Autore: Michele Giacomantonio

  • La prof ucraina in dad: lezione sotto le bombe agli studenti in Calabria

    La prof ucraina in dad: lezione sotto le bombe agli studenti in Calabria

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    La scuola oltre la guerra, come un esile filo che trattiene il desiderio di una normalità perduta. Da Zaporozhye, città ucraina sulle rive del Dnepr, che per la sua posizione strategica è stata duramente bombardata dalle truppe russe, fino ad un appartamento nel cuore di Cosenza. È in questa sua nuova casa che Klim affronta calcoli matematici che devono sembrargli difficili ma dal cellulare giunge la voce della sua professoressa, rimasta lì dove ancora piovono le bombe. Lei, come un rassicurante appuntamento, si collega in rete e raggiunge i suoi studenti sparsi per l’Europa.

    La resistenza ucraina è fatta anche di questo, di brandelli di normalità, di lezioni tramite la rete, di contatti che non vogliono interrompersi.
    Klim è uno dei tanti studenti ucraini che hanno raggiunto parenti e amici che già da tempo stavano in Italia. La nonna di Klim, per esempio, è una apprezzata allenatrice di tuffi, che ha curato anche la preparazione atletica del campione cosentino Giovanni Tocci. Oggi Klim è iscritto alla terza media della scuola di via Negroni.

    la-scuola-in-guerra-prof-ucraina-in-dad-con-gli-studenti-in-calabria-i-calabresi
    Klim con i compagni della scuola di via Negroni a Cosenza

    Le scuole si rimboccano le maniche

    «Il ragazzo è giunto alla nostra scuola tramite i genitori di altri studenti», spiega Marina Del Sordo, dirigente dell’istituto comprensivo. Lo hanno iscritto alla seconda media, che corrisponde al settimo anno del sistema scolastico ucraino «e accolto con grande calore dai nuovi compagni». Davanti a questa emergenza le scuole si sono trovate a gestire potenti novità, senza poter far conto su mediatori culturali o sostegni di sorta.

    Solo di recente la Regione Calabria si è accorta di quanto le nostre scuole fossero coinvolte in questo intervento solidale ed ha provveduto ad emanare una circolare in cui si chiede ai dirigenti di vigilare sullo stato vaccinale dei nuovi studenti provenienti dalla zona di guerra e di riempire un modulo per ottenere la presenza di mediatori linguistici. Nel frattempo le scuole avevano fatto da sé, assumendo «decisioni riguardo l’accoglienza dei nuovi studenti che garantissero il loro benessere e una efficace inclusione»

    Gli orfani di Kharkiv

    Chi per adesso il problema della vaccinazione, molto sentito da chi siede a Palazzo Campanella, non se lo pone è la preside dell’istituto comprensivo di Vibo Valentia “Amerigo Vespucci”. «Questi vengono da una guerra, abbiamo altre priorità, come accoglierli nel modo migliore», dice Maria Salvia, con la voce di chi nella trincea della scuola in emergenza ci sta da parecchio. Di bambini ucraini il suo istituto ne ha accolti quaranta, tutti provenienti da un orfanotrofio di Kharkiv, giunti qui accompagnati da un tutore legale e per adesso affidati ad alcune famiglie.

    Su questo aspetto la preside è perentoria: «Non sono adottati, né adottabili, sono ospiti e la loro permanenza presso le famiglie sarà verosimilmente prorogata mese per mese». Il tramite attraverso cui sono giunti in Calabria è il consolato ucraino di Napoli che era in contatto con alcune associazioni accreditate di Vibo. Giunti qui, un operatore turistico di Capo Vaticano ha aperto le porte del suo villaggio ed è partita la gara di solidarietà.

    Palazzi devastati a Kharkiv

    Dal punto di vista scolastico i ragazzi sono stati inseriti nelle classi corrispondenti alla loro età anagrafica, così da trovare coetanei in grado di includerli meglio possibile. «Con i docenti, invece, abbiamo provveduto a ricalibrare il percorso didattico in maniera da trasformare questa situazione difficile in una opportunità anche per gli studenti italiani, che hanno modo di confrontarsi con coetanei che provengono da una esperienza durissima». Un modo per crescere assieme ma senza violare «la loro naturale riservatezza, perché abbiamo compreso che non amano essere al centro dell’attenzione»

    Dal Liceo sportivo al Coreutico

    Quando si scappa dalle bombe, si comincia una vita nuova. Per Alina, che ha lasciato il suo liceo sportivo, ad accoglierla c’era una classe di ballerine, quelle dell’indirizzo coreutico del “Lucrezia Della Valle” di Cosenza. Alina non conosce una parola d’italiano, ma una scuola non si fa spaventare facilmente e mette in campo tutte le risorse che ha. L’asso nella manica del Lucrezia Della Valle si chiama Angela, è ucraina ma vive in Italia da tempo. Angela tiene in ordine le aule e il corridoio del corso dove studia Alina e in un attimo è diventata una mediatrice linguistica e culturale.

    «Questo fenomeno migratorio ha carattere transitorio – spiega la preside Rossana Perri – perché queste persone sentono forte il desiderio di tornare alle loro case», ma intanto occorre provvedere ad una accoglienza che sia autenticamente inclusiva, anche sul piano scolastico, «per questo i docenti di Alina predisporranno un piano educativo personalizzato, per andare incontro alle sue esigenze facendo fronte alle difficoltà». È la scuola che è sempre pronta ad affrontare a mani nude i cambiamenti inattesi, anche se la preside spiega che «dal ministero sarà fatto un censimento per individuare il numero degli studenti ucraini e la loro distribuzione, in maniera da predisporre le risorse necessarie».

    Artem e le sue scarpette nuove

    Valentina Carbone è una maestra della scuola elementare di via Roma che di bambini ucraini ne ha accolti tre fino ad adesso, ma potrebbero aumentare di numero, considerato l’impegno del dirigente Massimo Ciglio sul fronte dell’inclusione.
    Valentina parla di loro come «i suoi bambini», si tratta di scolari dagli otto ai nove anni, inseriti in classi con compagni di uguale età e subito ben accolti. Una classe particolarmente vivace e avvolgente si è presa cura di Artem, per il quale ogni piccolo passo fatto durante le lezioni è una vittoria. Come quando sollecitato dalla maestra Valentina a scrivere tutte le parole italiane che aveva imparato, è stato in grado di riempire quattro fogli.

    «Con lui ho fatto quello che faccio con i bambini della prima classe, sono partita dalle vocali, le consonanti, fino a formare le parole ed è stato subito un successo». Attorno a questi bimbi c’è un universo di accoglienza, fatto di chi nel pomeriggio si prende cura di loro e anche di piccoli regali. Perché domenica si gioca a calcio con i compagni di scuola e Artem, che ha lasciato la propria casa senza portarsi le sue scarpette, avrà quelle nuove.

  • Prima confiscati e poi inutilizzati: i beni delle ‘ndrine

    Prima confiscati e poi inutilizzati: i beni delle ‘ndrine

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Nel marzo del 1996 l’Italia ha approvato, anche su iniziativa di Libera, la legge 109 sul riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Sono passati 15 anni nel corso dei quali il colpo forse più doloroso inferto alle mafie lo ha rappresentato non solo la confisca di beni, ma la loro restituzione alla collettività attraverso l’assegnazione a cooperative o realtà sociali del terzo settore. Un cammino lungo, incerto, non privo di pericoli, ma che ha dato frutti importanti. Nel report di Libera – aggiornato al 25 Febbraio – si legge che la Calabria è la seconda regione con il maggior numero di realtà sociali coinvolte in questo percorso.

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli-i-calabresi
    La sede romana dell’Agenzia per i beni confiscati alla criminalità organizzata

    I problemi dell’Agenzia

    Tuttavia non tutto è andato bene a causa anche delle macchinose procedure e della debolezza dell’Agenzia dei beni confiscati, che avrebbe necessità di maggiori risorse umane e finanziarie.
    A confermare questa debolezza, il fatto che in tutta Italia sono meno di duecento le persone che lavorano attorno a questi temi e in Calabria solo 15, chiaramente poche rispetto all’impegno necessario.

    Il lavoro dell’Agenzia consiste nel mappare i beni che la magistratura confisca alle mafie e successivamente affidarli ai Comuni. Un viaggio pieno di insidie, che ha conosciuto anche qualche passo falso, come la storia dell’Hotel Sibarys di Cassano. La struttura era stata confiscata nel 2007 e l’Agenzia  l’aveva inclusa tra gli immobili disponibili per il riuso, ma nel 2019 la Corte d’Appello di Catanzaro ne ha ordinato il dissequestro e la restituzione definitiva alla famiglia Costa.

    I beni restano dello Stato e per le attività è un guaio

    Una decisione che ha lasciato l’amaro in bocca a chi progettava di acquisire il bene.  «Quella è stata una mazzata sul piano psicologico e della comunicazione, perché si pensa che un bene confiscato non possa tornare indietro», racconta Umberto Ferrari, emiliano da vent’anni in Calabria, responsabile di Libera e uno dei protagonisti della cooperativa Terre ioniche, che gestisce i beni sequestrati agli Arena.
    Se ottenere un bene tolto alla ‘ndrangheta non è facile, affrontare la durezza del mercato può esserlo anche di più.

    «Queste realtà – spiega Ferrari – hanno più difficoltà di altri, perché l’impresa non è proprietaria dei beni che gestisce, che restano dello Stato e quindi non ha capitale». Questo si traduce nell’impossibilità di fornire garanzie per avere mutui bancari e fare i conti con la carenza di liquidità. A soccorrere le imprese sociali impegnate ci sono la rete Libera terre e il consorzio Macramè che sostengono la commercializzazione delle merci prodotte dal lavoro dei vari soci.

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli-i-calabresi
    Vincenzo Ferrari (Libera) è uno dei protagonisti della cooperativa Terre ioniche

    I numeri del fenomeno

    Le aziende maggiormente presenti in Calabria sono quelle agricole, ma oltre alle terre ci sono gli immobili, che rappresentano di gran lunga la maggior parte dei beni confiscati. Secondo i dati di Libera in Calabria sono 2908, di cui poco più di 1800 consegnati agli enti (Comuni, Province e Regione) che dovrebbero a loro volta assegnarli a quanti ne fanno domanda. Dalle mappe realizzate dal dossier di Libera aggiornato al 2021, sono circa 800 le associazioni concretamente assegnatarie di immobili. Pertanto risulta che la gran parte è rimasta nelle mani delle amministrazioni che non ne dispongono l’uso. «Con gli immobili è difficile fare impresa – spiega ancora Ferrari – e per lo più li utilizzano associazioni che si occupano di servizi sociali».

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli
    L’ex sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà e Tiberio Bentivoglio, imprenditore e vittima di mafia

    I Comuni fanno poco

    Tuttavia qui emerge l’altra falla nella normativa e cioè che «troppi beni restano in capo alle amministrazioni comunali e la stragrande maggioranza non ne fa nulla, lasciandoli nell’abbandono», dice ancora Ferrari. È vero che ultimamente alcuni Comuni hanno destinato qualche immobile alle emergenze abitative. In questi giorni alcune amministrazioni propongono di mettere immobili sequestrati a disposizione dei profughi che stanno fuggendo dalla tragedia della guerra in Ucraina.

    Il problema è che la disponibilità è limitata solo a quegli appartamenti davvero abitabili, mentre la gran parte è vandalizzata, anche perché prima di mollare il bene, i vecchi proprietari lo devastano. L’Agenzia da parte sua solo da due anni cerca di effettuare un monitoraggio su come si utilizzano i beni confiscati e chiede ai Comuni un resoconto rigoroso, che tuttavia non sempre giunge puntuale.

    Gli immobili confiscati alle mafie non sono quasi mai in buone condizioni. Ne sa qualcosa l’imprenditore “coraggio”, Tiberio Bentivoglio

    Il caso Bentivoglio: vittima di mafia a rischio sfratto

    Chi conosce bene sulla sua pelle la fatica di avere in gestione un immobile strappato alla criminalità è Tiberio Bentivoglio, vittima di mafia e imprenditore reggino.
    «Quando con l’architetto Rosa Quattrone siamo entrati nei locali che poi sono diventati la sede della mia attività, ci siamo messi le mani nei capelli», racconta l’imprenditore, che ha subìto attentati anche durante i lavori di ristrutturazione, costati oltre 80mila euro. Bentivoglio è impegnato nel tentativo di migliorare la legge, chiedendo di fornire sostegno economico a quanti prendono in gestione un bene confiscato, «perché senza una agevolazione finanziaria tutto è più difficile».

    Il bene che ospita l’attività della sua famiglia è stato assegnato al Comune di Reggio, cui Bentivoglio paga un fitto, ma non potendo fare fronte alle spese il Comune l’ha dichiarato moroso e ora si attende l’ufficiale giudiziario. «Io sono la sola vittima di mafia in Italia ad usare un bene confiscato – racconta Bentivoglio – e ho scritto al sindaco Falcomatà che non ce la faccio a sostenere le spese. Quindi, se vuole, mi deve cacciare». È ben difficile che l’ente proceda in tal senso, salvo non voler incorrere in danno d’immagine, ma la situazione è particolarmente difficile.

    I sospetti del vescovo Savino

    «In Calabria accedere ai beni confiscati alla ‘ndrangheta comporta un surplus di impegno» dice accorato il vescovo Francesco Savino, che guida la Diocesi di Cassano allo Jonio. Lunga militanza dentro Libera, vecchia amicizia con don Ciotti, protagonista di un impegno contro le mafie, Savino non esita a indicare tra i problemi con cui fare i conti la «lentezza, quasi l’accidia calabrese e soprattutto una classe politica e burocratica non all’altezza delle opportunità».

    Non manca nelle sue parole il riferimento a una vecchia affermazione di Gratteri, che chiamava in causa «l’indissolubile matrimonio tra mafie e massonerie deviate» e alla possibilità che tra le cooperative che acquisiscono i beni ci siano anche prestanomi, «cosa che io non posso documentare ma in questa terra manca la libertà e in questo caso il sospetto rischia di essere molto vicino alla verità».

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli-i-calabresi
    Francesco Savino, vescovo di Cassano alloJonio

     

  • CoRe de ‘sta città unica: tutte le strade non portano a Cosenza-Rende

    CoRe de ‘sta città unica: tutte le strade non portano a Cosenza-Rende

    Chi ricorda quella vignetta di Altan che parlando della rivoluzione diceva: «Tutti la vogliono, ma nessuno la fa»? Ecco, la città unica Cosenza – Rende – Castrolibero è come la rivoluzione, una cosa di cui tutti parlano, ma nessuno realizza. Anzi, di più: è una creatura mitologica che ogni tanto viene evocata come una promessa, oppure una minaccia. L’ultima, in ordine di tempo, ad invocarla è stata la consigliera leghista Simona Loizzo, che ha annunciato una proposta di legge per favorire l’unione tra Cosenza a Rende.

    città-unica-cosenza-rende-sandro-principe-i-calabresi
    Sandro Principe, storico sindaco di Rende ed ex sottosegretario al Lavoro

    In realtà la Regione Calabria una legge di questa natura ce l’avrebbe già, «solo che non l’ha mai applicata», spiega Walter Nocito, docente di Diritto pubblico all’Unical.
    Quella legge per la verità è piuttosto vecchia. Risale al 2006, assai prima della Delrio e dei provvedimenti finanziari del 2014 che su base nazionale favorivano con incentivi l’unione dei comuni. Quindi, a ben guardare, forse è meglio lasciarla nella polvere dove è rimasta tutto questo tempo.

    Manna: il cosentino che tifa Rende

    A restare moderna è invece l’idea di unificare Cosenza, Rende e Castrolibero, di cui si parla sin da quando Mancini e Sandro Principe ragionavano sull’unire le due realtà urbane, che peraltro non conoscono discontinuità urbanistica.
    Ad impedire reali passaggi di unificazione furono i tempi non maturi, ma pure un marcato campanilismo che separava le due comunità. E se qualcuno immagina che quell’antica diffidenza sia stemperata si sbaglia alla grande. Il sindaco di Rende, Marcello Manna, ci tiene a precisare che «sul cammino ci sono delle difficoltà».

    città-unica-cosenza-rende-castrolibero-i-calabresi
    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    «Cosenza nel processo di fusione non può pesare come capoluogo, ma deve rispettare le altre identità», spiega con fermezza Manna. Già in un recente passato, davanti alla delibera della giunta guidata da Mario Occhiuto che affermava che la nuova realtà urbana si sarebbe chiamata Cosenza, aveva annunciato barricate. Ci sarebbe da ragionare sul possibile strazio psicologico di chi come Manna è cosentino doc ma anche sindaco della città vicina e che in virtù di questo suo ruolo innalza lo stendardo del campanilismo con lo stesso vigore che fu del rendesissimo Sandro Principe, quando dovendo immaginare un nome per la nuova città, partorì l’acronimo CoRe, dalle iniziali di Cosenza e Rende, dimenticando Castrolibero. O, forse, considerando che CoReCa sarebbe stato un po’ comico e vagamente balneare.

    CoRe
    CoRe, il cocktail di città in programma già ai tempi del POR 2000-2006

    La città unica di Caruso con Presila e Savuto

    Franz Caruso da parte sua, oltre a rivendicare una parte importante di questo progetto nella campagna elettorale che lo ha portato a diventare sindaco, intende difendere con forza il ruolo e l’importanza di Cosenza come capoluogo e come realtà regionale. «Nessuna volontà egemonica – assicura il sindaco di Cosenza – ma semplicemente il riconoscimento di una storia e di un peso. La nuova città non potrebbe mai chiamarsi Cosenza–Rende, come è avvenuto per Corigliano-Rossano».

    città-unica-cosenza-rende-franz-Caruso-I-calabresi
    Il sindaco di Cosenza. Franz Caruso

    A dividere i due sindaci è pure un aspetto strategico: dove far nascere il nuovo ospedale, che Manna vorrebbe vicino all’Università, idea cui Caruso è contrario. Entrambi invece convergono sull’idea di procedere per piccoli passi. Caruso guarda ad una associazione tra comuni. Pensa a un’area piuttosto vasta, in grado di coinvolgere le Serre cosentine, Mendicino, la Presila, fino addirittura a Rogliano, con i cui sindaci sta già svolgendo incontri. «Il compito che Cosenza deve svolgere in questo processo – spiega Caruso – è quello di motore di sviluppo di un’area vasta oltre la semplice area urbana, un ruolo dominante, come è fisiologico che sia e il nome di tale associazione potrebbe essere Città Bruzia».

    Tutti vogliono la città unica senza i debiti degli altri

    Parole che forse non piaceranno a Manna, che però condivide l’idea dell’associazione tra comuni come sorta di prova generale prima di un’unificazione formale. Senza dimenticare, però, le differenti condizioni di bilancio, perché «dobbiamo capire come si grava con i propri debiti sulla nuova realtà urbana».

    castrolibero-giovanni-greco-i-calabresi
    Il sindaco di Castrolibero, Giovanni Greco

    Il riferimento è al catastrofico dissesto ereditato da Caruso, ma non si deve sottacere che le finanze di Rende appaiono pure esse non solidissime. Sul piano finanziario meglio di tutti sta Castrolibero, il cui sindaco Giovanni Greco appoggia l’idea di una associazione tra comuni, spiegando che la conurbazione è già nei fatti. «Era il 2016 quando il nostro comune dichiarò di essere pronto ad avviare quanto necessario per realizzare la città unica», spiega il sindaco. Aggiunge, però, che esistono dei passaggi propedeutici per favorire il processo ed evitare gli errori emersi dall’unificazione tra Rossano e Corigliano, «che hanno ancora due piani regolatori e due sistemi di tributi».

    L’esempio non proprio virtuoso di Corigliano-Rossano

    Si potrebbe pensare che le condizioni delle casse comunali e quindi dei tributi pagati dai cittadini potrebbero essere un problema. Invece no, almeno nell’immediato. Come spiega Maria Nardo, docente Unical di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, «i comuni che si fondono possono, per la durata di cinque anni, mantenere gli stessi tributi precedenti alla fusione». Dunque all’inizio non cambierebbe nulla per i cittadini, immaginando che cinque anni siano sufficienti per riparare i danni di bilancio portati in dote nello sposalizio.

    Tuttavia è chiaro che, come avviene nelle aziende, gli attivi e passivi una volta uniti finiscono per spalmarsi su tutta la comunità. I vantaggi però sono notevoli, visto che «i trasferimenti aumentano di oltre il 60%».  La professoressa Nardo tuttavia avvisa che non è un cammino agevole. Per questo «è necessario realizzare un accurato piano di fattibilità che proietti avanti nel tempo le conseguenze di una eventuale unificazione», cosa che per esempio, non risulta che sia stata fatta per Corigliano–Rossano.

    corigliano-rossano-flavio-stasi-i-calabresi
    Il sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi

    Sulla stessa linea torna Walter Nocito, che ricorda come «oltre al piano di fattibilità serve uno Statuto provvisorio che preceda il referendum cui saranno chiamati i cittadini». E questo è l’ultimo vero ostacolo, visto che è la Giunta regionale a decidere quale sia la maggioranza di cui tenere conto, cioè la somma totale dei cittadini chiamati al voto o le singole realtà comunali consultate. Che vuol dire decidere se ci si unisce o no.

  • “Tu vuò fà l’americano”: Telesio, la scuola pubblica che non lo sembra più

    “Tu vuò fà l’americano”: Telesio, la scuola pubblica che non lo sembra più

    Le colonne del pronao del “vecchio” Telesio di cose ne hanno viste parecchie, dagli amori adolescenziali a occupazioni con qualche pugno tra studenti di destra e sinistra. Ma quello che sta accadendo ora era del tutto imprevedibile. Una audace e ben congegnata opera di marketing sta proiettando il liceo classico di Cosenza verso una modernità vagamente yankee. Fatta di divise, trasporti privati, ambienti destinati al relax, cucine e mense, un brand identitario che si chiama Casa Telesio, rette pagate dalle famiglie e qualche non marginale forzatura delle normative.

    hashtag-telesio
    Hashtag identitari sulle scalinate che portano al liceo (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Casa Telesio e l’occupazione

    È un cammino intrapreso da qualche anno e che solo recentemente ha assunto in modo palese i connotati di un embrione di scuola di élite. I primi a insorgere contro questo snaturamento dell’idea di scuola pubblica sono stati gli studenti che hanno occupato una parte della struttura scolastica, le aule presenti presso le Canossiane, dove erano d’arbitrio trasferite le classi del triennio. Quelle dove sono gli alunni le cui famiglie non pagano le rette. Proprio a seguito alla protesta, destinata a rientrare dopo l’accordo raggiunto tra gli occupanti e il preside Antonio Iaconianni e che prevede che tra le classi ci sia una turnazione mensile, il problema del Telesio è esploso in modo clamoroso.

    Ma cos’è Casa Telesio? Si tratta del frutto della mente del preside Iaconianni, uomo intelligente, capace di esprimere efficacemente lo spirito manageriale che oggi è richiesto ai presidi. E che ha capito che solo l’annessione del Convitto nazionale, di cui è reggente, trasformandolo in una scuola primaria e media, poteva garantire un bacino d’utenza in grado di andare successivamente ad alimentare le iscrizioni del Classico. Della serie: gli studenti me li prendo sin da bambini e poi me li tengo fino alla fine. Una strategia che in tempi di guerra spietata tra le scuole per accaparrarsi le iscrizioni, sarebbe risultata vincente. Ma non bastava.

    Attorno a questo progetto era necessario far crescere una idea di scuola speciale, migliore, più efficiente. Per farlo servono risorse, delle quali normalmente le scuole sono prive. Qui entra in gioco il Convitto nazionale. Nato come tutti i convitti come istituto educativo destinato ai ceti sociali meno abbienti, per garantire loro livelli base di istruzione, il Convitto nazionale ha una sua autonomia economica, perché destinatario di risorse necessarie a sostenete le spese dei convittori, quindi la mensa e una volta anche l’alloggio. Oggi quel ruolo è andato sbiadendo, i convittori sono diminuiti, ma le risorse sono rimaste. Queste, sommate ai 1600 euro chiesti alle famiglie, danno vita a una sorta di college, con servizi esclusivi negati ai comuni studenti. Una privatizzazione silenziosa dell’istruzione.

    Il Convitto annette il Telesio

    Ma questo mondo luccicante aveva bisogno di passi concreti, di tipo burocratico: fare in modo che le due entità didattiche, il Telesio e il Convitto, diventassero una cosa sola. Ma i Convitti non possono, per normativa, essere annessi, quindi era necessario il contrario. Ed ecco che sul sito della Provincia compare l’annuncio che il Convitto annette il Telesio. Del resto le due strutture scolastiche condividono già il nome e anche il dirigente.

    Sin da subito tutto questo appare come una forzatura, della quale presso l’Ufficio scolastico regionale di Catanzaro non sanno ufficialmente nulla. Lo dicono chiaramente i vertici dell’istruzione calabrese a Franco Piro, segretario della Cgil scuola, spiegando che fin qui per loro «tutto questo resta solo un annuncio», parole che sembrano anticipare una bocciatura del progetto di Casa Telesio. Su questo Piro è tranciante: «Iaconianni vuole fare una scuola non accessibile a tutti, seducendo i benestanti di Cosenza e acquisendo il Convitto».

    Ma pure dentro il Telesio, tra i docenti cresce un certo mormorio, anche se assai cauto. Infatti è sempre Piro a spiegare che i due passaggi fondamentali che riguardano il parere del Collegio dei docenti e del Consiglio d’Istituto pare non siano stati affrontati. La tempesta sollevata dall’occupazione da parte degli studenti e il clamore cresciuto attorno al progetto di Casa Telesio hanno indotto il preside a bloccare tutto, rinunciando anche a rilasciare ogni dichiarazione, rimandando i chiarimenti necessari ad una annunciata conferenza stampa.

    Pari e dispari

    ingresso-telesio
    L’ingresso del liceo “vecchio” (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Nell’agonia dell’istruzione pubblica, relegata da sempre a ruolo di Cenerentola, l’idea di proporre alle famiglie, non tutte, ma a quelle più agiate, una scuola che trasmettesse il senso di una élite, non poteva che avere successo. Soprattutto in una città dove lo studiare al Classico significa ancora “marcare l’appartenenza” sociale, collocarsi dentro una gerarchia di status. Una visione della scuola ancora segnata da una impronta gentiliana, per la quale gli altri indirizzi didattici sono destinati a forgiare quadri intermedi, tecnici, comunque fuori dalla possibilità di diventare classe dirigente. Una visione evidentemente condivisa dal preside Iaconianni, che forse in altri tempi avrebbe invece apprezzato le parole con cui Erri De Luca spiega che «La scuola faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori». Oggi il “dispari” minaccia di entrare dalla porta principale del Telesio.

  • Presi per il Cud: l’Unical del futuro sognava in vhs però andò a picco come il Titanic

    Presi per il Cud: l’Unical del futuro sognava in vhs però andò a picco come il Titanic

    C’è stata una stagione, ormai lontana e inesorabilmente perduta, in cui la Calabria sembrava avere avuto lo sguardo proiettato verso il futuro. Era la prima metà degli anni Ottanta e qui nasceva un’idea che sarebbe stata potentemente pionieristica nel panorama nazionale, quella di dare vita ad una università a distanza. Si chiamava Cud. Una sfida straordinaria per una regione con lo stigma di una terra perennemente in ritardo sulla modernità, ancorata all’immagine di una arretratezza endemica.

    La prima università a distanza d’Italia

    Mentre il modello di sviluppo classico fondato sulla fabbrica andava in frantumi ovunque senza essere mai stato davvero applicato nel meridione, con straordinaria lungimiranza in Calabria c’era chi pensava di fare un salto in un futuro che era stato esplorato in alcuni paesi, come l’Inghilterra e l’Australia, ma era sconosciuto in Italia. La prima università a distanza del Paese nasceva sulle colline di Arcavacata.

    cud-unical-i-calabresi
    L’Università della Calabria

    C’erano pure la Sapienza, Olivetti, Ibm e Telecom

    Tutto ha origine dal Dpr 382 del 1980, che autorizzava “le università italiane ad unirsi in consorzi ed a sperimentare forme alternative a quelle tradizionali per erogare i propri corsi.” E nell’84 arrivò il Cud, consorzio università a distanza. Ad aderire all’idea, e dunque al consorzio, sono Università della Calabria, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, Politecnico di Milano, Università di Bari, quella di Padova, di Siena e di Trento. Ma anche realtà private come il Consorzio per la ricerca e l’applicazione dell’informatica (Crai) e poi Olivetti, Confindustria, Ibm, Telecom Italia (ex Sip), Rai, Telespazio.

    Con questi soci il Cud doveva essere una corazzata imbattibile, invece affondò come il Titanic. Le risorse economiche, ingenti, per far partire la corazzata vennero dall’Intervento straordinario per il Mezzogiorno. Alcuni docenti Unical, come Sergio De Julio (che divenne successivamente deputato dell’allora Pci), Ivar Massabò e Franco Lata (tutti provenienti dall’esperienza Crai) presentarono il progetto.

    Il guru australiano

    Era una idea dell’altro mondo. E, infatti, a guidare i primi passi di quell’avventura chiamarono uno che stava dall’altra parte del mondo: si chiamava Desmond Keegan ed era australiano. Era il massimo pioniere dell’educazione a distanza, impegnato nello studio dell’uso delle tecnologie applicate all’insegnamento e sulle strategie necessarie per aumentare l’equità di accesso. L’australiano venne in Calabria, ma tornò presto nella terra dei canguri, forse perché aveva capito che quell’idea bellissima qui aveva una cattiva sorte.

    Cud-desmond-Keegan-i-calabresi
    “Principi di istruzione a distanza” è il titolo italiano del libro di Keegan

    Cud, dieci anni finiti male

    Il Cud resistette poco più di dieci anni ma gli ultimi furono parecchio travagliati, tra mobilità e cassa integrazione del personale. Una fine annunciata causata dalla ferocia predatoria della classe politica, ma non solo. Eppure la vocazione all’educazione a distanza era nei geni dell’Unical, che era posta fisicamente sulle colline di Rende, ma aveva l’ambizione di essere università regionale e di raggiungere quindi tutti gli studenti calabresi, anche quelli che non avrebbero trovato posto nel campus.

    Timidi inizi di multimedialità

    Una idea di decentramento educativo in un tempo in cui ancora il web non esisteva, si basava sulla costruzione di programmi didattici veicolati su videocassette. «C’erano centri di studio, luoghi posti in aree urbane strategiche nella regione, dove gli studenti avrebbero potuto accedere al materiale e studiare le lezioni confezionate nella sede del Cud», racconta Massimo Celani, uno dei primissimi protagonisti di quella storia. Proveniva da una esperienza di programmista Rai e dunque con altri padroneggiava le tecniche del linguaggio video, indispensabili per costruire le lezioni multimediali. Celani, assieme ai primi professionisti formati in quella fase iniziale, costituiva la schiera di “redattori”, o “metodologi dell’insegnamento”. Così venivano chiamate le prime professionalità impiegate nel Cud. «Non si trattava di video lezioni frontali – prosegue Celani – ma di programmi strutturati, con un senso narrativo, al cui interno già emergeva una qualche forma di multimedialità».

    Adesso sembra preistoria: una videocassetta degli anni Ottanta

    La Calabria che voleva modernizzarsi

    L’idea ambiziosa è quella di far diventare la formazione a distanza una forma concreta di alternativa all’università tradizionale. Il Cud cresce dentro un contesto in cui i fermenti intellettuali e imprenditoriali sono molto vivaci. È una delle aziende più innovative, assieme al Crai e a Intersiel. La Calabria con queste aziende partecipa come protagonista alla partita della modernità, immaginando un diverso modello di sviluppo che non è basato sull’industria o sull’agricoltura, ma sui saperi e sulla diffusione delle tecnologie. Nasceva quella che poi avremmo chiamato “lavoro cognitivo”, ma allora non lo sapevamo. I settori di intervento didattico del Cud furono all’inizio i corsi di Informatica e di Lingue. Si estesero poi alla Formazione professionale e alla formazione dei docenti delle scuole superiori di tutta Italia all’interno nel nascente Piano nazionale informatico.

    Gli appetiti della politica

    Il punto debole di quella avventura si rivelò presto la sua natura societaria. «L’essere un consorzio sembrava diluire le responsabilità, sbiadire la guida», ricorda Marina Simonetti, che nel Cud fu prima borsista, e poi progettista di formazione. Una fragilità che rendeva il Cud facile preda di conquista degli appetiti politici, che praticarono indiscriminatamente l’arte della clientela. In breve tempo, da poche decine di professionisti accuratamente selezionati, il personale si estese a più di cento impiegati, molti dei quali autisti. Inoltre un management molto esteso e assai costoso fece la sua parte nell’indebolire la vitalità del Cud.

    Cud-unical-I-Calabresi
    Marina Simonetti, prima borsista del Cud

    L’immancabile sede romana per il Cud

    Come nelle migliori avventure calabresi, fu subito acquistata una costosa e bellissima sede romana di rappresentanza, in Corso Vittorio, mentre intanto sorgevano in Italia altre esperienze di università a distanza, come per esempio Nettuno, che avevano meno pretese sul piano metodologico, ma con maggiore pragmatismo conquistavano quote di mercato. Poco per volta i vari soci si sfilarono e nel maggio del ’98 si presentò il curatore fallimentare per chiudere la baracca. Per quanti vi lavoravano cominciava la diaspora, tra università e aziende private.

    Finisce tutto con il Piano telematico

    Con la chiusura del Cud non moriva solo una opportunità, ma si consumava lo spreco di un sapere collettivo. La fine del Cud però è anche altro. È la fine di una stagione in cui complessivamente la Calabria aveva conosciuto stimoli plurali. «C’era una società vivace, capace di pensare più in là, di puntare ad un risveglio tecno scientifico», dice Emilio Viafora, sindacalista della Cgil e allora segretario del sindacato. Per lui la presenza di quella società civile, sensibile ed accogliente verso gli stimoli che venivano dall’Unical, fu l’alchimia necessaria per far nascere l’ambizione di aprire nuove frontiere.

    A condannare il Cud e tutta quella stagione furono molte cose. Viafora ricorda una scarsa attenzione verso nuovi modi di vedere gli interventi europei, facendo prevalere una logica «conservativa e assistenziale», ma anche l’inadeguatezza della classe politica del tempo. La fine giunse quasi di colpo, con l’avvio del Piano telematico e le sue immense risorse. Era stato annunciato come il più grande investimento per la modernizzazione della Calabria, sul quale si avventarono i partiti del tempo.

    Oggi si parla molto della detestata Dad, eppure nella prima metà degli anni Ottanta la Calabria aveva visto più lontano di tutti, aveva capito che le tecnologie possono costruire e diffondere saperi sofisticati. Il Cud è stato, per questa regione, un breve ed emozionante viaggio in un futuro che abbiamo fatto morire.

  • Dad o non Dad? Scuola in Calabria di nuovo al bivio

    Dad o non Dad? Scuola in Calabria di nuovo al bivio

    Forse è perché ci si abitua a tutto, o forse perché abbiamo poca memoria, ma i tempi che stiamo vivendo sono – per molti aspetti – non meno difficili di quelli già affrontati nei momenti di massima recrudescenza dell’epidemia. Al netto dell’acutizzazione dello scontro tra le fazioni no/pro vax, con annesse reciproche gentilezze su morti premature, gli argomenti restano gli stessi: la capacità della sanità di reggere l’impatto del Covid e che fare con la scuola.

    Su questo tema a dominare la scena è una certa demagogia, non priva di dogmatismo, mancando invece una certa dose di buon senso. Insomma si torna in aula con la scorta di una serie di norme piuttosto macchinose e fragili, ma soprattutto con un approccio: vediamo che succede. E non pare il miglior inizio possibile.

    Occhiuto delega

    In Calabria Roberto Occhiuto si accorge finalmente che abbiamo una sanità vacillante e sulla scuola, essendo più scaltro di Spirlì che chiudeva gli istituti ogni settimana per poi farseli riaprire dai tribunali che accoglievano i ricorsi delle famiglie, annuncia che pure lui vorrebbe chiudere, ma non può. E così delega, strizzando l’occhio ai sindaci nella migliore tradizione dello schivare decisioni difficili. È partita in questo modo una specie di “fai da te” localistico, con primi cittadini e dirigenti che decidono per conto loro.

    Tra Jan Palach e don Milani

    Anche a Cosenza il sindaco Caruso ha avviato una consultazione tra i presidi della città per conoscere la situazione dei contagi e valutare assieme che fare. Subito è partita la crociata, la guerra di religione tra chi considera possibile e perfino utile un breve periodo di didattica a distanza e quanti invece annunciano di essere pronti ad immolarsi come novelli Jan Palach sull’altare della cattedra per non far ripartire la Dad.

    È tutto un fiorire di frasi e concetti cui è impossibile opporsi, considerata la loro universale solidità: «La Dad interrompe il dialogo educativo, spezza il legame docente-studente»; «La Dad acutizza le differenze sociali e discrimina i più deboli»; «La Dad impoverisce la trasmissione del sapere e la formazione del pensiero critico». E se ciò non bastasse, ecco riesumate frasi di don Milani e don Sardelli, che di scuola democratica ne capivano eccome.

    Tempi moderni

    In effetti è difficile immaginare i ragazzi di Barbiana alle prese con collegamenti a Internet e l’esperienza dell’Acquedotto Felice fatta con i tablet, ma i due preti eretici combattevano contro l’ingiustizia, non anche contro il Covid. L’impressione è che quanti sparano bordate contro la Dad guardino il mondo attraverso la stretta feritoia del loro bunker ideologico. Che accarezzino una idea di scuola in gran parte sbiadita, minacciata da tempo dal mutamento complessivo delle cose.

    I luoghi dentro cui si afferma la formazione dei ragazzi, oltre alla famiglia e alla scuola, oggi sono soprattutto i new media (ma pure i vecchi). E il tempo che gli studenti trascorrono ascoltando i prof è piccola parte rispetto a quello che passano guardando programmi spazzatura. Così la capacità di seduzione educativa dei primi è rattrappita e questo senza che la causa sia la Dad.

    Lo scrittore Daniel Pennac sul palco del Teatro Rendano di Cosenza qualche anno fa
    Lo scrittore Daniel Pennac sul palco del Teatro Rendano di Cosenza qualche anno fa

    Perfino il prof raccontato da Pennac, quello che svuotava la borsa di libri e esponeva “la vita” ai suoi studenti farebbe fatica a contrastare questi mostri. C’è davvero chi pensa che l’impoverimento educativo, l’analfabetismo funzionale che assedia le nostre comunità siano causate dalle lezioni davanti ad un monitor? Una poesia di Hikmet o una pagina di Debord sono meno affascinanti se lette in remoto?

    Invalsi, prima e dopo

    La fotografia crudele della condizione della nostra scuola ci viene ancora dai criticatissimi risultati Invalsi. Negli anni 2018/19 e 20/21 (nell’anno scolastico 2019/20 i test non vennero effettuati) ci consegnano una Calabria in coda alla qualità dell’istruzione italiana. Prendendo solo in considerazione i risultati nell’uso scritto e nella comprensione dell’Italiano, la scuola calabrese dopo l’esperienza della Dad (quindi 2020/21) arretra di quattro punti sulla media nazionale (da 191 dell’anno scolastico 19/20 a 187).

    invalsi-test
    Test Invalsi

    La situazione peggiora anche in matematica, dove nei Licei ci si attesta sui 190 punti, che scendono nei professionali a 150, mentre la media punteggio nazionale è 210. Reggono le elementari, i cui risultati sono assai simili a prima dell’avvio della didattica a distanza, ma la condizione precipita marciando verso la maturità. Il dato maggiormente preoccupante è l’aumento della dispersione scolastica, che dopo la Dad riguarda circa un quinto degli studenti. Al netto di quanto siano adeguati i metodi di rilevamento Invalsi, resta l’immagine di un Paese diviso, senza che si intravedano strategie utili a rinsaldarne i destini attraverso la scuola.

    Dad, buoni propositi e ipocrisia

    La Dad dunque è il demonio? Sarebbe troppo facile liquidare una problematica così complessa cercando di banalizzarne la soluzione. La pandemia si è abbattuta come un maglio su ogni espressione della società, non risparmiando la scuola, ovviamente. Ma cosa sarebbe accaduto se una epidemia come quella che stiamo vivendo si fosse manifestata prima della diffusione capillare di dispositivi di collegamento a distanza? Semplicemente avremmo davvero chiuso le scuole, che invece con la Dad hanno tenuto vivo il senso di comunità scolastica e resistito al rischio di una vera e totale disfatta educativa. Senza la Dad, il disastro sociale sarebbe stato immane.

    Intanto nel nulla sono finiti, prevedibilmente, i buoni propositi che avevano accompagnato la chiusura del passato anno scolastico: lo smantellamento delle aule pollaio e il potenziamento delle risorse destinate all’istruzione. La scuola resta luogo di potenziale contagio con aule piccole e sovraffollate e tra chi esalta i docenti pronti a fare scuola «in qualunque condizione» come fanti sul Piave a fermare l’invasore e chi immagina tamponi a tappeto a vincere è l’ipocrisia di quanti raccontano che la scuola è una priorità nazionale. La scuola è solo un campo di battaglia.

  • Cosenza frana e i soldi per salvarla restano un mistero

    Cosenza frana e i soldi per salvarla restano un mistero

    «Le frane sono un evento imprevedibile, ma le aree a rischio si conoscono bene, per questo la minaccia per la popolazione può essere mitigata», spiega Fabio Ietto, geologo e docente all’Unical. Il centro storico di Cosenza è interamente cresciuto su un’area a rischio e di frane ce ne sono state parecchie, per fortuna senza che nessuna abbia causato morti.

    Incidente mortale

    La sola vittima, indiretta, di una frana è stata Giampiero Tarasi, che l’otto marzo si è andato a schiantare con la moto contro i blocchi di cemento che chiudevano via Vittorio Emanuele II. Ad uccidere Giampiero non è stato un masso venuto giù dalla collina, ma l’inerzia di chi, pur avendo chiuso la strada da mesi, non solo non aveva provveduto a mettere in sicurezza la parete franosa, ma non aveva nemmeno adeguatamente segnalato l’interruzione.

    Striscione di protesta sui muri del Comune di Cosenza dopo la morte del giovane Tarasi
    Striscione di protesta sui muri del Comune di Cosenza dopo la morte del giovane Tarasi

    Eppure quella frana era caduta mesi prima e ancora oggi, a dispetto di tutto, la via principale di accesso a Porta Piana resta chiusa. Eppure «alcuni provvedimenti – continua Ietto – sono possibili. Sono diverse le soluzioni che il geologo può proporre alle amministrazioni di realizzare, come il posizionamento di reti, o semplicemente individuare i massi pericolanti e rimuoverli in sicurezza. Spesso però non ci sono risposte dalle autorità a tali sollecitazioni».

    Rischi diffusi

    «La decisione di chiudere via Vittorio Emanuele II è emersa da un tavolo di concertazione», afferma Antonella Rino, ingegnere e dirigente del settore Protezione civile del Comune di Cosenza. La Rino ricorda la presenza di tutte le autorità di riferimento in quelle circostanze, quindi i rappresentati della Prefettura, i Vigili del Fuoco, la Protezione civile regionale. La dirigente esprime tutta la sua preoccupazione, ma anche l’impotenza, davanti alla diffusione di situazioni a rischio, come la zona di contrada Jassa, «dove esiste una minaccia relativa a uno scenario idrogeologico, con un certo numero di famiglie a rischio di evacuazione in caso di allerta meteo». Rischio che si è puntualmente presentato nel corso dalle recenti forti piogge.

    Quanti soldi ci sono?

    Si dovrebbero mettere in campo interventi di prevenzione, ma è difficile senza risorse adeguate. Con tono sconsolato la dirigente dichiara che il suo ufficio «è ridotto al lumicino, senza nemmeno un dipendente». Ad occuparsi degli interventi dovrebbe essere il settore Infrastrutture, il cui dirigente è assente per motivi di salute. Senza di lui nessuno sa di preciso se e quanti soldi ci sono per il dissesto idrogeologico. Nemmeno il neo assessore Damiano Covelli è certo dell’esistenza di risorse per provvedere alla messa in sicurezza delle frane, avendo a che fare la nuova giunta con un dissesto di ben altra natura.

    Cosenza frana- Il neo assessore comunale cosentino Damiano Covelli
    Il neo assessore comunale cosentino Damiano Covelli
    Prevenire è meglio che curare

    Il dissesto, quello idrogeologico, intanto non aspetta. Ed è ancora Ietto a spiegarci che nel frattempo altre situazioni a rischio sono emerse, «come quella del 2019 a via Corsonello, strada di accesso alla città vecchia e a contrada Macchia». Si estende dunque l’area a rischio e «l’ente competente dovrebbe fare prevenzione, non limitarsi a chiudere le strade dopo una frana», dice ancora il geologo. Letto, però, è consapevole che spesso «il singolo comune non ha soldi per affrontare per intero l’emergenza e perciò servirebbero risorse a livello ministeriale»

    Occasioni sprecate

    Per la verità di soldi dallo Stato ce ne sarebbero pure stati. Quelli, ad esempio, del Dipartimento per gli affari territoriali, Direzione centrale della Finanza Locale del Ministero dell’Interno, che aveva emanato un bando per l’accesso a cospicue risorse destinate a «opere pubbliche di messa in sicurezza degli edifici e del territorio». Per i comuni con popolazione oltre i 25mila abitanti, c’erano disponibili cinque milioni di euro, ma incredibilmente il Comune di Cosenza fece spallucce e non aderì al bando.

    Frana a Portapiana
    Frana a Portapiana

    Ma se credete che quelle siano state le sole risorse destinate alla sicurezza del territorio perse dalla passata amministrazione vi sbagliate. Infatti nel 2016 nel Repertorio Nazionale degli interventi per la difesa del suolo erano previsti ben sette milioni di euro per interventi mirati alla mitigazione del rischio di qualche nuova frana nel Centro storico. Quei soldi però non sono mai arrivati, bloccati da questioni burocratiche che hanno fatto scadere il contratto con la ditta che avrebbe dovuto gestire i servizi.

    L’ultima speranza
    Fabio Ietto
    Il geologo Fabio Ietto (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Ancora una volta l’ultima speranza viene dai famosi 90 milioni, alcuni dei quali sarebbero destinati proprio a «interventi strategici per la qualificazione del quartiere dove è ubicato il Conservatorio e l’adeguamento del muro di sostegno Portapiana»
    Il fatto è che, come insiste Fabio Ietto, «il centro storico di Cosenza vive una condizione e di degrado notevolissima». Ma oggi dire una cosa del genere potrebbe diventare rischiosa: anche Giustino Fortunato, che descrisse la Calabria come «uno sfasciume pendulo» potrebbe essere denunciato.

    La locuzione originaria – “sfasciume pendulo sul mare”– è ascritta a Giustino Fortunato (“La questione meridionale e la riforma tributaria”, 1904)

  • Centro storico, i novanta milioni possono attendere

    Centro storico, i novanta milioni possono attendere

    Ve li ricordate i 90 milioni per il centro storico di Cosenza? Quelli del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis), di cui tutti hanno cercato di rivendicare la paternità? Ebbene forse stanno arrivando. Il forse è d’obbligo, visto che il cammino è ancora lungo e le buone intenzioni hanno sempre lastricato le strade finite peggio. Però alcuni segnali incoraggianti ci sono e la partita (gare, appalti e lavori) potrebbe essere avviata nell’ormai prossimo 2022. La scadenza originaria per chiudere la parte relativa alle gare era il 31 Dicembre di quest’anno e al momento praticamente nulla si era mosso. Ma, grazie alla proroga governativa, la data si è spostata alla fine del prossimo anno. Dunque di tempo per avviare procedure e canalizzare gli investimenti ce n’è.

    Solo la Provincia va avanti

    Tra i protagonisti di questa grande opportunità, Mic, Unical, Comune e Provincia di Cosenza, solo quest’ultima è un passettino più avanti. Sul sito dell’ente governato fino a ieri da Iacucci, diventato da pochissimo consigliere regionale, si legge che i 31 milioni che saranno gestiti dalla Provincia andranno a quattro progetti. Il primo è l’adeguamento strutturale e restauro dell’edificio Chiesa S. Teresa D’Avila annessa all’ex Convento dei Padri Carmelitani Scalzi noto altresì come ex orfanotrofio Vittorio Emanuele II° in Via Gravina attuale sede dell’I.I.S. “Mancini – Tommasi” (3.660.000 euro).

    centro-storico-Santa_Teresa_dAvila
    I resti della chiesa di Santa Teresa d’Avila

    Poi ci sono la ristrutturazione dell’edificio sede del Liceo “Lucrezia Della Valle” di Cosenza (7.700.000 euro); l’adeguamento strutturale e il restauro del “Convitto Nazionale – B. Telesio” per utilizzo a Scuola Superiore con annesso convitto ed area a destinazione incontri e convegnistica e realizzazione Incubatore culturale in sinergia con Unical ed associazioni presenti sul territorio (15.000.000 euro); adeguamento/miglioramento strutturale e restauro del Conservatorio “S. Giacomantonio” (4.930.000 euro).

    Anche il Ministero è in ritardo

    Per il resto perfino il Ministero dei Beni culturali è in ritardo, visto che Anna Laura Orrico, parlamentare dei 5Stelle ed ex sottosegretaria, ha dovuto formalmente sollecitare lo stesso Ministero a nominare il Ruc, che nel linguaggio burocratese è il responsabile unico di controllo. Insomma, si erano scordati il controllore e non si poteva cominciare. La Orrico è certamente tra quanti possono rivendicare l’aver lavorato affinché il centro storico di Cosenza rientrasse tra i destinatari di questo tesoro e racconta come stanno le cose ad oggi.

    «La Provincia è avanti – spiega la parlamentare grillina – e nella prima parte del 2022 potrebbero partire i lavori di sua competenza, mentre il Comune sconta i ritardi dovuti all’inerzia della vecchia amministrazione». L’amministrazione fino a ieri guidata da Occhiuto, per mettersi in moto pare abbia avuto bisogno di un «richiamo ufficiale proprio dal Mic», come ricorda ancora la Orrico. «Il Comune di Cosenza deve gestire la massima parte delle risorse, circa 40 milioni e solo a Luglio aveva cominciato a provvedere alle procedure necessarie», aggiunge.

     

    cis-centro-storico-orrico
    Anna Laura Orrico, all’epoca sottosegretario ai Beni culturali, firma a settembre del 2020 il Cis destinato a Cosenza

    Si comprende subito che l’amministrazione comunale è uno dei protagonisti fondamentali di questa opportunità, per il ruolo strategico che svolge e per la quantità di denaro che deve gestire. Per questo il ritardo assume un gravità maggiore, «ma la nuova amministrazione eletta da poco ha già preso contatti con il Ministero», assicura la parlamentare cosentina.

    Neanche un euro dei 90 milioni per il sociale

    Il vero problema consiste nel fatto che questi famosi 90 milioni destinati alla città vecchia non sono finalizzati a migliorare la qualità della vita di chi vi abita. Infatti queste risorse non possono essere usate per finalità sociali, ma solo per il restauro di edifici pubblici di valenza culturale.

    In quelle vecchie mura intanto vive una umanità in affanno. «Gli abitanti censiti sono circa 2.500, altrettanti crediamo quelli non censiti, sono cittadini lasciati nell’abbandono da anni», dice Francesco Alimena, giovane consigliere comunale da tempo impegnato in attività sociali e di ricerca relative alla parte storica di Cosenza.
    Il degrado urbanistico e l’abbandono hanno generato il disfacimento del tessuto sociale nella città vecchia.

    Francesco-Alimena
    Francesco Alimena, eletto per la prima volta consigliere comunale, si occupa da tempo del centro storico di Cosenza
    L’altro tesoretto

    Se i 90 milioni sono inutili per dare sollievo a questo disagio, altre e non marginali risorse possono essere utilizzate. Per esempio i fondi dell’Agenda Urbana. Cosenza dovrebbe usarli per il risanamento sociale delle aree marginali e quindi anche del centro storico. Si tratta di 18 milioni e «quattro di questi sono destinati ad aiuti diretti, vale a dire mirati al sostegno contro il disagio povertà». Anche su queste risorse, spiega Alimena, si scontano i ritardi della vecchia amministrazione.

    L’ex assessore se la prende con Invitalia

    Francesco Caruso, prima vicesindaco di Occhiuto e poi candidato a guidare la città, non ci sta a fare la figura di chi ha tralasciato di impegnarsi per il centro storico. E fornisce la sua versione dei fatti replicando ad Alimena e alla Orrico. «Per il Cis erano state presentate tutte le schede al ministero e aspettavamo il via dalle autorità. Poi siamo stati fermati dalle richieste di integrazione pervenuteci da Invitalia», spiega Caruso.

    2021_09_Foto 1_Francesco Caruso_Cosenza_elezioni amministrative
    L’ex vicesindaco Francesco Caruso nella redazione de I Calabresi. Si è occupato del Cis fino a poche settimane fa

    Poi rincara la dose, aggiungendo «che pure per quanto riguarda Agenda urbana i ritardi sono da imputarsi dalla eccessiva pignoleria di Invitalia. Vuole accentrare il potere decisionale sottraendolo alle realtà locali, forse perché ha interessi nell’affidare le progettazioni». Ma non basta, Caruso su Santa Lucia spiega che «avevamo recentemente rimodulato le particelle di esproprio al fine di acquisire gli immobili oggetto di intervento comunale». E torna all’attacco: «Adesso la gestione è loro, dimostrino, una volta che avranno finito di lamentarsi, di avere le capacità di portare a compimento quanto avviato».

    Il Contratto di quartiere al palo

    Per la verità, di finire il lavoro degli altri i protagonisti della nuova stagione politica non ne hanno per nulla voglia. La visione che propone la nuova amministrazione è quella che coniuga il recupero urbano con la qualità della vita delle persone che vivono in quegli spazi. L’obiettivo cui ambisce Alimena è quello di utilizzare le risorse del Contratto di quartiere Santa Lucia per creare realtà di convivenza sociale come il Social housing. Alimena ricorda che ci sono sei milioni di euro per far rivivere quegli antichi vicoli e restituire dignità a chi li abita.

    cosenza-crollo-santa-lucia
    Il tetto crollato di un edificio all’ingresso del rione Santa Lucia a Cosenza

    Sul campo intanto si sperimentano prove di rinascita urbana, proprio tra i vecchi vicoli di Santa Lucia. Il progetto Lucy, ad esempio, un’esperienza di riuso urbano e di riconquista degli spazi negati e abbandonati da parte dei cittadini. Si tratta di indicare una strada, che diventerà interamente percorribile solo grazie alle risorse attese. Ma Alimena è fiducioso: «I cantieri del Cis devono partire entro la fine del 2022, ma l’Agenda Urbana può trovare realizzazione anche prima». È l’ottimismo della volontà, come direbbe Gramsci. La ragione suggerisce di tenere gli occhi aperti.

  • Traffico e trasporti: Cosenza nel caos, come salvarla?

    Traffico e trasporti: Cosenza nel caos, come salvarla?

    «Vuole risolvere il problema del traffico a Cosenza? Servono trenta vigili e dieci carroattrezzi», ride della propria idea draconiana Giuseppe Scaglione, docente di Urbanistica presso l’Università di Trento. Magari non basta, perché il problema è più complesso e il professore lo sa, però ha ragione visto che da «Trento a Cosenza, la tentazione dell’automobilista medio è quella di trasgredire». Insomma è anche una questione culturale e temere sanzioni può aiutare ad assumere comportamenti più civili e a non lasciare la macchina in doppia fila per andare al bar.

    Sosta selvaggia genera caos

    In realtà la questione esige uno sguardo più lungo, che per Scaglione è mancato e che deve partire dall’analisi dello stato delle cose. «Cosenza non è come Rende, che attraverso il piano regolatore dell’architetto Malara ha lunghe e larghe strade principali con altrettante ampie corsie trasversali» spiega Scaglione. Il capoluogo, aggiunge, è cresciuto in modo caotico, saltando ogni programmazione. Ed oggi si trova con i pochi assi viari direzione nord-sud e trasversali strettissime e inaccessibili per la sosta selvaggia. La città si è sviluppata in modo eccessivo rispetto le sue reali esigenze abitative, consumando suolo, ma senza poter adeguare alla crescita la sua rete viaria.
    La conseguenza è il caos.

    Trasporti pubblici inaffidabili

    A questa condizione di partenza va sommato il disastro del servizio pubblico. «A Cosenza il servizio di trasporto pubblico si può dire inesistente. Mancano o non sono rispettate le corsie riservate, la puntualità dei mezzi nei loro percorsi è del tutto inaffidabile, mentre a Trento, per esempio, ci si potrebbe regolare gli orologi per la loro precisione».

    A Cosenza a governare la mobilità durante la giunta Occhiuto è stato Michelangelo Spataro. Se gli si domanda un parere sulla viabilità subito ci tiene a spiegare che sono due cose diverse. «C’è un equivoco, io mi sono occupato di trasporto pubblico, non di strade», dice mettendo le mani avanti. Ovviamente è stato uno dei protagonisti della stagione politica appena conclusa e difende la scelte compiute dalla giunta di cui era parte. Per esempio la decisione di chiudere via Roma, che oggi alimenta un acceso dibattito – con tanto di sit-in previsto per oggi pomeriggio – dopo l’ipotizzata volontà del sindaco Caruso di riaprirla al traffico.

    Tutta colpa della Lorenzin?

    «Noi rispondemmo a una lettera dell’allora ministro Lorenzin che chiedeva di chiudere al traffico gli spazi antistanti le scuole e quelle di via Roma erano le più esposte all’inquinamento dell’aria e acustico, con le sirene delle ambulanze che entravano nelle aule dei bambini». Di qui la decisione di chiudere quell’area, con un appalto che Spataro assicura fu pochissimo costoso, ma che chi ha buona memoria ricorda fosse di 300 mila euro. Oggi quel posto è uno dei punti di impazzimento del traffico.

    La sede dell’Amaco, la municipalizzata che si occupa del trasporto pubblico locale a Cosenza

    Se il nodo più stretto da sciogliere che riguarda la mobilità cittadina è il trasporto pubblico, Spataro assicura che l’Amaco «tutto sommato sta bene, che molti dipendenti sono andati in pensione, sgravando l’azienda di costi e i nuovi assunti sanno di prendere solo mille euro». La strategia di rilancio pare dunque quella di pagare meno quelli che vi lavorano, mentre i debiti complessivi viaggiano più veloci dei mezzi dell’azienda: sui 12 milioni circa.

    Un parcheggio in controtendenza

    Senza un servizio pubblico vero, la città è destinata a restare assediata dalle auto, non solo dei residenti, ma anche dei moltissimi che arrivano nel capoluogo che mantiene una sua centralità in termini di uffici e commercio. La soluzione sarebbero anche più parcheggi, «ma non solo come quello di piazza Bilotti – spiega ancora il professor Scaglione – posto nel cuore di Cosenza. Ormai da tempo, in molte città, i parcheggi di grandi dimensioni vengono concepiti ai margini delle città, sono dei terminali della mobilità dai quali si raggiunge il centro con navette».

    La città green che ancora viene raccontata da alcune graduatorie di cui l’ex sindaco si inorgoglisce in realtà non esiste. «Cosenza ha eroso spazi verdi, per esempio nell’area campione intorno alla sopraelevata di via Padre Giglio, che il nuovo sindaco dicono voglia abbattere: oggi sono 44 gli ettari di terreno edificato e solo 20 destinati al verde. Forse sarebbero da abbattere un po’ di edifici e non la sopraelevata» dice Scaglione. Legambiente dice cose diverse, ma i dati sui quali si costruiscono quelle classifiche sono in gran parte forniti dai comuni, come Legambiente stessa ammette. Insomma me la canto e me la suono.

    O si programma o si muore

    La strana vicenda di Viale Parco non poteva rimanere fuori da questo tema. Il mito della metro leggera si è perso strada facendo. Anche perché, come spiega il docente «quella idea è sorpassata rispetto alle aspettative di fruizione, esattamente come è accaduto altrove, per esempio a Messina, perché il flusso di passeggeri giornalieri non giustifica l’investimento». Resta il dilemma: riaprirlo al traffico? «Come per il tratto chiuso di via Roma, sarebbe solo un palliativo. La soluzione è la programmazione complessiva del sistema città-mobilità, con una visione unitaria, che non c’è stata. Si sono chiuse strade senza mai creare alternative vere». Però per Scaglione potremmo salvarci e non morire di traffico. Toccherà al nuovo sindaco programmare il futuro, grazie alle ingenti risorse del Pnrr e progettare una città diversa, basata su una mobilità intelligente capace di coniugare la vivibilità degli spazi con la necessità di spostarsi.

  • Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    La povertà non si vede più. Nessuna illusione: non è stata sconfitta, si è solo trasformata, anche a Cosenza. Mettete da parte lo storpio davanti alla chiesa e la bambina rom con la mano protesa al semaforo. Queste figure continuano ad esistere, ma “il presepe della miseria” oggi conosce nuovi protagonisti, impensabili fino a ieri.  Se volete scoprire cosa accomuna lo straniero che attende una moneta all’ingresso del supermercato alla signora che si accorge di non poter fare la spesa, dovete domandarlo a chi nella trincea delle vecchie e nuove povertà ci sta da parecchio.

    Suor Floriana in prima linea contro il disagio

    Suor Floriana, per esempio, monaca da prima linea contro le forme di disagio che da sempre esistono nella perifericità urbana e sociale della città vecchia. Il suo quartier generale è lo Spirito Santo, zona del centro storico di confine tra vecchi e nuovi bisogni sociali. «Qui troviamo condizioni diverse, microcriminalità, famiglie con congiunti costretti ai domiciliari, oppure detenuti. Tutti contesti di sofferenza e fragilità», spiega suor Floriana. Da qui parte la sua opera di soccorso dei marginali, conoscendo le singole storie accomunate da una sorte di fatica umana. «Dal 2015 nel centro storico si sono spostate molte famiglie rom», continua suor Floriana spiegando che «pagano un fitto per le case che occupano, ma quasi mai alle persone che sono proprietarie degli appartamenti». Infatti quelle case sono state abbandonate dai proprietari e a governare questo fenomeno sono individui che non operano proprio nella legalità.

    Rione di antico degrado

    La frontiera di questa città dolente è ancora Santa Lucia, rione di antico degrado umano, per il quale in passato la vecchia amministrazione aveva annunciato il risanamento grazie a fondi che mai si sono visti. «Qui l’intervento è a tutto campo, dal doposcuola per i bambini, all’assistenza di vario genere rivolta a persone che pur essendo cittadini comunitari, non godono di alcun diritto», spiega ancora la suora, parlando di una schiera di invisibili per le istituzioni che diventano automaticamente indesiderabili per il resto della comunità.

    Crolli e macerie a Santa Lucia, nel centro storico di Cosenza
    Il parrucchiere, il negozio chiuso e il mutuo da pagare

    Ma nemmeno gli “italiani” si salvano, la miseria risucchia pure chi fino a ieri si considerava in salvo. «La vita era quella di prima, non questa» sussurra Anselmo, un parrucchiere la cui quotidianità prima del lockdown era promettente: una discreta clientela, un mutuo per una casa, un orizzonte tutt’altro che cupo. Poi l’imprevedibilità dell’epidemia, il negozio chiuso, il fitto e il mutuo da pagare e l’esaurirsi rapido dei risparmi. Così si è varcato quel confine sottile tra un relativo benessere e lo scivoloso declivio dell’inattesa povertà.  Di qui alla necessità di trovare il coraggio di rivolgersi alle associazioni per avere un sostegno. «Non immaginavo sarebbe mai successo e invece mi sono trovato obbligato a chiedere aiuto e non è stato facile». Non facile, ma inevitabile per Anselmo che ora va a casa delle signore a fare loro le acconciature e da qui prova a ripartire.

    Sergio Crocco: pasti portati pure nei quartieri borghesi

    «Quelli che si vergognano maggiormente sono quelli che non immaginavano di diventare poveri, gli altri sono abituati a chiedere aiuto», spiega Sergio Crocco, punto di riferimento della Terra di Piero, nota associazione cittadina impegnata sui vari fronti del bisogno sociale. Oggi la geografia dell’emergenza povertà si è allargata dalle periferie fino a quelle strade dove le luci del benessere sembravano destinate a non spegnersi mai.
    Sergio Crocco racconta che con i volontari della Terra di Piero nel corso del lockdown ha portato centinaia di pasti ogni sera a chi ne faceva richiesta, dai luoghi storici dell’emergenza economica, fino ai quartieri borghesi.

    Sergio Crocco, presidente e fondatore de La Terra di Piero
    Le istituzioni assenti

    Il rapporto con le istituzioni fin qui è stato vano. «Alessandra De Rosa, esponente dell’amministrazione Occhiuto, è spesso venuta da noi, mostrando sincero coinvolgimento personale – prosegue Crocco – ma mai il suo impegno si è potuto trasformare in intervento reale a causa della mancanza di risorse destinate al bisogno delle persone». Dentro questa mappa della disperazione ci sono gli ultimi tra gli ultimi, quelli che dormono sotto i ponti, quello di Calatrava per l’esattezza. «Sono circa una quarantina di stranieri, che trovano rifugio lì sotto, nell’assoluta indifferenza dei Servizi sociali», continua Crocco rammentando che «quando c’era padre Fedele, di gente che dormiva per strada non ce n’era».

    ponte-calatrava-chochard
    Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021
    Il nemico si chiama pure povertà educativa

    Alla miseria materiale corrisponde quella immateriale. Si chiama povertà educativa. Riguarda non solo l’assenza di opportunità culturali, ma anche di consapevolezza dei diritti di cittadinanza. Giorgio Marcello, sociologo dell’Unical, impegnato da tempo su questo fronte, spiega che è qui che maggiormente si consuma l’ingiustizia sociale. «Il contesto familiare, la mancanza di opportunità culturali, segnano le nuove generazioni», dice il sociologo, confermando che le aree maggiormente deprivate di tali opportunità restano quelle periferiche dell’area urbana. Contro questo nemico sono stati messi in campo interventi delle associazioni di volontariato, «ma la diffusione del tempo pieno a scuola sarebbe lo strumento di maggiore efficacia contro l’impoverimento culturale», spiega il sociologo aggiungendo che «questo comporta una politica educativa, mentre i processi di scolarizzazione sono stati considerati residuali». L’impoverimento della città è un nemico difficile da battere a mani nude, servono strategie e risorse.