Autore: Michele Giacomantonio

  • Carchidi e quel pomeriggio di un giorno da cani

    Carchidi e quel pomeriggio di un giorno da cani

    Un pomeriggio di un giorno da cani a Cosenza. Non è il titolo del bel film di Lumet, ma davvero non sapremmo come definire quanto avvenuto a un cittadino, Gabriele Carchidi, che, senza manifestare alcun atteggiamento minaccioso, è stato trascinato a terra e ammanettato da quattro poliziotti in via degli Stadi.
    La scena è stata ripresa da un balcone e il video è diventato, come accade in questi casi, virale.
    La sequenza genera indignazione e, pur nelle abissali differenze, somiglia a certe scene viste negli Stati Uniti che hanno innescato il movimento Black Lives Matter.

    Trascinati su quel marciapiede c’erano i diritti di tutti

    Gabriele Carchidi è  giornalista e direttore di Iacchitè. E vederlo a terra con la schiena scoperta e bloccato come un criminale non è stato uno spettacolo edificante. Cosenza è stata attraversata sin da subito da un moto diffuso di indignazione.
    La scena restituita dal video è inquietante e non mostra solo un corpo trascinato per terra. Lì non c’era solo una persona, c’erano i diritti che ci illudevamo riconosciuti e rispettati. L’uso della forza è parso subito spropositato e particolarmente sgradevole. Un trattamento di solito riservato a chi commette reati di una certa gravità.

    Gabriele Carchidi

    I fatti, i dubbi e il rispetto della dignità delle persone 

    Dal punto di vista della banalità dei fatti, pare che Gabriele Carchidi si fosse rifiutato di fornire i documenti. Su quale sia stata davvero la dinamica della storiaccia resta però qualche dubbio. Intanto Cosenza (e non solo, visto che il caso è ormai nazionale) si aspetta una spiegazione, perché indossare una divisa significa rispettare la dignità di ogni cittadino. Bisognerebbe leggere qualche paginetta del buon vecchio John Locke, per il quale lo Stato non elimina la libertà, né se ne impossessa, ma la difende. Più o meno come dice la nostra Costituzione.

  • Oltre i confini delle scienze, praticare l’interdisciplinarità

    Oltre i confini delle scienze, praticare l’interdisciplinarità

    Mentre in giro per il mondo cresce la voglia di confini e linee che separano, nelle aule dell’Unical certe sere puoi trovare studiosi e studiose impegnati a superarle quelle linee di demarcazione, almeno sul piano delle scienze, sforzo che comunque rappresenta una potente e non facile novità. “E’ l’interdisciplinarità, bellezza e non puoi farci niente”, avrebbe detto Bogart nelle vesti del direttore di giornale nel film L’ultima minaccia e in un certo modo avrebbe avuto ragione, visto che la complessità del sapere e delle forme attraverso cui la società si manifesta, esige uno sguardo capace di «attraversare i confini», come spiega Sonia Floriani, sociologa del Dispes.

    Superare i confini tra le scienze

    Questo attraversamento di linee è un cammino intrapreso da tempo tra i cubi dell’Unical, su spinta proprio dei docenti del Dispes guidato da Giap Parini. In almeno altre due occasioni occasioni il Dipartimento di Scienze politiche ha chiamato scienziati sociali e matematici, fisici e filosofi a guardare assieme le cose del mondo e sembra che sia giunto il momento in cui «non abbiamo solo parlato di interdisciplinarità, ma l’abbiamo praticata – dice Parini senza celare la sua soddisfazione – siamo andati oltre le articolazioni delle nostra discipline e dei metodi di indagine».

    Si scopre quel che era sotto gli occhi sin dall’inizio e che tuttavia non appariva con chiarezza perché in tanti erano troppo impegnati nel difendere recinti e ambiti di ricerca e cioè che la conoscenza stessa è interdisciplinare, fatta di molte cose, tra esse intrecciate in modo tale da negarsi allo sguardo del singolo, per svelarsi invece allo sguardo di molti.

    Gli Studi di genere naturalmente interdisciplinari

    Qualcuno però quei confini li aveva già dati per superati da tempo. Gli Studi di genere, così detestati dai nuovi poteri globali (che poi sono anche i vecchi), nascono esattamente come studi interdisciplinari. A spiegarlo con efficacia è Giovanna Vingelli, sociologa, che ci tiene a sottolineare come quegli studi nascano fuori dalle accademie, spesso troppo ingessate per accogliere eretiche riflessioni su uguaglianza, diritti e opportunità. Non è per nulla casuale che il titolo che Vingelli sceglie per il suo intervento sia  “Riflessioni indisciplinate sugli Studi di genere”. A parte l’assonanza fonetica tra interdisciplinare e indisciplinato, il gioco di parole non evoca solo la disobbedienza contenuta nella pratica degli Studi di genere, ma anche il loro essere stati a lungo fuori dai recinti disciplinari classici.

    Un momento del confronto organizzato dal Dispes

    La ragione è presto spiegata: gli Studi di genere sono letterari, psicologici, sociologici, etici, giuridici, antropologici e ovviamente politici, nascono cioè sin da subito con l’esigenza di esercitare uno sguardo diversificato per cogliere efficacemente le molte sfumature di un aspetto chiave della società e per attrezzarsi meglio possibile per arginare la cultura patriarcale. Ma non basta, perché forse la vera “eresia” degli sudi di genere sta nel rivendicare la natura politica della ricerca, l’assenza di ogni forma di supposta neutralità della scienza, la connotazione politica delle scelte.

    Costruiremo la Moon base

    Se sulla terra le cose vanno così, cioè se appare sempre maggiormente necessario uno sguardo interdisciplinare, nello spazio andare oltre i confini delle scienze è ancora più importante. Francesco Valentini è un fisico ed impegnato nella realizzazione di un ambizioso progetto, il Programma Artemis, cioè la realizzazione della la Moon base. La base lunare dalla quale si potrà partire per Marte. Un progetto che va oltre la fantascienza, ma implica questioni la cui portata è difficile da misurare.

    «La Moon base non è solo una base abitabile da cui lanciarsi per mete più distanti, ma rappresenta il primo passo per lasciare la Terra», spiega Valentini. L’uomo cioè prende seriamente in considerazione l’idea di lasciare il proprio pianeta per andare alla scoperta di luoghi nuovi e ospitali.

    La nuova ecologia applicata allo Spazio

    I tempi sono lunghissimi, è evidente, ma i lavori sono già in corso e vedono l’Università della Calabria in prima fila nel contribuire al sogno, ma soprattutto il progetto davvero chiama a raccolta una molteplicità di studiosi differenti, perché i problemi che si annunciano sono di carattere interdisciplinare, «non solo, come è ovvio, ingegneri, fisici matematici, informatici, ma anche giuristi, filosofi, psicologi», spiega lo scienziato.

    Occorrerà infatti capire quale impatto sulla società porterà l’idea di costruire altrove una colonia, sarà necessario ridefinire le regole giuridico- diplomatiche del gioco, servirà un nuovo concetto di ecologia applicata non più alla Terra, ma alla vastità dello spazio.

    La Babele delle lingue delle discipline e l’unità del sapere

    Un’opera ambiziosa, che gli Dei dell’Olimpo avrebbero forse visto come una forma di Hybris da punire e che pure il Dio biblico avrebbe castigato come fece con chi voleva costruire una torre così alta da raggiungere il cielo, cioè diversificando le lingue degli uomini. Di quella condanna non ci siamo liberati, ancora parliamo lingue differenti, che non sono gli idiomi degli uomini, ma le “grammatiche” delle discipline scientifiche, linguaggi specialistici che sono la conseguenza di conoscenze settoriali. Eppure Domenico Talia, docente di informatica, ci crede alla possibilità di cogliere quella che Franco Piperno chiamava «l’unità del sapere», l’andare oltre la miriade di linguaggi disciplinari. Dal suo punto di osservazione la soluzione viene dall’informatica, «ontologicamente interdisciplinare», per sua natura trasversale e pervasiva. Ce n’è abbastanza per sentirsi pionieri del superamento dei confini delle scienze, il «nuovo passo adesso –  annuncia Parini – è fare il punto e pensare a una pubblicazione».

  • La Fiera della solidarietà

    La Fiera della solidarietà

    Il riso e i fagioli cuociono in due diversi grandi pentoloni, mentre sui tavoli viene affettato il pane e tutt’attorno c’è l’allegria della solidarietà. Si prepara l’accoglienza dello straniero, degli ultimi del mondo, quelli che certa politica vorrebbe tenere ai margini, scacciare, anzi, la parola giusta è deportare, perché come ogni anno saranno molti gli stranieri che porteranno la loro mercanzia alla Fiera di San Giuseppe, generalmente nord africani, spesso irregolari, uomini e donne che non hanno altro che ciò che possono portare.  «Noi non li vogliamo mandare in Albania, vogliano dare loro da mangiare», dice ridendo una signora mentre confeziona i pasti che dalle sette e mezza di sera saranno distribuiti ai migranti che sono venuti a vendere la loro mercanzia alla Fiera di San Giuseppe. Alla fine saranno pronti più di cinquecento pasti caldi.

    Solidarietà: c’era una volta Fiera in mensa

    Una volta si chiamava “Fierainmensa” e per anni ha trovato nei capannoni occupati del Rialzo il quartier generale della solidarietà. Un volontariato trasversale, che coinvolgeva la sinistra antagonista e il mondo cattolico, le associazioni del Terzo settore e singoli cittadini. Oggi quella esperienza riprende vita, coinvolgendo 14 associazioni (Stella Cometa, Terra di Piero, Moci, Migrantes diocesana, Istituti Buddista, Fondazione Lilli Funaro, Radio Ciroma, Caritas diocesana, Banco alimentare, Azione cattolica, Auser, Anteos, Agesci, L’Arte in corso). A far ripartire la macchina dell’accoglienza sono stati in quattro, racconta Maria Pia Funaro, «prendendo un caffè con gli amici Max Orrico, Gianfranco Sangermano e Andrea Bevacqua, ci è venuto in mente di provarci».

    Volontari preparano i pasti

    Era ancora Dicembre e il tam tam è partito, occorreva tessere la tela che avrebbe tenuto assieme mondi diversi eppure impegnati sullo stesso fronte della solidarietà, soprattutto era necessario raccogliere energie tali per essere capaci di dare da mangiare a molte persone per cinque giorni. Servivano volontari, serviva il sostegno delle attività commerciali che avrebbero regalato l’invenduto delle giornate, serviva un luogo che facesse da base.

    I pasti vengono distribuiti

    Una città con una lunga storia di accoglienza

    L’esperienza dello scorso anno, che aveva visto la distribuzione delle colazioni calde non poteva bastare, soprattutto perché la Fiera cade proprio nel periodo di Ramadan e dunque i destinatari principali dell’impegno solidale avrebbero potuto mangiare solo dopo il tramonto. Tuttavia c’è un aspetto che va oltre lo sforzo organizzativo, c’è il messaggio che sta tutto dentro una visione del mondo che si vorrebbe uguale e più umano. «Cosenza ha una lunga tradizione di accoglienza, radicata nella sua storia, nelle edizioni passate della Fiera ci sono stati nuclei familiari che hanno ospitato donne con bambini, dando loro un luogo sicuro e dignitoso dove dormire», ricorda Maria Pia Funaro, mentre tutt’attorno fervono i preparativi.

    Si confezionano i cestini

    La Cosenza migliore

    Una memoria di solidarietà che è rimasta viva, visto che questa mattina sono giunte due donne con tre bambini presso il Moci per domandare se c’era un posto dove sostare. Di quella solidarietà occorre trasferire il senso da una generazione all’altra, per non perdere la traccia di una città che è stata orgogliosamente aperta e antirazzista e vedere attorno ai tavoli adulti e ragazzi tagliare il pane e preparare il cibo dice che forse nulla è perduto. Un messaggio controtendenza, in una società che pare dare fiato ai comportamenti più avari e a pratiche politiche che si alimentano sulla divisione.  Accogliere e dare da mangiare a chi viene da lontano, resta forse il gesto più autenticamente umano. Non è molto, ma è quel che ci resta, comunque sia è il segno della Cosenza migliore.

  • Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    «C’è una identità che scalpita per essere rappresentata, che ha bisogno di un portavoce, di un ambasciatore, di un condottiero», dice con convinzione Olimpia Affuso, sociologa dell’Unical e vice coordinatrice del corso di studio di Media e società digitale, fornendo una spiegazione possibile all’impazzimento collettivo verso Dario Brunori.
    È pressoché sicuro che il cantautore cosentino non si senta un condottiero, eppure durante l’ultima edizione del Festival della canzone ha incarnato la rappresentazione di un territorio e di una cultura anticamente relegati alla pena del silenzio o, peggio, incatenata ai ceppi di una narrazione nefasta.

    I commenti social

     

    Brunori Sas e la nuova narrazione della Calabria

    Per una manciata di giorni questa narrazione si è spezzata e al suo posto sono emerse dolcezze e poesia e appresso a loro un inatteso orgoglio. Ma le cose sono sempre più complesse di quanto appaiano e per muoversi con disinvoltura dentro l’articolata fenomenologia brunoriana c’era bisogno di uno sguardo in grado di cogliere le sfumature psico-sociali.

    Paola Bisciglia, psicologa e psicoterapeuta, Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes e la già citata Olimpia Affuso, sono stati i compagni di un viaggio dentro un fenomeno collettivo fatto di entusiasmo, rivendicazione e senso di appartenenza, tutti sentimenti che hanno trovato in Brunori Sas il riferimento. E considerata la veemenza fideistica che a un certo punto ha invaso i social, c’è il rischio che possa vagamente avverarsi la profezia espressa con la consueta intelligente autoironia dallo stesso Dario: quella di immaginarsi come una Madonna portata a spalla e con i devoti che attaccano banconote al suo mantello, come ancora avviene durante certe processioni nei nostri paesi.

    Cultura alta e cultura pop

    Questo richiamo divertito a una religiosità devozionale ancora viva in Calabria non è stato il solo riferimento a radici culturali profonde, come quando sapientemente, nel corso di una intervista, ha spiegato l’affascino e i riti magico-religiosi per neutralizzarlo, citando, senza citarlo davvero, De Martino. Sud e magia sul palco dell’Ariston, un passaggio tra cultura alta e quella pop, che ha suscitato non solo il sorriso, ma la rivendicazione orgogliosa «di una storia di cui ci vergogniamo», dice Paola Bisciglia, spiegando che la parola necessaria a comprendere alcune cose è proprio questa: la vergogna da cui vogliamo riscattarci.

    «Si ha l’impressione che i calabresi detestino la Calabria e invece la amano, ma se ne vergognano», continua la psicologa. Poi arriva Brunori, che con la sua autenticità parla a una platea nazionale raccontando della scirubetta, «che per noi è come una cosa intima, solo nostra, e lui lo fa sfidando e vincendo quel senso di pudore che noi abbiamo per le cose che consideriamo private e da non esporre, come il dialetto, l’inflessione cosentina che Dario ha disinvoltamente esibita, la perifericità dei luoghi. In sintesi, ha ridefinito in positivo i limiti».

    La psicologa avverte che tutto questo è avvenuto senza strategia, ma con assoluta autenticità e ha fatto scattare la dinamica dell’immedesimazione. Dario «è diventato uno di noi ed è forte la voglia di riconoscersi in lui». Brunori insomma ci dice che non dobbiamo nasconderci, che possiamo parlare di noi, di come siamo davvero, che possiamo rivendicare la nostra indolenza mediterranea, che il nostro ni sicca è espressione del pensiero meridiano fiero e alto. È repulsione infastidita dell’urgenza imposta dalla post modernità, noi che manco abbiamo avuto la modernità.

    Brunori a Sanremo

    Brunori Ipertesto, segno della contemporaneità

    «Lui ha una caratteristica tipica della contemporaneità: è un ipertesto – dice Olimpia Affuso – dove si collegano testi, codici culturali diversi, parole, immagini e anche tecnologie della narrazione differenti ma con un intento unitario. E questo oggi è la chiave del successo».
    Parini invece osserva il fenomeno da un punto di vista diverso. Per lui Brunori è espressione di una storia solida, capace di rappresentare «una cultura un poco blasé, disincantata, che potrebbe essere la cifra di una certa cosentinità colta, ironica, spesso antagonista, ma non certamente pensiero subalterno. Anzi, si tratta di una cultura forte». Da questo punto di vista il cantautore per Parini «rinverdisce un orgoglio che già c’era e che aveva le sue radici in una città che è stata – e, in parte, è ancora rispetto ad altre aree della regione – colta, moderna, intellettuale».

    La Pizzica e la Tarantella

    L’essere blasé però non aiuta a cambiare le cose: altrove la Pizzica è diventata identità culturale, mentre noi consideriamo la tarantella un ballo tamarro.
    È mancato fin qui il salto per capovolgere il paradigma. La politica non sembra interessata a una operazione di rivendicazione orgogliosa, tocca quindi alla cultura cercare di fare il passo.

    Il sociologo Franco cassano

    «In Puglia c’era un gioco di squadra tra Vendola e Franco Cassano, tra la visione  politica e le aule universitarie», aggiunge Olimpia Affuso, ricordando come Sergio Bisciglia, docente di Sociologia urbana, abbia sottolineato che lo sviluppo turistico della Puglia sia passato dalle università. Il confronto tra la Puglia di Vendola e la Calabria di Occhiuto sembra piuttosto audace ed è vero, come avverte Parini, che tra qualche tempo l’eco sanremese si sarà stemperato, «ma intanto abbiamo trovato un ambasciatore che ha nazionalizzato la Calabria».

    Brunori e la potenza della bellezza

    Di tutto questo adesso resta «la potenzialità politica della bellezza», come conclude Affuso e che è stata rappresentata dall’arte di Dario Brunori.
    Dobbiamo trovare l’intelligenza per trasformare questa bellezza in azione. Ma più di tutto ce la dobbiamo meritare.

     

  • Quando i fatti li costruiscono i social: un rapimento (finito bene) e il suo racconto

    Quando i fatti li costruiscono i social: un rapimento (finito bene) e il suo racconto

    «La bambina sarà restituita presto alla “braccie” (testuale, nda) dei genitori» annunciava fiero il giornalista, quando ormai era certo che la neonata fosse stata ritrovata. Quello che lui non sapeva è che intanto i social, nel corso del tempo durante il quale ancora non si conosceva l’esito del rapimento, avevano scatenato l’inferno.
    La storia della bambina rapita a Cosenza e tempestivamente ritrovata si è presentata sin da subito come un esperimento sociale che alla fine ha decretato la morte o, almeno, le gravi condizioni del giornalismo.

    La notizia viaggia su Whatsapp

    Dopo pochissimo tempo dal rapimento consumatosi in una clinica cosentina, sono stati i social e particolarmente i gruppi whatsapp a marcare la notizia, dando vita a un fenomeno non nuovo e tuttavia non di meno particolarissimo, secondo il quale chi dà la notizia è al tempo stesso destinatario della notizia stessa, una sovrapposizione tra chi informa e chi viene informato, tra chi forgia l’opinione pubblica e l’opinione pubblica stessa, in un vortice di racconti, ricchi di dettagli e però quasi sempre del tutto inaffidabili, generati e diffusi con la bramosia di conoscere la storia, ma anche di partecipare alla sua costruzione e al suo racconto. Tutti consumatori e produttori di fatti che viaggiavano sui cellulari senza alcuna possibilità di conferma.
    È accaduto così che gli eventi venissero divulgati con la inscalfibile certezza della verità, per poi trovare smentite altrettanto aleatorie e tuttavia spacciate per certe. Ma non poteva bastare.

    E infatti accanto alla divulgazione di notizie su come e su chi avesse compiuto l’esecrabile crimine, ecco comparire la vena da consumato opinionista che abita in ogni individuo. Di qui i giudizi, espressi sempre con il tono di chi ha capito ogni cosa, sulla clinica, sulla trascurabile sicurezza della struttura, sull’etnia dei rapitori. Che uno di loro fosse di un colore diverso dalla maggior parte di noi, è stato sin da subito un boccone troppo ghiotto per essere trascurato.
    «L’hanno trovata», gridava su un gruppo whatsapp qualcuno comprensibilmente entusiasta, aggiungendo che «a chiru merda du nivuru l’hanno minato», ottenendo grandissimo consenso.

    Il giornalismo dei telefonini e la bambina rapita a Cosenza

    Quello della bambina rapita a Cosenza è stato il trionfo e la sciagura del citizen journalist.
    Il trionfo perché l’attenzione della maggior parte dei cosentini era mirata sugli schermi dei telefonini, da dove si generavano e si divoravano informazioni, mentre le testate giornalistiche, salvo una maggiormente presente sul fatto, attendevano sviluppi certi per annunciarli.
    Ma pure la sciagura, perché nessuna delle notizie che circolavano senza controllo appariva sufficientemente autorevole, venendo da chi parlava per sentito dire, masticando notizie di seconda mano, aggiungendo dettagli con il solo scopo di apparire informato, amplificando giudizi che erano nella maggior parte dei casi luoghi comuni privi di sostanza, buoni sentimenti venduti a saldo, odio e aggressività a piene mani contro i criminali da sottoporre alle pene più sadiche possibili.

    «Sono i social, bellezza, e non puoi farci niente» potremo dire parafrasando Hutcheson – Bogart, è la surmodernità della realtà manipolata, dove i fatti perdono la loro durezza per essere sconfitti dalle narrazioni narcisistiche di chi rivendica il proprio bottino di like.
    Ma dentro questa storia c’è pure la immortale potenza dell’arcaico, del mondo antico che resiste a ogni forma di declinazione della modernità e si prende il suo posto: il mito dell’uomo nero che rapisce i bambini.

    Vecchie paure e nuove tecnologie: l’Uomo nero finisce sui social

    In questa storia si sono sovrapposti metodi narrativi dei fatti capaci di coniugare tecnologie sofisticate e antiche forme di persuasione di massa, assieme a suggestioni ataviche e paure collettive capaci di scatenare rancori sociali, sempre utili a costruire un nemico comune, alimentare odio e basse emozioni. Il trionfo di tutto quanto è nella folla festante munita di telefonini che ha atteso davanti alla clinica l’arrivo delle forze dell’ordine con la bambina. I selfie obbligatori per dimostrare di esserci, i video per provare di aver fatto parte di una storia e per poter dire “io c’ero”, la conquista di un like che diventa “l’amen digitale” – come scrive Byung-chul Han –  su una vicenda finita bene e che racconta come siamo diventati.

  • Grande città, grande bottino

    Grande città, grande bottino

    Ci avviamo rapidamente verso il referendum più farlocco della storia dei referendum, costruito apposta da chi vuole che prevalga il Sì disinnescando ogni remota possibilità che le cose vadano diversamente dai loro desideri. Senza il quorum, levato per eliminare le conseguenze di una scarsa adesione al voto, che comunque è solo consultivo quindi privo di un autentico potere decisionale, ci chiamano a decidere se unire il capoluogo a Rende e Castrolibero dando vita alla grande Cosenza. I cosentini, dentro questa visione sbagliata, potrebbero dare sfogo al loro ancestrale campanilismo e cedere alla tentazione  di scrivere Sì, mentre i cittadini di Rende e Castrolibero sembrano comprensibilmente piuttosto resistenti a questa idea di allargamento che sa di conquista. A vincere alla fine sarà solo quella casta che vuole famelicamente allagare il territorio da controllare. Si tratta di un grumo di potere trasversale e da parecchio egemone in città e nella Regione, responsabile, in maniera diretta o indiretta, di alcune delle maggiori sciagure toccate in sorte ai Calabresi, dallo sfacelo della Sanità, al dissesto del Comune di Cosenza, all’impoverimento materiale e immateriale della popolazione.

    I miti della modernità e del progresso

    Le facce e i nomi sono lì da un tempo così lungo che potrebbe dare l’illusione dell’eternità. Attorno a loro ci sono vecchi vassalli e nuovi sacerdoti chiamati a magnificare le gesta e le idee di chi sta al comando. Nemmeno le parole d’ordine da usare contro chi prova a spiegare le ragioni del No sono particolarmente innovative, infatti il processo di unificazione viene maldestramente annunciato come un ineludibile passo verso la modernità, una tappa dell’urgente progresso che condurrebbe nella direzione della buona amministrazione dei territori. Concetti espressi da chi ha governato e governa da tempo e che fanno accapponare la pelle. Eppure le idee di città “grande”, di metropoli, come luoghi ottimi dell’abitare sono declinate da tempo, lasciando lo spazio alla salvaguardia del “piccolo”, della città maggiormente a dimensione di cittadini, con servizi rapidamente fruibili  e spazi goduti. I cosentini che non vedono l’ora di votare Sì commetterebbero un errore a immaginare un potenziamento della loro città. Cosenza a seguito della unificazione dei comuni rischia di essere destinata a una marginalità tale da condannarla a un ruolo infimo.

     Cosenza  e il rischio di diventare periferia

    A causa della necessità di rendere maggiormente baricentrica la nuova creatura urbana, Cosenza potrebbe perdere molti dei servizi fondamentali e anche le residue realtà economiche migrerebbero verso territori maggiormente attraenti e vantaggiosi, accelerando lo spopolamento del capoluogo. Non c’è chi non veda come Rende appaia da subito il luogo dove si concentreranno le attenzioni della speculazione edilizia, anche se già adesso sono numerosissime le abitazioni vuote. Dietro la potente volontà del Sì manca tuttavia una rigorosa programmazione, dentro le 481 pagine dello studio di fattibilità – leggerle tutte è una sfida titanica – ci sono solo buone intenzioni senza il sostegno di dati reali, tanto che al confronto la Città del Sole di Campanella sembra meno utopica e comunque sarebbe più bella. E nemmeno i conti degli ipotetici vantaggi economici sembrano avere concretezza reale, ma piuttosto l’evanescenza del desiderio. La percezione dominante è che andranno a votare in pochi e che di misura prevarrà il Sì.

    Una nuova città fatta per i cittadini, non per la speculazione.

    A questo punto sarà necessario che si avvii un ragionamento su come i cittadini possano davvero esercitare una qualche forma reale di potere, oltre quello mistificatorio e privo di valore del referendum. Costruire una città nuova, fatta da persone e non solo palazzi, magari prendendo in prestito l’idea di diverse municipalità, non esattamente forme di decentramento, ma di governo diretto di aree più piccole dentro un macro territorio.  Le città o sono lo spazio dei cittadini, oppure sono il luogo del mercato. Nel primo caso vincono le persone, nel secondo vince il saccheggio.

  • Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Cosenza era diversa, molto. Corso Mazzini era ancora attraversato dalle macchine, c’era la Standa, il bar Manna e il bar Gatto, la coraggiosa esperienza del Giornale di Calabria provava a rompere il monopolio della Gazzetta,  lo spazio davanti Palazzo degli Uffici era pieno di eskimo e sciarpe rosse e a un certo punto della sera si decideva di andare al cinema, all’Italia. Il biglietto costava 500 lire e il cinema cambiava programmazione ogni giorno. Era il 1975 e a Palazzo dei Bruzi sedeva un socialista, si chiamava Battista Iacino, ma per tutti era Pino, al punto che in tanti erano persuasi si chiamasse Giuseppe.

    Pino Iacino e la giunta rossa

    Governava la città con una giunta di sinistra, la sola della storia non breve di Cosenza. Allora le giunte nascevano dentro i consigli comunali, la legge che avrebbe consentito ai cittadini di scegliere direttamente il sindaco sarebbe arrivata molti anni dopo ed erano gli equilibri tra i partiti a livello nazionale e quelli tra i potentati della città a decidere quali maggioranze avrebbero dato vita a una giunta. Per una alchimia che mai più si sarebbe ripetuta il Psi si unì al Pci, tirando dentro Psdi e Pdup e Cosenza ebbe la sua prima giunta rossa.

    La Cultura a un intellettuale comunista

    L’Assessorato alla cultura con Pino Iacino sindaco andò a Giorgio Manacorda, intellettuale comunista, docente universitario. Sono gli anni in cui il cinema Italia rinasce e nella sua sala, sotto la gestione pubblica, vengono proiettati film e registi che mai sarebbero giunti a Cosenza:  Jodorowski, Arrabal, il cinema francese, Pasolini. È in quella sala che la mia generazione ha visto la fantasmagorica esplosione del finale di Zabriskie Point. Ma sono gli anni in cui il Rendano splende per la proposta culturale e per essere diventato teatro di tradizione, mentre nel salotto buono della città il Living Theatre porta lo scandalo dell’immaginario e sotto un tendone da circo muove i primi passi la Tenda di Giangurgolo, da cui sarebbe nato il Teatro dell’Acquario. Su Corso Telesio intanto apriva la prima libreria Feltrinelli.

    La città ai cittadini mentre tutto sta cambiando

    È la prima volta che l’idea che i cittadini possano abitare davvero la casa municipale si fa avanti. Sarà ripresa senza troppa fortuna anni dopo da un gruppo di matti che daranno vita a Ciroma. Quella è stata probabilmente la migliore Cosenza di sempre, ma stava già cambiando. Come in un film di mafia nel 1977 viene assassinato Luigi Palermo, capo incontrastato della malavita non ancora organizzata e la città precipita in una guerra sanguinosa, sul piano politico si annunciano gli anni di piombo.

    Ma in quella fase storica nulla avrebbe fermato il lavoro della giunta rossa e del suo sindaco, che ressero a tutto malgrado in consiglio avessero una maggioranza risicata.  Cosenza conoscerà con Pino Iacino il suo punto più alto di crescita urbana, civile e culturale e quella esperienza finirà nel 1980. Dopo torneranno le camarille, gli accordi, le alleanze strumentali al saccheggio. Oggi Pino Iacino non c’è più, quella sua Cosenza è scomparsa da un pezzo.

  • Dalla Polis alle metropoli, come cambia il destino urbano delle comunità

    Dalla Polis alle metropoli, come cambia il destino urbano delle comunità

    Sullo schermo dell’aula Caldora scorrono le immagini in bianco e nero dei biplani che passano audacemente sotto strade alte e sospese, sulle quali si inseguono veloci treni e automobili, tutto sovrastato da giganteschi grattacieli. E’ la città immaginata da Lang nel suo film Metropolis, del 1927 e per la verità subito viene in mente l’altra megalopoli, pure immaginaria ma non meno algida e disumana, quella del film Blade Runner, di Ridley Scott. Del resto la città, le sue trasformazioni, il suo rapporto potentemente simbolico con la modernità, sono stati i temi scelti per una delle tre giornate che il Dispes ha dedicato  all’inizio del nuovo anno accademico e il cinema è certamente il modo più adeguato per raccontare tutto questo. Tre giorni di discussione, per capire il presente, che è già invecchiato, e il futuro che si annuncia, con le lenti delle Scienze sociali, ma non solo. Ecco quindi la città multiforme, la spinta della modernità sul concetto di luogo abitativo, le radici e la marginalità delle aree calabresi. E se come appare evidente la città nella concezione attuale è il prodotto di una certa idea dominante di modernità, il mezzo migliore per raccontarla sono le immagini. “Il cinema è moderno, veloce e intenso come la città”, racconta Angela Maiello, docente di Critica digitale e Nuovi media. La scelta di sedurre i presenti con le immagini di Lang è sua ed è straordinariamente efficace per spiegare il rapporto emulativo tra cinema e città.

    Il cinema e i media digitali per raccontare le città

    Ma lo sguardo di Lang non è il solo stile narrativo, a questo la Maiello contrappone “L’uomo con la macchina da presa”, di Vertov. Obbligatoriamente pure in bianco e nero, il film ha uno sguardo più documentaristico, quasi antropologico, qui la città è quella reale, vissuta e attraversata dalle persone. I due modi di raccontare la città non potrebbero essere più diversi, con Lang immaginifico e Vertov affascinato dalla vita della gente. C’è un terzo capitolo nella narrazione che si è prodotta della città, ed è la forma più drammatica e attuale. Sullo schermo scorrono le immagini dell’attacco alle Torri gemelle. Questo evento, spiega la docente, introduce una novità: le storie vengono raccontate mentre accadono, il fatto e il suo racconto diventano inscindibili.  E’ la stagione del citizen journalism, in cui tutti sono dotati di dispositivi in grado di riprendere e riprodurre in Rete ciò che accade attorno a loro, e non è detto che sia una buona stagione, anche perché la città raccontata dai new media è anche una città iper controllata, in cui la vigilanza sociale è la cifra più rappresentativa. Qui il cittadino è al tempo stesso osservatore e osservato, sempre, come nel Panopticon digitale evocato da Byung Chun Han.

    La “geografia intima” dei luoghi abitati: lo sguardo antropologico

    Ma se i luoghi sono abitati dagli uomini, per coglierne la simbiosi servono le lenti dell’antropologo ed ecco le parole di Fulvio Librandi, docente appunto di Antropologia culturale, che suggerisce di cogliere il rapporto tra le persone e i contesti abitativi. Essi sono la “geografia più intima”, quella dalla quale non ci separiamo mai, perché i luoghi diventano come un abito indossato, un fenomeno culturale legato al corpo stesso. Il futuro che si annuncia è urbano, la crescita demografica riguarderà le metropoli, “alcune di esse sono già ora snodi strategici di informazioni, scambi finanziari, controllo politico, disegnando nuovi poteri” non sempre e non subito visibili, spiega Librandi. Le vittime sacrificali di questo futuro diseguale e tumultuoso, saranno le aree marginali e qui emerge prepotente la delusione per aver, forse ingenuamente, creduto che la globalizzazione avrebbe ridato fiato alle periferie, invece è accaduto il contrario, con una concentrazione che è funzionale all’economia, acutizzando le disuguaglianze.

    L’ultima frontiera delle metropoli: l’Intelligenza artificiale.

    Il corpo della città è multiforme e rappresenta un campo di indagine perfetto per uno sguardo che pretenda di essere interdisciplinare. A riproporre questa urgenza è un informatico in mezzo ai sociologi. Non è la prima volta che Gianluigi Greco, direttore del dipartimento di Matematica e informatica ed esperto di Intelligenza artificiale esplora universi complessi accanto a scienziati sociali con i quali condivide la visione per la quale l’interdisciplinarità che caratterizza il Dispes deve diventare uno spirito che attraversi il Ponte Bucci per abitare in ogni Cubo. Il tema della Polis e degli spazi abitati è troppo seducente per chi guarda alle città come frontiera della sperimentazione di servizi digitali. Così Greco racconta di città in cui già adesso alcuni servizi sono governati da forme di intelligenza non umana ma al servizio degli umani, fino ad esperienze avanzate in cui le città sono riprodotte interamente in forma digitale e dove si è in grado di valutare l’impatto dello spostamento demografico sui servizi e sulla loro efficienza. E’ vero che solo nei film di fantascienza le macchine sottometteranno l’uomo, ma intanto dare vita a un nuovo umanesimo non sarebbe male.

     

  • Oltre il culto delle immagini, voce e vita sociale al Dispes dell’Unical

    Oltre il culto delle immagini, voce e vita sociale al Dispes dell’Unical

    Viviamo in un mondo in cui comandano le immagini. E’ dal secolo scorso che le nostre vite sono impregnate di forme di comunicazione legate all’uso delle figure, la fotografia prima, poi il cinema e la televisione e infine i social. E la voce? Che fine ha fatto la voce? Probabilmente è da questa domanda che è partita la spinta che ha mosso Olimpia Affuso, docente di Sociologia presso il Dispes dell’Unical a cercare il ruolo e il senso della voce nella costruzione di relazioni sociali.

    Una ricerca che sin da subito è apparsa alla studiosa come ineludibilmente interdisciplinare, bisognosa cioè di sguardi multipli, di punti di vista diversi, in grado di cogliere le numerose forme della comunicazione parlata, ma anche del suo contrario, della comunicazione non verbale.

    L’iniziativa del Dispes dell’Unical

    Di qui l’organizzazione di un dibattito a più voci, per scandagliare e rivendicare quanto è fondante l’uso della parola nei legami sociali, ma pure quanto è forte la potenza del silenzio, che non è assenza di comunicazione. Del resto per coglierne l’essenzialità della voce basta andare indietro nella memoria, ai giorni della clausura, della pandemia che ci aveva obbligati a incontri di lavoro online, dove la massima preoccupazione era assicurarsi di essere uditi dagli altri partecipanti. Nella parole di Olimpia Affuso, che del dibattito è stata l’artefice, la lingua assume anche il ruolo di confine e di superamento del confine stesso, come confronto tra persone che parlano idiomi diversi, ma è anche strumento per manifestare emozioni, stati d’animo e perfino l’assenza della voce, il silenzio, è destinato a portare significati. E non basta, perché modulando la voce, cambiandone l’intonazione, abbiamo perfino il potere di mutare il significato stesso delle parole, quando l’uso del sarcasmo ne capovolge il senso.

     

    Ortega y Gasset e Marshall McLuahn

    Che il modo di osservare il ruolo sociale della voce fosse obbligatoriamente multiforme l’abbiamo già detto, del resto l’interdisciplinarità è sfida che sta molto a cuore a Giap Parini, che del Dispes è il direttore. Nessuno stupore dunque se è proprio lui a sottolineare come «la voce stia sul confine delle discipline” che assieme ne definiscono le sfumature e i sensi altrimenti destinati a sfuggire. Probabilmente l’intellettuale che maggiormente colleghiamo allo studio della comunicazione e dunque alla voce è McLuhan, che meglio di altri ha colto il passaggio dall’oralità della parola alla scrittura che è una forma di parola silenziosa e singolare. Parini nel suo intervento lo dice con efficacia, rinvenendo nelle pagine del sociologo canadese perfino una anticipazione dell’egemonia attuale dei social che McLuhan non ha potuto vedere. I social, infatti, sono l’estensione della lettura solitaria, della parola senza voce, una forma di esasperazione dell’individualismo appena stemperato dall’illusione della condivisione virtuale. La voce e il suo ruolo però non  sono argomento di studio solo delle scienze sociali, ma anche della Paleontologia, disciplina necessaria per capire come il linguaggio si sia sviluppato dalla necessità di comunicare quando le mani erano impegnate e a sostenere questa interpretazione fornita da Parini giunge Ortega y Gasset, che appunto afferma che “la voce è una forma del gesticolare”. L’intellettuale spagnolo, assai caro ai sociologi del Dispes e particolarmente a Parini stesso, rivela quel che già sappiamo senza averne piena consapevolezza e cioè che non c’è atto verbale che non sia ampiamente accompagnata dal corpo.

    Parlo, dunque gesticolo.

    Chi invece conosce bene l’inscindibilità del corpo dalla sua voce è Paolo Jedlowski, che prima iniziare il suo intervento chiede se può fare a meno del microfono, spiegando che “quando parlo gesticolo”. Lo si fa per potenziare il senso, rafforzarne il significato, il corpo segue la voce e le espressioni della faccia più di ogni altra cosa. Ma Jedlowski propone un altro aspetto della voce, quello di suscitare memoria, di sostenere i ricordi delle persone, ovviamente, quelle lontane, o che non ci sono più, ma pure dei tempi e dei luoghi. Il sociologo chiama in causa Joyce, che scrive nelle sue pagine l’opportunità “di mettere un grammofono nelle tombe”, per avere il ricordo della voce di chi manca. La voce dunque quale testimone della memoria, esattamente come lo sono le fotografie. La voce però continua ad esser anche altro, canzoni, per esempio, ed ecco apparire sullo schermo il duetto tra Nora Jones e Keith Richards in Love hurts, oppure film , come Paris Texas  di Wenders, in cui i protagonisti parlano senza vedersi, celati da uno specchio unidirezionale, ma riconoscendosi proprio dalla voce.

    La voce e la sua assenza nel cinema, nei documentari e nei fumetti

    Il cinema resta miniera per chi lavora sull’uso della parola, ed è Daniele Dottorini, sociologo e responsabile del corso di Laurea in Media e società digitale, a proporre nel dibattito un film difficile, eppure essenziale per comprendere la dialettica voce – silenzio.  Il Grande silenzio è il film diretto dal tedesco Groning,   che racconta la quotidianità in un monastero dove i monaci hanno fatto il voto del silenzio e che nelle parole di Dottorini è “potente e disturbante”. Quello di Groning, spiega ancora Dottorini, è più propriamente un documentario, dove l’assenza della parola assorbe interamente l’attenzione.

    Ma c’è anche una produzione documentaristica che fa ampio uso della voce fuori campo e a spiegarcene il ruolo e le dinamiche è stata Alma Mileto, ricercatrice impegnata, tra e altre cose, sul ruolo della voce narrante nel cinema, che ha spiegato come la voce non serva solo a capire le immagini, ma a suscitare pathos. C’è poi il mondo del fumetto e lì la voce manca, esattamente come nella letteratura, eppure proprio come nei romanzi, ha spiegato Sergio Brancato, sociologo dei processi comunicativi, la voce e anche i suoni sono nella mente del lettore, che legge le parole circoscritte nella nuvoletta che sovrasta i personaggi e dà loro tono, senso, in altre parole il suono della vita.

     

     

     

  • Interdisciplinarità, ecco l’Unical che fa quadrato

    Interdisciplinarità, ecco l’Unical che fa quadrato

    «Scienziate e scienziati di ogni dove, prendete posto», esordiscono Sonia Floriani e Vincenzo Carrieri nel dare il via al secondo appuntamento organizzato dal Dispes dell’Unical (il primo incontro si era svolto Giovedì 16 Maggio) sul tema della interdisciplinarità. L’ “ogni dove” cui fanno riferimento i due docenti riguarda proprio i mondi accademici diversi da cui provengono i relatori che hanno tracciato il percorso di questo secondo viaggio attraverso i confini tra le scienze.

    Alan Turing pioniere dell’interdisciplinarità

    Una esplorazione avventurosa, visto che ci porta fino a Turing, che tutti conoscono per aver contribuito in modo determinante a decifrare codici militari nel corso della Seconda guerra mondiale. Eppure lo scienziato inglese nelle parole di Gianluigi Greco, direttore del Dipartimento di Matematica e Informatica, diventa subito una specie di sintesi di una completa forma di interdisciplinarità. A dare la prova di tale “pluralità” di sguardi è la lapide di Turing, che ricorda come lui sia stato un matematico, il padre della “Computer science”, un appassionato di Logica e alla fine purtroppo anche vittima del pregiudizio e dunque suo malgrado testimone di uno dei fenomeni massimamente studiati dalle Scienze sociali. Siamo certi che quest’ultimo aspetto Turing se lo sarebbe volentieri evitato, ma il fatto che la sua figura sia stata riscattata dall’immeritato oblio cui era stata relegata è il segno di come le società mutino. Il ragionamento interdisciplinare proposto da Greco porta Turing ad avere buoni compagni di viaggio, da Pitagora a Chomsky (in questi giorni vittima di una fake sulla sua morte), fino a Godel: numeri, logica, linguaggi, significati. Cose apparentemente separate e invece vicinissime, se si ha il coraggio di superare le iperspecializzazioni disciplinari.

    Le sinergie già in campo tra Ematologia, Farmacia e Informatica

    Greco però da scienziato “duro” resta aderente ai fatti e racconta di come l’interdisciplinarità possa avere molte facce, forme differenti di collaborazione tra ambiti di ricerca e cita esempi concreti, come la sinergia tra il mondo dell’Informatica, la facoltà di Farmacia e il reparto di Ematologia dell’ospedale di Cosenza. Ma questo è il presente, il tempo che deve venire è proiettato sullo schermo, quando Greco manda il trailer di un film fatto assieme da registi e informatici utilizzando l’AI e che affronta l’ipotesi che un giorno le macchine si ribellino all’uomo.

    L’uomo tra biologia, genetica e influenze sociali

    A proporre un tema complesso, eppure necessario sono arrivate le parole del filosofo Felice Cimatti, raccontando l’esperienza scientifica di Giorgio Prodi, che da medico ha indagato l’origine per così dire “biologica” dei significati. Un tema che mischia l’antropologia fisica, la chimica e la semantica, cercando di capire se il significato che noi attribuiamo alle cose tramite il linguaggio o i segni, sia solo il prodotto di sedimentazioni culturali oppure se abbia anche basi appunto biologiche. Cimatti, attraverso gli studi di Prodi , propone di cercare anche tramite uno sguardo medico- biologico, l’origine di fenomeni che crediamo solo sociali. Del resto che l’ambiente, inteso come la somma delle condizioni sociali e naturali in cui agiamo, influenzi le nostre vite è ben noto, anche sul piano propriamente genetico. A spiegare come il mondo e il modo in cui viviamo siano importanti è Giuseppe Passarino, genetista e Direttore del Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra. Lo scienziato ha spiegato come l’essere umano sia una cosa complessa, determinata certamente dal Dna e da fattori ereditari e tuttavia un ruolo importante lo hanno svolto il caso e anche i modi di costruire relazioni sociali. Nell’intervento di Passarino  la spiegazione rigorosa dell’origine della vita si sovrappone a punti di osservazioni tipicamente legati alle esperienze della ricerca sociale, in particolare al presente distopico specifico del capitalismo della sorveglianza, che con algoritmi previsionali può trasformare in merce le nostre caratteristiche genetiche. E qui entra in gioco l’antica questione circa la presunta neutralità delle scienze e delle tecnologie. 

    Le Tecnoscienze non sono neutrali

    Giuseppina Pellegrino, sociologa e studiosa delle comunicazioni non sta a girarci troppo attorno: non c’è neutralità, le tecnoscienze hanno una loro etica e un discreto fardello di responsabilità nel costruire il mondo in cui abitiamo. La sociologa va oltre, perché oggi tentare di capire le cose che ci accadono attorno guardando solo i comportamenti degli umani non basta, occorre fare attenzione ai “non umani”, all’artificiale, alle macchine perché contribuiscono nel modificare il mondo, condizionando le relazioni tra uomini, gli artefatti e il contesto. Di qui la necessità di una interdisciplinarità che superi la tentazione dei primati tra le scienze e che sia capace di una reale ibridazione.  Questi scenari che prospettano l’andare oltre i limiti delle discipline hanno trovato parole – ma non solo –  tra i Cubi del ponte Bucci e il Dipartimento di Scienze sociali e Politiche si candida come punto di contatto tra i molti ambiti di ricerca che tra quei Cubi si realizzano. Un compito non facile né scontato, ma necessario, perché come ha spiegato il Direttore del Dispes, Giap Parini, dalla cui proposta è partito questo percorso, il concetto di confine merita di ritrovare la sua origine etimologica di spazio condiviso.

    L’interdisciplinarità come comprensione dell’altro

    Non dunque una separazione, ma un punto di coniugazione, uno spazio di saperi partecipati e più ampi, «una comprensione dello sguardo dell’altro». Un progetto ambizioso che può trasformarsi in una opportunità e che può essere colta solo da una università pubblica. L’Unical è pronta a percorrere questo sentiero con la consapevolezza necessaria alle cose nuove e audaci.