Autore: Michele Giacomantonio

  • Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Chissà questa destra di governo e di rigurgiti autoritari quanto avrebbe odiato quel pretaccio di Barbiana. Probabilmente parecchio. Probabilmente gli avrebbe riversato addosso tutto il fango mediatico di cui sarebbe stata capace, del resto uno che fa il prete ma non predica l’obbedienza è già uno strano, se poi si mette in testa che siamo tutti uguali e abbiamo diritto alle stesse opportunità, anzi chi sta indietro di più, allora va contro l’idea di scuola del merito fondato sul privilegio di classe e quindi, insomma, è uno pericoloso.

    Altro che Barbiana, a don Milani la destra di oggi avrebbe riservato un destino ben più crudele che un confino in montagna: schiacciato sui social e sui media addomesticati da quegli «scrittori salariati» che oggi si trovano a buon mercato.

    don-milani-pretaccio-destra-potere-avrebbe-odiato
    Rivoluzionario. Un aggettivo per Don Milani

    Perfino la Fondazione Agnelli

    Don Lorenzo Milani nasceva cento anni fa e il suo agire politico – perché di questo si è trattato – avrebbe trovato il culmine nel maggio del ’67 con la pubblicazione di Lettera a una professoressa, il manifesto sull’ingiustizia della scuola. È difficile trovare qualcuno che critichi apertamente la visione di don Milani, perfino la Fondazione Agnelli, che prospetta da sempre futuri neo liberisti e mercantili per l’istruzione, sul suo sito pubblica articoli positivi sull’esperienza della scuola di Barbiana. Il motivo è che è impopolare dire che la scuola deve fare la selezione, occorre far passare questo messaggio in modo obliquo, in maniera che sembri accettabile.

    Contro la scuola dei “migliori”

    Don Milani ha avuto molti discepoli, ma tra essi non la politica che della scuola ha fatto sempre la Cenerentola, (è di oggi la notizia che il governo Meloni annuncia il taglio di 79 mila posti negli asili) o peggio una trincea da conquistare. Ed ecco che torna la scuola che fa andare avanti i “migliori”, solo che questi, ieri come oggi, sono “i figli del dottore”, dei tempi di Milani, quelli che provengono da famiglie con massime risorse e per ciò stesso con ottime opportunità.
    Don Milani della scuola del merito e del logo grottesco che evocava fasci littori (poi ritirato dal ministero perché certe cose sono pessime pure per loro), non avrebbe riso, perché era pure piuttosto incazzoso, ma avrebbe spiegato che il merito è un inganno, una trappola classista per separare e fare differenze. Perché le disuguaglianze nella scuola ci sono ancora, anzi sono acuite, a più livelli.

    Una questione di lavagne Bosch

    Alcuni anni fa, nel corso di un convegno nazionale sulle esperienze dei licei economico-sociali presso un grande istituto milanese, emerse che uno dei partner di quella scuola era la Bosch, che i ragazzi facevano tirocini nell’azienda e ogni anno le classi avevano una Lim (lavagna interattiva multimediale) nuova e il mio pensiero andò a quei docenti calabresi che invece l’ingiustizia sociale e la fatica di fare uguaglianza devono affrontarla a mani nude. La Bosch non sana la inuguaglianza sociale, ma senza quelle risorse è più difficile, perché alla fine è una questione di soldi e di opportunità. Basti pensare al salto compiuto dalla Calabria nella sola vera rivoluzione compiuta da queste parti, cioè la nascita dell’Unical, grazie alla quale si è passati in un tempo ragionevolmente breve da una generazione di semi analfabeti a una di laureati.

    don-milani-pretaccio-destra-potere-avrebbe-odiato
    Don Milani fa lezione in classe

    Le parole di Don Milani

    E dentro questo contesto che le parole d’ordine di Lorenzo Milani disvelano la loro potente attualità: il prendersi cura degli altri, come segno d’opposizione ai “mene frego” di ieri e riproposti oggi, la negazione dell’obbedienza come virtù e la rivendicazione del diritto a “non tacere”, che sarebbe stato più compiutamente rappresentato negli anni successivi da un altro prete eretico, Don Sardelli, l’antimilitarismo, il rifiuto di fare la differenza tra italiani e stranieri e infine l’idea mai tramontata di fare della scuola il luogo di riscatto, di emancipazione, di reale mobilità sociale, insomma il sapere come potere rivoluzionario di cambiamento personale e collettivo. Perché la scuola deve essere sovversiva e a spiegarcelo, tra gli altri, c’è stato pure un prete.

  • L’emendamento ad Gentilem che fa infuriare i Cinque stelle

    L’emendamento ad Gentilem che fa infuriare i Cinque stelle

    Hai perso la partita? Puoi sempre tentare di capovolgere il risultato cambiando le regole del gioco. È quello che potrebbe accadere martedì prossimo nella Giunta elettorale della Camera dei Deputati. In quell’occasione la maggioranza di destra, forte dei suoi numeri, quasi certamente riuscirà ad approvare un emendamento che cambierebbe i destini di alcuni candidati.

    Gentile vs Orrico

    Tutto nasce da un ricorso presentato da Andrea Gentile, erede fin qui mancato di una lunga storia politica, contro la pentastellata Anna Laura Orrico. Il successo della Orrico, di soli 482 voti, apparve al tempo come la classica e imprevista vittoria di Davide contro Golia. Il gigante in questo caso era la famiglia Gentile, che per decenni è stata rappresentata nelle stanze del potere, fino alla carica di sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Renzi ricoperta da Antonio Gentile, che di Andrea è il padre.poltrona-orrico-gentile-parlamento

    Il favor voti

    Anna Laura Orrico non va per il sottile e subito dichiara che la proposta della destra ha lo scopo di aprire le porte del parlamento allo sconfitto Gentile. «L’emendamento prevede che le schede dove l’elettore ha segnato due simboli invece che uno solo, e che per questo sono state annullate, risultino valide», spiega la parlamentare.
    Il criterio su cui la destra vorrebbe fondare questa proposta si basa sul favor voti. È l’idea secondo cui l’elettore, pur avendo sbagliato a votare, abbia comunque espresso chiaramente una intenzione di voto.

    Orrico: «Emendamento cucito apposta per Gentile»

    Senonché questa idea va contro ogni legge elettorale in uso finora. «Non è prevista nel Rosatellum, né lo era nel Porcellum o nel Mattarellum perché snaturerebbe il senso dell’uninominale. Renderebbe riconoscibile il voto ed è contro il vademecum scritto dal Viminale per le elezioni», continua la Orrico. A suo avviso l’emendamento avanzato sembra «cucito apposta per Gentile, essendo proposto esclusivamente per l’uninominale». Ossia dove il candidato di Forza Italia ha trovato la sconfitta.

    viminale
    Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno

    Tra i due litiganti il terzo va fuori?

    A riguardo abbiamo ripetutamente cercato di metterci in contatto con Andrea Gentile, le cui dichiarazioni sarebbero ovviamente state assai utili per meglio comprendere gli accadimenti. Tuttavia non è stato possibile conversare con lui.
    Nello specifico martedì prossimo la destra si prepara a cambiare le regole di una partita già giocata per potere cambiare il risultato. Se alla luce delle nuove regole Gentile dovesse subentrare ad Anna Laura Orrico, questa manterrebbe comunque il seggio, risultando vincitrice nel plurinominale. Per l’effetto domino a uscire di scena sarebbe Elisa Scutellà.

  • Dal fango del Morrone alla serie B del Rende: l’epopea del rugby cosentino

    Dal fango del Morrone alla serie B del Rende: l’epopea del rugby cosentino

    È un gioco strano, in cui sembra che la palla voglia andare dalla parte contraria a quella dove corrono gli uomini. I giocatori si lanciano, carichi di fatica e sudore e lei, la palla – sbagliata perché ovale – passa di mano in mano. Ma resta sempre indietro. Però alla fine giunge dove gli uomini volevano portarla: oltre la linea di meta.
    È il rugby, bellezza.
    Alcune decine di anni fa da queste parti, tutti gli altri davano calci a un pallone o al più tentavano di centrare un canestro. Ma qualcuno si incantava a guardare gruppi di omaccioni che sembrano azzuffarsi allegramente. E decideva che quello sarebbe stato il suo gioco, per sempre.

    rugby-cosenza-inizi-morrone-serie-b-rende
    Giovani atleti in azione

    Tonino Mazzuca: il pioniere del rugby a Cosenza

    L’avventura comincia agli inizi degli anni Settanta, quando il compianto Tonino Mazzuca, che studiava a Perugia (dove il rugby era già di casa) porta la passione per il  rugby a Cosenza.
    Attorno a lui, lentamente si aggregano ragazzi, richiamati dalla novità, forse anche dalla diversità di questo sport. Per loro anche un modo per andare contro corrente.
    Tra i primissimi, Enzo Paolini, avvocato con un passato di militante radicale, vicino a Giacomo Mancini e oggi tra le altre cose anima del Premio Sila. Tutte vite, le sue, attraversate senza levarsi la maglietta sporca del fango di chissà quanti pacchetti di mischia. Già: se sei stato in una partita di rugby a Cosenza come altrove, se correndo in avanti hai passato la palla all’indietro, quel modo di vivere te lo porti dentro in ogni cosa.

    rugby-cosenza-inizi-morrone-serie-b-rende
    Una mischia spettacolare degli atleti cosentini

    Gli esordi al Morrone del rugby cosentino

    Appena dopo arrivano gli altri, fino a che si forma una squadra in grado di partecipare ai tornei.
    Ma niente è facile in quegli anni: il campo dove ci si allena è il vecchio stadio Morrone, sede del Cosenza nel cuore della città, a via Roma.
    I ragazzi della palla ovale sono paria. I calciatori, che gli cedono il campo solo a tarda sera, li guardano con stupore e una certa ironia.
    Tutto questo significa partite quasi al buio e docce fredde negli spogliatoi. Ma a vent’anni a queste cose si bada poco. Magari le si ricorda dopo, in una serata alla Club house della squadra di rugby, dedicato allo storico pilone Ciccio Macrì, «amico straordinario, atleta dalla grande forza fisica molto temuto dagli avversari», racconta Massimo Ferraro.

    Club house: il luogo della memoria

    La Club house è il luogo dell’incontro e della memoria. È un piccolo angolo d’Inghilterra nel cuore del sud Europa, un pub molto british vicino al Marulla. Alle pareti i trofei, le magliette storiche, le foto con le facce da ragazzi di quelli che oggi sorridono in quel luogo, con i capelli e le barbe ingrigite.
    L’occasione dell’incontro è una partita di calcio, ma ogni scusa va bene per stare assieme e mantenere il fuoco della passione. Oggi sono professionisti, ma il fango dei campetti e il furore delle mischie non si scordano. Anzi, si celebrano tutti i giorni come un impegno quasi cavalleresco.
    Non si vedrà mai un rugbista fare quel che accade normalmente nei campi di calcio, dove i giocatori si rotolano per terra dopo un blando scontro e simulano gravi infortuni, salvo riprendere baldanzosamente la partita poco dopo. È, per dirla senza esagerazioni, una questione d’onore più ancora che di correttezza sportiva.

    Tanti anni dopo: la Club house Macrì piena zeppa di persone (e ricordi)

    Uno sport politico

    Infatti il rugby ha un’etica che va oltre il gesto atletico: vincere è ovviamente importantissimo, ma di più lo sono il bel gesto, il sacrificio per la squadra, la lealtà.
    È una visione quasi “politica” dello sport che va oltre la banalità decoubertiana del “partecipare” ed esalta invece l’essere parte di un gruppo mettendo da parte le tentazioni di protagonismo.
    Perché il rugby è uno sport di sacrificio. Passare la palla indietro significa condividere una strategia, aver fiducia nel gruppo, valorizzare i talenti di tutti, partecipare alla fatica e alla vittoria, senza eroi, ma tutti uguali combattenti.

    Il rugby a Cosenza nel ricordo di Civas

    Nella Club House intanto sul maxischermo prosegue la partita di calcio e dalle cucine arriva Pino Falbo, detto Civas.
    Nessun riferimento al whisky: il suo soprannome è quel che resta dello storpiamento del nome di un famoso giocatore straniero particolarmente bravo nella touche, cioè nella rimessa in campo laterale della palla, pratica cui Pino eccelleva.
    «Ho iniziato a giocare a rugby perché piaceva a mia madre», dice ridendo Pino Civas mentre ha appena finito di friggere una padella omerica di patate ‘mpacchiuse per il gran numero di commensali. Pino sarà anche stato bravo con la palla ovale, ma in cucina non scherza per niente.

    Una partita di rugby anni ’70 in città

    Per amore di mammà

    Certo, è difficile immaginare una madre che si appassiona a un gioco così ruvido. Eppure «a lei piacevano le mischie», cioè quel mucchio di uomini tra i cui piedi a un certo punto sgusciava una palla strana e qualcuno la prendeva per cominciare a correre. Insomma Pino Civas Falbo ha cominciato per amore della mamma a «mettere la testa dove altri non avrebbero osato mettere nemmeno i piedi», come disse il rugbista francese Jean-Pierre Rives per descrivere una mischia. E ha proseguito fino all’88, quando ha giocato la sua ultima partita.

    rugby-cosenza-inizi-morrone-serie-b-rende
    Giovanni Guzzo

    Il regalo di don Giacomo al rugby di Cosenza

    Intanto sullo schermo la partita prosegue e la rievocazione pure. Anche di chi intanto se n’è andato, come Giovani Guzzo, in memoria del quale ogni anno si gioca un torneo che porta il suo nome.
    Quelli raccolti attorno al tavolo imbandito sono stati i pionieri della palla ovale a queste latitudini, hanno vissuto gli inizi al Morrone, la sua demolizione e la fatica di cercare un altro campo. Poi la possibilità di usare il San Vito, concesso da Giacomo Mancini grazie alle richieste di Paolini.
    Hanno visto i trionfi e oltre trent’anni dopo la storica promozione del Rugby Rende in serie B, restano i testimoni di un’epopea che ancora prosegue.

    Che Guevara rugbista

    Hasta la meta

    Intanto la partita di calcio finisce, se fosse stata di rugby avrebbe avuto un terzo tempo, quello della convivialità. Attorno alla palla ovale ogni cosa è differente, anche il tifo, mai aggressivo o violento Lo spiega Bernardino Scarpino, detto Stecca, il quale racconta dei tifosi gallesi che al Flaminio, nel corso di una partita tra Italia e Galles, avvolgono nelle bandiere i bambini delle famiglie italiane per proteggerli dal vento. Un altro mondo, oppure un altro modo di vedere il mondo. Ma se la palla con cui giochi è fuori dalla norma e invece di calciarla in avanti la si deve passare all’indietro, un poco eretici devono essere anche i giocatori. Eretici e forse un poco romantici rivoluzionari, come il mediano di mischia Ernesto Guevara.

  • Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Attorno al 25 Aprile c’è una antica e proficua pratica del “chiagni e fotti”, esercitata con successo dai fascisti prima e dagli epigoni del Msi che oggi governano provvisoriamente il Paese. È la retorica “dei vinti e dei vincitori”. I primi dovrebbero essere i tiranni che avevano trascinato l’Italia nel baratro della dittatura e della guerra. I secondi, i partigiani che quella tirannia l’avevano sconfitta. Non ci sono dubbi che a vincere fu la democrazia. Ma immaginare i fascisti come vittime condannate all’oblio e alla marginalità sociale è quanto di più lontano dalla storia ci possa essere.

    liberazione-25-aprile-separa-giusti-ingiusti
    Palmiro Togliatti

    La paura dei comunisti

    Il 25 Aprile non è il giorno della liberazione d’Italia, ma la data scelta dal Cln per dare inizio all’insurrezione in tutto il territorio nazionale ancora occupato dai nazifascisti. Un momento di forte unità nazionale, quindi. Invece, ancora oggi appare come una data divisiva, più volte attaccata sul piano revisionistico e minacciata di cancellazione. Le cause di tanta avversione affondano le loro radici nell’anticomunismo potente che attraversò l’Italia nel primissimo Dopoguerra e a lungo negli anni successivi, malgrado il Pci di Togliatti avesse formalmente scelto una strada tutt’altro che insurrezionale, impegnandosi a sostenere la comune causa antifascista senza volerla egemonizzare, pur potendolo fare, considerata la massiccia presenza di partigiani comunisti. Anche sul piano culturale, non solo propriamente politico e strategico, le azioni dei partigiani nella narrazione del Pci erano gesti legati alla liberazione dal tiranno, non finalizzati alla lotta di classe.

    I fascisti riprendono i loro posti

    Tutto questo non bastò. E il nuovo Stato, che pure il Pci aveva grandemente contribuito a far nascere con il coraggio e il sacrificio di moltissimi, conservava nelle sue viscere proprio quei fascisti che con banale trasformismo avevano ripreso i loro posti nella polizia e nella magistratura. Va da sé infatti che la persecuzione a carico dei capi partigiani all’indomani della fine della guerra non può essere separata dalla composizione della classe egemone di allora. La stessa che spesso aveva orrendi scheletri da far dimenticare, anche grazie ad apparati dello Stato che erano colpevolmente scampati a una adeguata e necessaria epurazione. Del resto dopo l’amnistia togliattiana i carnefici – e perfino i loro capi – erano tornati a casa e spesso avevano riavuto il loro posto nella gerarchia sociale.

    Fu in questo clima che i carnefici che avevano torturato e stuprato furono rilasciati con sentenze assai blande. Chi aveva con le armi liberato il Paese, invece, fu perseguitato con stupefacente accanimento. Questo sin dalla primavera del ’45, quando i tribunali militari alleati perseguirono i capi delle formazioni garibaldine del nord Italia per fatti avvenuti nel corso della guerra, ma ritenuti illegittimi.

    I processi ai partigiani

    Per dare la misura della persecuzione vale la pena di citare I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana, di Michela Ponzani. L’autrice parla di «308 partigiani fermati, 142 arrestati, 46 denunciati a piede libero, 34 condannati alla pena complessiva di 614 anni e 10 mesi di reclusione, di cui 55 assolti dopo aver scontato 35 anni complessivi di carcere preventivo e 54 amnistiati dopo aver scontato 10 anni e 8 mesi di carcere preventivo. A queste cifre devono aggiungersi quelle relative al solo 1950 che indicavano il numero di 131 partigiani processati per fatti inerenti la guerra di Liberazione, dei quali 27 condannati a una pena complessiva di 460 anni e 10 mesi di carcere e 52 amnistiati dopo aver scontato complessivamente 128 mesi di carcere preventivo».

    Non furono pochi i partigiani che subirono processi dopo la guerra

    Lo stigma sociale 

    Ma non c’era solo il carcere, c’era lo stigma sociale dell’essere stato partigiano. E c’erano la fatica di trovare un lavoro, il marchio della militanza politica (come successo a Cesare Curcio a Pedace) e la scomunica della Chiesa. Fino ad arrivare a giorni più prossimi ai nostri tempi, perché la Festa della Liberazione pur essendo antica, non ha trovato che di recente cittadinanza sui giornali e nelle aule di scuola, uscendo da un dimenticatoio ben organizzato e resistendo fin qui ad attacchi improvvisati e maldestri, ma le cui origini sono antiche.

    È guardando indietro che capiamo chi sono davvero i vinti e chi i vincitori. E capiamo che il 25 Aprile è divisivo giacché separa i giusti dagli ingiusti. E se oggi La Russa – che quasi non riesce a pronunciare la parola antifascismo – è presidente del Senato, è perché quelle aule non sono un bivacco di manipoli, come chi è raffigurato nei busti che tiene in casa avrebbe voluto.

  • Franco Costabile e la Calabria che non cambia mai

    Franco Costabile e la Calabria che non cambia mai

    Via del Casale Giuliani è una strada di Roma tutta in salita e la prima volta che ci andai fu quasi un pellegrinaggio laico. Volevo vedere la via dove abitava Franco Costabile e dove aveva deciso che la vita era una cosa tropo faticosa per essere affrontata.
    Restai lì a guardare i palazzoni tutti uguali, cercando di indovinare quale fosse la casa del poeta calabrese i cui versi non si insegnano nelle scuole, anzi sono proprio dimenticati, pur se ad amarli quei versi furono Ungaretti e Caproni che a Costabile dedicarono parole cariche d’amore.

     

    lapide-franco-costabile
    I versi che Giuseppe Ungaretti dedicò a Franco Costabile dopo la sua morte sulla lapide del poeta calabrese

     

    Oggi ricorre l’anniversario della sua morte e con tutta evidenza ogni cosa è cambiata.
    Il quartiere romano dove Costabile abitava si è trasformato negli anni da triste periferia in una zona residenziale abitata da una borghesia benestante. E la Calabria che lui raccontava nelle sue poesie non c’è più, trascinata da una modernità che non l’ha emancipata dalle sue disgrazie, ma solo imbruttita.

    La Calabria di Franco Costabile

    Eppure sembra restare intatta una potente attualità in quei versi, nella descrizione di una terra senza redenzione, che pare condannata alla rinuncia. Diversa e nonostante tutto ancora drammaticamente uguale la dinamica del consenso elettorale, come nella poesia in cui Costabile elenca ripetutamente i nomi dei notabili della vecchia Dc che durante lo spoglio elettorale si ripetevano senza fine: “Cassiani, Cassiani, Antoniozzi, Antoniozzi, i nomi segnati e pronunciati per trentasei ore”.

    Erano le famiglie che decidevano il destino della Calabria, il cui voto era suggerito dalla Chiesa influente e vicina al potere. Adesso sono cambiati i nomi, ma non troppo. Basti pensare che ancora oggi un Antoniozzi è arrivato in parlamento con i voti dei calabresi. E se in passato “L’onorevole tornava calabrese” in occasione di “processioni ed elezioni”, adesso non deve nemmeno fare questa fatica, i voti se li prende e basta.

    Ma se volete la misura di come Costabile e i suoi versi siano attuali, leggetevi la poesia Il taccuino dell’onorevole, perché è impressionante per come quelle parole sembrino uscite dalla bocca di un qualunque politico attuale.

    Il taccuino dell’onorevole

    L’Occidente,
    Pensarci su

    Insistere
    sul termine
    salvezza ecc.

    Ricordarsi
    l’enciclica.

    Statistiche
    Molte scarpe nel sud
    molti cucchiai

    Avvolgere col tricolore
    dieci minatori morti

    Calcolare
    50” di applausi

    Qualcosa
    sull’uomo

    Tornare
    all’enciclica

    La polizia
    le piazze calme
    Cura del paesaggio
    molta alberatura verde

    Per il contadino
    dire anche 2 foglie

    Bontà delle suore.

    Bambini a scuola
    con molte medaglie

    Undici arcate
    I Cavalieri del lavoro

    Citare
    il cammello
    e la cruna dell’ago

    L’area democratica
    citare più volte

    Diverse e paradossalmente ancora uguali le dinamiche economiche rivolte alla nostra regione. Una volta c’era la Cassa per il Mezzogiorno, oggi i mille provvedimenti per il sud, fino al Pnrr. Ma come scriveva Costabile nella raccolta di poesie La rosa nel bicchiere, “l’occhio del mitra è più preciso del filo a piombo della Rinascita”, perché magari la ‘ndrangheta di oggi spara di meno rispetto al passato, ma è pervasivamente dentro gli affari di qualunque progetto di ricostruzione. Ora come allora vale la supplica di Costabile rivolta ai governanti: Non venite a bussare con cinque anni di pesante menzogna.

    franco-costabile-poesia-sul-padrone
    Una poesia di Franco Costabile su un muro del centro storico di Sambiase

    Perché studiare Franco Costabile

    Né nei versi di Costabile manca la consapevolezza delle opportunità perdute, della distorsione culturale che per anni ci ha portati a “chiamare onore una coltellata e disgrazia non avere un padrone, troppo tempo a stare zitti quando bisognava parlare”. Restano uguali gli stereotipi che vogliono la Calabria un paradiso, una terra meravigliosa, fatta “Di limoni e salti di pescespada”. Oggi quell’inganno si è trasformato nei cortometraggi pagati a milioni e che hanno fatto ridere il mondo.
    Franco Costabile andrebbe letto nelle aule dei licei perché, a saperli leggere, si colgono i mutamenti e l’immobilismo della Calabria più nelle sue poesie che negli aridi report dell’Istat.

  • I licei del made in (Vin)Italy

    I licei del made in (Vin)Italy

    Idee poche, ma confuse. E patriotticamente autarchiche. Dopo le contorsioni storiche del presidente del Senato, incapace di parlare di antifascismo e la proposta di legge – che sembra uno scherzo ma non lo è – che prevede multe da infliggere a chi osasse pronunciare parole anglofone, ecco spuntare i licei del “Made in Italy”, che con quel nome, se già esistesse, sarebbe a rischio di censura. Di cosa si tratti non è ancora chiaro. Né è da escludere che resti null’altro che una proposta propagandista tra le tante tirate fuori per distogliere l’attenzione dai molti inciampi del governo Meloni sul piano economico ed europeo.

    Licei: made in Italy o Vinitaly?

    Se restiamo alla spiegazione fornita da Carmela Bucalo, senatrice di FdI, dovrebbe essere una scuola in grado di rendere gli studenti «capaci di riconoscere le insidie dei mercati, i prodotti falsi provenienti dalla Cina, gli inganni del cibo sintetico». Praticamente un corso antisofisticazioni. Ma la rappresentante del popolo non sembra avere le idee chiare. Ed ecco che aggiunge: «Vorremmo stimolare i ragazzi del nuovo liceo a proseguire gli studi nelle università di settore o negli Istituti tecnici superiori». Qualche ghost writer spieghi alla povera donna che dopo il liceo, qualunque esso sia, iscriversi a un Istituto tecnico superiore non ha molto senso.
    L’idea del nuovo indirizzo di studi è venuta nel corso di Vinitaly, la fiera del vino che si svolge a Verona e forse la cosa non è del tutto casuale.

    bucalo-licei-made-in-italy
    Carmela Bucalo ha parlato a Verona degli ipotetici licei del Made in Italy

    Il compagno Gentile

    Di certo lo scopo dichiarato è quello di costruire un percorso didattico che esalti «una solida preparazione identitaria», ignorando la globalizzazione dei saperi che esige invece una flessibilità di pensiero e di conoscenze necessaria a governare complessità mai sperimentate prima.
    Tuttavia se questo non bastasse a far sorridere, ecco il contorsionismo meloniano che ci spiega che «la sinistra ha distrutto gli istituti tecnici per favorire i licei», mentre gli Albergheri e gli istituti Agrari «sono i veri licei». Eppure questa perversa visione che ancora immagina la separazione tra scuole di serie A e di serie B affonda le sue radici nella “fascistissima” riforma dell’istruzione realizzata da Giovanni Gentile, ministro del regime poi ucciso dai partigiani dei Gap.

    mussolini-gentile
    1932, Mussolini e Gentile all’inaugurazione dell’Istituto italiano di Studi germanici, presieduto dal secondo

    Nel solco della tradizione

    Era lui che aveva guardato con manifesta alterigia verso tutti i corsi di studio che non fossero i licei, i soli destinati a costruire le élite. E per questo aveva costruito una scuola classista, la cui eco ancora si ode distintamente nell’attuale impianto educativo. Oggi, a sentire i suoi maldestri eredi, sarebbe stata la sinistra radical chic ad avere ispirato corsi di studio pieni zeppi di Greco e Latino.
    La nuova scuola sarà italianissima, gli Alberghieri saranno il baluardo contro sushi e kebab e negli istituti Agrari si imparerà ad usare l’aratro per tracciare il solco. Sperando che poi nessuno debba difenderlo con una baionetta.

  • Bianca, donna, cristiana: ma è Giorgia oppure la migrazione?

    Bianca, donna, cristiana: ma è Giorgia oppure la migrazione?

    «Ogni migrazione è un fenomeno che richiede risorse economiche, sociali e culturali, pertanto non tutti possono partire». Le parole di Maria Francesca D’Agostino, sociologa Unical che si occupa di migrazioni e cittadinanza globale, costringono a rivolgere uno sguardo più attento verso il fenomeno migratorio. Uno sforzo ancor più necessario adesso che il clamore mediatico ed emotivo riguardo la tragedia di Cutro si sta spegnendo, malgrado il mare continui a restituire corpi dei migranti naufragati.

    Una piccolissima parte di umanità

    «Chi riesce a partire – spiega Maria Francesca D’Agostino – rappresenta una piccolissima parte di quella umanità che avrebbe motivo di scappare». La domanda che l’Occidente e l’Italia devono porsi non deve riguardare il come gestire questi flussi. Ma, paradossalmente, perché siano così pochi quelli che arrivano, considerata la diffusione su scala globale di conflitti nuovi e vecchi e ingiustizia sociale.

    dagostino-maria-francesca-migrazione-unical
    Maria Francesca D’Agostino (Unical)

    «Se guardiamo le situazioni di conflitto – prosegue la studiosa – vediamo come questi non generino esodi, ma sfollamenti all’interno del paese in guerra. A poter scappare da luoghi di insicurezza sono generalmente appartenenti ai ceti medi, mentre i flussi migratori causati dalla povertà, spingono per esempio i contadini verso i margini delle megalopoli».

    La migrazione è una scommessa

    Va da sé che per scappare in quel modo si deve essere disperati. Tuttavia anche in questo emerge una sorta di stratificazione che marca le disuguaglianze.
    Per poter provare a sottrarsi all’orrore occorre avere le risorse necessarie, nel caso dei migranti di Cutro migliaia di euro.
    Perché mai attraversare il Mediterraneo affrontando tanti pericoli pur disponendo di adeguate risorse economiche allora? La risposta è da cercarsi nelle severe normative che sostanzialmente negano canali legali d’ingresso nel nostro Paese. La partenza è una crudele scommessa dove ci si gioca tutto quel che si ha, compresa la vita stessa, per provare a fuggire dal luogo dove non si può più stare.

    tragedia-cutro-diario-pellegrinaggio-laico
    Fiori sulla spiaggia della tragedia a Steccato di Cutro (foto Gianfranco Donadio)

    Migranti economici e rifugiati politici

    Ma da dove ha origine la chiusura sistematica che l’Occidente ha praticato verso i flussi migratori? Essenzialmente dalla distinzione, spesso arbitraria, tra migranti economici e rifugiati politici. L’ingresso dei primi ingresso era legato alle esigenze produttive dell’Europa; gli altri erano tutelati dalla Convenzione di Ginevra, che prevedeva l’obbligo di accoglierli.

     

    Conclusa la Guerra fredda, si è scelto di tenere lontani anche i richiedenti asilo. Che così sono finiti confinati in campi profughi nei pressi dei luoghi di conflitto, con l’alibi di dare priorità al loro teorico rimpatrio a conclusione dei conflitti. «In realtà non si è quasi mai stati capaci di garantire loro il ritorno a casa per via del perdurare di conflitti. Ci si è limitati a parcheggiare enormi numeri di persone in luoghi di confinamento umanitario e periferizzazione sociale in aree di degrado totale», racconta Maria Francesca D’Agostino.

    Il grande inganno: la migrazione bianca, donna e cristiana

    Attorno al fenomeno complesso delle migrazioni è stato costruito con meticolosa pazienza e notevole efficacia un grande inganno. La convergenza di diversi interessi ha dato vita a una sorta di distorsione cognitiva collettiva. E così si è generalmente persuasi che la fortezza Europa e la trincea Italia siano sotto assedio e minacciati da un imponente esodo proveniente dall’Africa sub sahariana. «Se guardiamo i flussi migratori – spiega D’Agostino –  scopriamo che solo una piccola parte è rappresentata da rifugiati politici provenienti a Paesi dilaniati da conflitti. La maggioranza viene dall’Est Europa».

    donne-est-migrazione
    Donne dell’Est in cerca di un impiego

    Insomma: la migrazione che guarda all’Italia è bianca, cristiana e femminile. Dovrebbe essere maggiormente rassicurante, rispetto allo spauracchio costruito attorno all’uomo nero. Invece le dinamiche di respingimento, pregiudizio e razzismo restano intatte. È sempre la sociologa dell’Unical a spiegare che si tratta di donne provenienti dall’Ucraina, dalla Romania, dalla Bulgaria. Devono affrontare situazioni analoghe ad altre forme di migrazioni, cioè sfruttamento lavorativo, disagio abitativo, impoverimento e marginalizzazione.

    Alla Piana dell’Est

    Condizioni che pure noi meridionali abbiamo conosciuto quando ad emigrare eravamo noi, «perché siamo tutti vittime di processi di sviluppo che producono disuguaglianze sociali. Anche sulle donne dell’Est Europa si riversa l’effetto delle politiche criminalizzanti che generano effetti di violenza razzista».

    Piana_Sant'Eufemia_-_Panorama
    La Piana di Sant’Eufemia vista da Sud

    In Calabria, nella Piana di Sant’Eufemia per esempio, l’intero settore agricolo si basa sulla presenza delle donne dell’Est. Non basta loro avere un documento di soggiorno in regola, oppure essere cittadine europee per non essere trattate come minoranze non nazionali e dunque per scampare a forme di razzismo. Perché agli occhi di troppi italiani lo straniero resta un invasore e un abusivo.

  • Questo rito non s’ha da fare? Il Comune, la Chiesa e il sangue del popolo

    Questo rito non s’ha da fare? Il Comune, la Chiesa e il sangue del popolo

    Quello che mai nessuna amministrazione eletta dai cittadini di Nocera Terinese aveva mai osato fare, è stato compiuto da una Commissione straordinaria.
    I commissari insediatisi dopo lo scioglimento del Consiglio comunale nel 2021, in un sussulto tardo illuminista hanno posto fine a una tradizione antichissima, quella dei Vattienti, le cui radici affondano nel ribollente calderone dei tempi, dove culture subalterne, fede religiosa e ritualità arcaiche si intrecciano e si sovrappongono in modo inestricabile. Prevedibilmente il malumore tra i noceresi è cresciuto rapidamente e a sostenere il disappunto popolare è Fernanda Gigliotti, ex sindaco di Nocera e avvocato.

    I Vattienti fuori da ogni giurisdizione?

    «Il rito dei Vattienti è da considerarsi fuori da ogni potere laico, sia amministrativo che giuridico, la disposizione del proprio corpo resta al di fuori della giurisdizione dei tribunali e degli enti di governo», sostiene l’ex sindachessa. Da legale, ha sconsigliato i Vattienti di ricorrere al Tar nel tentativo di annullare la decisione dei commissari amministrativi. «Ho spiegato loro che non conviene perché è nei poteri dei commissari assumere decisioni di questa natura, ma soprattutto perché rivolgersi al Tar avrebbe implicato riconoscere che il rito di cui sono protagonisti è subordinato all’autorità giudiziaria».

    In effetti la Gigliotti crede che i Vattienti non debbano dare conto nemmeno alla Chiesa, cui appunto non fanno parte. «Loro si autodeterminano e non hanno bisogno di autorizzazioni, anzi da cittadina io credo che debbano custodire il rito». L’invito dell’avvocato è quello di praticare la mortificazione della carne in forma privata, «esattamente come è avvenuto negli anni della pandemia, quando rispettando l’ordine di non uscire si sono flagellati in casa».

    «Nelle manifestazioni pasquali ancora oggi, nel Sud, si attuano una serie di modalità folkloriche che testimoniano la presenza di un cattolicesimo popolare con caratteristiche diverse dal cattolicesimo “ufficiale”», scriveva Luigi Maria Lombardi Satriani, spiegando come fede e tradizioni popolari trovassero una tacita coniugazione.

    vattienti-chiesa-non-ha-posizione-ufficiale
    Particolare dei Vattienti, i flagellanti di Nocera Terinese (foto Alfonso Bombini 2019)

    La Chiesa non ha una posizione ufficiale

    Eppure sul tema non pare esistere una posizione ufficiale della Chiesa, il cui sguardo su questi fenomeni è sempre stato paziente, senza però rinunciare all’impegno educativo. Un riscontro di questa posizione lo troviamo nelle parole di monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Cei e vescovo di Cassano, che spiega come pur mancando una posizione dogmatica, «non sono mai venuti meno attenzione e rispetto verso le tradizioni popolari e il loro modo di interpretare il rapporto tra uomo e Dio e specificatamente con la Passione di Cristo». Tuttavia subito dopo il vescovo azzarda una domanda che nella sua retoricità disvela quale deve essere la natura della relazione tra umanità e trascendenza. «Ma davvero Dio vuole che ci facciamo male nel rapporto con Lui? Davvero le mie gambe, il mio petto, devono sanguinare perché io possa mostrare la mia devozione?».

    vattienti-chiesa-non-ha-posizione-ufficiale
    Monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Cei (foto Alfonso Bombini 2019)

    Monsignor Savino: il senso del dolore

    Va da sé che un cattolicesimo maturo risponderebbe di no a queste domande, che tuttavia meritano un approfondimento, perché come spiega don Savino esse pongono «il problema del senso del dolore, della fatica ineludibile del vivere, della fragilità del nostro corpo, cui non siamo chiamati ad aggiungere altra sofferenza».
    Si trasformino dunque i pezzi di sughero dentro cui i Vattienti piantano cocci di vetro per flagellarsi il corpo in consapevolezze capaci di esigere giustizia e solidarietà per tutti. «Dobbiamo convertire il nostro sguardo versi gli ultimi, le persone che soffrono, verso le vittime delle mafie, del lavoro nero, dello sfruttamento».

    È sempre Lombardi Satriani a rammentarci come i «rituali della flagellazione evochino un retroterra in cui lo spargimento di sangue proprio o altrui, è considerato un atto utile a placare lo sdegno divino e a suscitare un intervento misericordioso». Mentre è sempre monsignor Savino che con le parole del Papa Francesco sottolinea come si «debba restare coerenti col Vangelo». Come dire che il primo atto misericordioso deve partire da qui, tra gli uomini.

  • La Terra di Piero: curva, cuore e mamma Africa

    La Terra di Piero: curva, cuore e mamma Africa

    Dalla curva del San Vito-Marulla fino ai paesi più poveri dell’Africa. La storia della Terra di Piero comincia sugli spalti di un campo di calcio, dentro una moltitudine di persone che si sentono comunità. Ragazzi uniti non solo dalla fede per la squadra della propria città, ma probabilmente legati anche da un insopprimibile insofferenza verso le ingiustizie. E se hai questo fuoco dentro, allora il tuo posto è accanto agli ultimi.

    terra-di-piero-curva-cuore-mamma-africa
    Piero Romeo in Africa

    Il loro leader era Piero Romeo e oggi Sergio Crocco spiega che senza quel ragazzo generoso e sfortunato, la Terra di Piero non ci sarebbe. Non ci sarebbero i pozzi realizzati in centro Africa, le scuole per i bambini e le bambine della Tanzania o del Madagascar, né il parchi solidali costruiti a Cosenza, e nemmeno il sostegno alle vecchie e nuove povertà di casa nostra.
    La Terra di Piero oggi rappresenta una delle realtà più vivaci nella galassia del Terzo settore, intervenendo capillarmente sui numerosi aspetti attraverso cui si disvela il disagio, la fatica del vivere, la sofferenza sociale, dai progetti in Africa, fino alla distribuzione di pasti alle famiglie in difficoltà nel corso del lockdown (ma anche successivamente).

    Il viaggio in Africa con Padre Fedele

    «L’Associazione nasce pochi giorni dopo la morte di Piero – racconta Crocco – all’inizio in modo spontaneo, quasi naturale, per dare corso e continuità agli ideali e ai progetti che avevano animato la sua vita: la mensa dei poveri e l’aiuto alle popolazioni della Repubblica Centrafricana». Forse è proprio quel viaggio nel buco nero della miseria africana, fatto da Piero Romeo assieme a Sergio Crocco, Paride Leporace e Padre Fedele ad essere una sorta di seme. L’associazione si struttura, si spoglia piano dello spontaneismo iniziale, diventa organizzazione che attrae volontari, chiama donne e uomini generosi, individua i campi di intervento e mobilita risorse e intelligenze per costruire solidarietà.

    terra-di-piero-curva-cuore-mamma-africa
    Sergio Crocco in Africa nella mensa con i bambini

    I primi passi della Terra di Piero

    I primi passi furono rappresentati dalla realizzazione di pozzi nella Repubblica Centrafricana. Il progetto prendeva il nome di “Pozzo farcela”, coniugando l’ironia e la leggerezza con l’impegno solidale. Ma quello fu solo l’inizio.
    Il “mal d’Africa” aveva contagiato quelli della Terra di Piero e i volontari tornarono per costruire scuole, dormitori, mense in Madagascar, Namibia, Senegal e Tanzania. Si tratta di progetti ed interventi che hanno visto i volontari impegnati nel bonificare lebbrosari, edificare luoghi per imparare e giocare, superando le barriere architettoniche. Infatti da un certo momento in poi la Terra di Piero si concentra sulla tematica della disabilità. E lo fa a suo modo: rimboccandosi le maniche e costruendo luoghi praticabili da tutti i bambini, anche quelli meno fortunati.

    terra-di-piero-curva-cuore-mamma-africa
    Il Parco Piero Romeo nel centro di Cosenza

    Nasce il Parco Piero Romeo, nel cuore della città, il primo luogo di gioco interamente fruibile da tutti. Oggi quel parco, soprattutto nel corso della bella stagione, è animato dall’allegria giocosa dei bambini. Ma Crocco sul terreno dell’impegno a favore dei disabili, ci tiene a sottolineare un progetto passato forse sotto silenzio, quello della realizzazione presso dieci lidi balneari, sei sul Tirreno e quattro sullo Ionio, di pedane e carrozzine che consentono ai disabili di raggiungere il mare. A tale scopo si è anche provveduto a formare i bagnini.

    Non solo Parco dei nonni

    E proprio di fronte al Parco Piero Romeo, presto potrebbe sorgere il Parco dei Nonni, attorno alla struttura, proprietà del Comune, che in passato ospitava un bar e che adesso diventerà una trattoria inclusiva, dove lavoreranno come cuochi anche ragazzi down.
    La Terra di Piero è una fabbrica di idee, dalla quale escono produzioni teatrali, progetti, impegno concreto. Come la “spasera di coperte” che Maria, calabrese d’adozione e volontaria, sta preparando assieme a molte altre persone. Si tratta di realizzare coperte fatte a mano, da vendere per farle «diventare mattoni per costruire scuole in Tanzania e provare a salvare le bambine dall’infibulazione grazie allo studio».

    Una scuola in Tanzania che nasce grazie all’impegno della Terra di Piero

    Maria ha conosciuto la Terra di Piero per vicende personali ed è rimasta sedotta dal coraggio e dalla generosità di quel mondo fino a scegliere di restare e impegnarsi anche lei. «Sergio mi ha affidato la cura del progetto contro l’infibulazione ed è nata l’idea di realizzare così tante coperte da riempire piazza Fera. Abbiamo coinvolto in questo progetto diverse altre realtà solidali e quando saremo pronti esporremo i nostri prodotti che diventeranno banchi e scuole per le bambine africane, perché il sapere può cambiare le cose». Ci sarà presto una “spasera di coperte”, annuncia Maria, che non è calabrese ma il dialetto l’ha imparato bene. E che ha imparato pure che la solidarietà può avere le sembianze di una coperta.

     

    logo-vr

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.

  • Giorgia Meloni a Cutro: una passerella mal riuscita

    Giorgia Meloni a Cutro: una passerella mal riuscita

    A vedere le bare e incontrare le famiglie dei sommersi non c’è andata. Partiamo da questo, che alla fine è il solo dato che vale la pena di affrontare. Giorgia Meloni ha portato il suo governo in Calabria, a Cutro, per fare una passerella mal riuscita.

    Giorgia Meloni a Cutro: niente bare e qualche annuncio

    Davanti ai cronisti ha difeso il suo ministro dalle dichiarazioni disumane. Ha spiegato che non è vero che non si è voluto fare qualcosa per salvare quei disgraziati, che dunque sono morti per colpa loro. Del resto la linea è quella: fermarli lì dove si imbarcano, con ogni mezzo. Per esempio, la Meloni ha pensato di fare un poco di buona comunicazione presso quei luoghi infernali da dove partono i migranti per spiegare loro che venire qui potrebbe essere mortale. Si potrebbe andare in Siria, o in Afganistan e dire a quella gente che prendere barconi semi galleggianti è pericoloso, meglio un aereo. Magari come deterrente si potrebbe diffondere un video con quelle bare che lei non ha voluto vedere. Le stesse che volevano d’urgenza spostare per levarle l’imbarazzo di quelle tragiche presenze.

    Le novità dal Consiglio dei ministri

    Qualcosa di nuovo tuttavia c’è stato. Per esempio è stato annunciato che ci sarà una restrizione nel rilasciare i permessi di soggiorno per protezione speciale. Si tratta di permessi rilasciati a quei migranti per i quali si afferma che il loro rimpatrio rappresenterebbe un pericolo per la vita, pur senza aver riconosciuto loro lo status di rifugiato politico o religioso. Fin qui non sono stati pochi i migranti che fuggendo da luoghi di guerra o tirannie, hanno potuto fruire di questa possibilità. In futuro a quanto pare non sarà più così. Però il CdM in trasferta calabrese ha detto anche che potrebbero aumentare le quote dei migranti che possiamo ospitare e questo risultato è stato sbandierato come un gesto di straordinaria generosità. Nei giorni in cui si contano i morti che ancora il mare restituisce alla pietà dei soccorritori, mettere sul piatto della bilancia un aumento del numero dei vivi che possono entrare è sembrato un gioco col pallottoliere.

    Giorgia Meloni e la sceneggiata di Salvini a Cutro

    Solo sulla spinta delle fastidiose insistenze dei cronisti presenti, il presidente del Consiglio ha detto che incontrerà i sopravvissuti alla tragedia e i familiari delle vittime, ma non subito. Più avanti magari, insomma poi vediamo, perché certe volte quelli che sono rimasti vivi fanno più impressione dei morti. E mentre Giorgia Meloni cercava di rintuzzare, rispondere, indignarsi, spiegare, il suo collega Matteo Salvini camminava tenendo in bella vista una cartellina che illustrava il progetto del ponte sullo Stretto e lo faceva in quella parte della Calabria più arretrata, dove non atterra un aereo, non arriva un treno e dove la strada è la più pericolosa d’Italia. Della serie: come vi sfotto io nessuno.