gran parte di scelte che si sono rese necessarie per contrastare la diffusione e la pericolosità del Covid. Ora è tempo di ripristinare giusti rapporti tra le principali istituzioni (governo, regioni, comuni) e di puntare soprattutto sulla doverosa sinergia tra i poteri della Repubblica».

  • Delrio: «La durata della guerra dipende da noi. E basta con l’ideologia del mercato»

    Delrio: «La durata della guerra dipende da noi. E basta con l’ideologia del mercato»

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    Graziano Delrio rappresenta bene quel misto di concretezza e di valori che esprime la terra e la cultura emiliana. Nato a Reggio Emilia sessantadue anni fa, è deputato per il Pd dal 2018. Dei dem è stato anche capogruppo alla Camera dei deputati per i primi tre anni della legislatura corrente.
    Nella sua esperienza politica, il territorio ha sempre rappresentato una dimensione di primario rilievo, che ha però sempre unito ad una visione di carattere generale.

    È stato sindaco di Reggio Emilia dal 2004 al 2013, ricoprendo anche l’incarico di presidente dell’ANCI da ottobre 2011 ad aprile 2013. Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie nel governo Letta, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti dal 2015 al 2018, prima nel governo Renzi e poi riconfermato in carica nel governo Gentiloni. Nel governo Renzi ha rivestito anche la carica di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, prima della sua nomina a ministro.
    Lo incontriamo a Napoli, nel corso della presentazione del libro L’illusione liberista (Laterza) di Andrea Boitani.

    Quali riflessioni induce il volume di Andrea Boitani?

    «L’ideologia del mercato offusca i dati di realtà. Nuotiamo, ormai da decenni, inconsapevolmente in questo schema di pensiero, e non ci accorgiamo nemmeno più che si tratta di una costruzione ideologica. Abbiamo perduto la capacità di guardare criticamente ai guasti che questo approccio, non solo economico, ha causato, e sta causando, alla vita delle nostre comunità.

    Viviamo tempi di guerra: quali implicazioni e quali lezioni possiamo trarre dalle terribile tragedia ucraina?

    «Dobbiamo innanzitutto tornare a prendere su noi stessi il carico delle responsabilità. La durata della guerra dipende da noi, da nostri comportamenti, dalle idee che siamo in grado di mettere in campo, dal rifiuto della rassegnazione. Sentiamo dire in questi giorni che sarà un conflitto destinato a durare anni. Non possiamo accettarlo passivamente. Esistono forze certamente interessate alla lunga durata della guerra: i mercanti di armi, i nemici delle democrazie, i suscitatori di odio».

    Come possiamo riprendere il mano il nostro destino? Da quali temi occorre ripartire per restituire protagonismo alla politica?

    esercito-ue«L’aumento delle spese militari di ogni Paese è un obiettivo totalmente improduttivo, non risponde affatto alle logiche di difesa dei territori o di sostegno ai resistenti ucraini. Non ho votato per il 2% del Pil destinato alle spese militari. L’ho fatto perché responsabilità della politica è costruire coerenza tra strumenti e fini. Oggi il fine primario per noi è costruire gli Stati Uniti d’Europa, e quindi mettere in campo anche un esercito comunitario».

    Cosa cambia se si adotta questo angolo visuale sulle priorità?

    «Se si persegue questo obiettivo, lo strumento non può essere un aumento generalizzato delle spese militari, perché ci sarà da effettuare un enorme lavoro di razionalizzazione della spesa, che consentirà di disporre di un esercito maggiormente efficiente e tecnologico, con un minor dispendio di risorse economiche. Lo strumento militare deve essere orientato rispetto ai fini. Se non abbiamo chiarezza sui fini, tutto diventa confuso».

    Possiamo cercare di diradare almeno alcune delle ombre?

    «Lo scenario geopolitico è completamente cambiato, e non ce ne siamo accorti. Stiamo ancora subendo passivamente decisioni di altri, piuttosto che diventare padroni del nostro destino. Da diversi anni gli Stati Uniti stanno disimpegnandosi dallo scacchiere europeo, e chiedono continuamente un consistente aumento di spese militari da parte della Unione Europea».

    Quali sono le implicazioni di questo orientamento?

    «Dietro questa decisione c’è la volontà americana di smobilitare in questo quadrante per dedicare tutte le energie al contesto del Pacifico, al confronto con la Cina che è considerata la potenza emergente più pericolosa per l’egemonia statunitense. È questa la ragione che ha indotto gli USA a considerare la Russia come una potenza di media grandezza, suscitando un ritorno di fiamma del nazionalismo russo».

    Joe Biden e Xi Jinping

    Dove stanno le matrici ideologiche che inducono la Russia alla invasione della Ucraina?

    «Dietro a Putin c’è una ideologia non solo economica, ma anche religiosa. Trent’anni fa, un sacerdote ortodosso ucraino mi spiegò che la Russia ha sempre assorbito i mali del mondo: prima con Napoleone, poi con Hitler ed infine con l’ideologia tecno-economica. Dobbiamo stare attenti: la Russia è parte dell’Europa come l’Ucraina, l’immagine riflessa del nostro specchio. La sua anima resta collegata agli sviluppi della società occidentale».

    C’entra qualcosa il neoliberismo in tutto quello che sta accadendo?

    «Il mercato, da mezzo, è diventato fine. I prezzi non sostituiscono i valori morali. Se tutto diventa prezzo, o prestazione, i valori crollano, e si afferma il relativismo basato sul perseguimento della utilità privata. Nella storia delle idee il primato della sfera collettiva era chiaramente definito.
    Per Aristotele, l’obiettivo era la ricerca della felicità per la città, oggi la felicità è diventata la ricerca della massima utilità individuale. Abbiamo messo al centro della nostra vita sociale l’homo oeconomicus, non più l’homo sapiens. La differenza è abissale: mentre per il primo funziona solo il meccanismo della competizione sfrenata guidata dall’interesse proprio, per il secondo la comunità funziona con il meccanismo della cooperazione».

    Come possiamo riequilibrare le distorsioni che l’ideologia neoliberista ha determinato nel tessuto delle nostre società?

    «Il mercato ed il capitalismo non vivono senza regole e senza istituzioni. Ce ne siamo accorti che le crisi finanziarie ed economiche che si sono susseguite dal 2007 in avanti, sino ad arrivare poi alla pandemia ed alla guerra. Ora siamo ad un bivio nel quale la politica deve riprendere la sua responsabilità. Sono i valori civili, morali e costituzionali quelli che determinano la qualità della vita collettiva».

    Come la politica può lanciare la sfida al mercato senza regole che distrugge valore e valori?

    «Dobbiamo tornare a creare legami di comunità e di fiducia, che in realtà servono al mercato ed anche alla società. Gli studi antropologici, da Lévi-Strauss a Marcel Mauss, dimostrano che i gesti di gratuità hanno formato la nostra comunità. Il mercato deve tornare entro il perimetro in cui funziona, accettando le regole di funzionamento che le istituzioni devono sempre presidiare con grande attenzione».

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    Claude Lévi-Strauss

    Quale ruolo deve svolgere lo Stato in questo ridisegno della responsabilità nella politica?

    «Lo Stato deve essere non solo l’arbitro del mercato, per evitare che gli individualismi esasperati costruiscano diseguaglianze intollerabili e monopoli prepotenti. Le istituzioni debbono porre anche le premesse dello sviluppo attraverso la programmazione e la definizione delle rotte lungo le quali debbono dispiegarsi gli strumenti della cooperazione e della fiducia».

    Quanto ha giocato, nella storia recente del nostro Paese, un regionalismo sghembo, che ha reclamato poteri senza assumersi responsabilità, oltretutto dispiegando sui territori una offerta di servizi sociali ad alto tasso di variabilità?

    «Il valore dell’autonomia non è in discussione. Autonomia però significa responsabilità maggiori e vicinanza in un quadro di diritti esigibili comuni a tutti i territori. Non anarchia e inefficienza».

    Perché non ha funzionato l’istituzione della città metropolitana, che pure coglieva l’esigenza di offrire maggiori strumenti di governance alle aree vaste che si erano sviluppate attorno alle principali città del nostro Paese? Alla legge Delrio serviva anche un sistema di elezione diretta del sindaco metropolitano, oppure serviva anche altro ?

    «Dopo 40 anni di discussione la legge istitutiva delle città metropolitane è arrivata. Prevedeva già la possibilità delle elezione diretta. Perché le leggi abbiano effetto bisogna crederci, e continuare a lavorarci in spirito cooperativo e non competitivo fra i comuni».

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    Le città metropolitane d’Italia

    Quando il Mezzogiorno è cresciuto più del resto del Paese, c’è stato – tra metà degli anni Cinquanta ed inizio degli anni Settanta del secolo passato – il miracolo economico italiano. Poi, con la riapertura della forbice delle diseguaglianze territoriali, il calabrone italiano ha smesso di volare, è il declino è diventata la nuova parabola italiana. Come possiamo far tornare il Mezzogiorno un protagonista della ripresa civile ed economica del nostro Paese?

    «Sono convinto che il Mezzogiorno sia il vero motore per uno sviluppo duraturo del nostro Paese. La scommessa si vince nel rafforzamento delle istituzioni pubbliche a partire da scuola ed università. Un sistema sanitario efficace e vicino, è prerequisito allo sviluppo dell’impresa sostenibile che anche al Sud può giocare con i nuovi fondi del Next Generation un ruolo propulsivo al benessere dei territori.
    Va fermato subito l’esodo del capitale umano. I tanti giovani che emigrano devono poter trovare un sistema, anche pubblico, forte, che offra loro opportunità per una vita dignitosa».

  • Gioia Tauro: alla ricerca del rigassificatore perduto

    Gioia Tauro: alla ricerca del rigassificatore perduto

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    Sono passati diciassette anni da quando è cominciata la storia del rigassificatore a Gioia Tauro. Lo scenario geopolitico e geostrategico intanto è cambiato completamente: abbiamo attraversato tre crisi economiche mondiali, è venuta la pandemia. La Russia, da ultimo, dopo essersi impadronita della Crimea nel 2014, ha invaso nel 2022 l’Ucraina.
    A Gioia Tauro non è successo intanto assolutamente nulla, se non una lunghissima storia italiana di ordinaria burocrazia. Eppure, sarebbe stato strategico realizzare questo investimento per una nuova infrastruttura energetica, nell’interesse della Calabria e dell’Italia.

    Un investimento da un miliardo di euro è rimasto nel congelatore delle decisioni perdute, per realizzare un impianto adeguato a gestire 12 miliardi di metri cubi di gas rispetto agli 80 miliardi che l’Italia consuma ogni anno. Intanto, ancora oggi, l’impianto di Gioia Tauro attende la dichiarazione di strategicità da parte dello Stato. Serviranno poi quattro anni per poter costruire il rigassificatore.

    Le forniture russe e il ricatto di Putin

    Persiste ancora oggi la nostra dipendenza energetica dalle fonti fossili, in buona parte dal gas russo. Dobbiamo, però, modificare comunque l’assetto energetico per far fronte alla emergenza climatica. Dopo quasi quattro lustri di perdite di tempo, ci accorgiamo di quello che non abbiamo fatto. Da quasi dieci anni la realizzazione dell’impianto di Gioia Tauro è sospesa da un decreto del governo.

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    Vladimir Putin

    Improvvisamente, la guerra in Ucraina ci ha risvegliati dal lungo sonno energetico. Disporre di impianti per fonti alternative sarebbe oggi indispensabile, soprattutto nel Mezzogiorno. Ed invece ci siamo fatti trovare impreparati nel momento del bisogno, quando oggi servirebbe non stare sotto il ricatto di Putin. Le nuove infrastrutture per l’energia sono largamente inadeguate, in particolare nel Mezzogiorno.

    Da gas a liquido e viceversa

    Una delle strade per diversificare le fonti energetiche è quella di ricorrere al gas naturale liquefatto. In assenza di gasdotti, il gas naturale liquefatto si può trasportare su apposite navi metaniere. Questa tecnica consente di occupare un volume circa 600 volte inferiore: una metaniera può trasportarne una quantità molto maggiore. Il trasporto via nave, dunque, ha bisogno di impianti per la trasformazione del gas allo stato liquido nel punto di partenza (quindi impianti che lo raffreddano e comprimono) e di rigassificatori nel punto di arrivo.

    Il GNL si trasporta nelle navi a pressione poco superiore a quella atmosferica e a una temperatura di -162 °C. Nei rigassificatori torna allo stato originario grazie a un processo di riscaldamento controllato all’interno di un vaporizzatore, che ha un volume adeguato per permettere l’espansione del gas. Il riscaldamento avviene facendo passare il GNL all’interno di tubi immersi in acqua marina, che ha chiaramente una temperatura più alta. Una volta tornato com’era prima, il gas si può immettere nei gasdotti di un territorio, per poi distribuirlo nelle case e impiegare nelle centrali elettriche per la produzione di energia.

    Un rigassificatore al Sud ancora non c’è

    I rigassificatori italiani attualmente in uso sono tre strutture diverse tra loro. Sono tutti al Nord. Il più grande è il Terminale GNL Adriatico, ed è un impianto offshore: un’isola artificiale che si trova in mare al largo di Porto Viro, in provincia di Rovigo, e ha una capacità di produzione annuale di 8 miliardi di metri cubi di gas.

    Anche nel mar Tirreno, al largo della costa tra Livorno e Pisa, c’è un rigassificatore offshore: è una nave metaniera che è stata modificata e ancorata in modo permanente al fondale e immette gas in rete dal 2013. Ha una capacità di 3,75 miliardi di metri cubi annuali.

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    L’impianto onshore di Panigaglia

    Il terzo rigassificatore in funzione è invece una struttura onshore, cioè sulla terraferma, e si trova a Panigaglia, in provincia di La Spezia. È il primo rigassificatore mai costruito in Italia (risale agli anni Settanta), ha una capacità annuale di 3,5 miliardi di metri cubi.
    La capacità complessiva dei tre rigassificatori non sarebbe da sola sufficiente a permettere l’immissione nella rete italiana di una quantità di gas pari a quella che negli ultimi anni è stata importata dalla Russia (29 miliardi di metri cubi di gas nel 2021).

    Un’alternativa alla Russia

    Nell’ottica di diminuire la dipendenza energetica dalla Russia, però, il governo vorrebbe ora sia sfruttare di più i rigassificatori sia aumentare le importazioni tramite gasdotti dai paesi da cui oggi l’Italia già si rifornisce: ad esempio dall’Algeria, attraverso il TransMed, e dall’Azerbaigian, attraverso il Trans-Adriatico, o TAP.

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    Come il gas arriva in Italia tramite il TAP

    Il governo ha incaricato – per questa ragione – Snam ed Eni, la più grande azienda petrolifera italiana, di trovare una o due metaniere da trasformare in floating storage regasification unit (nel gergo tecnico il rigassificatore si chiama così, o con la sigla FSRU), strutture simili a quella al largo di Livorno e Pisa che possano trattare 5 o 6 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Non si sa ancora nulla di dove saranno eventualmente collocati gli impianti.

    Gioia Tauro e Porto Empedocle: impianti nel limbo

    In questo contesto si è riparlato anche di due progetti per la costruzione di nuovi rigassificatori bloccati da anni. Uno riguarda Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, l’altro Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Il primo progetto era stato inizialmente presentato nel 2004, ma – dopo varie vicissitudini burocratiche – il Comune di Agrigento aveva interrotto la realizzazione del gasdotto che sarebbe stato collegato all’impianto. I rischi sull’ambiente e per i possibili danni ai siti archeologici nello scavo del condotto erano stati giudicati troppo alti. A febbraio, però, il Tribunale amministrativo regionale di Palermo ha respinto il ricorso del Comune e ora, almeno teoricamente, il gasdotto si potrebbe costruire.

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    Porto Empedocle e Gioia Tauro sono i luoghi ipotizzati per realizzare un rigassificatore al Sud

    Non è detto però che il rigassificatore di Porto Empedocle si farà, e in tempi brevi. Il comune di Agrigento può fare appello al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia (CGARS) contro la decisione del Tar.
    Per quanto riguarda il progetto di Gioia Tauro, avviato nel 2005, è stato sospeso dal 2013. Il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili Enrico Giovannini ha ora detto che si potrebbe riprendere in considerazione. E Roberto Occhiuto da Dubai soltanto pochi giorni fa ha insistito sulla necessità che il Governo acceleri le procedure per realizzarlo. Certo, stupisce che è dovuta giungere la crisi energetica derivante dalla guerra ucraina per ripescare dagli archivi un progetto industriale stagionato.

    Zes, rigassificatore ed energia

    È l’ennesima riprova che manca completamente l’adeguata considerazione verso il futuro del Mezzogiorno. Dei tre rigassificatori operativi, nessuno è collocato ai Sud. I due progetti meridionali sono rimasti nei cassetti per tentare di recuperarli in extremis, ma comunque non entro un raggio di azione capace di dare un apporto concreto nel percorso critico di costruzione della autonomia energetica dell’Italia rispetto al gas russo.

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    Container nel porto di Gioia Tauro

    Nella stessa costruzione delle zone economiche speciali si è esclusa la possibilità di includere gli investimenti nel settore dell’energia all’interno del perimetro delle attività agevolate, anche dai punti di vista delle norme di semplificazione. Eppure, la centralità dei porti nelle Zes avrebbe dovuto indurre a comprendere il settore energetico nel programma di sviluppo economico dei territori portali.

    Vedremo quello che accadrà sul rigassificatore di Gioia Tauro. Andrebbe tenuto accesso il riflettore su questo caso, per evitare che l’improvviso risveglio di un progetto possa durare solo lo spazio di un mattino, per tornare nei sonnacchiosi cassetti della burocrazia nazionale e locale. Il futuro della Calabria e del Mezzogiorno passa anche dalle infrastrutture energetiche.

  • Vecchi, soli e senza figli: ecco le famiglie calabresi oggi

    Vecchi, soli e senza figli: ecco le famiglie calabresi oggi

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    Rispetto al Censimento del 2011, in linea con l’andamento negli ultimi decenni, le famiglie italiane sono aumentate nel 2019 di 1,2 milioni di unità (+5,0%), passando da 24,6 a 25,8 milioni; considerando gli ultimi 50 anni, l’aumento è di quasi 10 milioni (15.981.177 nel 1971).
    Le famiglie aumentano, ma sono sempre più piccole. Il numero medio di componenti, infatti, scende da 3,35 del 1971 a 2,29 del 2019. Nelle regioni del Sud, dove le famiglie sono storicamente più numerose, il valore si attesta a 2,5 componenti, ma erano 3,75 nei primi anni Settanta e 2,92 all’inizio del nuovo millennio.
    Le profonde trasformazioni economiche e sociali che hanno interessato l’Italia nel corso di mezzo secolo, il calo delle nascite, il progressivo invecchiamento della popolazione e il consistente ingresso di cittadini stranieri hanno contribuito al forte ridimensionamento della numerosità dei componenti nel nucleo familiare.

    Italiani sempre più soli

    A crescere sono soprattutto le famiglie unipersonali, pari a 9,1 milioni nel 2019, contro il 12,9% del 1971. In altri termini, vive da solo circa il 15% degli individui abitualmente dimoranti in Italia.
    Dentro la rete della famiglia allargata venivano erogati servizi di assistenza e di solidarietà che si stanno trasformando in meccanismi di mercato: pensiamo alla crescita esponenziale delle badanti per gli anziani o alle baby sitter per i bambini. Il grande assente di questa trasformazione è stato l’apparato pubblico, che ha congelato una struttura dei servii sociali costruita nell’Italia del miracolo economico, in uno scenario radicalmente differente.

    Più asili nido e più assistenza agli anziani

    Questo profondo rivolgimento nella struttura sociale della famiglia dovrebbe condurre ad un ripensamento nel modello di offerta dei servizi collettivi: aumenta la necessità di servizi di assistenza alla persona, che prima erano svolti all’interno della famiglia allargata, capace di stare al fianco degli anziani e dei bambini, che vivevano spesso sotto lo stesso tetto, creando una rete di servizi incrociati sottratti al mercato ed allo Stato.
    Servono ora invece più asili nido e più servizi domiciliari di assistenza per gli anziani non autosufficienti. Il mutamento nella struttura demografica della piramide sociale determinerà un numero tendenzialmente inferiore di allievi nelle scuole secondarie, mentre imporrà l’infittimento dei servizi di assistenza sanitaria alle persone con età crescente.

    Nurse consoling senior woman holding her hand

    Niente più famiglie numerose

    Alla crescita delle famiglie unipersonali si affianca la diminuzione nel corso del tempo di quelle più numerose. Nel 1971 le famiglie formate da cinque componenti o più erano 3,4 milioni e rappresentavano il 21,5% del totale delle famiglie residenti. Nel 2019 se ne contano solo 1,3 milioni, e costituiscono poco più del 5% delle famiglie censite.
    Anche nel 2019 la percentuale più elevata di queste famiglie si rileva nelle regioni dell’Italia meridionale (6,9%) e insulare (5,5%) a cui si contrappongono incidenze inferiori alla media nazionale (5,1%) nelle ripartizioni Nord-occidentale (4,1%), Nord-orientale (4,9%) e del Centro (4,6%). Decisamente più marcate erano le disuguaglianze nel 1971, quando nel Sud della Penisola quasi una famiglia su tre (31,2%) era formata da almeno cinque persone, mentre nel Nord-ovest queste erano meno del 14% del totale.

    La crescita a due velocità delle famiglie

    In Calabria le famiglie sono 796.780 nel 2019, rispetto a 772.977 nel 2011, con un aumento di 23.803 unità familiari nel periodo, pari al 3,1%, un valore significativamente più basso di quello nazionale (5%). Il valore medio dei componenti risulta nel 2019 di 2,37 in Calabria, molto vicino ormai al valore nazionale (2,29), mentre nel 2011 l’indicatore era pari in Calabria a 2,53.
    In vent’anni, tra il 2001 ed il 2021, la popolazione calabrese è diminuita complessivamente del 7,4%. Ma, soprattutto, è cambiato profondamente il mix della piramide demografica: si è assottigliata fortemente la presenza delle fasce giovanili, mentre è cresciuto drammaticamente il peso della popolazione anziana.

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    Le famiglie italiane hanno sempre meno figli

    Aumenta l’età media in Calabria

    La fascia oltre i 65 anni è passata in Calabria dal 17,1% del 2001 al 22,9% del 2021. Nelle classi tra 55 e 64 anni di età si aggiunge un altro 17,5%. I calabresi con oltre 55 anni di età rappresentano il 40,4% del totale della popolazione. L’età media è passata in Calabria da 32,6 del 2001 a 45,2 anni oggi.
    L’invecchiamento della popolazione richiede una struttura completamente differente dei servizi sociali, molto più attenta alla medicina di territorio ed all’assistenza domiciliare, se si vuole evitare che l’ospedalizzazione della sanità determini un incremento insostenibile di costi ed una condizione estraniante per le persone.

    Un terzo delle famiglie a Reggio è unipersonale

    Il baricentro delle necessità, per quanto riguarda la Calabria, deve focalizzarsi dunque principalmente sul ripensamento dei servizi di assistenza alle popolazioni anziane. Le tendenze future della demografia accentueranno ulteriormente questa necessità, mentre andrebbero predisposte parallelamente politiche della famiglia per invertire la tendenza drammatica alla riduzione della popolazione, favorendo la ripresa delle nascite mediante servizi alle famiglie per l’assistenza ai bambini.

    Il fenomeno di allargamento del numero delle famiglie e di restringimento dei componenti del nucleo famigliare è ancora più accentuato nelle città di maggiore dimensione. A Reggio Calabria il numero delle famiglie cresce tra il 2011 ed il 2019 del 4,5%, mentre nello stesso periodo la popolazione in famiglia si riduce del 3,2%. Un terzo delle famiglie a Reggio Calabria nel 2019 è unipersonale, rispetto al 27,2% del 2011; le famiglie con sei o più componenti sono ormai solo l’1,3%. Le grandi città sono il laboratorio che richiede maggiore radicalità e maggiore cura. Siamo già in grave ritardo, perché molto è già accaduto, e nulla è stato fatto. Sarebbe il caso di cominciare subito.

    Nelle regioni dove maggiore è risultato il cambiamento, e quindi in particolare nel Mezzogiorno e nella Calabria, andrebbero radicalmente riscritti la struttura, l’organizzazione ed il processo di erogazione dei servizi collettivi, dall’istruzione alla sanità, dai trasporti ai servizi culturali. Se questo non accadrà, varrà solo la legge del mercato, con un aumento delle diseguaglianze e con un processo che determinerà ulteriore spopolamento.

  • Pnrr, Calabria, Alta velocità: Cristo si è fermato a Romagnano

    Pnrr, Calabria, Alta velocità: Cristo si è fermato a Romagnano

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    Il Ministero per le Infrastrutture e la Mobilità Sostenibile ha elaborato un documento che illustra, regione per regione, gli interventi che si prevedono col PNRR e le altre risorse nazionali e comunitarie in materia di infrastrutture e trasporti, un settore nevralgico per la Calabria. Complessivamente sono in ballo per l’intero Paese finanziamenti per 61,4 miliardi di euro. Due terzi (40,4) derivano dal PNRR e 21 da fondi integrativi.
    La gran parte di queste risorse, il 92,9%, servirà alla realizzazione di opere pubbliche, mentre il 6,9% ad acquisti di beni e servizi e l’1,6% a contributi verso le imprese. La parte del leone va gli investimenti previsti per l’ammodernamento della rete ferroviaria nazionale, con 36,6 miliardi di euro. Valgono il 59,6% del totale complessivo previsto per le infrastrutture ed i servizi di trasporto.

    PNRR, poco meno di 7 miliardi alla Calabria

    Alla Calabria spetteranno 6,8 miliardi di euro, pari all’11,1% del valore complessivo del programma: una cifra che non indica certo uno sforzo straordinario nel volume complessivo dello sforzo finanziario. Con il PNRR si dovrebbe, come è noto, invertire la tendenza alla marginalizzazione dei territori meno competitivi per generare un volano capace di attrarre investimenti privati produttivi.
    Ma già nella dimensione quantitativa del programma, si evidenzia che la Calabria non sta nel quadro strategico prioritario. Se poi si entra maggiormente nel merito delle linee di azione previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, questa sensazione cresce ancor di più.

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    I progetti chiave e i treni pigliatutto

    Il documento ministeriale elenca i progetti chiave che sono previsti per la Calabria: potenziamento della zona economica speciale; accessibilità ai porti di Gioia Tauro e Reggio Calabria; potenziamento ed ammodernamento delle ferrovie regionali; rinnovo delle navi sullo Stretto; edilizia residenziale pubblica; rigenerazione urbana; alta velocità Salerno-Reggio Calabria.
    Però, dopo aver snocciolato il rosario delle singole voci sugli interventi previsti in Calabria, ci si accorge che l’investimento ferroviario per alta velocità e rete regionale pesa per l’80,2% sul totale. Il resto si disperde in interventi che non modificano la sostanza dell’assetto infrastrutturale regionale.

    Il PNRR e la tratta-Salerno-Reggio Calabria

    Quando si passa ulteriormente al merito del principale investimento, vale a dire la realizzazione della Salerno-Reggio Calabria, il quadro diventa ancor più fosco. Quello che effettivamente si realizzerà entro il 2026, come ha detto in Parlamento l’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana, Vera Fiorani, sarà la tratta tra Battipaglia e Romagnano. Ossia un lotto lungo 40 chilometri che punta verso est, piuttosto che verso la Calabria.
    Questo itinerario, previsto nella progettazione ferroviaria già da lungo tempo, non era stato affatto concepito per servire la Calabria; percorre difatti un itinerario ferroviario che conduce a Potenza, per poi proseguire verso la costa ionica, raggiungendo Metaponto e, a seguire, Taranto.

     

    Solo quando sarà stata realizzata questa prima tratta, è prevista la prosecuzione verso Praia a Mare, dopo aver solcato il Vallo di Diano, puntando verso il mare e raggiungendolo con una lunga serie di gallerie, nei pressi di Buonabitacolo fino alla costa tirrenica cosentina. Lavori lunghi e complessi che non potranno terminare prima di un decennio a partire da oggi.

    Cristo si è fermato a Romagnano

    Quindi, dal punto di vista della esecuzione, nell’arco del PNRR si realizzeranno solo i 40 km della linea Salerno Reggio Calabria, da Battipaglia sino a Romagnano, completamente inutile per migliorare i tempi di percorrenza di chi deve recarsi in Calabria. Il resto della tratta, quella che dovrà collegare Salerno con Reggio, vedrà il finanziamento della sola progettazione. L’esecuzione arriverà ben dopo la scadenza del 2026.

    In queste settimane si svolgerà il dibattito pubblico sull’alta velocità Salerno Reggio Calabria. Ci si auspica che non prevalga ancora una volta la retorica delle cifre vuote di significato. Che ci si concentri, invece, sul miglioramento effettivo della accessibilità e dei servizi per i calabresi. Un tempo si diceva che Cristo si era fermato ad Eboli. Ora scenderà un po’ più giù, per fermarsi a Romagnano.

    Porto di Gioia Tauro strategico? Tutta retorica

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    Analoga perplessità desta tutta la retorica, nel documento ministeriale, sul ruolo strategico del porto di Gioia Tauro. Nel disegno complessivo del PNRR, infatti, si dice con estrema chiarezza che la centralità marittima nazionale si gioca nelle due ascelle settentrionali adriatica e tirrenica, Trieste e Genova.
    Sarebbe il caso che la Calabria, così come l’intero Mezzogiorno, manifestasse la capacità di smarcarsi dalla retorica nella quale si esaurisce la discussione pubblica, per concentrarsi invece sulle scelte fondamentali. Ne guadagnerebbero non solo le regioni meridionali, ma l’intero Paese stesso. Che è cresciuto a ritmi intensi solo quando lo sviluppo del Sud avveniva a ritmi più accelerati rispetto al resto dell’Italia.

  • Zona economica speciale, il circo della burocrazia che frena sviluppo e innovazione

    Zona economica speciale, il circo della burocrazia che frena sviluppo e innovazione

    Capita frequentemente nel nostro Paese che le riforme si approvino e poi restino per lungo periodo nel cassetto, senza che si riesca per molto tempo a fare alcun passo in avanti. Dalla metà degli anni Ottanta, l’economia meridionale conosce una lunga stagione di arretramento competitivo. Si è spento l’intervento straordinario nel Sud, mentre le imprese pubbliche hanno abbandonato questi territori.

    Zes? Una legge con buone intenzioni

    Il futuro della industrializzazione nel Mezzogiorno doveva essere consegnato alla istituzione delle zone economiche speciali (Zes). Nel 2017 il governo ha emanato un decreto poi convertito in legge dal Parlamento. È cominciato un dibattito surreale sulla attuazione, perché la legge era sostanzialmente un enunciato di buone intenzioni. Ma era sostanzialmente provo di tutti gli elementi che avrebbero garantito la realizzazione di ciò che si predicava. Era stata realizzata la cornice, il quadro era ancora tutto da dipingere.

    Tra qualche mese sarà trascorso un lustro dalla approvazione della legge che ha istituito nelle regioni meridionali le zone economiche speciali, che nel mondo hanno costituito, nei passati decenni, uno dei vettori principali di sviluppo industriale.
    Questo processo è stato reso possibile della definizione di una fiscalità di vantaggio e dalla una semplificazione amministrativa. Tali due leve sono state affiancate, nei paesi in via di sviluppo – il vero laboratorio di questo strumento di politica industriale – da un basso costo del lavoro e da uno smantellamento sostanziale del peso e del ruolo delle organizzazioni sindacali.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Parole, soltanto parole

    L’avvio delle Zes è stato invece nel Sud molto lento, secondo la più classica tradizione italiana. Si fanno leggi che poi si affossano nella fase della attuazione. L’importante non è fare, quanto piuttosto fare finta di fare, salvo poi maledire il destino cinico e baro che impedisce il cambiamento.
    Nel mondo, le zone economiche speciali sono circa 5.500: una buona metà è stata in grado di generare uno sviluppo economico sostanziale di quei territori. Nel caso della Calabria e del Mezzogiorno, alla legge istitutiva sono seguiti cinque decreti interministeriali di attuazione. Si tratta di una discussione durata più di due anni se gli incentivi fiscali dovessero essere automatici o meno, se l’autorizzazione per l’insediamento di una azienda nella Zes dovesse essere unica, oppure se era più attrattivo mantenere le trentaquattro autorizzazioni esistenti, aggiungendone una specifica per la Zes.

    Stupisce anzi che nessuno abbia proposto che un imprenditore intenzionato ad insediare una impresa nel Mezzogiorno non dovesse fare prima un salto nel cerchio di fuoco con le gambe legate e gli occhi bendati. Insomma, a volte (per la verità, sempre più volte) l’architettura istituzionale italiana è alla ricerca di un “effetto Gabibbo”, quasi nella ostinata convinzione che serva una risata liberatoria per poter cambiare uno stato insostenibile della realtà.

    Cambia il commissario alla Zes calabrese

    Da un solo mese è stato nominato il nuovo commissario straordinario per la Zes calabrese, il secondo in ordine di nomina. Federico d’Andrea, ex colonnello della Guardia di Finanza, ha preso il posto di Rosanna Nisticò. Nella governance non resta peraltro ancora chiaro se abbia o meno un ruolo il comitato di indirizzo che precedentemente rappresentava la struttura incaricata di gestire e coordinate le azioni della zona economica speciale. Insomma, come spesso capita in Italia, ci si occupa di più degli organigrammi rispetto ai contenuti.

    Ma l’Italia non è un paese in via di sviluppo

    Poco inoltre si è riflettuto su un elemento essenziale, nel considerare l’assetto istituzionale che doveva essere definito nel Mezzogiorno per le zone economiche speciali. Per quanto strano possa sembrare, l’Italia non è un paese in via di sviluppo, quanto piuttosto un paese ad industrializzazione matura. La nostra crisi deriva proprio dalla stagnazione che si è determinata nel vecchio modello di articolazione manifatturiera.

    Anche ad occhio, fotocopiare una legislazione pensata ed attuata, a livello internazionale, per realtà che dovevano incamminarsi su un sentiero di attrazione industriale che partiva dalla assenza di un tessuto e di una esperienza manifatturiera, non poteva essere la via maestra per chi invece aveva l’obiettivo di sperimentare le Zes in un territorio caratterizzato da una economia non solo storicamente radicata nel capitalismo, ma anche testardamente finora incapace di generare un solido sviluppo economico, nonostante le molteplici strade che sono state sperimentate nel corso di tanti decenni.

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    Un piccolo tratto del porto di Tangeri in Marocco

    Zes meridionali poco competitive

    Certo, per tante ragioni di contesto, le regioni meridionali non possono essere attrattive, nel contesto internazionale. Innanzitutto non possono esserlo per il basso costo del lavoro o per un tasso di sindacalizzazione sotto il controllo delle volontà imprenditoriali. E nemmeno si intravedono le condizioni per una radicale sforbiciata delle tasse, così come si è fatto per le Zes maggiormente competitive nel mondo.
    Oltretutto gli strumenti di incentivazione messi in campo dal legislatore italiano, se confrontati con quelli delle altre Zes nel mondo, sono davvero poco attrattivi. Si limitano ad un credito di imposta parziale sugli investimenti e ad una timida operazione di risparmio sulla fiscalità aziendale negli anni iniziali di attività.

    Meno burocrazia, più impresa e università

    Ed allora, quali possono essere le leve sulle quali si può finalmente provare a far decollare le zone economiche speciali in Campania e nel resto del Mezzogiorno?
    Innanzitutto, si dovrebbe promuovere un programma basato sul disboscamento di quella inutile burocrazia ottusa che non solo allontana le decisioni di investimento degli imprenditori, perché spaventa per la sua lentezza, ma spesso è piuttosto diventata la radice della corruzione, essenzialmente per generare corsie preferenziali di velocità rispetto alla palude nella quale restano impigliati gli imprenditori onesti.
    Poi, c’è da far decollare un rapporto strutturato tra industria e ricerca scientifica, tra imprenditori ed Università. Un territorio collocato in un Paese ad industrializzazione matura deve puntare sull’economia della conoscenza, sul valore aggiunto determinato dalla innovazione che genera competitività.

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    L’Università della Calabria

    Mentre ci avviamo a festeggiare un lustro dalla nascita delle Zes, forse qualche riflessione più matura e più consapevole sarebbe il caso di farla. Assistere alle consuete giaculatorie sull’ennesima occasione sprecata sarebbe davvero irritante, a meno di non voler convocare il Gabibbo nella squadra titolare delle istituzioni.
    Non è un traguardo ormai molto ambizioso, considerata la qualità media della classe dirigente negli ultimi decenni, non solo nell’intero Paese ma soprattutto nelle regioni meridionali. Almeno, si potrebbe dire che vedendo il Gabibbo in azione ci si divertirebbe certamente di più.
    Ma invece, in Calabria come nel Mezzogiorno, forse non c’è più tempo per crogiolarsi nella ironia. Sarebbe finalmente l’ora per mettere in campo strumenti e politiche per lo sviluppo e per il miglioramento della competitività.

  • Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    In Calabria si contano 327 comuni con meno di 5.000 abitanti, su un totale di 404 enti locali: rappresentano l’80,9% del totale, una delle percentuali più alte tra le regioni italiane. Un terzo della popolazione calabrese vive in questi piccoli comuni. Ma è il nanismo istituzionale che si esprime sul territorio mediante una maggiore frammentazione.
    Sono 17 in Calabria i comuni con meno di 500 abitanti: sette di questi, quasi la metà, sono concentrati nella sola provincia di Cosenza: Carpanzano, Castroregio, Panettieri, Nocara, Alessandria del Carretto, Serra d’Aiello, Cellara. Quando i comuni sono polverizzati per numero di abitanti, è davvero difficile poter offrire ai cittadini servizi adeguati alle necessità.

    Comincia spesso in questi casi un pendolarismo territoriale alla ricerca delle condizioni compatibili, che in diversi casi, come nella sanità, conduce alla l’approdo verso altre regioni del Paese, nella maggior parte dei casi verso il Settentrione.
    Questa realtà vale, sua pure con un caratteristiche meno accentuate, per l’intero territorio nazionale. Su poco meno di 8.000 comuni presenti in Italia, se ne contano 882 comuni con meno di 500 abitanti; quelli con meno di 1.000 abitanti sono poco meno di 2.000.

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    Alessandria del Carretto vista dall’alto

    Poche unioni di Comuni in Calabria

    Per rispondere a questa eccessiva frammentazione del modello istituzionale ed organizzativo, si è adottata la formula della Unione dei comuni, in modo tale da assicurare una migliore erogazione dei servizi ai cittadini. Non dappertutto questa formula è stata utilizzata con la stessa capacità di superare i localismi nell’interesse delle comunità presenti sul territorio. Sono soltanto 12 le unioni di comuni in Calabria, su 564 che se ne contano in Italia: una percentuale pari appena al 2,1%. La scarsa utilizzazione della formula della Unione dei comuni ha impedito di mettere assieme fattori e risorse per assicurare una migliore risposta ai cittadini.

    L’ente consorziato è costituito da due o più comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di competenza comunale.
    L’Unione di comuni è dotata di autonomia statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla Costituzione, dalle norme comunitarie, statali e regionali. A questo istituto si applicano, per quanto compatibili, i princìpi previsti per l’ordinamento dei comuni, con specifico riguardo alle norme in materia di composizione e numero degli organi dei comuni, il quale non può eccedere i limiti previsti per i comuni di dimensioni pari alla popolazione complessiva dell’ente.

    Casali del Manco è tra i pochi Comuni calabresi nati dopo la fusione di diversi enti di minori dimensioni

    Cui prodest?

    Per quale motivo non si è affermato anche in Calabria, ed in generale nel Mezzogiorno, un disegno di razionalizzazione degli enti locali capace di dare risposta ai bisogni del territorio? Se continua a prevalere la frammentazione istituzionale vuol dire che il territorio ricava la sua convenienza: a partire dalle organizzazioni criminali, che hanno sempre da guadagnare dalla debolezza istituzionale, per finire alle consorterie politiche, che evidentemente trovano vantaggioso moltiplicare le poltrone per governare meglio il controllo del consenso.

    La frammentazione istituzionale del Mezzogiorno trova radici antiche: da un lato conta un fattore sociologico permanente, che resta ancora primario rispetto al resto del Paese, vale a dire quel familismo amorale studiato proprio in Calabria da Edward C. Banfield negli anni Cinquanta del secolo passato. D’altro lato pesa una classe dirigente politica più attenta a preservare le poltrone del potere rispetto alla soddisfazione degli interessi e dei diritti del cittadino.

    Il contesto normativo

    Eppure, il contesto normativo ha definito anche sistemi di incentivazione per spingere verso le unioni dei comuni ed anche verso altre forme più spinte di aggregazione. La fusione di uno o più enti, con l’istituzione di un nuovo comune, costituisce la forma più compiuta di semplificazione e razionalizzazione della realtà dei piccoli centri. Anche le fusioni di comuni godono di incentivi statali.

    L’entrata in vigore dell’esercizio obbligatorio di tutte le funzioni comunali dei piccoli comuni è stato prorogato più volte, da ultimo al 31 dicembre 2022 da parte del DL 228/2021. Si contano sinora nove proroghe, ma ora dovremmo essere al punto di non ritorno. Questo ennesimo appuntamento dovrebbe indurre ad accelerare non solo ragionamenti, ma anche decisioni, per accorpare i comuni di piccole dimensioni e per raggiungere quelle masse critiche necessarie per una maggiore efficienza amministrativa.
    Insomma, non resta molto tempo per superare una organizzazione comunale che non corrisponde all’ottimo sociale, ma solo ad una geografia politica che ha fatto il suo tempo.

    I Comuni e il PNRR

    In Calabria la strada da percorrere è lunga. La qualità amministrativa del governo territoriale è una delle condizioni essenziali dalle quali dipende il futuro dello sviluppo. Partiamo da una base largamente insoddisfacente. Mentre tutta l’attenzione si concentra sul PNRR, molto di quello che sarà il destino del Mezzogiorno dipenderà dalla configurazione istituzionale dei poteri locali.
    Costituire unioni di comuni e favorire fusioni di comuni sono due indicatori che ci dimostreranno la capacità di innovazione del ceto politico locale in Calabria e nel Mezzogiorno.

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    La Camera dei deputati

    Mentre il Parlamento ha tagliato della metà il numero dei rappresentanti, tra senatori e deputati, a livello locale è cresciuta nei recenti decenni una selva di “cadreghe” territoriali che costituiscono un ostacolo alla modernizzazione della macchina amministrativa.
    Ma, mentre sulla casta nazionale sono state scritte quantità impressionanti di letteratura, sulle caste territoriali è mancata la stessa meticolosa attenzione. Eppure, in termini di danni prodotti, il federalismo asimmetrico degli ultimi decenni è stato molto più dannoso dei poteri centrali sempre meno efficaci.

  • Sud e ripresa: il Pnrr non basta, anche l’Italia deve fare la sua parte

    Sud e ripresa: il Pnrr non basta, anche l’Italia deve fare la sua parte

    Sono trascorsi sessantacinque anni dalla stipula dei Trattati di Roma, con i quali è nato il Mercato comune europeo. E sono passati trenta anni dalla firma del Trattato di Maastricht, con il quale si sono poste le premesse per la moneta unica.
    Dentro questo tempo di costruzione delle istituzioni comunitarie una parte rilevante degli sforzi si è concentrata sulle politiche di coesione ed alla riduzione dei divari territoriali all’interno della Unione Europea. Quali sono stati gli esiti di questo percorso per il nostro Paese? Perché gli sforzi non hanno condotto al successo?

    L’errore dell’Italia con il Sud

    Il Mezzogiorno d’Italia, nonostante le politiche comunitarie, non è riuscito ad agganciare la locomotiva dello sviluppo europeo. Anzi, si sono determinate le condizioni per una crescita del divario nel corso degli ultimi decenni. La Calabria resta fanalino di coda tra le regioni comunitarie.
    Le ragioni di questo insuccesso sono tutte nazionali. L’Italia ha commesso un gravissimo errore di politica economica, senza avviare un serio dibattito pubblico su tale questione. Invece di considerare le risorse comunitarie addizionali rispetto agli sforzi nazionali, progressivamente sono state assunte scelte che hanno smantellato gli strumenti della programmazione finanziaria e gestionale italiana.

    Gli sperperi del passato

    Si è finito per considerare gli interventi europei sostanzialmente l’unico strumento disponibile per lo sviluppo dei territori meridionali. L’intervento straordinario nel Mezzogiorno è stato definitivamente smantellato a metà degli anni Ottanta. Così come le aziende pubbliche hanno cominciato nello stesso periodo una disordinata ritirata dai territori delle regioni del Sud.
    Mentre il governo nazionale ha delegato alle istituzioni comunitarie le politiche di coesione territoriale, le regioni meridionali hanno sperperato le risorse europee attraverso due canali: da un lato disperdendole in mille rivoli e dall’altro non utilizzandole appieno con una quantità imbarazzante di residui non spesi. Sono le due ragioni che oggi rendono preoccupante la prospettiva del PNRR.

    Pnrr e Sud: la coesione che vorrebbe l’Ue

    Poi emergono oggi le sfide nuove, alle quali non siamo ancora preparati. L’ottavo rapporto sulla coesione della Commissione Europea, pubblicato in questi giorni, mette in evidenza il potenziale delle transizioni verde e digitale come nuovi motori di crescita per l’UE, ma sostiene che senza azioni politiche adeguate potrebbero sorgere nuove disparità economiche, sociali e territoriali.
    Anche la pandemia ha allargato la forbice tra le regioni europee. Il COVID-19 ha già aumentato la mortalità dell’UE del 13%, ma finora l’impatto è stato più elevato nelle regioni meno sviluppate, dove la mortalità è aumentata del 17%.

    Pnrr: riforme o al Sud sarà ancora crisi

    Diverse regioni a reddito medio e meno sviluppate, soprattutto nell’UE meridionale, hanno registrato una stagnazione o una contrazione dell’economia, e questo indica che si trovano in una trappola dello sviluppo. Molte di esse sono state colpite dalla crisi economica e finanziaria nel 2008 e da allora hanno problemi a riprendersi.
    Per una crescita a lungo termine occorreranno riforme del settore pubblico, un miglioramento delle competenze della forza lavoro ed una più forte capacità innovativa. Sono quelle trasformazioni istituzionali che sono state demandate agli Stati nazionali quale secondo pilastro del PNRR accanto agli investimenti.

    Lavoro e divario di genere

    L’occupazione è in crescita, ma le disparità regionali restano maggiori rispetto a prima del 2008. Tale crisi, ormai di lungo periodo, ha portato ad un aumento significativo delle disparità regionali, sia nei tassi di occupazione che in quelli di disoccupazione. A livello dell’UE il tasso di occupazione si è pienamente ripreso dalla crisi e ha raggiunto l’apice nel 2019, con il 73% delle persone di età compresa tra i 20 e i 64 anni.
    Le disparità regionali sono in calo dal 2008, ma restano più grandi di quanto non fossero nel periodo precedente la crisi economica. I tassi di occupazione nelle regioni meno sviluppate rimangono molto più bassi rispetto a quelli delle regioni più sviluppate.

    Nelle regioni meno sviluppate il divario di genere a livello occupazionale è quasi il doppio che nelle regioni più sviluppate (17 contro 9 punti percentuali). In generale le donne delle regioni meno sviluppate hanno più probabilità di ritrovarsi sfavorite rispetto agli uomini della stessa regione. E meno probabilità di raggiungere un livello di successo elevato rispetto alle donne di altre regioni.
    Nell’UE l’accesso di base alla banda larga è quasi universale, ma le connessioni ad altissima velocità sono disponibili solamente per due residenti di città su tre e per un residente di zone rurali su sei.

    Ambiente: problemi e strategie

    Investire a sufficienza nella protezione dell’ambiente, nell’energia pulita e nella fornitura dei servizi associati è essenziale per garantire sostenibilità, competitività e qualità della vita a lungo termine.
    L’inquinamento dell’aria e delle acque è minore, ma in molte regioni poco sviluppate resta ancora troppo elevato. Secondo le stime, all’interno dell’UE esso causa 400.000 morti premature all’anno. Le concentrazioni di ozono restano troppo alte in molte regioni meridionali. Il trattamento delle acque reflue è migliorato in tutta l’UE, ma sono ancora necessari maggiori investimenti in molte regioni meno sviluppate e in transizione al fine di proteggere e migliorare la qualità delle acque.

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    Nonostante esportazioni e investimenti esteri diretti (IED) spesso cospicui, molte regioni non riescono a cogliere i benefici per le imprese e i lavoratori locali.
    La scarsa adozione di tecnologie digitali, pratiche gestionali e tecnologie di industria 4.0 nelle imprese e nel settore pubblico fa sì che molte regioni non siano preparate a sfruttare i vantaggi delle nuove opportunità. E che siano vulnerabili a potenziali rilocalizzazioni mano a mano che le catene del valore si evolvono.
    Nei prossimi 30 anni la crescita dell’UE sarà guidata dalle transizioni verde e digitale, le quali porteranno nuove opportunità ma richiederanno cambiamenti strutturali significativi che rischiano di creare nuove disparità regionali. Se ignorata, la transizione demografica potrebbe indebolire sia la coesione che la crescita.

    Come gestire le transizioni

    Il modo in cui gestiremo tali transizioni determinerà se tutte le regioni e tutti i cittadini, ovunque essi vivano, saranno in grado di trarne vantaggio. Senza una chiara visione territoriale delle modalità di gestione di questi processi e un’attuazione ambiziosa del pilastro europeo dei diritti sociali, sempre più persone potrebbero avere la sensazione che le loro voci rimangano inascoltate e che l’impatto sulle loro comunità non sia considerato, il che potrebbe alimentare un malcontento nei confronti della democrazia.

    Le istituzioni nazionali e regionali dovrebbero tornare a giocare un ruolo attivo e diverso rispetto a quello dei passati decenni. Il governo centrale dovrebbe essere in grado di realizzare quelle riforme capaci di rimettere in movimento un Paese anchilosato dalle burocrazie, aggiungendo uno sforzo finanziario nazionale per lo sviluppo. Le regioni dovrebbero essere in grado di gerarchizzare le questioni rilevanti evitando di disperdere le risorse finanziarie a pioggia. A questi snodi è legato il successo del PNRR.