Autore: Michele Giacomantonio

  • Onda nera e astensionismo, l’Unical interroga il voto

    Onda nera e astensionismo, l’Unical interroga il voto

    C’è un fantasma che si aggira per l’Italia e pure in Europa. Dovrebbe spaventare parecchio, ma nessuno pare curarsene davvero. Tranquilli, non è il comunismo, si chiama astensionismo. L’allarme emerge dall’ormai consueto appuntamento con l’analisi del voto che viene puntuale dopo le elezioni dalle aule del Dipartimento di Scienze politiche e Sociali dell’Unical.
    Si tratta di un incontro ormai consolidato, che fornisce una interpretazione dei flussi elettorali, della mobilità del voto, di chi ha vinto o perso e perché. Anche questa volta a presentare il quadro delle cose sono stati sociologi e politologi, che assieme hanno fornito uno sguardo su come sono andate le cose, con particolare attenzione alla Calabria.

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    L’analisi del voto all’Unical. Da sinistra i docenti del dipartimento di Sociologia Giorgio Giraudo, Roberto De Luca, Antonello Costabile, Valeria Tarditi e Piero Fantozzi

    Le Europee 2024 secondo l’Unical

    I numeri parlano, ma serve saperli ascoltare. Per farlo occorre sensibilità sociologica e dimestichezza con i mutamenti sociali, ma poi è necessario anche il coraggio di dire cose che non consolano affatto. Del resto Antonello Costabile, sociologo della politica, lo dice quasi in premessa: «Se cercate consolazione non siete nel posto giusto, qui facciamo altro». Infatti il docente pone subito sul piatto la questione, «perché di astensionismo si parla per tre giorni, poi basta», invece è il solo punto su cui varrebbe la pena di soffermarsi.
    La ragione per la quale la politica è distratta è semplice e inquietante al tempo stesso. Si chiama “razionalità limitata” ed è un meccanismo banale che si basa sull’opportunismo politico. I leader infatti pensano che se si può vincere mobilitando una parte residuale di elettorato, perché mai impegnarsi nel cercare di coinvolgere l’altra parte della popolazione e rischiare di perdere? Il ragionamento non fa una piega, ma nasconde un rischio, quello del dileguarsi della legittimità popolare.

    Un passaggio d’epoca

    Costabile è impietoso e spiega come per la prima volta nella storia di questo Paese sia andato alle urne meno della metà degli elettori. Una contrazione che, spiegano dall’Unical, per quanto riguarda le Europee 2024 è impressionante. «Noi eravamo il Paese più europeista, nel 79 votò l’85% dell’elettorato, nel corso di quaranta anni siamo arrivati al 49%». Gli altri Paesi europei hanno pure conosciuto contrazioni della partecipazione, ma di grado inferiore e altalenante. Questa separazione dal voto, particolarmente evidente in Italia, porta un rischio grave, perché la partecipazione è l’architettura della democrazia e venendo meno la prima, si indebolisce la seconda.

    Siamo davanti a «un vero passaggio d’epoca» e dopo l’estinzione dei partiti di massa che avevano tenuto assieme un Paese che è sempre stato duale, oggi sembra venire a mancare un collante sociale e nazionale. Il futuro che ci aspetta non sembra essere rassicurante, anche perché «il 49% dei votanti è un dato che tiene conto del fatto che si sono svolte anche elezioni di tipo amministrativo, normalmente assai sentite», quindi, avvisa il docente, il dato vero sarebbe stato anche inferiore.

    Vincono i leader e i catalizzatori di consenso

    Nello specifico i flussi elettorali delle Europee 2024 vengono illustrati da Roberto De Luca, docente di Sociologia dei fenomeni politici all’Unical, che spiega come Forza Italia sia stata premiata in Calabria sulla spinta del presidente della Regione, mentre Alleanza Verdi e Sinistra si siano avvantaggiati dalla figura carismatica di Mimmo Lucano. E’ il potere della capacità dei singoli di attrarre consensi, come accade nel piccolo ma significativo paesello di San Pietro in Amantea, dove il sindaco che prima era leghista ora è meloniano, trascina fino al 50% per cento dei votanti verso Fratelli d’Italia.

    Dall’Italia all’Europa, l’avanzata della “zona nera”

    Da San Pietro fino a Strasburgo, lo sguardo si allarga ed è il docente di Organizzazione politica europea Giorgio Giraudo a spiegarci che oltre alla “zona nera”, rappresentata dalle destre emergenti, c’è complessivamente il rischio di uno spostamento conservatore  dell’equilibrio politico e il docente ipotizza che il Ppe faccia propria una vecchia abitudine tutta italiana, quella «della politica dei due forni, appoggiandosi, a seconda dei casi, un po’ al progressisti e un po’ agli ultraconservatori». In ogni caso si profila una politica europea molto condizionata dai vari e diversi interessi nazionalistici.

    Europee 2024, le conclusioni dell’Unical

    Dentro questo quadro, la chiave strategica per acquisire il consenso è stata la comunicazione, tutta giocata sulla personalizzazione delle leadership, come ha spiegato Valeria Tarditi, sociologa della comunicazione politica. La destra, secondo la docente, ha puntato su parole che sottolineavano l’antagonismo tra l’Europa dei burocrati e quella dei popoli, mentre la sinistra ha abbandonato l’euro entusiasmo, seducendo così una parte dell’elettorato più radicale.

    La società separata dalla politica

    Su tutto resta pesante come un macigno la considerazione finale di Piero Fantozzi, storica voce della sociologia dell’Unical, che vede come lo «sfilacciamento del legame tra società e politica» sia innegabile e  pure lo siano le spinte all’utilitarismo contro il senso di solidarismo.

  • Interdisciplinarità, all’Unical lo studio è senza frontiere

    Interdisciplinarità, all’Unical lo studio è senza frontiere

    Le cose sono complesse, rassegniamoci, nessuna scorciatoia torna utile per capire e forse trasformare i fenomeni dentro cui siamo immersi. Dobbiamo avere uno sguardo molteplice, capace di coniugare efficacemente approcci scientifici diversi e certe volte neppure prossimi. Questo vuol dire affrontare il tema dell’interdisciplinarità, andare oltre i “confini”, come li chiama Sonia Floriani, sociologa e anima del laboratorio sulla Interdisciplinarità che ha preso vita nelle stanze del Dispes.

    Interdisciplinarità per andare oltre i confini

    I confini di cui parliamo sono la linea di separazione tra le scienze, che si deve avere il coraggio di superare andando oltre. Ecco, andare “oltre” diventa la parola chiave di questo laboratorio. Lo hanno assai desiderato e organizzato Giap Parini, direttore del Dispes, e la stessa Floriani, sensibili entrambi alla necessità di spiegare con efficacia i tempi che affrontiamo.
Attorno a questo compito lavora, dallo scorso anno, una pattuglia di ricercatori sociali, che prendendo in prestito il concetto di confine hanno usato la parola I-Limes come suggestivo acronimo di Laboratorio di Idee, Metodi e Studi.

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    Da sinistra: Vincenzo Carrieri, Sonia Floriani e Giap Parini

    Questa volta il campo si allarga. A discutere non sono solo studiosi di Scienze sociali, ma vengono chiamati rappresentanti di quelle che normalmente vengono definite “scienze  dure”. È il caso di Riccardo Barberi, fisico sperimentale, anzi studioso di fisica applicata. Non si tratta di un dettaglio, avendo Barberi una certa spiccata sensibilità verso la concretezza del mondo reale. Ed è con i piedi ben piantati per terra che Barberi spiega come l’interdisciplinarità non sia affatto una cosa rivoluzionaria. È, al contrario, una semplice necessità sociale dettata dal bisogno di uscire dalle “gabbie” dentro cui ci siamo rinchiusi inseguendo il mito delle specializzazioni.

    L’iperspecializzazione obbligata dal sistema produttivo finisce per essere asfissiante. Così aprirsi alle altre forme di sapere diventa una boccata d’aria necessaria.
Con la semplicità di chi è avvezzo a risolvere cose complesse, il fisico spiega come probabilmente la cosa più interdisciplinare oggi siano le Large Language Model, capaci di parlare tra loro e dunque intersecare i saperi, ancora per fortuna sotto il controllo umano.

    La Costituzione, le leggi e la fabbrica del consenso

    Il concetto di “confine” resta ad aleggiare nell’aula che ospita il seminario. Nelle parole di Donatella Loprieno, però, assume subito il suo senso più oppressivo: quello di separazione e distanza. Non è casuale: Loprieno è una costituzionalista storicamente impegnata, tra le altre cose, sul fronte dei diritti dei migranti.

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    Donatella Loprieno, Riccardo Barberi e la modetratrice Valeria Tarditi

    «I costituzionalisti si occupano di una materia fatta di sogni», spiega la docente, richiamando La tempesta di Shakespeare, perché le Costituzioni si fondano sul desiderio di una vita più giusta per tutti, ma oltre la bellezza utopica subito le sue parole ci precipitano nell’abisso delle violazioni dei diritti della persona, del migrante come individuo spogliato di ogni forma di umanità, del buco nero della “Detenzione amministrativa”, cioè del carcere senza reato, senza processo, senza avvocati, un inferno destinato solo agli stranieri, uno strumento che divide gli esseri umani tra chi ha diritti e chi è “schiuma della terra”.

    Come una costituzionalista osserva questo mondo usando le lenti della interdisciplinarità? Domandandosi come sia stato possibile che una istituzione così repressiva, chiaramente incostituzionale, sia diventata normale, incontrando anche un vasto consenso tra le persone. Significa utilizzare gli strumenti della comunicazione persuasiva, della manipolazione dell’opinione pubblica, della psicologia delle masse e comprendere che certe scelte vanno oltre la durezza dei codici.

    La potenza delle parole e i confini come luoghi di passaggio

    Anche le parole sono interdisciplinari, sul loro uso flessibile sarebbero stati d’accordo Wittgensein e Gramsci. E da questo punto di vista Andrea Lombardinilo, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, le utilizza come veicolo per visitare spazi, tempi e protagonisti. Parte da Castoriadis, dal mondo dell’immaginario, e transita rapido attraverso John Coltrane, Miles Davis, Duchamp e Leopardi, Vico e altri. Nel frattempo sulla Lim alle sue spalle compare una scena del film Mission.
    Lombardinilo è come un abile seduttore. E nel suo muoversi dentro il sapere, che deve essere declinato per forza al plurale, ci offre il biglietto per un viaggio che più interdisciplinare non si può.

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    Marcello Walter Bruno

    A chiudere il viaggio un’ultima struggente suggestione, quella che viene dalle parole dell’autore ed attore Ernesto Orrico e del fisico Peppe Liberti. Orrico legge alcune parti de La fuga di Pitagora di Marcello Walter Bruno e Liberti evoca il ricordo di un intellettuale che di confini tra i tanti saperi ne aveva varcati parecchi. Anche perché, come suggerisce Parini, «i confini sono luoghi di passaggio e conviene usarli bene».

  • Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Ci sono libri che sono figli di altri libri. Ripercorrono uguali sentieri, ma con occhi nuovi, perché le cose cambiano e anche in fretta. È il caso de La partecipazione politica (Il Mulino), l’ultimo lavoro di Francesco Raniolo.
    Con autoironia l’autore avverte che è come il «tornare sul luogo del misfatto» dopo circa vent’anni dalla prima edizione. Vent’anni sono ere geologiche per chi osserva i mutamenti politici e Raniolo – che insegna Scienze politiche all’Unical ed è coordinatore del dottorato in Politica, cultura e sviluppo – è tornato a rivolgere lo sguardo verso i modi che caratterizzano la partecipazione politica. «Il tempo che separa i due libri accompagna un ciclo di vita», spiega Raniolo e in questo non breve periodo è accaduto di tutto. In Scienze politiche si chiamano “giunture critiche”, o semplicemente crisi.

    I tempi cambiano

    Ma il punto è che in certe fasi storiche si presentano in forma multipla, quasi uno sciame. Sono chiamate poli-crisi. Si tratta di fenomeni complessi che attraversano le società generando incertezza. Sono rappresentate da mutamenti profondi, crisi economiche innanzitutto, migrazioni di massa, guerre e terrorismo internazionale, perfino una pandemia. Tutto ciò non poteva non riflettersi su forme e intensità della partecipazione e sulla qualità della democrazia. Questa è rappresentata dall’esistenza di spazi di dibattito, talvolta di conflitto, che ne costituiscono una componente cruciale. In sintesi, sono le distinte “arene” all’interno delle quali viene esercitata la democrazia. Per questo osservare come queste arene siano cambiate è fondamentale.

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    Francesco Raniolo

    Raniolo dedica grande attenzione a questi spazi, sia istituzionali che collegati alla società civile o ai media, ma presenti pure nelle pieghe della comunità e nei movimenti di protesta, essendosi questi rivelati incubatrici di mutamenti e innovazioni.
    Nei territori spesso troviamo aggregazioni di persone, accomunate da interessi condivisi e da valori, che hanno dato vita a pratiche sociali tese a creare beni comuni e a sviluppare reti di solidarietà. Le riflessioni del docente riportano alla mente il ruolo solidale svolto, ad esempio a Cosenza nel corso della pandemia, da realtà come La Terra di Piero, che ha provato a soddisfare i bisogni essenziali affrontando fragilità sociali diffuse in molti quartieri della città. Si è trattato di un ruolo di supplenza, laddove le istituzioni e la politica erano distratte o semplicemente non efficaci.

    Raniolo e i partiti di oggi

    In realtà i movimenti e le esperienze che da lì scaturiscono dovrebbero spingere i partiti a «rinnovarsi, nel tentativo di ricucire quel patto mitico che dovrebbe legarli ai cittadini, che restano le molecole della Polis».
    Il libro di Raniolo significativamente ripropone i passaggi chiave che potrebbero riattivare la partecipazione e cioè l’allargamento decisionale sulla scelta dei leader e delle linee programmatiche, lo spazio al pluralismo delle voci protagoniste del dibattito, la presenza diffusa di reti che collegano i partiti al contesto, la capacità inclusiva delle pratiche politiche.

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    Elettori del Pd alle primarie del 2023

    Nel meraviglioso mondo della teoria questi passaggi dovrebbero funzionare, ma calati nel terribile mondo reale non tanto. Per esempio, si pensi all’incapacità dei partiti di trasmettere le domande e sfide che giungono dalla società . Per Raniolo l’esempio probabilmente più significativo riguarda l’esperienza delle primarie, «che non hanno retto al tempo e ai conflitti interni, finendo per essere neutralizzate, riassorbite dalla competizione tra leader».
    Altre forme di inclusione che hanno visto il fallimento sono le famose “parlamentarie”, del M5S, esperienza tutt’altro che inclusiva che si costruiva sull’inganno della Rete come nuovo e prefetto luogo della democrazia. Oggi le forme di inclusione sperimentate si sono rivelate modi per legittimare i leader e non per allargare la base partecipativa, perché sono prevalse le logiche funzionali a dinamiche di potere e di autoreferenzialità.

    Il fantasma della partecipazione politica

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    La copertina della nuova edizione de “La partecipazione politica”

    Ma cosa sono oggi i partiti? Quanto resta attuale la definizione offerta da Maurice Duverger che li immaginava come comunità? Raniolo sa bene che dai tempi in cui scriveva l’intellettuale francese ogni cosa è diversa. Tuttavia resta dell’opinione che «i partiti non possono rinunciare tanto facilmente ad essere comunità di destino, un equivalente laico dell’esperienza religiosa».
    Tra i cambiamenti intervenuti c’è stata la scomparsa dei luoghi tradizionali di confronto e la presunzione, da parte dei partiti, di sostituirli efficacemente con i media che rimbalzano la figura dei leader. L’effetto è stato una ulteriore atomizzazione dell’elettorato, cui oggi viene fornita l’illusione della partecipazione stando comodamente seduti sul divano guardando la televisione o chattando sui social. Forme di esperienza solitaria, che sembrano dare ragione alla Thatcher quando affermava che non esiste la società, ma solo individui.

    La democrazia se la passa male

    Questa deriva assunta dai partiti rappresenta una più marcata separazione tra essi e i cittadini ed è l’opposto di quanto necessario alla vivificazione del rito della partecipazione. Una delle conseguenze di questa atomizzazione è il sopraggiungere di una fragilità sociale sulla quale si avventano con successo forme di populismo.
    «Il populismo in passato ha avuto un ruolo importante nel percorso graduale e contorto (perché implicava anche tappe autoritarie come in America Latina) verso la democratizzazione delle società – spiega Raniolo – ma oggi riflette un malessere profondo della democrazia. Una tappa nel processo di de-democratizzazione o di deterioramento della qualità democratica».

    Raniolo e i populismi

    Il populismo di oggi ha anche diverse facce. «Una – spiega ancora Raniolo – è quella che possiamo definire includente o rivendicativa, volta all’allargamento dei diritti, l’altra più rischiosa è quella che chiamiamo identitaria o escludente».
    Accanto al populismo che vuole espandere democrazia autentica e diritti c’è un populismo sovranista. Risponde al disagio sociale e alle paure individuali generate dalle crisi promettendo di serrare i ranghi e maggiormente si offre non solo all’identificazione con un leader (in alcuni paesi manifestamente autoritario, si pensi all’Ungheria di Orbán), ma anche al trasferimento di delusioni e paure su capri espiatori interni o esterni.

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    Il primo ministro ungherese Viktor Orbán

    Questi sentieri conducono verso democrazie illiberali e irresponsabili. Ma sono purtroppo i sentieri più facili e perciò più seducenti, perché le sfide che attendono le democrazie sono cruciali e riguardano l’attuale frammentazione del tessuto sociale, la radicalizzazione delle domande, ma anche le forme del comunicare che con il web scivolano facilmente nella manipolazione dell’informazione, fino a quello che nel libro viene indicato come “totalitarismo digitale”.
    La posta in gioco è altissima e non pare che le leadership dei partiti siano attrezzate ad affrontarla nel modo più giusto. Forse abbiamo bisogno di un nuovo protagonismo dei cittadini.

  • Primo Maggio, la festa del precario

    Primo Maggio, la festa del precario

    Il Primo Maggio è un rito stanco, cui il tempo, la modernità e diverse scelte politiche hanno sottratto senso. Semplicemente il lavoro, per come intere generazioni hanno imparato a concepirlo, non c’è più.
    Lo hanno sostituito forme di impiego precarie e sottoposte a forme di sfruttamento rapaci e del tutto legalizzate da una legislazione sedotta dal mito della flessibilità. In pratica, ci hanno raccontato che per avere lavoro occorreva stimolare la crescita, ma per avere la crescita dovevamo rassegnarci a rinunciare a qualche diritto.
    Oggi siamo rimasti senza diritti, la crescita c’è stata, ma il prezzo pagato è stato altissimo.

    Lavoro e flessibilità

    Del resto l’allarme era già giunto, quando Gorz avvisava che «Il sistema economico produce ricchezze sempre crescenti con una quantità decrescente di lavoro». In altre parole: oggi siamo capaci di produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri, ma con meno ore di lavoro e l’impegno di meno persone. Questa condizione, però, invece di liberarci dalla fatica ha aggiunto una sofferenza sociale diffusissima e straziante, perché all’idea di flessibilità lavorativa si è assommata la frustrazione della precarietà sociale: in una società in cui ci hanno insegnato che siamo quel che facciamo, essere disoccupati, non fare niente, corrisponde allo smarrimento del proprio status.

    Gli effetti della precarietà

    Ma non basta: la precarietà genera fragilità sociale e con essa la rassegnazione che viene dall’antipolitica, una forma di disinteresse che è tra le ragioni dell’astensionismo, vera minaccia per le democrazie liberali.
    La precarietà del lavoro non è solo fatica presente, ma anche minaccia futura. La società e le persone ne pagheranno il prezzo più tardi, quando dopo decenni di lavori a termine, sempre differenti, si scoprirà che avremo un numero grande di persone che non hanno potuto accumulare esperienze, competenze e saperi.

    Se il lavoro uccide

    Nell’immediato la precarietà si è trasformata spesso in tragedie sul lavoro, morti causate dalla necessità di massimizzare i profitti, dall’assenza di sicurezza e dalla vulnerabilità sociale dei lavoratori stessi.
    In alcuni casi i morti non erano nemmeno lavoratori, ma studenti macinati letteralmente nel meccanismo del perverso rapporto “Scuola–Lavoro”, ragazzi che invece di stare nelle aule erano in fabbrica a “imparare” la flessibilità, cioè ad essere sempre pronti a piegarsi ai tempi mutevoli della produzione.

    Reddito e lavoro

    Le responsabilità di tutto quanto non è solo della destra tradizionalmente neoliberista, ma pure delle forze riformiste. La seduzione ingannevole di una modernità veloce e luccicante le ha abbagliate e non hanno saputo immaginare una risposta diversa ai mutamenti che ci hanno travolto.
    Dentro questo discorso entra prepotente il tema del reddito separato dal lavoro, cui le forze politiche dovrebbero guardare senza moralismi. La redistribuzione della ricchezza in una società opulenta sarebbe una forma di giustizia sociale. Ma al di là di questo, molto più prosaicamente sarebbe uno strumento necessario per non fare appassire i consumi, altrimenti il giocattolo si rompe.
    Per il resto ci piace ancora pensare che la sola festa del lavoro sia quella del lavoro liberato.

  • Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Allarme siam fascisti! Perché quelli col fez e le camicie nere non ci sono più, è vero, ma hanno sembianze diverse e non per forza nuove, anzi continuano a puzzare di orrore.  Il Fascismo lo abbiamo inventato noi italiani e non ce ne siamo liberati mai. Un trauma culturale che non abbiamo affrontato, eluso con tenacia, raccontandoci le atrocità compiute dalle SS e tacendo quelle perpetrate dai repubblichini, ma ancora di più tacendo sui decenni durante i quali i diritti più semplici sono stati annichiliti da un regime crudele e assassino, funzionale a interessi complessi e noti.
    Oggi quella operazione di rimozione trova il suo culmine quando gli eredi di quel passato, sempre sentitisi estranei dentro una democrazia liberale, cercano l’affondo revisionista stando al governo e l’ipotesi di riforma sul premierato ne rappresenta l’ultimo sforzo in questo senso.

    Il fascismo eterno

    Il fascismo non c’è più, ma a dirlo sono solo i fascisti. Una specie di negazione di se stessi, di codardia fatta di equilibrismi linguistici: «Sono afascista», pare dicesse di sé Giuseppe Berto e da lì a scendere fino a Meloni, La Russa con il suo museo privato di reliquie del Ventennio, Lollobrigida, Sangiuliano e compagnia.
    Eppure le tentazioni autoritarie, repressive, censorie, perfino vendicative, restano palesi, quotidiane: studenti manganellati, presidi e docenti dissidenti intimiditi, pulsioni razziste liberate da ogni remora. Sì, il fascismo storico non c’è più, perché ogni cosa è cambiata, eppure sopravvive forte quello che Eco chiamava il “fascismo eterno”, fatto di sospetto verso la cultura, derisione rivolta agli atteggiamenti critici, populismo identitario come risposta all’insicurezza sociale generata dalle crisi.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Paura e capri espiatori

    L’orizzonte geopolitico di chi oggi governa il Paese è rappresentato dall’autoritarismo, che è sempre negazione dei diritti, come la libertà di espressione, dell’autodeterminazione delle donne, di una scuola e di una informazione libere. La destra cavalca il populismo, che ha assunto marcatamente caratteristiche di regressione democratica, perché reagisce alle crisi con risentimento, proponendo di arroccarsi come difesa dalla paura. E quest’ultima è sempre stata una condizione emotiva capace di mobilitare le masse attorno a leader carismatici e contro utili capri espiatori.

    Autorità e frustrazione

    La semplificazione delle questioni è ancora il motore dei fascismi e ha lo scopo di consumare la componente liberale delle democrazie. Su questo sono drammaticamente attuali le parole di Fromm, quando spiegava che nelle crisi prevalgono  la tentazione di identificarsi con figure autoritarie e la spinta a scaricare le proprie frustrazioni su gruppi minoritari.
    La cronaca di questi mesi ci restituisce proposte politiche contro l’aborto, contro i migranti, contro i diritti diffusi cui rinunciare in cambio di una effimera promessa identitaria.

    A scuola di Resistenza

    Il fascismo è ancora sempre questo: indifferenza verso le sofferenze sociali, veder annegare i migranti e sentirsi spiegare che era meglio se restavano a casa loro, incapacità di capire la complessità e risolvere il tutto individuando nemici. Il “me ne frego” delle camicie nere non è mai morto, per questo oggi è indispensabile non solo ricordare la Resistenza, ma fare Resistenza.
    I modi sono diversi, il più efficace resta quello che Gramsci suggeriva in una lettera destinata al figlio Delio, in cui parlava di scuola e della necessità di studiare la Storia. Serve per riconoscere e smascherare i mostri anche se certe volte sembrano sorridenti. Conoscere il fascismo in ogni sua forma.
    Buona Liberazione a tutti, non solo oggi.

  • Oncomed, chi ha paura del medico buono?

    Oncomed, chi ha paura del medico buono?

    Realizzare dal nulla un progetto di solidarietà in un contesto di disagio sociale e senza avere risorse è un’opera ciclopica. Ma è necessaria se lo scopo è la difesa della salute, dove la disuguaglianza fa la differenza tra il curarsi e il non poterlo fare. In questa trincea lavora da anni Oncomed, una realtà di sostegno sociale volontario per la prevenzione e la cura delle patologie oncologiche.
    Oggi questa associazione è in affanno, malgrado attorno ad essa sia cresciuto il sostegno di medici e cittadini. «A causa dell’incomprensibile ostilità di qualcuno è assai probabile che saremo costretti a trasferirci», spiega Francesca Caruso, che di Oncomed è stata l’ideatrice e ancora oggi ne è una delle anime.

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    Francesca Caruso

    La nascita di Oncomed

    «Tutto nasce a seguito di esperienze personali, che mi spinsero a proporre ad Antonio Caputo l’idea di dare vita a uno spazio di prevenzione delle malattie tumorali». Caputo, medico oncologo, evidentemente vide in quella proposta un progetto difficile da realizzare, ma necessario e quell’idea divenne anche sua. Altri medici condivisero presto quel progetto e offrirono le loro competenze gratuitamente. Enzo Paolini, a sua volta, diede in uso degli spazi nella città vecchia per realizzare gli ambulatori.
    «All’inizio mancava tutto, niente attrezzature, nulla di nulla, poi con le donazioni e con il lavoro volontario dei medici, abbiamo dato vita a questa realtà», racconta ancora Francesca Caruso.

    I tempi cambiano

    Nasceva così uno spazio dove i cittadini con minori possibilità economiche e che certamente non avrebbero potuto aggirare le lunghe liste d’attesa dalla sanità pubblica rivolgendosi a quella privata, avrebbero trovato interlocutori competenti per visite specialistiche gratuite. Gli ambulatori di Oncomed diventano presto la trincea per chi ha urgenza di diagnosi sicure ma deve fare i conti con le molte facce della povertà, anche quella silente che in questi anni sta divorando quelli che una volta erano i ceti medi. In questo i tempi del Covid hanno lasciato il segno, facendo spesso arretrare chi prima poteva contare su una relativa sicurezza economica, allargando le fasce di povertà. «I pazienti sono cambiati, oggi si rivolgono a noi anche persone apparentemente insospettabili», racconta Caruso.

    La banca della parrucca

    Ma se la platea del bisogno si è allargata, anche la pattuglia dei medici è cresciuta. Oggi Oncomed è in grado di offrire percorsi diagnostici diversificati e grazie ai medici che gravitano attorno al progetto, fare rete e costruire pure indicazioni terapeutiche.
    Questa realtà da qualche tempo ha avuto il riconoscimento anche di Carlo Capalbo, primario di Oncologia del Mariano Santo. Presso il reparto guidato dal medico calabrese che ha lasciato Roma, dov’era professore associato alla Sapienza con incarichi di alta specializzazione all’ospedale Sant’Andrea, per cogliere la sfida della nuova facoltà di Medicina dell’Unical, l’associazione Oncomed ha aperto uno spazio di accoglienza per i malati e le famiglie e ha avviato la “banca della parrucca”, dove le pazienti potranno avere parrucche in comodato d’uso.

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    L’oncologo Carlo Capalbo

    Oncomed tra minacce e silenzi

    Malgrado tutto questo e il ruolo di sostegno alla cittadinanza che questa associazione svolge da tempo, nel quartiere in cui sono ospitati gli spazi dell’ambulatorio, cioè nel cuore del centro storico, qualcuno non gradisce la presenza dei volontari. Da qui l’accanirsi con dispetti, danneggiamenti o qualche minaccia, che presto indurrà gli animatori dell’ambulatorio medico a cercare altrove una nuova sistemazione.

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    La sede nel centro storico

    «Siamo oggettivamente in difficoltà, trovare nuovi spazi e le risorse per pagare il fitto non è facile, né vorremo abbandonare la città vecchia», conclude Francesca Caruso, ricordando che all’associazione non è giunta alcuna parola dalle istituzioni, se non contatti informali. Un silenzio colpevole, soprattutto quello del Comune, che forse potrebbe trovare spazi dignitosi da affidare a chi è impegnato nella prevenzione e nella difesa della salute dei cittadini.

  • Il vittimismo di certa destra con o senza Hume

    Il vittimismo di certa destra con o senza Hume

    Alla fine voleva essere galante, cioè superiore ma senza esagerare, come suggerisce Hume. Spartaco Pupo, docente Unical che oggi grida di essere vittima di un attacco alla propria libertà di dire cose bizzarre citando il suo amato filosofo scozzese, sta mettendo in atto la consueta pratica del vittimismo, in cui dopo averla sparata grossa, si piange addosso per le critiche ricevute.

    Spartaco Pupo, docente dell’Università della Calabria

    Critiche, sia chiaro, e non richiami formali o censure, perché l’avvocata Stella Ciarletta, “consigliera di fiducia” dell’ateneo, rispettosa del suo ruolo e delle sollecitazioni ricevute da studenti e movimenti, con una mail privata si è limitata a chiedere maggior rispetto e di riflettere riguardo all’opportunità del post pubblicato dal docente di storia, noto esponente della destra. Per chi se lo fosse perso, con il garbo che si conviene ad un gentiluomo, Pupo celebra l’Otto marzo con una lunga citazione del filosofo di Edinburgo, pre illuminista e indicato come il padre del liberalismo costituzionale degli stati moderni.

    La frase scelta parla di superiorità dell’uomo, che però deve mitigare tale supremazia «dimostrando autorità in modo più generoso, se non meno evidente, ossia con le buone maniere, la deferenza, la considerazione, in breve con la galanteria», ma anche con «l’altruismo e con una calcolata riverenza e comprensione per le tendenze e le opinioni di lei». Pensava di suscitare gratitudine e invece comprensibilmente qualcuno si è arrabbiato .
    A far diventare un caso quello che invece è un banale (letteralmente) post su Fb è il soccorso cameratesco, che alza il tiro e il polverone, mentendo su richiami istituzionali che non ci sono, né potevano esserci, e sovrapponendo l’opinione di Pupo con quella della professoressa De Cesare a seguito della scomparsa di Barbara Balzerani. La cortina fumogena della distorsione dei fatti è utile sempre per lamentarsi della sinistra che occupa le università e sotto sotto suggerire qualche epurazione, perché certi passati storici restano nel Dna.
    Riguardo a Hume, che oltre ad alcune magnifiche cose diceva pure che «propendo a ritenere i negri e in generale le altre specie di uomini inferiori ai bianchi» chi lo cita dovrebbe stare attento: se prendi il peggio di un filosofo di trecento anni fa e quelle cose ti piacciono, quel peggio ti appartiene.

  • Cutro è un anno lungo 94 morti

    Cutro è un anno lungo 94 morti

    «Potete respingere, non riportare indietro, noi siamo solo andata», scrive Erri De Luca raccontando di migranti, quindi si rassegnino Meloni e Salvini: certi fenomeni di massa come le migrazioni non si fermano nemmeno con le cannonate, anche se pure queste sono state più volte evocate dalla magnifica coppia oggi al governo del Paese.

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    Soccorritori portano a riva i corpi senza vita dei migranti a Steccato di Cutro

    Novantaquattro morti accertati

    In realtà quelli che scappano dall’inferno non c’è bisogno di sparargli per ucciderli, spesso infatti ci pensano il mare e l’inerzia degli uomini ad ammazzarli. Come sulla spiaggia di Cutro un anno fa, lì ne morirono 94 (accertati), nel mare nero e in burrasca della notte, con la beffa di essere a un passo dalla salvezza. In quella occasione si consumarono due pagine differenti della nostra storia recentissima, da una parte il senso di appartenenza all’umanità mostrato dalla popolazione calabrese nel soccorrere i sopravvissuti, dall’altra l’ignominia di chi comanda, tutti mostratisi incapaci di celare l’indifferenza davanti alla tragedia e al tempo stesso impegnati nel tentativo di spiegare che quelle morti non erano colpa del governo, al massimo di chi a tutti i costi era voluto partire, insomma che se l’erano cercata.

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    I resti del caicco e una tutina di un neonato sulla spiaggia di Steccato di Cutro dopo la tragedia del 26 febbraio

    Cutro 1 anno dopo: la Rete della memoria

    Dopo un anno da quella tragedia, stemperatosi il dolore e dileguatasi l’emozione, c’è chi conta sull’oblio della memoria per nascondere le proprie promesse mancate e c’è chi invece con tenacia e coraggio tiene viva l’attenzione su quanto avvenuto su quella spiaggia. È il caso della Rete 26 Febbraio, la cui portavoce Manuelita Scigliano racconta quanto accaduto nel corso di questo anno e cosa sarà fatto per non dimenticare. La Rete ha mantenuto i contatti con tutti i circa ottanta sopravvissuti, alcuni dei quali sono rimasti in Calabria, precisamente nella provincia di Cosenza, ospiti di strutture per migranti, uno di loro, un iraniano, è rimasto a Crotone.

    La maggior parte invece è stata trasferita lontano, in base agli accordi raggiunti con l’Europa circa il loro ricollocamento. «Molti sono in un campo profughi di Amburgo – racconta la portavoce della Rete – e vivono una condizione di grande sofferenza, anche per la precarietà della loro condizione».La maggior parte infatti resta ancora in attesa dei documenti circa il loro status di rifugiati e chi lo ha attenuto se lo vedrà scadere nel 2024, con grande incertezza per il futuro. Ma questo anno è stato pure il tempo dell’oblio in cui fare morire le promesse.

    Dopo la tragedia, sulla spinta della potente emozione, i sopravvissuti furono ricevuti dalla Meloni e dal ministro degli Esteri Taiani i quali in quella occasione non poterono sottrarsi dal promettere la creazione di corridoi umanitari, allo scopo di consentire la possibilità di ritrovare e riunire i nuclei familiari.

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    La disperazione dei familiari: non rivedranno più i loro cari morti a pochi metri dalla salvezza (foto Gianfranco Donadio)

    La beffa del corridoio umanitario

    Infatti in quasi tutti i casi i nuclei familiari furono smembrati, separati tra chi era avventurosamente partito e chi invece era rimasto nell’inferno delle guerre e delle tirannie. Ad oggi quelle promesse solenni sono rimaste meno che parole di cui farsi vanto, nessun corridoio umanitario è stato avviato e anzi ci si è nascosti dietro il concetto di “ricongiungimento”, provvedimento previsto nelle normative che riguardano i migranti, ma che, come spiega Manuelita Scigliano, «interessa solo quegli stranieri da tempo residenti in Italia che chiedono di farsi raggiungere dai familiari e nessuno dei sopravvissuti alla tragedia della spiaggia di Cutro può rientrare in questa categoria».

    Eppure resta nella cronaca l’impegno della Meloni circa la creazione di corridoi umanitari, delegandone l’organizzazione al ministro di competenza, cioè Tajani. Contro la beffa resta la caparbietà della memoria, alimentata dalle iniziative che ci saranno tra questo sabato e la domenica, con partite di calcio, mostre fotografiche e commemorazioni su quel lembo di spiaggia dove per tanti annegò la speranza di una vita migliore.

  • Colpevole di umanità

    Colpevole di umanità

    I processi politici esistono. Quello che ha dovuto affrontare Mimmo Lucano, dal quale aveva subito una condanna di tredici anni, puniva una visione differente dell’accoglienza. Una idea migliore di essere “questa sporca razza”, come avrebbe detto Beckett. Insomma, una umanità migliore.
    La sentenza di primo grado puniva la solidarietà in un mondo costruito come sostanzialmente ostile verso “l’altro”, basato sulla disuguaglianza che accanisce i meno uguali, già discriminati, contro quelli che stanno ancora più sotto, gli ultimi.
    Puniva in modo grottesco (e con motivazioni raccapriccianti per chiunque percepisca il senso del Diritto) una persona che aveva osato dimostrare che si poteva vincere l’egoismo, dando vita a una piccola oasi di uguaglianza e opportunità, di riscatto e rinascita.
    Verso quest’oasi si era rivolto anche lo sguardo internazionale, interessato a capire come fosse stato possibile in questa remota periferia del pianeta realizzare l’utopia di un mondo almeno un poco meno ingiusto.

    Niente carcere e molta dignità: Mimmo Lucano

    Fine dell’obbrobrio per Mimmo Lucano

    Oggi l’obbrobrio è stato cancellato: il processo di secondo grado ridimensiona la pena da tredici anni a uno e mezzo per irregolarità amministrative e ne sospende l’esecuzione.
    Tutto questo avviene dopo circa cinque anni dall’arresto e dalla fine di quella esperienza di umanità solidale, di rinascita di un piccolo paese, di ritrovamento smarrito di umanità. L’Appello nega le accuse più pesanti: associazione a delinquere, peculato, frode. A chi, con stupore degli accusatori, spiegava che nelle tasche di Lucano non c’era nemmeno un euro, la sentenza di primo grado replicava che questa povertà era frutto della sua furbizia. Un modo troppo semplicistico per dire che quella esperienza doveva spegnersi subendo anche l’onta dell’infamia.
    Alla fine, più ancora della gravità della sentenza di primo grado, era questo l’oltraggio con cui seppellire Lucano: trasformarlo da realizzatore di idee coraggiose in un piccolo bandito. Non ci sono riusciti. Lucano non andrà in carcere per avere dato dignità a chi non ne aveva più e proseguirà quel che in questi anni non ha mai interrotto: costruire il suo piccolo prezioso mondo di accoglienza.
    Sia scritto sui muri, sui libri di scuola, sia scritto e gridato nelle piazze: la solidarietà non è mai stata un reato.

  • Nik, Franz e quel vice sindaco di troppo

    Nik, Franz e quel vice sindaco di troppo

    «Il Pd? È un partito dalle molte anime, direi fluido, qui è rappresentato sempre dalle stesse persone». Fluido ma alla fine pure granitico. Maria Pia Funaro, ormai ex vicesindaco di Cosenza, defenestrata in modo cinicamente burocratico, tramite una Pec, dà voce a quello che i molti presenti alla sua conferenza stampa già sanno.
    La presunta e per adesso solo desiderata rivoluzione della Schlein qui non è mai arrivata, nemmeno come ipotesi, «perché il partito è gattopardesco, cambiare per restare uguale». E il rapporto politico con il plenipotenziario del Pd, Francesco Boccia, si era affievolito da troppo tempo. Altrimenti nessuno l’avrebbe rimossa.
    Questa è molto più della storia di un vice sindaco cui sono state ritirate le deleghe. Questa è la storia di un grumo di potere che è così concrezionato da essere parte integrante della storia del Pd, fin da quando aveva un altro nome e forse persino nelle sue radici più antiche.

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    Maria Pia Funaro spiega le ragioni della sua defenestrazione da vice sindaco

    Il Pd è un partito che tace davanti alla fucilazione alla schiena di un suo significativo rappresentante, cui i vertici nazionali avevano chiesto di mettersi in gioco assumendo la carica di vice sindaco, un partito che adesso si sfila dai commenti, che cerca abbastanza goffamente di far finta che non sia accaduto nulla. Alla conferenza stampa ovviamente del Pd non c’era nessuno, salvo un sorridente Salvatore Giorno, venuto forse per farsi domandare cosa ci facessi lì. Mancavano i vertici regionali e provinciali, mentre per contrappasso c’era chi, come l’anziano Gino Pagliuso, ha passato tutta la vita dentro il ventre della Balena bianca.

    L’ex vice sindaco di Cosenza, Maria Pia Funaro

    Rimossa con una Pec

    Il mondo che sta attorno alla Funaro è variegato e c’era tutto: cattolicesimo di sinistra, volontariato, società civile. Del resto, da candidata alla prima esperienza raccoglie oltre 500 voti, tanti da proiettarla verso il ruolo che fino all’altro ieri ha ricoperto, prima che dalla segreteria del sindaco non giungesse la telefonata che diceva «viene a ritirare il provvedimento qui, oppure glielo mandiamo per email?».

    Il provvedimento era l’addio per sempre di Caruso alla sua vice. Non è nemmeno solo una questione di stile, forse anche di coraggio. Ma la questione è propriamente politica, mica di eleganza. E qui la politica si fa con il coltello tra i denti, non ci sono amici, solo alleati e se non durano per sempre i primi, figuriamoci gli altri. Per come la racconta Maria Pia Funaro, che stemperata la tensione affronta l’assemblea con efficacia, la defenestrazione si consuma perché «è mancata la coesione», come recita la mail di licenziamento.

    In realtà le cose sono più complesse, mal celando bramosie di spazi, lotte di potere, posizionamenti di pedine nel gioco dell’amministrazione di un territorio. Dunque ben oltre le pur significative distanze tra la Funaro e Caruso su alcuni punti, per ultimo la posizione da assumere verso l’ipotesi avanzata dalla Cgil riguardo il luogo dove far sorgere il nuovo ospedale.

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    Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio

    E se il partito nazionale, oltre che i vertici regionali, perdono un vice sindaco senza emettere nemmeno un gemito, vuol dire che o questo luogo è destinato a restare inutile periferia, oppure è un feudo intoccabile. La Funaro non esclude la prima ipotesi, ma tende ad avvalorare maggiormente la seconda, in entrambi i casi c’è poco da stare allegri, visto che «non si vuole entrare in conflitto con chi da sempre conta sul territorio».
    Come indicibili fantasmi, i nomi di Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio non si fanno mai, salvo quando con consueta irriverenza Claudio Dionesalvi domanda ridendo se il nuovo vicesindaco sarà una donna. Il riferimento è chiaro, la Funaro non elude la domanda né la persona evocata, ridendo di rimando dice che non crede possa essere lei, «più probabile qualcuno di quella scuderia». Chissà dove li addestrano a correre questi politici.