Autore: Pietro Bellantoni

  • Niente stampa, siamo calabresi: l’aula Fortugno come un bunker

    Niente stampa, siamo calabresi: l’aula Fortugno come un bunker

    “Qui la ‘ndrangheta non entra”, d’accordo, ma forse nemmeno le persone perbene, sempre ammesso che i giornalisti lo siano (i dubbi, in certi casi, sono leciti).
    Ha fatto molto discutere, negli anni, il cartello affisso davanti a una delle entrate del Consiglio regionale, quello che si prefiggeva di essere un divieto perentorio poi diventato piuttosto ridicolo, alla luce dei tanti arresti per mafia che, nell’ultimo decennio, hanno coinvolto i politici calabresi.

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    Bunker e propaganda

    Gli eventi hanno trasformato quell’avviso in mera propaganda del tutto staccata dalla realtà, perché il virus ha infettato eccome il Palazzo reggino. L’emergenza Covid è invece riuscita a blindare “la casa dei calabresi” contro qualsiasi influenza esterna, tramutandola in una specie di bunker quasi inaccessibile. Dallo scoppio della pandemia, il Consiglio è praticamente off limits per il «pubblico», termine ampio in cui sono inclusi pure i giornalisti, cioè quei “lavoratori dell’informazione” che dovrebbero avere il diritto/dovere di seguire le sedute dell’assemblea e di darne conto – a modo loro – ai lettori/elettori.

    La stretta, introdotta una prima volta nella scorsa legislatura dall’allora presidente, Mimmo Tallini, è stata riconfermata, in forme diverse, dai successori Giovanni Arruzzolo e, infine, da Filippo Mancuso. Così oggi alle sedute possono partecipare solo gli eletti e i dipendenti del Consiglio da cui dipende il funzionamento dell’aula. Niente «pubblico», insomma, da circa due anni.

    Niente pubblico nel bunker

    Arruzzolo ha ribadito il divieto di accesso lo scorso 13 ottobre, con una deliberazione che permetteva l’accesso al Consiglio solo alle persone in possesso del green pass. Ordine poi prorogato fino al 31 marzo 2022, «e comunque fino al termine di cessazione dello stato di emergenza», con un atto datato 29 dicembre e firmato da Mancuso. Tutto perfettamente regolare e in linea con le normative nazionali, se non fosse per quel paragrafo, il numero 10, che in pratica non consente al «pubblico» di assistere «ai lavori dell’Aula».

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    Un momento del voto a Montecitorio per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica

    Un’aggiunta controversa e che, peraltro, non trova giustificazione se paragonata a quanto avviene in Parlamento, come Mancuso dovrebbe ben sapere. L’attuale numero uno di Palazzo Campanella è stato uno dei tre delegati calabresi che hanno partecipato al voto per la Presidenza della Repubblica. E avrà certamente notato che – oltre a essere state riorganizzate per aumentare il numero dei posti a disposizione dei grandi elettori e garantire così il distanziamento – a Montecitorio le tribune non sono mai rimaste chiuse né alla stampa né al resto del «pubblico». Giornalisti e operatori hanno così potuto svolgere il loro lavoro pur nel rispetto di precise norme anti-Covid.

    Restrizioni alla calabrese

    Il Consiglio calabrese, invece, non solo non si è adeguato al Parlamento, ma continua a mantenere in vigore disposizioni molto più restrittive, laddove il green pass, una diversa regolamentazione degli accessi e posti distanziati potrebbero assicurare la presenza del pubblico e, in particolare, della stampa. Fonti qualificate della Presidenza spiegano che si tratta di «misure precauzionali emanate per tutelare la salute dei consiglieri e dei dipendenti». L’aula non disporrebbe degli spazi necessari per assicurare il distanziamento. Motivazioni che, tuttavia, non convincono del tutto. A parte gli scranni in sovrannumero destinati ai 30 consiglieri (fino al 2014 l’aula ne ospitava 50), le due tribune per la stampa dispongono di decine di posti e sono ben separate sia da quella dove siede il pubblico sia da quella in cui operano gli addetti alla registrazione delle sedute.

    La casta non c’entra

    Tanto per eliminare ogni sospetto, va detto che il divieto di accesso per i giornalisti non lede solo le prerogative di una categoria che, spesso, è capace di produrre odiose e autoreferenziali rivendicazioni degne di un’altra casta, quella dei politici, ma colpisce, in primo luogo, il diritto dei cittadini di essere correttamente ed esaurientemente informati su quello che succede nella massima assemblea elettiva regionale.

    Oggi le informazioni sono garantite solo dai resoconti scritti dai tecnici del Consiglio e dalle dirette – camera sempre fissa solo su chi interviene in aula – su Youtube. Un giornalista, magari, potrebbe annotare anche altro: i soliti capannelli bipartisan prima dell’approvazione di una certa legge, i conciliaboli da compagnoni tra presunti avversari, le determinazioni dei consiglieri sui singoli provvedimenti, considerato che ancora non esiste – malgrado i buoni propositi del passato – il voto elettronico.

    Sono tante le spigolature che potrebbero essere funzionali a una narrazione autentica. Particolari, piccole nuance, che spesso non aggiungono nulla alla trama, ma che, a volte, possono dire molto, molto più di quel che i governanti vorrebbero. Le caste, si sa, di solito amano scegliere in che modo e in che forme raccontarsi.

    I compari e la stampa

    L’insofferenza nei confronti della stampa si è di certo acuita negli ultimi anni, in particolare dopo la frase – registrata dalla trasmissione Annozero di Michele Santoro – pronunciata dall’allora consigliere Franco Morelli mentre abbracciava il collega Mimmo Crea: «Il compare del tuo compare è anche mio compare». Quel servizio fece scoppiare un pandemonio che finì per screditare tutta l’istituzione regionale, anche perché, di lì a poco, sia Crea sia Morelli finirono in carcere per i loro legami con la ‘ndrangheta, poi confermati da condanne definitive. Da quel momento in poi, i giornalisti hanno avuto una libertà di movimento limitata alle sole tribune, cioè a distanza di sicurezza dai consiglieri.

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    Filippo Mancuso

    L’emergenza attuale non ha fatto altro che favorire una nuova (forse da tempo desiderata) stretta. E forse, allora, val la pena di ricordare Verbitsky e il suo credo: «Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda». Val la pena di ricordare la disinformazione prodotta da quel famoso cartello. Val la pena di ricordare all’Ordine dei giornalisti di fare il suo mestiere. E val la pena di ricordare a Mancuso di aprire le porte e di lasciar perdere le botole.

  • Regione, gli assessori per “conto terzi” e l’enorme potere di Roberto Occhiuto

    Regione, gli assessori per “conto terzi” e l’enorme potere di Roberto Occhiuto

    Calma, calma, non alimentiamo facili populismi e non cediamo alle semplificazioni più becere e scontate: non esistono prestanome e in piedi non c’è alcun teatro con tanto di pupi e pupari. Sarebbe scorretto soltanto pensarlo. Epperò, una qualche chiave interpretativa sulla nascita della Giunta Occhiuto bisogna tentare di inserirla nella toppa di questa generale confusione istituzionale.

    Proviamo a sintetizzare: il governatore, a parte due soli casi, potrebbe contare su tanti assessori “alexa”, nel senso che – con ogni probabilità – a comando devono giocoforza rispondere con una certa sollecitudine. Forse, però, i boomer (persone mature, diciamo così), che spesso ignorano i vantaggi offerti dall’assistente vocale di Amazon, avranno qualche difficoltà a capire di cosa parliamo. Un’altra definizione, allora. Ecco: Occhiuto, secondo un’idea parecchio diffusa tra gli addetti ai lavori, avrebbe nominato assessori “per conto terzi”. L’espressione è tratta dal burocratese applicato ai trasporti ma, probabilmente, rende meglio il concetto in questione.

    Cinque esterni alla Regione

    Andiamo dritti al punto: il presidente della Regione, a novembre, circa un mese dopo la straripante quanto scontata vittoria elettorale, ha varato la sua squadra di Governo, composta inizialmente da sei assessori, a cui in seguito se ne è aggiunto un settimo. Tra loro, solo due sono stati pescati dal Consiglio regionale: Gianluca Gallo (Fi, quasi 22mila voti) e Fausto Orsomarso (Fdi, 9mila).
    Tutti gli altri sono componenti esterni al parlamentino calabrese, dunque non eletti e non premiati dal corpo elettorale: Giusi Princi, vicepresidente con tanto così di deleghe (Istruzione, Lavoro, Bilancio, Città metropolitana di Reggio); Tilde Minasi (Politiche sociali); Rosario Varì (Sviluppo economico e Attrattori culturali); Filippo Pietropaolo (Organizzazione e Risorse umane); e poi, appunto, l’ultimo arrivato, Mauro Dolce (Infrastrutture e Lavori pubblici).

    Chi sono costoro? Alcuni erano sconosciuti al grande pubblico fino al momento della nomina, altri si erano candidati senza successo alle ultime Regionali o avevano avuto qualche discreto successo nelle rispettive attività lavorative o professionali.
    Una cosa accomuna tutti gli esterni: il fatto di essere stati sponsorizzati o – se vogliamo rimanere nella metafora trasportistica – l’aver ottenuto l’autorizzazione dei proprietari dei carichi, che non hanno mai smentito, anzi, il loro ruolo attivo nella formazione della Giunta.

    Questi assessori sono offerti da…

    Partiamo dalla vice di Occhiuto. Princi è stata una dirigente scolastica che, alla guida del Liceo scientifico “Vinci” di Reggio, ha riscosso un buon successo personale. Preparata, affabile e, nella maggior parte dei casi, apprezzata da studenti e genitori. Questo curriculum, per quanto brutalmente riassunto, può bastare a giustificare la sua presenza nel Governo della Regione, perdipiù con un portafoglio di deleghe da far impallidire anche il più scafato degli amministratori pubblici?
    Senza nulla togliere alla vicepresidente, in Calabria tanti altri dirigenti scolastici, stando così le cose, avrebbero potuto ambire a quel ruolo. La discriminante è un’altra e si chiama Ciccio Cannizzaro, deputato di Forza Italia (il partito di Occhiuto) e, soprattutto, cugino di Princi. Il parlamentare azzurro è insomma riuscito a replicare quanto fatto nella scorsa legislatura, quando impose il nome di Domenica Catalfamo all’allora presidente Jole Santelli.

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    Gli assessori Princi e Dolce

    Avvocato con impegni lavorativi a Roma, con un lontano passato da assessore a Vibo, Varì è invece tornato in Calabria e ha assunto l’incarico in Cittadella grazie all’appoggio del numero uno di Fi Calabria, Giuseppe Mangialavori. Tra il senatore e Varì esiste infatti un forte legame di amicizia coltivato fin dall’adolescenza.
    Le ricostruzioni ricorrenti, anche queste mai smentite, riportano che pure altri due assessori, sebbene politici di medio-lungo corso, sarebbero stati “raccomandati” con calore dai big dei rispettivi partiti. È il caso di Minasi, indicata dal leader della Lega Matteo Salvini, e di Pietropaolo, benedetto dalla commissaria regionale di Fdi Wanda Ferro.
    Sia Minasi, sia Pietropaolo, si erano candidati alle elezioni dello scorso ottobre senza essere rieletti. I calabresi, con il loro voto, hanno cioè stabilito che non dovessero rappresentarli nelle istituzioni regionali.

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    Tilde Minasi con Matteo Salvini

    Bertolaso rifiuta la Regione

    Dolce merita un discorso a parte. Pare che Occhiuto, nelle settimane precedenti al varo della Giunta, fosse in cerca di un nome altisonante per la sua squadra. Secondo alcuni (i soliti maligni), per camuffare il livello non proprio altissimo degli altri assessori; secondo altri (forse ancora più maliziosi), per scimmiottare la stessa Santelli, che in Cittadella era riuscita a far arrivare personaggi del calibro di Capitano Ultimo, Sandra Savaglio e, alla Film commission, Giovanni Minoli (tutti con risultati piuttosto controversi, ma questo è un altro discorso).

    Il governatore avrebbe dunque corteggiato a lungo il feticcio per eccellenza del berlusconismo, Guido Bertolaso. L’ex capo della Protezione civile, in un primo momento, si sarebbe fatto convincere, per poi gradualmente richiudere la porta di casa, lasciando Occhiuto interdetto e con i piedi ancora sullo zerbino. Indiscrezioni di stampa avevano però fatto trapelare la trattativa, e a quel punto l’ex capogruppo di Fi alla Camera non poteva certo permettersi di fare una figura barbina, peraltro causata da un tecnico della propria area politica.

    E così, si dice negli ambienti della politica, Bertolaso, per farsi perdonare il gran rifiuto, avrebbe suggerito la nomina di Dolce, con cui aveva collaborato gomito a gomito ai tempi della Prociv. Curriculum di tutto rispetto, quello del prof della “Federico II” di Napoli, «un uomo – ha commentato lo stesso Occhiuto – che negli anni ha coordinato e gestito tante emergenze, uno specialista in lavori pubblici, un ricercatore e uno studioso con alle spalle innumerevoli e pregnanti esperienze». A lui toccherà la funzione di «raccordo tra la Regione e i Ministeri per il Pnrr». Un ruolo che, tuttavia, forse il governatore avrebbe voluto affidare a Bertolaso e non a quello che in molti ritengono un «sostituto», per quanto super competente.

    Oliverio e la riforma

    Bisogna sottolineare che questa apertura estrema a figure sponsorizzate da terzi e, sostanzialmente, sconosciute agli elettori, non è un’invenzione di Occhiuto, ma di quel gran riformatore di Mario Oliverio. L’allora presidente della Regione, siamo nel gennaio 2015, come primo atto della legislatura pensa bene di far approvare dal Consiglio una legge di modifica dello Statuto regionale. Prima del suo intervento, gli assessori esterni potevano essere al massimo tre, dopo la riforma fino a sette, cioè tutti.

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    Carlo Guccione e Mario Oliverio festeggiano dopo la vittoria alla Regionali: il primo sarà nominato assessore sull’onda dei risultati elettorali per poi essere sostituito in Giunta da un esterno in seguito a Rimborsopoli

    Oliverio segue un suo disegno. Dopo l’inchiesta Rimborsopoli, in cui erano rimasti coinvolti gli assessori della sua prima Giunta, il governatore azzera tutto e nomina un esecutivo composto di soli membri esterni. Le ragioni di questa scelta sono in qualche modo legate anche alla riduzione dei membri del Consiglio regionale, passati da 50 a 30, così come deciso dal Governo Monti. Il taglio, per i politici calabresi, è un trauma terribile, dal momento che vengono a mancare, non proprio dalla sera alla mattina, 20 ben comode poltrone. Grosso guaio. Oliverio lo attenua con la modifica dello Statuto e, per effetto conseguente, aumentando per sette i posti/costi della Regione. Alla faccia della spending review.

    Col senno di poi, è certamente interessante, oltreché istruttivo, ricordare in che modo venne bollata l’operazione da uno degli allora maggiorenti di Fi, Mimmo Tallini: «Una riformicchia che serve solo a sistemare i conflitti interni al centrosinistra». Curioso che, sei anni dopo, a trarre benefici dalla «riformicchia» sia stato l’azzurrissimo Occhiuto, che per questa via ha trovato la quadra e con i compagni di partito e con gli alleati.

    La differenza

    Bisogna intendersi: la nomina di assessori esterni non è certo un unicum della nostra regione e in linea teorica è perfino auspicabile, perché un presidente ha il diritto/dovere di scegliere gli uomini che ritiene più adatti per realizzare il proprio programma di governo. Il punto cruciale, a parte l’esagerato quantum di membri non eletti, ha tuttavia a che fare con la democrazia stessa. Che peso politico possono mai avere assessori nominati in ossequio a queste liturgie? Mettiamo il caso che uno di loro entri in rotta di collisione, per una qualsiasi questione, con il proprio dante causa: quest’ultimo, fautore della nomina, potrebbe cambiare repentinamente idea e chiedere un cambio in corsa a Occhiuto.

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    Gianluca Gallo (FI), eletto in Consiglio regionale con più di 20mila preferenze

    Questo perché i politici “alexa” (abbiate pazienza, boomer) di fatto non possiedono alcun potere contrattuale; il medesimo potere che facilita la pronuncia di quei «no» che, nell’azione di governo, spesso sono doverosi e necessari, nella logica dei pesi e contrappesi che reggono ogni democrazia. La differenza con gli assessori eletti è lampante. Gallo, ad esempio, è stato legittimato – tanto legittimato – dal voto popolare e il governatore avrebbe il suo bel da fare per levarselo di torno nel caso in cui si mettesse a fare ostruzione rispetto a certe politiche, a certe iniziative, a certe, magari, esagerazioni amministrative.

    Un enorme potere

    Occhiuto, invece (grazie a Oliverio), dispone di un potere pressoché enorme anche per via della presenza dei “conto terzi”, sostituibili in un battibaleno perché in possesso solo della fiducia (rivedibile) di chi li ha indicati e non di quella popolare. Non è questione da poco, in una terra in cui il presidente di Regione è anche capo assoluto della sanità (e dei fondi correlati, più di quattro miliardi), gran signore della programmazione europea e dominus del Pnrr.

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Un governo di assessori autonomi, in questo contesto, non guasterebbe di certo. Calma, di nuovo: non si può affermare con certezza che gli esterni non lo siano. Allo stesso tempo, in linea di principio, non si può nemmeno escludere che, durante le riunioni di Giunta, vengano pronunciati ordini e non illustrate proposte. Cose tipo «Alexa, cambia canale». Perfino i boomer intravedono i rischi di una tale situazione.

  • Ciccio Cannizzaro, quando la politica è questione di profumo

    Ciccio Cannizzaro, quando la politica è questione di profumo

    Profumato è profumato, nessun dubbio. La fragranza che lo identifica – adatta a chi paga tavolo e bottiglie di champagne quando la comitiva si riunisce nei privé delle disco – ne annuncia l’arrivo ancor prima che si manifesti fisicamente, alle riunioni politiche come alla Camera. È forte a tal punto, quell’effluvio, che alcuni colleghi lo hanno ribattezzato con la perfidia dei ragazzi un po’ invidiosi: «Ciccio profumo». Ecco, sta arrivando «Ciccio profumo», e partono i sorrisini beffardi di chi, ogni volta, prova a metterlo in ridicolo, pur temendolo parecchio.

    Che sia un ragazzo dal buon odore, dunque, è fuori discussione. Ma Francesco “Ciccio” Cannizzaro può anche essere considerato un profumiere, ovvero uno che promette qualcosa di impossibile, che seduce nella consapevolezza di deludere, insomma uno che millanta un potere che, in effetti, non ha? Qui la questione si fa molto molto più complicata, senza che peraltro si possa giungere a una risposta univoca o condivisa.

    Un politico che ostenta

    Certo è che il giovane deputato e coordinatore provinciale reggino di Forza Italia, quarant’anni a giugno, è uno che ostenta parecchio. Si pavoneggia, si intesta successi, pensa in grande. E, spesso, riesce a convincere gli interlocutori di turno del fatto che lui stesso sia grande, un grande politico.
    Non prova mai imbarazzo, Cannizzaro; come quando, pochi giorni fa, per ben due volte ha dato il suo personale e convinto – ancorché, ovvio, del tutto ininfluente – endorsement nientemeno che al Cavalier Silvio Berlusconi («è ultramotivato e sarà un presidente super partes»).

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    Berlusconi e Cannizzaro

    Solo una civetteria, in fondo, una comune cosetta da politici mitomani; ma il punto è che, quando il giovane Ciccio fa una mossa, instilla sempre il dubbio che, davvero, lui possa essere arbitro e decisore di quella ben determinata questione, fosse anche il voto per il presidente della Repubblica.
    È uno che ci crede, Cannizzaro, uno che non ha mai coltivato dubbi e che la politica, quella cosa fatta di «sangue e merda», checché ne dicano i (tanti) detrattori, la mastica meglio di tanti altri mestieranti sulla breccia.

    Caridi la chioccia

    Inizia dal suo paese, Santo Stefano d’Aspromonte, luogo risorgimentale in cui il ventenne Ciccio viene eletto per due volte consigliere e scelto per altrettante come assessore. Il paese nei cui confini sorge la più rinomata Gambarie sta stretto alle sue ambizioni e se ne allontana presto. Coltiva amicizie e legami importanti, tra cui quello privilegiato con Antonio Caridi, potente assessore regionale nella Giunta Scopelliti e poi senatore, prima della rovinosa caduta per via giudiziaria.

    Cannizzaro diventa consigliere della Provincia guidata da Peppe Raffa ma quello scranno lo occupa per poco tempo. Dopo l’elezione in Parlamento dell’amico Antonio, infatti, si libera uno spazio in Regione e lui, che di quel blocco di potere è uno dei più promettenti terminali politici, fa il primo grande salto. Siamo nel 2014 e trionfa il centrosinistra di Oliverio. Cannizzaro entra in assemblea con la Casa della libertà e con in dote più di 6mila preferenze.

    Il modello Reggio a processo

    L’area destrorsa che lo ha svezzato è però in pieno disfacimento. Il Consiglio comunale di Reggio sciolto per mafia nel 2012 ha fatto partire la slavina: si accavallano le inchieste sui presunti rapporti con la ‘ndrangheta di tanti protagonisti di quella stagione e poi, soprattutto, inizia il declino del leader assoluto e incontrastato, Peppe Scopelliti. Nel 2014 si dimette da presidente della Regione dopo la condanna in primo grado per il crac finanziario di Palazzo San Giorgio e, inevitabilmente, via via si trascina dietro l’intera «classe dirigente» del «modello Reggio» già sublimato in «modello Calabria».

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    Antonio Caridi e Peppe Scopelliti

    Finisce male, anzi malissimo, anche il politico-chioccia di Cannizzaro, Caridi. Da senatore, nell’agosto 2016 viene arrestato nell’ambito dell’operazione “Gotha” contro i capi della ‘ndrangheta reggina. Ne uscirà completamente pulito dopo sei anni e tante, indicibili, sofferenze personali, ma la sua carriera politica è già bella che morta nel momento in cui varca il portone del carcere di Rebibbia.

    Cannizzaro, da sergente a generale

    Pochi mesi dopo, pure Cannizzaro finisce in una brutta storia di mafia: viene indagato dalla Dda di Reggio e accusato di aver ricevuto sostegno elettorale dalla cosca Paviglianiti di San Lorenzo. Il calvario del consigliere non prevede il carcere ed è decisamente più breve di quello del senatore Caridi: meno di un anno dopo, nel settembre 2017, Cannizzaro viene assolto «perché il fatto non sussiste».

    Ed è allora, probabilmente, che il giovane Ciccio si rende conto di essere l’unico superstite in quel deserto che è ormai diventato il centrodestra reggino. Fino a pochi anni prima offuscato dalla luce splendente e fatua degli Scopelliti, dei Caridi, ma perfino da quella dei Bilardi e dei Raffa, adesso Cannizzaro, da semplice ufficiale di complemento, è diventato colonnello, se non addirittura generale: non c’è nessuno più in alto di lui.

    Le occasioni da cogliere

    Tutto si può dire, tranne che il politico «stefanita», come lo appella chi tenta di sminuirlo, non colga le occasioni al volo. Si candida immantinente alle Politiche del 2018 ed è eletto parlamentare nel collegio uninominale di Gioia Tauro per la Camera, uno dei pochi – assieme al senatore forzista Marco Siclari e alla deputata Wanda Ferro – a resistere all’ondata grillina che in Calabria fa man bassa di seggi, ben 18.
    Da lì in poi, è tutta discesa. Il Cannizzaro “onorevole” è un politico diverso rispetto agli esordi: non si può dire propriamente che studi a fondo i molteplici dossier di cui si occupa, ma riesce a perorare le cause a cui tiene come nessuno.

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    Jole Santelli e Ciccio Cannizzaro in Parlamento

    Porta risultati, o almeno così sembra: si intesta il merito di aver fatto arrivare 25 milioni per l’ammodernamento dell’aeroporto dello Stretto, celebra anzitempo il completamento della strada Gallico-Gambarie («pronta entro la fine del 2022»), si mette alla testa della larga opposizione al governo cittadino di Falcomatà.

    Sulle orme di Peppe

    Nel mentre, tiene conferenze stampa a profusione, invita ministri per ogni bazzecola (ospite fissa: l’«amica» Mara Carfagna), organizza convention con migliaia di ospiti in cui il pezzo forte di serata è sempre lui, che chiude ogni evento e ogni comizio in un crescendo di urla vibranti e ad alto tasso emozionale, che ai nostalgici ricordano tanto lo stile da capopopolo di Scopelliti.

    Sembra di vederlo, Cannizzaro, mentre, da sotto il palco, poco più che ragazzo, studia mimica, movenze e repertorio del suo leader: la mano a paletta che si muove ritmica per scandire i momenti topici del discorso, l’«e alloraaaa…» usato a mo’ di intermezzo prima, magari, di una nuova intemerata contro i «nemici di Reggio» o contro i giornalisti «cialtroni».

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    Roberto Occhiuto, Mara Carfagna e Ciccio Cannazzaro

    Io ballo da solo

    Quello stile, quei toni, quei gesti, Cannizzaro li fa suoi. E col tempo diventa un oratore efficace e sicuro di sé, in più capace di ammantare tutto il suo agire politico di uno strato composito di furbizia e cinismo sconosciuto a Scopelliti. Per dire: l’ex governatore, parallelamente alla sua ascesa, ha allevato la sua «classe dirigente»: spesso sgangherata, per certi versi ridicola, in qualche caso collusa con la ‘ndrangheta, ma pur sempre un ceto politico che a Reggio, prima, e in Calabria, poi, ha esercitato potere, il più delle volte fine a se stesso, ma pur sempre potere.

    Cannizzaro, invece, ama fare il solista, forse perché teme che, domani, qualcuno possa fare ciò che ha fatto lui e soffiargli il posto. Non ha eredi, sia perché è troppo giovane sia perché, in un certo senso, teme il parricidio. La sua paranoia – alimentata dalla paura di perdere la preminenza conquistata per una serie di tragiche (per gli altri) coincidenze – traspare dalle sue scelte politiche. Si spiega in questo modo perché mai, in tutte le elezioni successive alla sua nomina a coordinatore provinciale, abbia sempre scelto candidati non reggini e, perciò, difficilmente in grado, in futuro, di rubargli il bacino elettorale più fecondo.

    I Ciccio boys

    Il politico di Santo Stefano ha insomma ereditato un intero mondo elettorale e ha desertificato la concorrenza interna. Il centrodestra reggino oggi è inodore, eccezion fatta per il profumo del capo; è spopolato di dirigenti, a meno che non si vogliano considerare tali i “Ciccio’s boys”. Già, loro fanno narrativa a parte: vestiti in serie, tali e quali al capo. Prediligono i risvoltini ai pantaloni, i mocassini di cuoio, possibilmente senza calzini, talvolta gli occhiali da sole a goccia e, d’estate, la camicia bianca aderente e arrotolata sulle braccia.
    Non si è mai capito se si tratti di un dress code o del semplice desiderio di emulare chi sta al vertice della catena gerarchica.

    L’apparenza che conta

    Cannizzaro sa che l’apparenza conta tantissimo. Quando, nel 2019, Mario Occhiuto forza la mano e organizza la mega convention lametina che avrebbe ufficializzato la sua candidatura a governatore, poi naufragata miseramente, il deputato reggino fa arrivare a Lamezia diversi bus carichi di militanti. Risultato: gli applausi per Cannizzaro sono di gran lunga più scroscianti di quelli dedicati al protagonista dell’evento.

    Sa, Cannizzaro, che per continuare a contare deve piazzare uomini, anzi, donne, di fiducia nelle stanze dei bottoni. È il più leale degli occhiutani quando Mario sembra in rampa di lancio per la Cittadella, ma quando Berlusconi designa Jole Santelli ne sposa senza esitare la causa fino a farsi descrivere come il migliore amico della governatrice, l’alleato di ferro che con lei balla la tarantella in chiusura di campagna elettorale. Nella Giunta Santelli, poi, Cannizzaro riesce appunto a piazzare la fedelissima Domenica Catalfamo.

    La stessa trama si ripete, più di recente, con Roberto Occhiuto, che lo tiene buono nominandone la cugina, Giusi Princi, nel suo Governo. Le deleghe sono tante e di quelle che contano, tra cui l’ambitissima vicepresidenza, un tempo promessa al leghista Nino Spirlì (il ticket rinnegato). Fino a qui, quella di Cannizzaro non sembra certo la carriera di un profumiere. Eppur bisogna andare più a fondo e scoprire che quel potere così ostentato, con ogni probabilità, è meno forte di quanto Ciccio non voglia far credere. Perché, nei momenti davvero decisivi della sua carriera, Cannizzaro ha fallito, anche se nessuno se ne è accorto.

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    Cannizzaro e la vice presidente della Giunta regionale, sua cugina Giusy Princi

    Le sconfitte

    Partiamo dalla fine. Alle ultime Regionali, il deputato azzurro, che ha il vizio di sopravvalutarsi, appoggiava almeno tre candidati (tutti “periferici”, of course): Giovanni Arruzzolo, di Rosarno, Raffaele Sainato, di Locri, e Patrizia Crea, di Melito Porto Salvo. Le ricostruzioni apocrife su quelle elezioni riferiscono di un Cannizzaro che, pochi giorni prima del voto, si rende conto del rischio di non eleggere nemmeno un consigliere per via della mal calcolata forza elettorale di altri due candidati di Fi, Giuseppe Mattiani e Domenico Giannetta, a lui profondamente ostili.

    Così, secondo questa interpretazione, il coordinatore provinciale sarebbe stato costretto a dirottare tutti i “suoi” voti sul solo Arruzzolo (poi primo eletto), abbandonando al proprio destino Sainato e Crea, che infatti restano fuori. È però sempre il racconto a fare la storia, e Cannizzaro, a urne chiuse, si attribuisce tutto il merito del 21% ottenuto da Fi, record regionale e risultato, dice, in linea con i tronfi berlusconiani del 1994. I 20mila e passa voti di Mattiani e Giannetta, su un totale di 44mila, nello storytelling di «Ciccio profumo» non guadagnano neppure una piccola nota a margine.

    Cannizzaro profumiere?

    Un millantatore, dunque? Un profumiere? Di sicuro Cannizzaro è bravissimo nel far passare una sconfitta come una vittoria. Come in occasione della scelta del nuovo coordinatore regionale di Fi, decisiva in vista delle candidature per le prossime Politiche. Il deputato reggino schiera tutta la sua batteria di ministri amici e plenipotenziari forzisti per ottenere la nomina a scapito dell’altro pretendente, il senatore Giuseppe Mangialavori. Alla fine la spunta, e anche piuttosto agevolmente, quest’ultimo. E Cannizzaro? Un altro si sarebbe abbattuto, invece lui briga per farsi nominare “responsabile nazionale per il Sud”, uno di quegli incarichi fuffa che il Cavaliere ha sempre usato per salvaguardare gli equilibri interni.

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    Cannizzaro e Occhiuto

    Il passo falso sulla segreteria calabrese non sopisce le ambizioni del giovane parlamentare. Che, raccontano i bene informati, avrebbe fatto di tutto e di più per sottrarre a Occhiuto la candidatura a governatore. Proprio così: oggi, film già visto, Cannizzaro sembra il miglior amico del presidente, ne appoggia le politiche, lo difende, lo accompagna a Roma e in giro per la Calabria come fosse il suo primo cavaliere; lo stesso ha fatto in campagna elettorale, quando, da “responsabile nazionale per il Sud”, teneva sempre il penultimo discorso per riscaldare la folla a beneficio del futuro vincitore. Ma prima, quando Berlusconi e gli alleati hanno ancora dubbi sul nome del candidato, Cannizzaro avrebbe giocato tutte le sue carte – e, dicono, usato ogni mezzo politico – per ottenere quella nomination a scapito dell’«amico Roberto».

    Il tonfo di Reggio

    Il tonfo più clamoroso di Cannizzaro, tuttavia, avviene nella sua Reggio. Ottobre 2020: Falcomatà, uno dei sindaci più contestati della storia cittadina, si impone al ballottaggio su Nino Minicuci, improbabile candidato scelto da Salvini. Che c’entra dunque il deputato di Fi? C’entra eccome, perché Cannizzaro aveva aspettato quel momento per anni, assicurando a tutto il centrodestra che lui, l’ex consigliere di Santo Stefano diventato un big nazionale, sarebbe stato il kingmaker della coalizione e avrebbe scelto il nome più adatto per asfaltare Falcomatà.

    Invece, Salvini, con il beneplacito di Berlusconi, manda avanti Minicuci e Cannizzaro, in buon ordine, si adegua e gli fa pure la campagna elettorale. Lo Scopelliti dei tempi migliori si sarebbe mai fatto imporre il candidato nella sua città? Forse no. E allora, è giusto chiedersi: è «Ciccio profumo» o è «Ciccio profumiere»? Blowin’ in the wind, canterebbe Bob Dylan: «La risposta, amico mio, se ne va nel vento». Come il profumo.