Autore: Michele Giacomantonio

  • Afghani a Cosenza: adesso siamo salvi, familiari rimasti a Herat

    Afghani a Cosenza: adesso siamo salvi, familiari rimasti a Herat

    Dalla base italiana di Camp Arena ad Herat, fino a Cosenza, scappando dall’illusione di una vita di pace che minacciava di diventare un inferno. Gholam Hossain e Amir Ali, sono due interpreti del contingente italiano in Afghanistan che hanno dovuto lasciare il loro Paese con le loro famiglie, racchiudendo in pochi bagagli i frammenti di una vita che speravano fosse diversa e che invece l’arrivo tumultuoso dei talebani avrebbe cancellato del tutto.

    «Quando gli italiani si preparavano a smantellare la loro base, hanno chiesto a quanti in questi anni avevano collaborato con loro se volevano restare o andare via – racconta Amini – per noi non c’era scelta, dovevamo andare».

    Tre motivi per scappare

    I due sono hazari, sono sciiti e sono stati collaboratori degli occidentali, tre drammatiche ragioni per scappare, perché adesso esse corrispondono a tre condanne a morte. La loro esperienza con i militari italiani comincia 13 anni fa, quando il contingente di stanza ad Herat ha bisogno di interpreti e mediatori culturali. I due, che sono laureati in economia e in informatica, parlano bene l’inglese e hanno rapidamente imparato l’italiano, presentano il curriculum e vengono assunti.

    Munizioni ed armi per il militare italiano a destra, a sinistra l’interprete afghano
    Gli interpreti in giubbotto antiproiettile

    «Le nostre giornate di lavoro cominciavano alle otto di mattina e si concludevano alle sedici», dice Gholam Hossain andando indietro con la memoria e spiegando che il loro compito era di seguire l’addestramento delle forze afghane e trasferire informazioni e ordini dagli italiani ai loro connazionali. Si trattava di mediare tra due mondi diversi e lontani, di spiegare abitudini e culture e di farlo non solo stando al sicuro dentro i confini della base italiana, ma spesso seguendo le truppe in altre aree che erano pure affidate alla gestione dei nostri soldati, ma che erano ad alto rischio.

    Uno degli interpreti afghani che indossa un giubbotto antiproiettile, alle spalle militari con un cane specializzato nel ritrovamento di mine

    «Tra i caduti ci sono stati anche molti interpreti, perché lì la guerra non è mai davvero finita e non fa la differenza tra combattenti e non», dice con voce ferma Amini, che era abituato a passare disinvoltamente dalle pratiche d’ufficio all’ indossare un giubbotto antiproiettile seguendo a bordo dei gipponi i militari che quando arrivavano presso qualche sperduto villaggio avevano bisogno di una guida.

    Fratelli e genitori rimasti in Afghanistan

    Ora sono qui, a migliaia di chilometri da dove sono sempre stati, con mogli e figli, ma senza fratelli e genitori, per i quali sono assai preoccupati e con l’amara certezza che laggiù non torneranno più. Su questo i due si fanno poche illusioni, hanno conosciuto i talebani e sanno che questi in Afghanistan resteranno a lungo. Hanno il cuore lacerato come chiunque sia stato, per qualche ragione, costretto a lasciare le proprie radici, «perché per la nostra cultura la famiglia è tutto, noi passiamo tutta la vita assieme», ma a questo dolore si aggiunge il peso di un sogno svanito. Perché loro ci avevano creduto in un progetto di pace e democrazia, perfino forse di prosperità, «ma è stato come aver tentato di costruire una casa per venti lunghi anni e poi farla distruggere in pochi giorni».

    Restare in Afghanistan significava morire

    Quando è stata prospettata la necessità di scegliere, per i due non c’è stato molto a cui pensare, la decisone era nelle cose: restare significava morire, perché a noi occidentali sembra che tutto si sia consumato in una manciata di giorni, ma evidentemente tra chi invece era sul campo, era già forte la certezza dell’arrivo inarrestabile dei talebani. «E’ stato difficile decidere, ma non c’era alternativa», dicono quasi assieme, come per darsi reciprocamente una ragione ineluttabile per l’essere fuggiti da un destino crudele. E come sempre è la nostalgia a segnare il loro tempo, forse più ancora delle difficoltà materiali di chi vive da esule. La loro mente resta sempre ancorata ai luoghi e ancor di più alle persone lasciate indietro, che sono oggettivamente a rischio.

    Personale del contingente italiano e interpreti afghani in “missione” tra i banchi,
    La Kasbah a Cosenza provvede al loro sostentamento

    Il governo italiano ha scelto la loro destinazione, disperdendo in varie località il piccolo gruppo di collaboratori afghani che avevano affiancato i militari italiani. Ora sono affidati alle cure dell’associazione La Kasbah, che provvede al loro sostentamento e che, tra le altre cose, in questi giorni dovrà anche risolvere il problema dell’iscrizione delle loro bambine presso una scuola cittadina.

    Gli italiani avevano costruito scuole e ospedali

    Ma i problemi dell’oggi, per quanto assillanti e urgenti, ancora non riescono a prevalere sui ricordi e sui rimpianti. «Gli italiani avevano fatto molto, scuole, ospedali, ora è tutto perduto», dice scuotendo la testa Amir Ali  e pensando a quanti hanno perso la vita per quel progetto, «mentre i politici hanno rovinato tutto»

    Nati e cresciuti in guerra

    Il presente reclama un nuovo impegno e rinnovato coraggio, ripartire da zero, cercando presto, quando i documenti saranno a posto, un lavoro. «Vorremmo fare qualcosa legato alla nostra formazione, ma non ci facciamo illusioni», spiegano consapevoli della difficoltà della situazione, ma probabilmente per chi è venuto via da un luogo che non conosce la pace da oltre vent’anni, questo per adesso non è il problema più grande. I loro sforzi sono finalizzati alle loro famiglie, alle bambine in particolare, «perché noi siamo nati in guerra, siamo cresciuti in guerra e moriremo esuli», ma per i figli dovrà essere tutto diverso.

  • L’ultima di Marco Ambrogio: ospedali in tutti i quartieri

    L’ultima di Marco Ambrogio: ospedali in tutti i quartieri

    Vi sentite poco bene? No problem: se alle comunali dovesse vincere Marco Ambrogio avrete un ospedale sotto casa. La proposta del candidato post Pd, soccorritore di Occhiuto in questi due mandati e oggi scopritore del civismo, sarebbe la soluzione dei molti e antichi guai della sanità calabrese.

    Più ospedali per tutti

    Il leader della lista La più bella Cosenza di sempre oggi si è prodotto in un’idea rivoluzionaria: perché non costruire piccoli ospedali in ogni quartiere? Ed ecco inserita l’intuizione dentro il programma elettorale. Ogni area cittadina avrà il suo mini nosocomio, con medici pronti a produrre diagnosi. Peccato che una cosa del genere già esista: si chiamano ambulatori e basterebbe farli funzionare.

    In realtà l’idea di Ambrogio è parecchio più ambiziosa. Gli ospedali di quartiere, benché “piccoli”, avrebbe a loro disposizione strumenti diagnostici sofisticati e medici specialisti. Il candidato non spiega dove trovare le risorse per realizzare questo progetto con una sanità che boccheggia ed è assediata da emergenze. Ma in campagna elettorale certi dettagli contano poco. Senza considerare che nel corso di tutto il secondo mandato di Occhiuto uno dei temi roventi è stato proprio l’individuazione del luogo dove costruire il nuovo (vero) ospedale, con il conflitto tra Oliverio e Occhiuto che frapponeva veti ed ostacoli tali da mandare per adesso nel dimenticatoio la soluzione del problema.

    Cosenza indipendente

    Ma a ben guardare non è meglio avere venti piccoli ospedali a pochi passi – avrà pensato Ambrogio – che uno nuovo e grande ma distante? In fatto di proposte audaci lui stesso recentemente aveva anche annunciato che – in caso di vittoria elettorale – avrebbe ridato vita alle circoscrizioni comunali, che nel suo programma sarebbero «il vero front office tra le esigenze quotidiane e la politica delle alte stanze».

    Una bella idea, quella di ridurre le distanze tra i cittadini e la burocrazia, velocizzando le pratiche e snellendo le procedure. Tuttavia il Governo potrebbe non essere d’accordo, visto che una legge dello Stato le ha abolite.
    Forse dentro le pieghe del programma di Ambrogio però c’è la soluzione: una repubblica autonoma di Cosenza. Non sappiamo se sarà la più bella di sempre, certamente sarà indipendente e con molte circoscrizioni e più ospedali per tutti.

  • Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Ci sono storie di uomini che si sono fatti la guerra sul mare e navi che sono affondate con i loro segreti che continuano a tornare come fantasmi inquieti.
    Il 3 Luglio del 1941 un convoglio composto da tre navi mercantili – la Mameli, la Pugliola e la Laura C – scortate da due cacciatorpediniere aveva appena superato lo Stretto di Messina con destinazione il Nord Africa. Di lì in poi veniva la parte più insidiosa della navigazione, dove maggiormente era probabile un attacco inglese. E infatti alle 10 e 30 del mattino il sottomarino britannico Upholder (che solo qualche giorno prima aveva affondato la motonave Lillois al largo di Scalea) nascosto in agguato tra i flutti del mare di Saline Joniche, lanciava due siluri.

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    Il sommergibile Upholder, che affondò la Laura C, in una foto d’epoca
    Un carico esplosivo

    Possiamo solo immaginare le strisce parallele lasciate dalla corsa degli ordigni, la concitazione a bordo delle navi, gli ordini gridati ed eseguiti per evitare l’impatto e poi le esplosioni a bordo della Laura C quando venne colpita. Il resto è il tentativo di salvarsi manovrando verso la costa, dove a meno di cento metri dalla riva la nave è affondata portando con sé sei membri dell’equipaggio (uno dei quali proveniente da Paola) e il carico.
    Il libro di bordo racconta di stive con beni di conforto come fiaschi di Chianti, birra, bottiglie di Campari, farina, stoffe e macchine da cucire, biciclette per i bersaglieri, anche profumi e boccette di inchiostro di china. Ma, soprattutto, armi, munizioni e tritolo.

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    Il telegramma con cui il prefetto annunciava al Ministero dell’Interno l’affondamento della nave
    Il tritolo stragista

    Oggi la Laura C dorme tra i trenta e i sessanta metri di profondità ed è diventata una ricchissima oasi di vita sottomarina, ma il suo è un sonno inquieto.
    Nel corso degli anni in cui si è registrata una certa corsa al pentitismo, diversi collaboratori di giustizia hanno sostenuto che il tritolo conservato nelle stive della nave affondata poco al largo di Saline era una specie di polveriera a disposizione dei clan. Da quelle stive sommerse sarebbe stato prelevato l’esplosivo per diversi attentati, tra cui quello mancato e poi rivelatosi finto, a Giuseppe Scopelliti.
    Ma nella mitologia ‘ndranghetistica perfino le stragi di Capaci e quella di Via D’Amelio vennero realizzate con il tritolo dei tempi della seconda guerra mondiale.

    In realtà le indagini condotte dalle Forze dell’ordine, dalla magistratura antimafia e perfino dal Sisde, riuscirono a trovare conferme parziali a tali dichiarazioni. Furono condotte delle analisi sulle tracce di esplosivo usato in alcuni degli attentati e in parte fu trovata compatibilità con l’esplosivo conservato nel ventre della nave. Era sufficiente perché le autorità decidessero di chiudere le stive del relitto, per impedire qualunque possibilità di trafugamento.

    La prima bonifica

    Il primo intervento di bonifica fu realizzato dalla ditta di lavori subacquei Cormorano Srl di Napoli e costò quasi quattro miliardi di vecchie lire. Ma i lavori non furono efficaci, a causa del cemento pompato nelle stive, la nave si piegò su un lato, vanificando almeno in parte l’opera. Per un tempo infinito quella nave è stata l’oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per tutti quanti operano nel settore del turismo subacqueo. La Laura C non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, ma è anche spunto per riprese video mozzafiato ed è facilmente raggiungibile dalla costa.

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    La natura si è fusa con quel che resta della Laura C sul fondo del mar Jonio

    Una grande occasione perduta per un settore del turismo calabrese, magari di nicchia, ma molto esigente e ricco. Scendere sulla Laura C resta una esperienza potente. Dopo avere nuotato poche decine di metri in superficie ci si immerge trovando subito l’albero di prua che esce dalla sabbia che copre per intero la parte anteriore del relitto. Si prosegue dunque verso poppa, conquistando quote piuttosto impegnative e scorrendo lungo la fiancata della nave si possono vedere le mille forme di vita che ne hanno colonizzato le lamiere.

    Divieto di turismo

    Ma è una esperienza che resta nei ricordi di chi l’ha potuta vivere, visto che malgrado le operazioni di bonifica siano state dichiarate concluse con successo, il relitto resta un sogno proibito. Già nel 2002 due senatori dell’Ulivo, Boco e Turrroni, rivolgevano al Ministero dell’Ambiente e a quello dell’Interno un’interrogazione per domandare quando la nave potesse tornare fruibile turisticamente, considerata la sua valenza naturalistica, caratterizzata anche da rarità biologiche.

    Nel 2015 le autorità militari e la magistratura annunciarono che «dopo un duro lavoro svolto dai sommozzatori della Marina e dalla Guardia Costiera», la Laura C non era più una polveriera. Sembrava poter venire meno l’interdizione alle immersioni e invece dopo anni di lavori, moltissimo denaro speso, immergersi lì non è ancora possibile. Perché come diceva Conrad, le navi hanno sempre un carico «di desideri e rimpianti».

  • Il buco: la Calabria più profonda sul red carpet a Venezia

    Il buco: la Calabria più profonda sul red carpet a Venezia

    Poche cose sono potenti come il desiderio della scoperta e nei primi anni ’60 in Calabria l’ignoto era anche rappresentato dal “Buco”, l’imperscrutabile voragine ai bordi della vecchia strada che conduce da Cerchiara a San Lorenzo Bellizzi. Quel “Buco” oggi è il titolo dell’ultimo film di Michelangelo Frammartino, regista, autore e documentarista, approdato con la sua opera sull’Abisso del Bifurto alla Biennale del Cinema di Venezia.

    L’impresa

    Ma prima di finire sul grande schermo, il Bifurto è stato per un tempo lunghissimo solo una voragine temuta, per diventare poi oggetto di esplorazione. Era il 1961, quando una pattuglia di giovani speleologi piemontesi partì alla volta della Calabria. Un viaggio interminabile, considerato che nel luglio dello stesso anno l’autostrada del Sole finiva a Salerno. Di lì in poi era avventura pura. La Calabria era terra arcaica con le sue montagne, le stradine strette, le greggi che le attraversavano. E quando guidati da un pastore arrivarono sull’orlo del Bifurto i ragazzi capirono che quel buco non finiva mai.

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    Lo storico primo ingresso degli speleologi piemontesi nella grotta

    Settecento metri circa di profondità, più del doppio dell’altezza della Torre Eiffel. Una sequenza interminabile di pozzi la cui verticalità è perfetta, con pareti levigate dal lavorio millenario dell’acqua e delle ere geologiche, che avevano lasciato segni e fratture come tracce indelebili di quanto antico fosse quel luogo.
    Perfino gli esperti piemontesi, che avevano visto le grotte di mezza Europa, rimasero disarmati davanti a tanta potenza. L’Abisso resistette al primo assalto e l’esplorazione non fu conclusa, era troppo profonda la grotta. Ci volle l’anno successivo per arrivare in fondo al buco e completarne l’esplorazione.

    Un incontro fondamentale

    Il film su quella storia di avventura e passione muove i primi passi anni fa. Frammartino arriva in Calabria per girare Le quattro volte, film sulla fatica e la solitudine delle terre marginali come la Calabria. In quella occasione incontra Nino La Rocca, anima e fondatore del Gruppo speleologico lo Sparviere. La Rocca conduce Frammartino sul bordo dell’Abisso e quella voragine rapisce l’anima del regista.

    In realtà, quando cominciano le riprese il Bifurto non ha già più segreti. «La prima vera esplorazione, dopo quella dei piemontesi, avviene nel ’77, assieme ai migliori speleo calabresi», racconta Nino La Rocca. L’anno dopo, aggiunge, attorno al Bifurto ci fu un campo speleo cui parteciparono gruppi provenienti da tutta l’Italia. In quella occasione si cominciò a realizzare il rilievo della grotta, oltre che ad aprire nuove vie laterali.

    Dove è sempre notte

    Questo luogo, pur esplorato, continua a mantenere intatta la sua seduzione, con il buio perfetto ed eterno, il consueto pipistrello a fare da guardia all’ingresso del primo pozzo, l’acqua che scivola eterna sulle pareti. Ma aveva bisogno di un cantore. Questo compito è toccato a Frammartino, che prendendo in prestito l’avventura dei piemontesi ha narrato il mistero nascosto, il fascino della «cattedrale», come lui stesso ebbe a chiamare l’Abisso.

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    Un fotogramma del film di Frammartino

    «Questo film – ha spiegato il regista – nasce proprio dall’incontro con il territorio e con Nino La Rocca». E per raccontare questo lembo di Calabria segreta la troupe ha sfidato il buio, la perdita della percezione del tempo che viene stando in un luogo dove è sempre notte, l’isolamento.
    «Ho voluto raccontare la storia di un gruppo di speleologi che, in pieno boom economico, hanno deciso di scendere nel Sud ed immergersi nel buio di una grotta», ha aggiunto Frammartino.

    Il tempo fatto pietra

    Il lungometraggio ha visto il prezioso contributo di Renato Berta, che ne ha curato la fotografia e che in passato ha lavorato con maestri come Godard e Rohmer. La coniugazione tra la pulsione creativa e la magia di luoghi come i Piani di Pollino, il Raganello di Civita, l’arcaicità di San Lorenzo Bellizzi, hanno dato vita ad un racconto cinematografico potente e suggestivo, in grado di restituire per intero il fascino selvaggio che emanano quegli spazi ancora per molti versi immacolati.

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    Uno speleologo in azione lungo le pareti dell’Abisso del Bifurto

    Oggi quei luoghi lontani dalla ribalta sono stati scoperti dalle pagine dei giornali nazionali grazie al lavoro di Frammartino e questa è una buona cosa per favorire una narrazione della Calabria fuori dagli stereotipi. Ma la cosa straordinaria è che quando le sole luci che resteranno in quei pozzi profondi bui e bagnati saranno quelle sulla testa dei matti che ci scenderanno, allora sfiorare ancora con la mano nuda la parete di uno di quei pozzi riconsegnerà intatta la sensazione di avere toccato il tempo che si è fatto pietra.

  • Scuola alla deriva, oltre l’Invalsi c’è di più

    Scuola alla deriva, oltre l’Invalsi c’è di più

    «Se il padrone conosce mille parole e tu solo cento, sei destinato a restare servo», diceva in maniera populistica eppure allo stesso tempo eretica don Milani per sottolineare l’importanza della scuola. Ma se il prete di Barbiana aveva ragione – e probabilmente l’aveva – allora una intera generazione di studenti calabresi sembra destinata alla subalternità sociale.

    A raccontare la facile previsione sono i dati prodotti dall’Invalsi, ente auto generato dalla scuola italiana per conoscere e valutare il grado di competenze raggiunte dagli studenti del nostro Paese.
    Nelle classifiche prodotte dai test cui gli studenti vengono da tempo sottoposti, la Calabria occupa stabilmente gli ultimi posti e i dati del 2021 non promettono miglioramenti. Siamo in fondo alla classifica per quanto riguarda la conoscenza dell’italiano, le competenze scientifiche, la padronanza delle lingue straniere.

    E qui torna, aggiornata ai tempi moderni, la profezia di don Milani: conoscere significa capire e governare il mondo che ci circonda, vuol dire consapevolezza e capacità di scegliere e decidere da persone libere, costruire opportunità di riscatto per tutti, non solo per se stessi, perché il sapere libera dal bisogno. Al contrario, non acquisire quelle capacità, significa rassegnarsi ad un ruolo di subalternità, dove qualcun altro sceglie e decide quasi ogni cosa, perfino per chi votare.

    La Caporetto della scuola calabrese

    Ma dove cercare le responsabilità, o almeno le ragioni della Caporetto della scuola calabrese? «L’errore più ricorrente è quello di considerare i dati Invalsi come una valutazione degli insegnanti, invece i test nascono con uno scopo più ampio: tenere conto dei molti attori coinvolti nel processo educativo-formativo, e della mutevolezza delle realtà sociali», spiega Sabina Licursi, docente dell’Unical, sociologa ed esperta di politiche sociali ed educative.

    È certamente come avverte la docente, tuttavia la sensazione diffusa è diversa e la scuola calabrese vive male i test. «Il test è solo un metodo, che ha anche parecchi limiti – continua Licursi – ma i risultati vanno interpretati tenendo conto dei diversi contesti». Una situazione che spinge Maddalena Gissi, segretaria generale della Cisl scuola, a dire «che le ragioni di criticità emerse in Calabria sono il riflesso di una debolezza di contesto per la quale non a caso si invocano da anni politiche di maggior attenzione e di più efficace investimento».

    Lo scopo dunque dovrebbe essere individuare le radici dei deficit nei risultati e una volta compiuto questo lavoro, «apportare quegli interventi necessari, estendere il tempo pieno, canalizzare risorse, mettere in connessione i cicli formativi – aggiunge ancora Licursi – ma tutto questo significa far diventare la scuola calabrese un tema politico».

    Alla deriva senza timonieri

    Ed eccoci al cuore della questione: c’è uno scarto tra il mondo delle promesse e quello spietato della realtà, in cui nulla davvero cambia. Per avere la misura della situazione della scuola in Calabria, basti pensare che da molto tempo ormai essa è acefala. Manca una direzione regionale, dopo la tragedia di Giovanna Boda, dirigente del Ministero mandata in Calabria a sostituire Maria Rita Calvosa perché indagata per uno scandalo di mercimonio di titoli scolastici. La Boda, appena saputo di essere pure lei indagata, per altre ma non diverse ragioni, ha tentato il suicidio.

    Di fatto oggi al timone della scuola calabrese non c’è nessuno e non pare che la cosa interessi qualcuno. «Il fatto è che noi non abbiamo alcun peso politico – spiega Massimo Ciglio, dirigente scolastico cosentino – il destino della scuola calabrese non è tra le priorità, come del resto non lo è nemmeno quello politico». Insomma, la Calabria non è nei radar dello Stato. Né per la sanità e ancor meno per la scuola, un destino di marginalità che abbraccia ogni aspetto del vivere sociale. E, come aggiunge ancora Maddalena Gissi, «prima ancora che di risorse, la scuola dovrebbe essere oggetto di un investimento morale da parte della comunità in cui agisce».

    La scuola bipolare e l’Invalsi

    Restando all’Invalsi, Ciglio spiega che nella scuola italiana c’è una sorta di bipolarismo. Infatti, tutte le indicazioni nazionali in fatto di apprendimento valorizzano forme di sapere complesso, non misurabile con l’aridità di un test come quelli Invalsi. Che è come dire che insegniamo a studiare in un modo e poi misuriamo quello studio nel modo opposto.

    Resta il problema della qualità dei docenti calabresi, dei quali si deve capire quanto è forte la vocazione ad insegnare. «Come matura questa scelta professionale? Perché è chiaro che, sia pure dopo molti anni di faticoso precariato, alla fine i docenti approdano a un lavoro stabile», dice Licursi. Il sospetto è che non tutti i prof, ma non solo quelli calabresi, siano in cattedra non proprio per scelta.

    Docenti senza motivazioni

    Viene in mente Lévi-Strauss, secondo cui dopo aver superato il concorso per la docenza «volendo ci si poteva riposare definitivamente». L’antropologo si burlava dei prof francesi degli anni ’50, ma oggi non sembra che le cose siano diverse.
    «C’è sicuramente una certa pigrizia intellettuale – racconta il preside Ciglio – e per strappare i docenti a questo destino servono idee, risorse e bellezza». Quella che manca quasi sempre nelle nostre scuole, casermoni concepiti per una didattica ampiamente superata, fatta per compartimenti stagni. Oggi, però, la parola magica è connessione.

    Sullo stesso tema, quello della motivazione dei docenti, la professoressa Licursi sottolinea come il mestiere di docente non sia limitato alla trasmissione di saperi, ma soprattutto implichi la capacità di costruire relazioni.

    Gli ispettori a scuola

    C’è poi il problema dei corsi di aggiornamento, croce e tormento di eserciti di insegnanti. La prassi è stata a lungo la seguente: li si convocava con un ordine di servizio piuttosto vago che sembrava far riferimento ad un non preciso obbligo; li si riuniva in una sala ampia (prima della pandemia, ovviamente); li si costringeva ad ascoltare relazioni i cui contenuti restavano alieni, recitati da ispettori ministeriali potenti e perciò temuti.

    Attorno a queste pratiche inutili e mortificanti, gira un bel po’ di denaro e certe volte si è scivolati nell’imbarazzo. Come quando insistentemente si è chiamato a spiegare come fare bene il lavoro di docente, un potentissimo ispettore, finito poi a Poggio Reale per accuse piuttosto gravi e tutt’ora ai domiciliari.
    Eppure per fare bene il mestiere di docente basterebbe poche cose, tra cui capire cosa vogliono i ragazzi in una età in cui non riescono ad immaginare il loro futuro.

    Quale futuro per la scuola?

    Cosa può fare la scuola? Occuparsi di cose reali, uscire dalle aule, entrare nei mutamenti sociali e preparare gli studenti alla complessità. Ma soprattutto strappare i docenti al destino che li vuole sempre sospesi tra l’ignavia e l’eroismo, riconoscendo il loro ruolo. È ancora la sociologa Licursi a raccontare come in una ricerca finalizzata al contrasto delle povertà educative che ha osservato studenti dai 14 ai 17 anni, da Pordenone fino a Trebisacce, sia emersa la necessità sentita diffusamente dai giovani di capire il mondo attorno a loro, immergendosi nella realtà.

    Intanto, lontano anni luce da tutto ciò esiste un mondo che si chiama Burc, dove nel gennaio 2021 chi governa la Regione scrive la lista delle buone intenzioni. Preso atto dei risultati degli Invalsi, nella Cittadella hanno deciso che «dare la priorità all’innalzamento delle competenze di base richiede di intervenire a favore di alcuni target», come gli studenti provenienti da contesti svantaggiati. E di «qualificare, modernizzare e rendere più inclusivi i sistemi di istruzione e formazione attraverso azioni di formazione e riqualificazione del personale e dei docenti». Ma anche di «rendere le scuole più sicure, efficienti, accessibili, ma anche attrattive e innovative attraverso interventi di mitigazione del rischio sismico degli edifici scolastici».
    Alla fine spezzeremo le reni all’Invalsi. Forse.

  • Il sindaco del rione via Popilia

    Il sindaco del rione via Popilia

    Quanto è distante via Popilia da Palazzo dei Bruzi? E quanto cammino si deve affrontare per arrivare dal quartiere più popoloso della città fino allo scranno di sindaco? La fatica si misura non in passi, ma nella capacità di aggregare consenso e i modi sono sostanzialmente sempre uguali: promettere il riscatto del quartiere.

    Via Popilia ha sempre rappresentato il campo dove si vincono o si perdono le elezioni a Cosenza. Per il grande numero di famiglie che vi abitano, ma anche per ragioni storiche e sociali che ne hanno fatto nel tempo terreno di caccia per costruire gli imperi clientelari delle ben note famiglie politiche cosentine.

    I soliti noti

    Nell’avvicinarsi inesorabile delle prossime elezioni comunali, si prepara la consueta schiera di chi minaccia o medita di candidarsi a sindaco e tra questi è difficile scorgere autentici segni di novità. Non è nuovo Francesco Caruso, organico all’esperienza dell’amministrazione Occhiuto e che proprio nell’architetto che ha governato la città potrebbe avere il suo vice sindaco.

    A Cosenza già girano gustose battute sulla “Strana coppia”, (senza riferimenti a Walter Matthau e Jack Lemmon, che nel confronto risulterebbero comunque vincenti), con Caruso succube di un esuberante Occhiuto per nulla intenzionato a levare le mani dalla città. Anche la scelta di prendersi come vice chi ha trascinato nell’abisso del dissesto il capoluogo, se dovesse trovare conferma, pare chiaramente il frutto di un patto a tavolino separato dai bisogni dei cittadini.

    Certamente non è nuovo Marco Ambrogio, che si candida con la benedizione dei fratelli Occhiuto ed evidentemente pensa che un sindaco in famiglia non basti. Nella sinistra ancora c’è incertezza, altrimenti non sarebbe la sinistra. Quella movimentista cerca un nome in grado di rappresentare il disagio e la sofferenza sociale generati da dieci anni di indifferenza verso i bisogni reali delle persone, mentre il centrosinistra dibatte inutilmente, facendo ogni tanto affiorare la proposta di Franz Caruso, ex giovane socialista, il cui nome ciclicamente viene annunciato.  

    Via Popilia alla riscossa

    A ben guardare la novità viene proprio da via Popilia, da dove si muovono tre candidature: Francesco De Cicco, Francesco Civitelli e Luigi Bevilacqua. Mai accaduto prima. De Cicco per la verità nuovo non lo è per nulla, ma la sua appartenenza allo strategico quartiere lo pone all’attenzione. Per anni assessore di Occhiuto – che giura di non sentire da «oltre un anno e mezzo», proprio a volerne marcare la sopraggiunta distanza –  ha tenacemente presidiato ogni buca nell’asfalto, ogni tombino ostruito, chiamando celermente squadre di operai per le riparazioni, spesso supervisionando e partecipando lui stesso ai lavori. È anche in questo modo che ha lentamente costruito un consenso popolare, proiettando di sé l’immagine dell’uomo del fare. 

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    Francesco De Cicco amava definirsi l’assessore “pala e pico”, in contrapposizione (e rima) con la passione di Occhiuto per la figura di Alarico

    Lo dichiara lui stesso, quando avvisa che «dal basso sto lavorando da tempo al programma», preparando «sette liste vere» e l’aggettivo vorrebbe sottolinearne la potenza e il radicamento. La sua visione della città non vola altissimo, ma si basa su un buon proposito, «quello di togliere il muro tra i cittadini e la politica». E il suo stare sempre «sul marciapiede» vale a dire a diretto contatto con «la gente», gli sembra il modo più efficace per superare le distanze.

    Le multe a Guarascio

    Sul concreto De Cicco pare avere le idee chiare, «col Comune in dissesto, non si può fare molto, chiunque prometta il contrario mente». Tuttavia un piano ce l’ha e sulle grandi opere, vanto della stagione del sindaco Occhiuto, aggiunge che “«certamente non si possono demolire, ma molte cose si possono aggiustare». De Cicco sa di parlare al cosentino medio, quello che smadonna chiuso in macchina nel traffico bloccato e gli promette di «allargare il tratto stradale di viale Parco, aggiungendo anche parcheggi con strisce bianche, creare una variante su via Molinella e sbloccare così via XXIV Maggio». Poi il suo sguardo si volge a via Roma e aggiunge che «pure la villetta davanti alle scuole può essere modificata, con l’uso di semafori si può consentire il traffico stradale lineare e scorrevole».

    Da uno che parte da via Popilia ti aspetti attenzione verso i quartieri, ed ecco che De Cicco vuole ridare fiato «alla consulta dei quartieri». Se il ruolo assegnato nel programma alle aree periferiche e popolari vi pare troppo vago, molto decise sono invece le parole sui rifiuti e chi ne gestisce la raccolta.
    «Guarascio se ne deve andare», e la richiesta del candidato non riguarda solo il calcio. «Se fosse per me rescinderei il contratto, paghiamo milioni e la città è sporca. Gli ho fatto fare multe per mancata raccolta dei rifiuti, ma nessuno si è preoccupato di esigerne il pagamento», spiega sconsolato. Poi aggiunge che «per via del fatto che ha il Cosenza calcio nessuno osa «parlarne male»

    El pueblo unido ma non troppo

    Il percorso di avvicinamento più lungo verso una candidatura è forse quello di Luigi Bevilacqua, rom cosentino da tempo impegnato in iniziative a favore delle aree periferiche e delle marginalità sociali. «Stiamo lavorando da tempo per concretizzare un impegno e, nello specifico, realizzare una lista civica dal nome “Orizzonti futuri”», spiega Bevilacqua. Nel cammino, aggiunge, sarebbe utile trovare compagni di viaggio per non disperdere energie.

    Dunque ecco la necessità di «dialogare con altri candidati che provengano dai quartieri periferici, per portare un unico programma e restare compatti in questa tornata elettorale». E quando Bevilacqua si guarda attorno per cercare compagni di viaggio, aggiunge «con Civitelli non penso sia possibile, con De Cicco si potrebbe fare».

    Dalle baracche al Palazzo

    Rispetto a De Cicco, Bevilacqua ha una visione della città più concretamente legata al sociale e le sue battaglie ne sono la testimonianza. Con orgoglio rivendica le sue origini, nella desolazione delle baracche di via Reggio Calabria, fino alle conquiste come quella per la tutela della minoranza linguistica ottenuta con la legge n°41 del 2019 della Regione Calabria.

    Anche per lui il problema è il superamento della separazione della città in due parti che sembra non si appartengano. Sembra assai consapevole delle difficoltà e infatti spiega che «non abbiamo la velleità di vincere, ma di cominciare il cambiamento». Per questo il welfare e la distribuzione delle risorse sono un punto centrale del programma, anche per porre rimedio a dieci anni di Occhiuto, «contro cui mi sono sempre opposto, anche con esposti in procura». La Cosenza che immagina Bevilacqua è diversa dagli estetismi di chi ha governato fin qui. «A lui piace il bello – spiega riferendosi ad Occhiuto – ma ha prodotto due città separate e ingiuste». 

    La barriera invisibile

    Civitelli si era candidato a sostegno di Enzo Paolini cinque anni fa, ottenendo 268 preferenze, salite a 747 alle Regionali 2020. Anche per lui si deve passare dall’effimero che sembra aver dominato questi anni al concreto dei bisogni della città. Dunque «niente statue, né feste, ma strategie per la viabilità, parcheggi gratis, ciclovie fuori dal centro urbano». Un programma radicale, che probabilmente non dispiacerà a chi passa la giornata imbottigliato nel traffico.

    cosenza-ferrovia-via-popilia
    Il vecchio rilevato ferroviario che separava via Popilia dal resto della città

    La sua corsa è cominciata nel 2016, «quando abbiamo visto chi aveva vinto e abbiamo capito che non ci sarebbe stata alcuna opposizione ad Occhiuto». Di qui l’esigenza di organizzarsi, ponendosi anche la questione dell’unità del nucleo urbano. «Quando c’era il rilevato ferroviario esisteva una vera barriera. Ora non c’è più, ma la separazione è rimasta. Lo scopo è quello di fare della città un solo corpo organico».

    Tra poco ci sarà un fiorire di liste e programmi, e come avvisa De Cicco, che forse di queste cose ne capisce, «molti candidati mirano solo ad un accordo». Alla fine ne resterà uno, potrebbe essere il più forte, non necessariamente il migliore. 

  • Teatro e cultura, l’Atene della Calabria non c’è più

    Teatro e cultura, l’Atene della Calabria non c’è più

    «Bambole, non c’è una lira», diceva – a conclusione di una vecchia trasmissione della Rai – l’impresario di avanspettacolo rivolgendosi agli attori della compagnia in teatro. In modo più sobrio e burocratico, la stessa cosa dice il Comune di Cosenza riferendosi alla cultura. Lo dice con pochissime righe, quasi nascoste tra le molte pagine della “Nota integrativa al bilancio di previsione stabilmente riequilibrato”, recitando testualmente che per quanto riguarda il Settore delle manifestazioni culturali, «I capitoli di bilancio, nonostante l’importanza che la spesa riveste in una Città capoluogo di provincia come Cosenza, sono stati di fatto azzerati». In realtà queste laconiche parole certificano una Caporetto della cultura cittadina che è sotto gli occhi di tutti da almeno un decennio. Esattamente dall’inizio dell’epopea dell’amministrazione Occhiuto.

    Il teatro ridotto a scatola vuota
    Saracinesche abbassate al Morelli: il Comune ha disdetto il contratto d agosto 2020 per risparmiare dopo la dichiarazione di dissesto

    Il declino delle manifestazioni culturali e specificatamente delle attività tetrali, ha sempre fatto i conti con un problema di risorse economiche, ma anche con la mancanza di una visione culturale. Perché – come spiega Ernesto Orrico, attore, autore e regista teatrale – «se i luoghi dove fare cultura ci sono, ma restano privi di senso, sono sole scatole vuote di cemento». E di «scatole di cemento», ce ne sono almeno tre in città. La prima è il Teatro Tieri (ex Cinema Italia), chiuso per inagibilità e diventato all’esterno luogo di rappresentazione della povertà, accogliendo sotto il portico alcuni clochard. Poi c’è il Teatro Morelli, per il quale il Comune ha rescisso il contratto di affitto. Infine, il più celebrato Rendano.

    Un simbolo sbiadito
    L’ingresso del teatro Rendano

    Il Rendano è stato da sempre un simbolo della città di Cosenza e della sua borghesia che voleva rappresentarsi colta, illuminata, progressista. Negli album privati delle famiglie importanti si potrebbero trovare certamente foto in bianco e nero di platee e palchi gremiti, di signore in lungo e uomini in rigoroso abito scuro, in occasione delle attese inaugurazioni delle stagioni liriche. Era salotto dove apparire, ma era anche testimonianza di presenza culturale.
    All’inizio del decennio manciniano il Rendano è ancora in restauro e Mancini imprime una accelerazioni dei lavori per poterlo riaprire prima possibile. Inizia così una lunga stagione di successi, sotto la guida di Maurizio Scaparro e poi di Italo Nunziata. Il Rendano conquista un posto di rilievo nel panorama nazionale e diventa punto di riferimento per gli appassionati assieme al San Carlo di Napoli. Sono anni intensi, di attività di pregio e di premi, con il record di abbonamenti.

    La crisi degli ultimi anni

    Segue il periodo sotto l’amministrazione di Salvatore Perugini, che affida il teatro ad Antonello Antonante. Sono anni di lavoro, anche se si cominciano a sentire il peso della difficoltà a reperire fondi. Poi giunge l’ultimo decennio, la guida viene affidata ad Albino Taggeo, ma non dura molto, sostituito poi da Isabel Russinova e successivamente dal musicista cosentino Lorenzo Parisi, che poi sarà nelle liste a sostegno della candidatura di Occhiuto. Il declino è precipitoso, le stagioni musicali non reggono il confronto col passato. Alla fine il Rendano viene anche affidato ai impresari privati, che portano spettacoli buoni per il botteghino, ma senza pretese culturali.

    Dalla Fondazione all’illuminazione

    Il resto è una storia di mera sopravvivenza, soffrendo la «mancanza di progettualità», come spiega ancora Ernesto Orrico. La lirica è scomparsa, malgrado il passato prestigioso, perché il teatro non ha potuto partecipare ai bandi e dunque non ha attinto alle risorse. La ragione, secondo Orrico, è da cercarsi nell’inadeguatezza del Comune, l’ente che governa il Rendano senza visione e capacità organizzativa. «Servirebbe una Fondazione, agile, competente, con un progetto vivace», prosegue Orrico. La reputava necessaria anche Giampaolo Calabrese, all’epoca dirigente del settore Cultura a Palazzo dei Bruzi. E ne annunciò pure la nascita, cosa alla fine mai avvenuta come per la Biblioteca Civica.

    Luminarie natalizie a Palazzo dei Bruzi

    «Quel luogo non è mai stato una priorità», dice sconsolato il regista cosentino, lamentando l’assenza di attenzioni e interessi in grado di catalizzare fondi e risorse necessarie.
    Eppure in questo decennio di denaro ne è stato speso moltissimo, per esempio in luminarie. Segno di cosa questa amministrazione intenda per priorità culturali.

    L’ultimo valzer

    Intanto i nodi della congiuntura e della distrazione della politica che dovrebbe accudire la cultura, stringono inesorabilmente la gola dello storico Teatro dell’Acquario. A dispetto della tenacia e della volontà di esistere, l’Acquario sembra ad un passo dalla chiusura, dovendo fare i conti con debiti e una procedura di sfratto. «Avevamo già programmato la stagione di Teatro per ragazzi, l’anno accademico 21/22 e la produzione di nuovi spettacoli. L’Acquario, finché sarà possibile, svolgerà la sua funzione in quest’ultimo giro di valzer». Queste le parole dei protagonisti di quello spazio teatrale nato dalle ceneri dell’indimenticato tendone del Teatro di Giangurgolo, che si trovava molti anni fa nello spazio ora occupato dall’edificio dell’Ubi Banca.

    Non restano intentate le ultime strade da percorrere, con interlocuzioni richieste presso chi al Comune si occupa di cultura, ma anche cercando di coinvolgere privati, ma la minaccia che un notevole patrimonio cittadino vada perduto è più che concreta, aumentando l’impoverimento di una comunità intera.

     

     

     

     

     

  • Centro storico, tra il dire e il fare c’è di mezzo… il votare

    Centro storico, tra il dire e il fare c’è di mezzo… il votare

    Parafrasando Marx, potremmo dire che uno spettro si aggira tra le vecchie pietre del centro storico. È lo spettro delle chiacchiere, delle parole buttate, delle promesse dimenticate da chi le ha fatte, ma pure da chi le ha accolte. La memoria implacabile di quelle parole resta nell’abbandono dei vicoli, nella rassegnazione delle persone che li abitano, nelle macerie tutt’attorno. E, soprattutto, nel web. È lì che dobbiamo cercarle quelle parole rimaste vuote e scoprire che spesso sono del tutto bipartisan.

    Il parco acquatico affonda

    Come le parole trionfanti di Franco Ambrogio, epigono di una lunga storia legata al vecchio Pci, che da vice sindaco di Salvatore Perugini annunciava la nascita di un parco acquatico sul lungofiume. Era il 2011, mancava un mese alle nuove Amministrative. e il progetto prevedeva piscine, spazi ludici e attrattivi a poca distanza dal popolare quartiere dello Spirito Santo. «Sta nascendo – gongolava Ambrogio – il Central Park di Cosenza, nel verde delle colline, sulle sponde del Crati e del torrente Cardone, un complesso non solo sportivo che ingloberà le piste ciclabili già funzionanti, i campi da tennis e calcetto e che rappresenterà una grande risorsa per la città». Di quel progetto oggi restano tristi macerie abbandonate, strutture svuotate dal saccheggio dei vandali, emblema del degrado e delle risorse economiche buttate. Risorse cospicue, visto che solo la piscina, realizzata ma mai entrata in funzione, costò 2,5 milioni di euro.

    L’interno delle piscine comunali sul Lungofiume

    «Sta nascendo il Central Park di Cosenza, nel verde delle colline, sulle sponde del Crati e del torrente Cardone, un complesso non solo sportivo che ingloberà le piste ciclabili già funzionanti, i campi da tennis e calcetto e che rappresenterà una grande risorsa per la città»

    Non si è trattato solo di un fallimento politico. Quell’area ha finito per diventare la metafora dell’inerzia e dell’incapacità di una intera stagione amministrativa, ma anche imprenditoriale. La ditta che aveva vinto l’appalto è quasi finita sul lastrico per i ritardi del Comune, sia con Perugini che Occhiuto, nel pagare i lavori. Le condizioni in cui versano le strutture, ormai fatiscenti, sono tali da non rendere pensabile alcun recupero. Servirebbero cifre enormi per ripristinare la funzionalità della piscina e non varrebbe la pena. Il centro storico quindi ha visto nascere e subito morire il suo parco acquatico.

    Un mare di promesse sul fiume navigabile

    Questa fissazione del parco acquatico pare impossessarsi di chiunque vesta la fascia da sindaco. Anche Occhiuto ha spesso nutrito di oniriche fantasie l’immaginazione dei cosentini, annunciando ciclicamente la navigabilità del Crati. Ed ecco che dal sindaco architetto sono giunte promesse di paesaggi idilliaci, con sponde verdi e alberate, frequentate da cittadini gioiosi. Dulcis in fundo, canoe colorate che solcano le acque del fiume all’ombra del fiore all’occhiello della città: il ponte di Calatrava. Di rendering realizzati grazie alla grafica digitale ne sono circolati diversi, oggi sotto il ponte ci sono solo canneti. Questo non ha impedito al Comune di annunciare ben più di una volta l’avvio dei lavori. Per esempio nell’agosto del 2017, a seguito di un vertice tecnico, poi di nuovo nel gennaio del 2018 e più recentemente all’inizio del 2021. In quel caso però qualcosa era vero: le ruspe scesero nell’alveo del fiume, ma solo per pulirne gli argini.

    Le scale (im)mobili del centro storico

    Annunciare e non fare può essere una strategia per raccattare consenso, ma fare e poi abbandonare è suicidio politico. Una pratica che all’amministrazione Perugini riusciva alla grande: oltre al “Parco acquatico”, quella amministrazione realizzò anche delle opportune scale mobili in grado di unire comodamente via Padolisi alla Giostra Vecchia. Era il 2009, tempo di elezioni provinciali. E anche in quel caso si esultava «per un’opera che agevola l’accessibilità dei luoghi sia a chi li percorre quotidianamente sia ai visitatori occasionali». Ecco quindi la festosa inaugurazione, la benedizione dell’allora vescovo Nunnari, la presenza del Gotha del ceto politico. Quelle scale mobili, costate 700 mila euro, non sono mai entrate in funzione.

    Le scale di via Padolisi hanno funzionato solo durante l’inaugurazione

    I soldi delle periferie al salotto buono

    Da Perugini ad Occhiuto i destini del centro storico non sono mutati. Le opere realizzate e lasciate morire non sono state salvate dall’oblio. In compenso le dinamiche con le quali si sono diffusi gli annunci di nuove utili opere hanno acquisito modalità più efficaci al fine di conquistare consensi, diventando la cifra caratterizzante degli anni di governo di Occhiuto. L’attuale sindaco ha presidiato i social network usandoli per divulgare capillarmente le nuove progressive sorti che ci attendevano attraverso animazioni grafiche fantasmagoriche, capaci di fare sognare una città nuova e diversa.

    Nel 2017, per esempio, Occhiuto parla della “Cosenza che verrà”. E alimenta le speranze nei cittadini delle periferie e particolarmente della città antica, anche perché il progetto si chiama “Riqualificazione urbana lungo il fiume Crati da Vaglio Lise al Centro Storico”. I fondi sono parecchi, la possibilità di una rinascita sembra ben fondata, ma le cose andranno diversamente. La Giunta però, col consenso muto, complice o distratto della maggioranza, delibera di spendere quei soldi altrove. Serviranno per pavimentare la parte finale di corso Mazzini e poi di corso Umberto. Lo scopo ufficiale è «riconnettere il tessuto urbano centrale con quello periferico». Le periferie sono dimenticate, la città storica beffata, il denaro dirottato per abbellire il salotto buono. Quei lavori ancora oggi non sono ultimati, anche a causa di interdittive antimafia.

    Universi paralleli e palazzi cassonetto

    Ma che le parole fossero un universo separato dai fatti si era ben visto anche prima. Per esempio nel 2016 lo stesso Occhiuto, in piena campagna elettorale, parlava della «rinascita commerciale del centro storico, del museo di Alarico e della Biblioteca civica che abbiamo salvato». Oggi corso Telesio versa nell’abbandono e solo qualche giorno fa, a causa dell’ennesimo crollo, non era transitabile, mentre il museo di Alarico è soltanto quel che resta dell’Hotel Jolly e infine la Civica è agonizzante.

    I resti dell’ex Hotel Jolly

    Per non parlare del quartiere Santa Lucia, per il cui risanamento Occhiuto nel settembre del 2017, affermava: «Abbiamo voluto incontrare la stampa e tutte le associazioni del centro storico perché la ripresa di questi luoghi è una nostra priorità». Quel giorno aveva al suo fianco il suo vicesindaco, Jole Santelli, che qualche anno dopo sarebbe diventata presidente della Regione. In quell’incontro Occhiuto promise la rinascita del quartiere, interventi di consolidamento delle case, sostegno verso il disagio sociale e contro la povertà, una migliore vivibilità e igiene urbana. Nel 2019 gli abitanti del quartiere scrivevano al sindaco una lettera. Cominciava così: «Santa Lucia è oggi tristemente famosa soprattutto per i suoi palazzi cosiddetti cassonetto».
    Alla fine, per Cosenza vecchia, così come per ogni altra area periferica, è sempre una questione di soldi: quelli promessi, quelli mai arrivati, quelli usati per altro.

  • Turismo e comunicazione, la Calabria non impara mai

    Turismo e comunicazione, la Calabria non impara mai

    «Il turismo è una cosa complessa», sussurra Sergio Stumpo, cosentino, Ceo di Target Euro, società che si occupa di consulenze per realizzare progetti di sviluppo, con uno sguardo mirato al turismo, impegnata in 60 paesi con 120 professionisti in rete.
    Il concetto da cui partire e che Stumpo ripete come un mantra è: collaborazione e partecipazione attiva, strumenti necessari per competere e crescere sul piano sociale ed economico. Non esattamente quel che accade in Calabria.
    «Qui c’è una separazione tra il tessuto imprenditoriale e la politica», comincia a spiegare Stumpo, al punto da sospettare una forma di bipolarismo. «Senza condivisione, senza convergenza, non si va da nessuna parte». E se manca un progetto cui aderire, la partita è persa sin da subito.

    La bellezza non basta

    Eppure, magari pochi lo ricorderanno, il turismo in Calabria ha conosciuto una stagione di crescita. «Erano gli anni settanta – rievoca Stumpo – e la voglia di crescere era tanta. Scalea, Copanello, Tropea, si proiettarono verso lo sviluppo turistico». Quella spinta si fermò presto, naufragando, nella maggior parte dei casi nella speculazione edilizia, nella conurbazione esagerata, nel saccheggio dei territori. Si mandò in fumo la bellezza e con essa il futuro.
    Tuttavia «promuovere la bellezza non serve a nulla», dichiara lapidario Stumpo, che vede le opportunità costruite sulla progettualità. Avere spiagge da sogno può risultare paradossalmente inutile, se a sostenere la promozione di quella bellezza manca una idea strutturata.

    Uno è meglio di cento

    A mancare di progettualità sembrerebbe solo chi ci governa, invece Stumpo su questo aspetto è apparentemente indulgente. Spiega che «la classe politica è il prodotto del meccanismo democratico». L’accusa, dunque, pare rivolta anche a chi l’ha nominata quella classe politica. Eppure questo legame si dissolve, perché «la politica non vede ciò che dovrebbe rappresentare».
    Oggi, piuttosto tardivamente, chi governa la Regione propone 100 marcatori identitari. Ma Stumpo storce la bocca. «Sono troppi, creano confusione. Ne basterebbe uno: su cosa si vuole puntare? Cultura, paesaggi, storia?».

    Questo errore, che possiamo definire generalista, emerge pure nelle parole di Aldo Presta, docente di Comunicazione visiva all’Unical, responsabile dell’Identità visiva dello stesso ateneo ed Art Director designer.
    «Lo spot di Muccino, ma pure quelli precedenti, parlano di una Calabria indistinta e confusa», e comunque arrivano troppo tardi, sempre a ridosso dell’estate.
    Un approccio fragile ad un mondo competitivo come quello turistico, una realtà aggravata dal post Covid, che «impone riposizionamenti e marketing territoriali accurati», prosegue Stumpo.

    Il richiamo della Calabria poco efficace

    I due sguardi, quello dell’economista che crea progetti di sviluppo e quello del comunicatore che costruisce trame per veicolare le idee, convergono nel giudizio sconfortante. «Qual è l’idea di Calabria? Promuoviamo oggetti, non progetti», continua Stumpo, ponendo l’attenzione sulla grande assenza: una strategia.
    Si punta sulla presunzione di bellezza, illudendoci che questo basti a richiamare eserciti di turisti. Invece il richiamo resta vago, destinato a perdersi tra le offerte dei competitor, mirate, precise, facenti capo a un piano ben studiato.
    «Un progetto per il turismo – spiega Presta – deve partire da una analisi di ciò che si deve comunicare» e in Calabria non sappiamo se questa analisi esiste. Il turismo è un fenomeno complesso e il successo o l’insuccesso sono determinati da quello che fanno tutti i protagonisti di un territorio. Avere un albergo bellissimo, ma con la spazzatura sulla strada, vanifica ogni sforzo. «Se dichiari di avere in Sila l’aria migliore, allora i quad e i fuoristrada devono restare fuori, dando spazio alla montagna dolce, ai cavalli».

    Dal turismo ai turismi

    Ma c’è una difficoltà in più. Come avvisa Presta, «oggi parliamo di turismi, al plurale, e dobbiamo scegliere su quale puntare per potere individuare i soggetti cui parlare». E oggi i soggetti del turismo usano lingue differenti, al punto che non si parla più di target, ma di tribù, comunità che si raccolgono attorno a pratiche sportive, passioni gastronomiche, istanze culturali.
    «Con i soldi dati a Muccino si sarebbero potuti finanziare quattro progetti finalizzati a differenti obiettivi», prosegue Presta sconfortato.
    Un’altra difficoltà attende la promozione del turismo in Calabria. Nell’era della Rete il digitale non perdona e se i servizi sono deludenti rispetto all’offerta, allora sei spacciato.

    Il turismo calabrese sembra imprigionato nello stereotipo che è nella testa dei politici. «La responsabilità è del committente, non dell’efficacia della comunicazione ed è inutile inseguire nomi famosi, da Toscani a Muccino. Se quella è l’idea della Calabria, ogni sforzo è destinato al fallimento», conclude Presta.
    Stumpo va oltre: «Siamo abituati a ricevere i turisti, non a conquistarli. La Spagna, la Grecia sono avanti, hanno progettato le isole Covid Free. Qui da noi nessuno parla di progetti turistici, eppure le prossime elezioni regionali sono alle porte».

  • Muccino, il trucchetto della Regione per non parlarne più

    Muccino, il trucchetto della Regione per non parlarne più

    L’interrogazione che si era persa e poi fu annullata. Sarebbe il titolo efficace per una ipotetica sceneggiatura sul destino di “Sul cortometraggio Calabria terra mia, del regista Muccino”. Presentata il 21 ottobre del 2020, smarrita nell’oblio delle mille carte della Regione Calabria, ricomparsa dopo otto mesi col destino di essere annullata “per assenza del proponente”.
    Il proponente era Francesco Pitaro. Eletto in una lista che sosteneva Callipo, è passato poco dopo al gruppo Misto. Pitaro alla versione fornita da Giovanni Arruzzolo, presidente del Consiglio regionale, proprio non ci sta.

    Il consigliere c’è, ma non si vede

    «Quel giorno ero presente in aula e ho tenuto anche degli interventi» racconta come prova del suo impegno. In effetti sulla pagina della Regione è riportato il video del suo intervento, con cui annuncia voto contrario ad alcuni provvedimenti che l’opposizione considerava inammissibili.

    «Mi ero allontanato dall’aula – prosegue – perché il mio naturale interlocutore, cioè il presidente Spirlì, era assente. Dunque non avrei avuto nemmeno in quella occasione risposta alla mia interrogazione». Nella seduta precedente, il 18 Giugno, proprio Spirlì aveva chiesto di rimandare la discussione perché non del tutto preparato a fornire informazioni. E «per cortesia istituzionale avevo acconsentito», sostiene Pitaro.

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    Francesco Pitaro, consigliere regionale del gruppo Misto

    Fuga dalla risposta

    Sembra un giochino un po’ infantile, costruito attorno alle pieghe del regolamento per sfuggire all’obbligo istituzionale di dare risposte su un tema che ha fatto sorridere molti. E che, però, ha anche rappresentato una scelta “strategica” e molto orgogliosamente propagandata dell’amministrazione Santelli. In realtà è la misura di una pratica politica che sceglie la furbizia a discapito dell’impegno responsabile, lo sgusciare rispetto alla difesa delle proprie scelte. O, forse, l’unica soluzione per una classe dirigente consapevole dell’indifendibilità di certe operazioni.

    Viene da immaginare gli assessori riuniti e un po’ seccati, in cerca della via di fuga meno imbarazzante per evitare di parlare ancora del corto di Muccino. Poi il colpo di genio di Arruzzolo, che scorgendo vuoto il banco di Pitaro si affretta a dichiarare decaduta la questione. Tattiche elusive, davanti a un argomento imbarazzante dopo la magra figura rimediata dal video. Doveva promuovere la Regione, ha scatenato ilarità e critiche sui social, tra congiuntivi torturati a morte e stereotipi consunti di coppole e bretelle indossate da giovani in improbabili piazze di paesini.

    Uno scontro più corto del filmato

    Il seguito della storia è uno scontro tra il committente e il regista, accusata di aver divulgato il prodotto realizzato senza le necessarie autorizzazioni, con conseguente minaccia di non eseguire il pagamento della cifra pattuita.
    Sembrava il via di una battaglia legale e invece si è giunti presto ad un accordo piuttosto banale: uno sconto, nemmeno sostanzioso. Il Burc racconta che dal milione e 600 mila euro del costo iniziale si è scesi ad un totale di 1.382.729,90 euro.

    Del video intanto non c’è traccia. Scomparso dai social e mai usato sui canali istituzionali, né su quelli destinati alla promozione del territorio. Il presidente facente funzioni ha chiesto al regista alcuni aggiustamenti, mai chiaramente definiti. Pare che sparirà il finocchietto dalla soppressata.

    Pitaro tenta il bis

    Intanto Pitaro non si è arreso. E dopo aver visto decadere la sua interrogazione per una assenza mai davvero avvenuta ha ripresentato il quesito. Certo nemmeno lui è sembrato particolarmente insistente. Da ottobre del 2020, data di presentazione della prima interrogazione, fino a giugno 2021 non risulta abbia marcato stretto la Giunta per sollecitare repliche. «Non avrei potuto fare altro, le regole a riguardo sono stringenti. Il consigliere che propone una interrogazione – spiega – può solo attendere la risposta».

    Intanto, perché in Calabria non ci facciamo mancare niente, dalla graduatoria relativa al finanziamento di grandi eventi culturali sono scomparsi alcuni festival storici. E anche su questo l’implacabile Pitaro ha avanzato richiesta di accesso agli atti.
    «Il 17 giugno ho fatto richiesta di tutti i verbali della Commissione di valutazione. Tuttavia ne sono stati consegnati solo alcuni e non quelli precedenti la fase di annullamento della graduatoria», racconta.  E il materiale pervenuto «non è sufficiente» per poter svolgere il suo mandato.

    Il rimpianto che non ti aspetti

    Le preoccupazioni di Pitaro sembrano ben fondate. Alcuni eventi culturali esclusi sono assai rappresentativi di fermenti culturali vivaci, importanti ed apprezzati. Nell’elenco figurano il Peperoncino Jazz festival, il Festival d’Autunno e gli eventi della Fondazione Trame, cancellati proprio nell’anno in cui Vibo è “Capitale italiana del libro“.

    Al netto delle motivazioni, sono scelte che appaiono come scarsamente sensibili verso le realtà dei luoghi e al successo di certi eventi. Al punto da far affiorare una inattesa nostalgia, quella dei tempi di Oliverio. Sembra un’eresia, eppure è il consigliere Giuseppe Aieta a spiegare che l’allora governatore destinò 7 milioni di euro agli eventi culturali nel triennio 2017/19. L’attuale Giunta ha stanziato per i grandi festival solo un milione e 300 mila euro. Meno dei soldi sborsati per un cortometraggio senza sapore.