Autore: Michele Giacomantonio

  • Futuri possibili per la città

    Futuri possibili per la città

    Calvino racconta che «La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie…», come un segreto ben celato, ma pronto a svelarsi a chi mostrasse di amarla. I protagonisti di Futuri Urbani e poi del Cosenza open Incubator, di amore ne hanno avuto parecchio verso la parte della città più trascurata e che quasi pudicamente si nasconde, le antiche pietre della città storica.

    Dall’Unical al Centro storico

    L’esperienza di Futuri Urbani ha inizio nel 2021 per iniziativa dell’Università della Calabria e specificatamente del Dispes. A ideare il progetto furono Mariafrancsca D’Agostino, che insegna Migrazioni e cittadinanza globale, Francesco Raniolo, docente di Scienza politica e Felice Cimatti, professore di Filosofia del Linguaggio presso lo stesso ateneo, con il fondamentale sostegno di Maurizio Muzzupappa, delegato al Trasferimento tecnologico dal rettore Nicola Leone. Il campo d’azione è stato il centro storico cittadino, scelto per sperimentare la possibilità di dare vita a forme critiche di sapere e a processi di sviluppo sociale ed economico nuovi.

    Si è trattato a tutti gli effetti di un sperimento di “ecologia urbana”, di ricerca che si è svolta incrociando per un verso l’analisi dei processi di neo liberalizzazione che da anni  interessano le città e tra esse Cosenza, ma anche l’osservazione dei nuovi processi di partecipazione che stanno emergendo nelle realtà urbane più marginalizzate.

    La rigenerazione urbana parte dalla partecipazione diffusa ai progetti

    Contrastare le disuguaglianze

    La potenza di quella esperienza è venuta dalla partecipazione attiva delle diverse associazioni, che avendo condiviso il progetto ne sono diventate partner e con il loro operato hanno trasformato in azione “politica” l’impianto teorico di studio. Gli interventi realizzati avevano lo scopo di contrastare le disuguaglianze e provare a mitigare gli effetti sociali dell’impoverimento materiale e immateriale del territorio.

    La contaminazione tra università, realtà urbane e associazionismo ha dato vita a una forma inedita di realizzazione della Terza missione dell’Unical, dove lo scambio è stato trasversale, tra saperi sofisticati, esperienze radicate nei luoghi e formazione relativa alla nascita di possibilità di nuove forme di economie sostenibili.

    Palazzo Spadafora, nel centro storico di Cosenza, sede dei progetti dell’Unical

    Palazzo Spadafora e le startup

    Oggi parte una seconda fase, forte dell’esperienza fin qui costruita. Si tratta di una sorta di passaggio di testimone che prevede l’inclusione nell’Open Incubator che l’Unical ha aperto dentro Palazzo Spadafora, di una serie di iniziative non soltanto economiche e imprenditoriali, ma anche di rigenerazione culturale. In questo ambito le associazioni GaiaAghia Sophia e Radio Ciroma, operano anche dentro il Palazzo, favorendo l’idea di un “incubatore sociale” che lavori sulla multiculturalità, le politiche di genere, la riappropriazione degli spazi, esercitando forme di partecipazione civica dal basso.

    Il ruolo delle associazioni

    Le associazioni da parte loro hanno accolto con grande favore il coinvolgimento giunto dal Dispes,  infatti dall’Unical non sempre c’è stata una uguale attenzione verso il centro storico. Oggi Palazzo Spadafora, sede dell’incubatore di dieci startup, è anche punto di partenza di una animazione territoriale. Ed è qui che entrano in gioco le associazioni, da diverso tempo presenti nel quartiere. Per tutto il mese di novembre si svolgeranno iniziative laboratoriali, eventi capaci di coinvolgere i cittadini e le scuole. Si tratta di un segnale di vitalità, che dimostra concretamente che attuare pratiche differenti di vivere e animare gli spazi urbani riempiendoli di senso, è possibile.

    I progetti comprendono la valorizzazione delle antiche attività artigiane

    I destinatari di questi segnali sono certamente l’università, il resto della città e ovviamente l’amministrazione comunale. Si tratta di una azione dalla valenza culturale, è ovvio, ma di cui non si può non cogliere la portata politica, che si manifesta attraverso mostre artistiche, eventi culturali, forme di richiamo tra le antiche pietre dei vicoli della città vecchia. Sono modi di reclamare per quei luoghi, spesso dimenticati, una centralità che potrebbero ancora avere, una  forma di rivendicazione di dignità per le popolazioni che li abitano.

    Il radicamento delle associazioni dentro il quartiere ha fornito loro legittimazione e autorevolezza presso gli stessi abitanti. Ecco quindi, che le loro iniziative, come quelle di Radio Ciroma, di formazione dei giovani alle forme di comunicazione, hanno trovato accoglienza e consenso.

    Le associazioni svolgono anche un ruolo formativo all’interno del quartiere

    Dare continuità alla costruzione del futuro

    Adesso si tratta di guardare oltre, dare continuità a un percorso coraggioso e certamente difficile, il cui esito positivo era tutt’altro che scontato, scaturito dalla capacità di coniugare efficacemente saperi sofisticati con la necessità di are forma concreta a quelle idee. Futuri urbani non è stata una esperienza accademica, anche se alcuni protagonisti provenivano dalle aule universitarie, ma una forma di confronto e sperimentazione di idee audaci e possibili che sono diventate realtà. Di qui la necessità che l’attenzione dell’università verso questa esperienza non vada smarrita, ma trovi rinnovata continuità.

  • Il vizio necessario della Memoria

    Il vizio necessario della Memoria

    Quando il ricordo diventa plurale, ampiamente condiviso dentro una comunità, allora si dà inizio a una memoria collettiva, una costruzione sociale che è la malta che tiene assieme le persone e riempie di senso le singole storie. Per questo il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Unical ha scelto la Memoria come tema dell’inaugurazione del nuovo anno accademico. Non una memoria qualunque, ma quella legata agli accadimenti che condussero alla Liberazione e dunque alla nascita della democrazia. Una Memoria che fin qui ha fatto da trama per un tessuto sociale cresciuto attorno ai valori resistenziali e della democrazia, ma che da qualche tempo appaiono sotto attacco, come senza infingimenti ha sottolineato Albertina Soliani, Presidente dell’Istituto A.Cervi e vicepresidente dell’Anpi e ospite della prima giornata dei lavori accademici.

    Il nuovo Rettore, Gianluigi Greco accanto ad Albertina Soliani, presidente dell’Istituto A.Cervi

    Il valore della Memoria collettiva

    La scelta del tema della Memoria ha consentito uno sguardo plurimo, che comprende quello propriamente sociologico, legato all’origine del ricordo come memoria sociale, ma pure l’aspetto storico – politico, che ci conduce in un vero e proprio viaggio dentro la Repubblica e infine il dato educativo, rappresentato dalla fondamentale trasmissione immateriale di valori ereditati dalla Liberazione, che dentro scuole e università dovrebbero essere vivi. Una specie di punto di osservazione trasversale, cui il Dispes è abituato, non solo perché «è per sua natura interdisciplinare», come ha detto il direttore Giap Parini, ma soprattutto perché da tempo e con successo è stato avviato un percorso di ricerca che chiama alla collaborazione studiosi provenienti da diverse aree scientifiche. Una scelta strategica condivisa e apprezzata dal nuovo Rettore, Gianluigi Greco, presente all’inaugurazione dell’anno accademico. Del resto Greco è stato in più occasioni protagonista dei seminari organizzati dal Dispes sulla necessità di avviare un dialogo interdisciplinare e i suoi contributi, in quelle occasioni, dimostrarono le potenzialità di una possibile coniugazione tra le “scienze dure” e quelle “molli”, tra chi crea l’Intelligenza artificiale e chi osserva il mondo attraverso la sensibilità sociologica.

    Albertina Soliani, Giap Parini e Teresa Grande

    Le eredità da salvare

    Ma quante facce può avere la Memoria? Essenzialmente quelle delle cose passate e di cui abbiamo ricevuto l’eredità e Parini le elenca tutte, perché saranno i temi che si susseguiranno nel corso dei tre giorni di studio: l’eredità del pacifismo e dell’europeismo, dell’eguaglianza, della solidarietà, dell’arte e dello sviluppo. Insomma tutto quello di cui il mondo avrebbe bisogno.

    E però per capire il senso di una memoria condivisa serve fare un passo indietro, partendo al ricordo soggettivo, che solo poi muta in patrimonio condiviso perché legato alla sfera pubblica. A condurre quasi per mano la platea della prima mattina di lavori in questo suggestivo cammino è stata la Lectio magistralis di Paolo Jedlowski, lungamente docente di Sociologia presso il Dispes, professore Emerito e sensibile osservatore del ruolo sociale della memoria.

    Beniamino Andreatta, economista e fondatore dell’Università della Calabria

    Il ricordo di “Nino” Andreatta

    Purtroppo però la memoria si scopre fragile. Le parole di Albertina Soliani sono dolenti e preoccupate. «La Memoria delle scelte che portarono a costruire la nostra identità» è in pericolo, spiega con fermezza la Presidente dell’Istituto Cervi. La sua voce è ferma, racconta dell’amicizia tra la famiglia Cervi e il partigiano calabrese Facio, spiega che oggi Memoria vuol dire «responsabilità» verso una storia di cui siamo figli ed eredi. La piccola donna che cura le pagine della resistenza si commuove solo quando, parlando dell’Unical, ricorda “Nino” Andreatta, primo Rettore e protagonista di un sogno, svelando che dalla sua Emilia si guardava verso la nostra nascente università come «una speranza per l’intero Paese» e pure questa è memoria.

    La platea presente nel corso del primo giorno dei lavori del Dispes

    La Ragione e la Forza

    Cosa resti dell’eredità di chi ha messo le fondamenta della nostro Paese lo ha poi raccontato Francesco Raniolo, politologo, Coordinatore del Dottorato in Politica, Cultura e Sviluppo. Raniolo ha strappato il velo dell’ipocrisia dominante, che ci ha convinti che i tempi che abbiamo vissuto siano stati tempi cin cui la Ragione ha governato prevalendo sulla Forza, garantendo così pace e convivenza. Invece la Forza l’avevamo “esternalizzata”, affidando la soluzione dei conflitti ad altri. Oggi le cose, spiega il politologo sono mutate, i conflitti sono in casa e la Ragione arretra lasciando terreno all’uso pericoloso della Forza. Un motivo in più per coltivare la Memoria di ciò da cui proveniamo e avere cura del lascito di libertà che abbiamo avuto in dono.

     

     

  • Alla ricerca del voto perduto

    Alla ricerca del voto perduto

    Quasi il 60% dei calabresi è rimasto indifferente al richiamo della partecipazione democratica, decidendo di non andare a votare e questo dato è la misura della sconfitta della politica, tutta intera, sia quella che sta brindando, che quella che si lecca le ferite.

    Roberto De Luca, docente di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dispes, ha ormai un approccio disincantato nei confronti della disaffezione dilagante verso il voto, di cui coglie le origini utili per proporre alcune interpretazioni.

    L’importanza di poter scegliere

    “La chiave per ridestare la partecipazione dei cittadini è il voto di preferenza – spiega il docente – nelle comunali e nelle regionali l’affluenza aumenta rispetto alle politiche”. La scelta del candidato restituisce importanza al voto, assume maggiore responsabilità, ci si sente meno alieni rispetto ai risultati. Preferenza dunque significa partecipazione, ma non facciamoci illusioni, perché il voto, pur avendo per tutti lo stesso valore, non ha la stessa qualità.

    Occhiuto e Tridico

    Il voto “ragionato”

    “Il voto maturato all’ultimo minuto, dopo aver valutato e pesato candidati e programmi – spiega ancora De Luca – è un voto di qualità, perché esprime una scelta ragionata”. Ma questo voto di qualità, che potremmo definire d’opinione, quanto pesa realmente sulla bilancia elettorale? Probabilmente assai poco, anche grazie alla significativa presenza nelle liste di quelli che De Luca chiama “grandi elettori”, cioè persone in grado di catalizzare enormi numeri di consensi sulla propria persona, portando in dote alla lista un importante spinta verso il successo, come è accaduto a Gianluca Gallo, assessore uscente e vero trionfatore con i suoi 30 mila voti, che lui non esita ad interpretare come il premio per quattro anni di duro lavoro.

    Gianluca Gallo recordman di consensi

    La qualità del voto e la qualità degli eletti

    Ci sono altre categorie di catalizzatori di voti, come per esempio i sindaci e in questo caso il voto è davvero d’opinione. “Quando accade che un sindaco si candidi, per esempio alle regionali, spesso raccoglie vasti consensi. Si tratta di voti che confermano la buona considerazione verso il lavoro svolto si amministratore, un consenso costruito sulla base di una valutazione concreta”, continua De Luca, per il quale in questi casi si può certamente parlare di “voto ragionato e per ciò stesso di qualità”. Da questo emerge con una certa evidenza he esiste una relazione tra qualità del voto e qualità dei destinatari del voto stesso, cioè tra qualità dell’elettorato e qualità degli eletti. “Se il voto maturato sulla scorta di una esperienza concreta di buon governo, o sulla valutazione di un programma, oppure sul giudizio espresso sulla credibilità dei candidati è certamente un voto di qualità, allora ugualmemte di qualità saranno gli eletti”, conclude il docente.

    L’astensionismo di chi rinuncia a far sentire la propria voce

    La crisi dei partiti e il nuovo consenso

    A questo punto vale la pena guardare alle dinamiche che costruiscono il nuovo consenso. “La crisi dei partiti e la fine del finanziamento pubblico, hanno fatto scomparire gli aparati, le strutture, le sezioni, da cui avevano origine forme di militanza che erano i mattoni del consenso, mentre oggi le sedi dei partiti, per esempio il Pd, sono solo luoghi di conflitto tra truppe diverse dello stesso partito”, fotografa lapidariamente De Luca, spiegando che quei luoghi di confronto e discussione, oggi sono solo spazi per riti e liturgie distanti dalle persone. E qui veniamo all’impotenza della siistra, perché è chiaro che un partito frammentato, litigioso e percepito come separato dal reale, non sia in grado di portare a sé la famosa società civile, che oggi è rappresentata dalle associaizoni del Terzo settore. Solo intercettando quell’universo si può davvero imaginare di vivificare la proposta politica.

    Wanda Ferro, emissaria in Calabria della Meloni, non è stata eletta.

    Sconfitte inattese

    Fin quando questo sforzo non sarà tentato, saremo sempre ostaggi di chi possiede e gestisce pacchetti piuttosto ampi di voti, senza dimenticare che contro questi satrapi nulla possono nemmeno potenti emissari romani. E’ il caso di Wanda Ferro, influente sottosegretaria del governo candidata alle regionali come diretta emanazione della Meloni. Doveva essere un trionfo, invece è stata una umiliante sconfitta. E comunque chi oggi muove voti come pedine, non deve peccare di Hybris, perché le recenti elezioni raccontano pure di declini precipitosi di chi in passato era stato tra i grandi rastrellatori di voti, come è accaduto per Enza Bruno Bossio e Franco Iacucci.

    La recente manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese (Foto di Francesco Arena)

    La moltitudine nelle piazze e le urne vuote

    Su queste elezioni più che sulle altre aleggia beffardo lo spettro di Pietro Nenni, anzi della sua frase riguardo le “piazze piene e le urne vuote”. Chi avesse immaginato che la straordinaria partecipazione alle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese si sarebbe trasformata in consensi per la sinistra, ha scoperto di aver sbagliato alla grande. In realtà non era difficile immaginare che le cose sarebbero andare diversamente, visto che chi è sceso in piazza appartiene a quella “Moltitudine” non riconducibile a un recinto definito, spesso sospettosa verso le elezioni che considerate un rito stanco e comunque per nulla organica alla sinistra ufficiale. Dentro quella moltitudine c’è certamente una discreta quantità di persone che la loro scelta l’hanno portata fino alle urne e si tratta secondo De Luca “di quei giovani colti che avevo visto all’Unical e il cui voto ha qualla qualità che serve alla democrazia”.

  • Charlie Kirk, se l’omicidio non è una livella

    Charlie Kirk, se l’omicidio non è una livella

    Charlie Kirk, l’estremista di destra ucciso in America qualche giorno fa, è stato commemorato nell’aula del parlamento italiano. A parte la domanda su cosa c’entri la vittima di un crimine commesso dall’altra parte del mondo con l’assemblea degli eletti in Italia, vale la pena ricordare che la richiesta è venuta da Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d’Italia cui piacerebbe andare in giro abbigliato da nazista delle Ss e purtroppo non c’è niente da ridere.

    Bignami nella sua divisa da nazista e in un selfie con Giorgia Meloni

    Fa parte, tutta questa pantomima, dell’accorta regia di strumentalizzazione che la destra meloniana e salviniana fa di un crimine che in nessun modo ci riguarda. Anzi, forse un poco sì, solo che a preoccuparsi dovrebbero essere i sostenitori di tutto quello che non piace a chi governa, vista la mole di parole d’odio che si sono ascoltate fin qui. Ma al netto della bizzarria di celebrare un morto che è diventato il simbolo dell’amore e della libertà, pur avendo in vita predicato nefandezze inenarrabili (nel link il suggestivo monologo di Stefano Massini che ne elenca alcune), vorrei raccontarvi una storia. Una storia, purtroppo, vera.

    Omicidio in USA: Charlie Kirk e Melissa Hortmann

    Nella notte del 14 giugno di quest’anno, un uomo bianco, vestito in modo da sembrare un poliziotto, con giubotto antiproiettili, entrò nella casa di Melissa Hortmann e la uccise. E dato che c’era ammazzò pure il marito. Melissa era una deputata del Partito democratico e il marito un rappresentante dello stesso partito. L’assassino ferì anche Joh Hoffman, pure lui un senatore democratico e la moglie. Le ragioni degli omicidi compiuti e di quelli mancati sono legate all’azione politica delle vittime, soprattutto di Melissa, impegnata attivamente nel contrastare le direttive anti migratorie di Trump.

    Melissa Hortman e il marito, rappresentati democratici uccisi in un attentato politico

    Quando l’omicida fu trovato, nella sua casa furono rinvenute cosette assai interessanti: una lista di circa settanta nomi di rappresentanti del Partito democratico da uccidere. Biglietti contro l’annunciata manifestazione pacifica contro Trump e parecchie munizioni.

    Non tutti i morti sono uguali

    In quella occasione non si ricorda alcuna smorfia di indignazione dei parlamentari di Fratelli d’Italia. Bignami doveva essere distratto. Anche la Meloni non si accorse di nulla. Eppure si trattava di un attentato che veniva dall’altra parte dell’oceano alla libertà di opinione e di parola e alla vita di rappresentati democraticamente eletti. Non ci furono proclami per la difesa della libertà democratica, contro l’incitazione all’odio. Né tanto meno l’aula di Montecitorio fu chiamata ad alcuna commemorazione.

    L’odio per l’avversario come pratica politica

    Tutto questo deve essere perché Trump non avvisò la Meloni. Oppure perché ci sono forse, nella gerarchia delle tragedie, morti di serie A e altre che possono essere dimenticate. Oppure, ancora, perché nel Dna di certe forze politiche, magari relegata e chiusa nella parte più recondita della loro natura, resta l’idea che l’eliminazione degli oppositori sia legittimata. Alla fine con Matteotti andò esattamente così.

  • L’ultima soluzione finale e la maledizione di Levi

    L’ultima soluzione finale e la maledizione di Levi

    Ve le ricordate le parole di Primo Levi? Sì che ve le ricordate, ce le hanno fatte imparare a scuola e sempre a scuola le leggiamo ogni anno, in occasione del Giorno della Memoria, quando ricordiamo i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti (in Italia con la complicità del regime fascista). Ve le ricordate vero? Quando Levi chiede retoricamente e con rassegnato dolore

    se questo è un uomo
    che lavora nel fango
    che non conosce pace
    che lotta per mezzo pane

    e alla fine con la forza della maledizione intima di non dimenticare, di non permettere che sembri che sia stato tutto normale, di lasciare intatto l’orrore. Conviene in questi giorni drammatici ricordarcele queste parole, perché quello che da mesi, da anni, sta accadendo in Palestina non è né diverso, né giusto, né normale, né perdonabile. E’ un genocidio, come pure l’Onu si è deciso a riconoscere e quindi ormai nessuna ipocrisia può negarlo. Si sta compiendo un crudele tentativo di cancellare un popolo. Una soluzione finale.

    Non vi viene in mente un passato lontano che però dimostra di non essere mai davvero passato? Non vi viene in mente la faccia passiva, disarmante, disgustosamente normale di un certo Eichmann, quello della Banalità del Male di Hanna Arendt? Era Eichmann ad avere il compito di realizzare la “soluzione finale”. Chissà che faccia hanno quelli che con gli occhi fissi su uno schermo prendono le coordinate di qualche povera casa con dentro una famiglia palestinese sulla quale fare cadere un missile da centinaia di migliaia di dollari. Sembra un war game, invece è carne e sangue di innocenti.

     

    Questa foto ha vinto l’edizione del World press photo del 2024, ribattezzata la Pietà di Gaza, raffigura il povero corpo di una bambina di cinque anni, uccisa da una bomba israeliana, tenuta in braccio dalla sorella.

    Vittime e carnefici

    Qual è la differenza, vi prego ditemela, tra i boia di uno qualunque dei campi di sterminio nazisti e il ministro israeliano Ben Gviv che fa affiggere davanti alle porte delle celle in cui sono rinchiusi i prigionieri palestinesi, le foto delle loro case distrutte dalle bombe? Dove la differenza tra il rastrellamento del ghetto di Roma del 43 e gli arresti indiscriminati di bambini e adolescenti a Gaza?

    Nell’ipocrisia istituzionalizzata c’è chi inorridisce per il paragone tra un ministro di Netanyahu e un gerarca nazista, oppure pone mille distinguo tra un ufficiale dell’ Idf che ordina di sparare su bambini inermi e quei soldati tedeschi che noi abbiamo visto solo nei film. Eppure certe immagini raccontano un orrore non dissimile, fatto da corpi di bambini sfiniti dalla fame, smembrati dalle bombe, donne e uomini deportati, spogliati di tutto, umiliati, colpiti da raffiche mentre fanno una disperata fila per il cibo.

    Durante l’occupazione israeliana a Gaza sono innumerevoli i bambini morti per denutrizione

    La nuova Soluzione finale

    Appare evidente quale sia l’obiettivo ultimo del massacro perpetrato oggi: una soluzione finale praticata da chi ha scordato il suo passato di vittima nel corso della storia e oggi indossa con consumata abilità l’abito del carnefice potente e spietato. Lo scopo dell’eliminazione fisica di un popolo è stato svelato, con il candore dell’arroganza priva di alcuna forma di pudore, dal ministro delle Finanze del governo israeliano Smotrich, per il quale Gaza è una miniera d’oro sul piano immobiliare e che ha annunciato che “il business plan” della ricostruzione miliardaria è già sulla scrivania di Trump per l’approvazione.

    Una delle imagini generate dall’AI riguardo il futuro immaginato per Gaza

    Costruiranno una città da cui trarre enormi profitti, ma le cui fondamenta saranno posate sul sangue e la sofferenza di innocenti. Non ho conosciuto Primo Levi, non posso sapere cosa avrebbe detto o scritto oggi, davanti allo sterminio di migliaia di palestinesi, civili, donne, bambini. Ho invece conosciuto Settimia Spizzichino, sopravvissuta per coraggio e “tigna”, come avrebbe detto lei stessa, agli orrori di Auschwitz. Posso forse immaginare cosa avrebbe detto contro l’orrore di adesso, lei che visitava le scuole d’Italia per raccontare la mostruosità che aveva vissuto, non diversa da quella inflitta oggi a un altro popolo.

    I pochissimi osservatori presenti a Gaza raccontano che mancando i sudari, i corpi vengono avvolti in teli di plastica

    Le parole di Primo Levi

    Vale la pena di ricordare una intervista di Gad Lerner a Levi, uscita sul Fatto Quotidiano e poi recentemente ripresa da altre testate, fatta a ridosso del massacro commesso dalle Falangi libanesi protette dall’esercito israeliano contro i civili indifesi dei campi profughi di Sabra e Shatila. Le parole di Levi furono durissime contro il falco Ariel Sharon, allora capo del governo di Gerusalemme. Del resto, sono numerosi e importanti gli intellettuali di cultura ebraica a essersi con forza scagliati contro i massacri indiscriminati e contro l’ormai innegabile tentativo di una conquista di territorio che passa attraverso l’eliminazione di un popolo. Né dentro Israele manca una opposizione sempre più forte contro il governo di Netanyahu

    E’ difficile calcolare quanti civili, soprattutto bambini, siano stati uccisi negli attacchi israeliani

    La maledizione incombente

    Oggi per le anime candide che inventano distinguo, che considerano oltraggioso avanzare l’ipotesi di un confronto tra il destino che toccò agli ebrei in Europa negli anni del nazismo e  del fascismo con quanto sta accadendo da tempo immemore in Medio oriente sulla pelle dei palestinesi, cade l’ultimo patetico velo delle parole, quello per cui il termine “genocidio” non si poteva usare.  Ebbene queste persone si rassegnino: è un genocidio.

    Per tutti quelli che lo hanno negato, il consiglio è di rileggere Levi. Quelli che per tutto questo tempo si sono nascosti dietro l’ipocrisia, che hanno fatto finta di non sapere, gli ignavi e i complici avvezzi al silenzio. Gli uomini e donne di Stato e le persone comuni che hanno scelto di fare finta di nulla, come i moltissimi che quando il fumo usciva dai camini dei lager si girarono dall’altra parte. Rileggete quelle parole e più di tutto l’intimazione finale: “Scolpitele nel vostro cuore, Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.” Questa maledizione è per voi.

     

  • La scuola che c’è e quella che ci vorrebbe

    La scuola che c’è e quella che ci vorrebbe

    Se vogliamo comprendere la società, dobbiamo guardare dentro le aule delle sue scuole. Le caratteristiche che troveremo in quelle aule, in larga misura saranno rappresentative del tipo di società che ci troveremo davanti, infatti è lì che si disegna l’orizzonte di valori dentro cui ci si muoverà negli anni a venire, ecco perché per i governi controllare la scuola resta strategico. Malgrado la straripante influenza dei new media, dei social e di alcuni programmi televisivi di infima qualità, la scuola resta il luogo sociale formalmente demandato alla riproduzione immateriale, come la chiamava Gorz, il luogo cioè dove valori, saperi, tradizioni, vengono trasmessi dai vecchi ai giovani.

    Democrazia e opportunità

    Ma non solo: in democrazia la scuola è anche  il solo contesto dove costruire opportunità in grado di cambiare i destini delle persone – e dunque di intere comunità –  attraverso l’acquisizione dei saperi, la costruzione della propria consapevolezza, ma soprattutto attraverso la formazione di un Ethos democratico in grado di mutare gli individui in cittadini.

    Tutto ciò è più che sufficiente per spiegare perché la scuola sia da sempre un terreno di battaglia e che chi è mosso da tentazioni autoritarie, nazionaliste, mal celatamente repressive, la consideri un avversario da battere. Il nemico resta quell’attivismo educativo improntato a una idea riformista, che in Italia ha avuto pionieri che ancora oggi abitano con i loro esempi le lezioni che si tengono in classe e influenzano metodologie: gli ideali antifascisti di Bruno Ciari, l’eresia della Barbiana di don Milani e più tardi di don Sardelli e della sua esperienza dell’Acquedotto Felice, la fantasia irriverente di Rodari, l’impeto libertario di Mario Lodi, il concetto di “libertà responsabile” di Margherita Zoebeli. Tutti esempi di una idea di scuola – e dunque di una società –  antiautoritaria, democratica, plurale e aperta.

    Il merito a scuola rischia di essere una gabbia

    Il Merito e l’Inutile

    Le parole hanno un senso, anzi hanno una loro potenza. Rimarcare dentro la scuola concetti come “profitto” e “merito”, ha come sovrascopo relegare all’inutile lo studio di alcune discipline legate al pensiero libero.

    Lo scopo è quello di incatenare la scuola al lavoro e all’impresa, partendo dalla tirannia semantica. Il concetto di merito affascina, chi mai sarebbe contrario alla meritocrazia? E invece nella società il merito è la veste etica della disuguaglianza: la povertà è una colpa, ci viene spiegato, dunque insegnare l’ideologia del merito equivale a forgiare una generazione competitiva e spietata, che ignora che lo stesso merito ha direttamente a che fare con le opportunità di partenza e come spiega Pierre Rosanvallon «organizza l’immaginario delle società contemporanee» L’altra faccia del merito è il tema dell’inutile, cioè lo studio di tutto quello che non produce profitto: l’arte, la poesia, la filosofia, la musica. Tutte le discipline che alimentano il pensiero critico, fanno sorgere il dubbio, suscitano disobbedienza riflettendo sulle disuguaglianze sociali, sulle loro origini e sui danni ambientali non sono funzionali a una società finalizzata all’omogeneizzazione, destinata al dualismo “lavoro – consumo”, costruita sulla convinzione che lo sviluppo economico sia il solo fattore di miglioramento della vita.

    La tentazione di misurare deforma la valutazione

    L’irresistibile tentazione di misurare tutto

    Da parecchio valutare non è più soltanto mettere voti. L’irruzione nella scuola italiana di sistemi di test che mirano a “pesare” gli studenti è ormai consolidata, malgrado le critiche. I test di logica, matematica, o di competenze nozionistiche, non tengono conto, anzi mortificano la capacità di scrittura, la creatività, il pensiero divergente, tutte cose non casualmente rinchiuse nel recinto dell’inutile.

    La scuola che coinvolge

    La scuola che servirebbe

    La scuola che ci vorrebbe è quella che educa alla complessità, che ripudia le scorciatoie del complottismo e dell’antiscientismo, che annuncia la necessità di attrezzarsi attraverso lo studio per affrontare le sfide che ci sono e quelle che verranno. Ci vorrebbe una scuola in cui l’Educazione civica non fosse rappresentata da improbabili lezioni di educazione stradale, ma parlasse dei valori della Costituzione, della libertà, della tolleranza, della multiculturalità,  attraversando e permeando tutte le altre discipline e non restando, come è adesso, una sorta di cenerentola cui dedicare qualche ora di lezione. Una scuola che insegni ai ragazzi a muoversi con sicurezza tra fake news e slogan, che la politica non è una cosa che fa schifo, o per pochi, ma al contrario è partecipazione, è dire quel che si pensa e dunque avercelo un pensiero.

    La scuola come luogo di partecipazione

    Una scuola che insegni l’etica della democrazia, che implica il riconoscimento e il rispetto dei diritti delle minoranze. Che insegni l’etica della responsabilità, verso gli altri, soprattutto quelli differenti da noi. La responsabilità verso l’ambiente e il destino planetario, cioè di tutti. Ma anche la responsabilità delle nostre parole e delle nostre azioni. Una scuola, per dirla con Hartmut Rosa, «che risuona quando brillano gli occhi all’insegnante e agli studenti, dove non c’è silenzio, ma un brusio dinamico, uno spazio di dissenso possibile nella costruzione collaborativa della conoscenza. Insomma il contrario della scuola dell’alienazione»

    Scuola e politica

    C’è sempre qualcuno che grida che “a scuola non si fa politica”. E invece sì, si fa eccome. Quando si sceglie una pagina da leggere, un film da vedere, un quadro da guardare in silenzio, si fa politica. Quando si racconta la Storia si fa politica, nei confini tracciati sulle carte geografiche c’è la politica. Nei versi di Dante non meno che in quelli di Dino Campana o del calabrese Franco Costabile c’è politica. Tra i banchi di scuola si fa la nuova umanità, per questo studiare resta la forma di politica più potente.

     

     

  • Piantedosi, il respingitore respinto

    Piantedosi, il respingitore respinto

    Ah quanto sono ingrati questi libici. Li trattiamo con tutti i favori, gli proponiamo affari, gli diamo navi da guerra per pattugliare il Mediterraneo e fermare i barconi dei migranti e poi loro ci prendono a schiaffi. Per non parlare della celerità e della premura con cui gli abbiamo restituito con un volo di Stato quell’ Osama Najeem Elmasri, inseguito da un mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, torturatore nei lager libici e accolto a casa sua come un eroe. In cambio di tutto ciò che fanno gli amici libici? Ci rimandano indietro con sdegno un ministro e non uno qualunque, ma forse quello più importante: Piantedosi

    Rimandato indietro come un qualunque clandestino

    Respinto come un qualunque migrante clandestino, uno di quelli verso cui si è sempre mostrato un discreto grado di disumanità. Piantedosi, arcigno ministro dell’Interno, non ha fatto in tempo ad abituarsi allo sbalzo termico dell’aria condizionata del suo aereo di Stato rispetto al caldo libico, che è stato rimandato indietro come persona “indesiderabile”. Non c’è chi non veda quanta impietosa ironia ci sia dentro un fatto come questo. Non solo sul piano della semantica, perché la parola “indesiderabile” è carica di significato in un Paese come il nostro che della caccia al migrante ha fatto la cifra rappresentativa di una linea di governo, ma pure perché l’aver “rimandato casa sua” il ministro italiano è uno schiaffo al governo intero.

    Gli affari tra Italia e Libia

    Giusto per spiegare un poco: nell’Ottobre del 2024 Giorgia Meloni annunciava di aver fatto quattro viaggi diplomatici di cui ben tre erano stati in Libia. Un modo per spiegare che quel Paese era un partner speciale. Speciale di sicuro, ma non da andarne fieri. Quattro viaggi per stringere accordi commerciali, promettere la costruzione di una autostrada, investimenti per circa 13 miliardi di dollari in tre anni, comprese cinque navi per la Guardia costiera libica con cui impedire ai disperati di partire. Insomma i cannoni che sparano su chi prova ad attraversare il Mediterraneo dentro bagnarole sono nostri.

    L’Italia ha fornito altre cinque motovedette alla Libia

    La liberazione di un carnefice

    Il capolavoro del governo Meloni per mostrare quanto siamo amici dei libici giunge quando Elmasri viene arrestato in Italia. Dovremmo consegnarlo ai giudici dell’Aja, che vorrebbero processarlo per una serie di cosette assai raccapriccianti, ma a noi serve che torni a casa, perché comanda il carcere di Mitiga, dove sono rinchiusi quelli che dal resto dell’Africa giungono sulle sponde del mare per tentare sottrarsi a guerre e miserie. Insomma il personaggio controlla il collo di bottiglia della migrazione clandestina verso l’Italia, quindi ecco trovato un cavillo deboluccio ma utile per restituirlo subito al suo ruolo.

    Elmasri accolto in Libia come un eroe

    Dopo tutto questo qualcuno si aspettava che Piantedosi venisse trattato alla stregua di un migrante clandestino? Lui pronto a scendere dal suo aereo di Stato indossando il suo sobrio abito da sartoria, mica una maglietta stracciata, lui bianco come un giglio, non certo nero e col volto disfatto da un viaggio drammatico, lui che durante il viaggio è stato sicuramente idratato da fresche bevande e non ha dovuto condividere qualche bottiglia di acqua stantia con altre quaranta persone. Eppure, malgrado queste differenze, Piantedosi ha dovuto subire l’oltraggio del respingimento, praticato da chi è stato foraggiato e sostenuto proprio dal governo di cui è parte. Per un attimo ce lo siamo immaginato dritto sulla scaletta dell’aereo gonfiare il petto e dire stentoreo «Potete respingere, non riportare indietro». Ma questo è il frammento di una poesia di Erri De Luca e racconta dei veri indesiderabili.

     

  • I segreti sono finiti

    I segreti sono finiti

    Tra gli strumenti più efficaci per la costruzione di relazioni tra le persone ci sono le parole, quelle che si dicono e quelle che invece si devono tacere, per esempio i segreti. Deve essere stata la potente valenza di collante sociale, di legame tra gli individui che svolge il disvelamento di un segreto e il conseguente vincolo al silenzio che sempre l’accompagna, ad affascinare Massimo Cerulo, docente di Sociologia dell’Università di Napoli, che proprio su queste dinamiche complesse, eppure assai collaudate, ha indagato scrivendo “Segreto”, edito da il Mulino.

    Il libro di Massimo Cerulo editato da il Mulino

    Il segreto è un fatto sociale

    Per una curiosa distorsione cognitiva siamo abituati a pensare al segreto come qualcosa di intimo, un fenomeno circoscritto a un numero molto piccolo di persone, un fenomeno che non riguarda il lavoro del sociologo. In realtà non dobbiamo stupirci se Cerulo ha rivolto l’attenzione verso qualcosa che sembra intimo e non collettivo, perché in effetti sui segreti e sulle dinamiche che essi prevedono, è costruita una parte non piccola della quotidianità. Il segreto, insomma, è un fatto sociale e Cerulo lo svela subito quando dice che «Chiedere o tacere, rispondere o svicolare, sono forme di interazione» attorno alle quali costruiamo relazioni.  Ma non basta, i segreti sono un fatto assolutamente sociale anche perché nessuno di noi può davvero affermare di non averne, come spiega Cerulo, il che implica la necessità umana di confidarli. Insomma se c’è un segreto, c’è pure la tentazione di svelarlo.

    Massimo Cerulo insegna nell’Università di Napoli Federico II ed è chercheur associè al Cerlis della Sorbona di Parigi

    Il vincolo dell’amicizia

    E qui entra in gioco il vincolo dell’amicizia, che nel mantenimento dei segreti ha il compito della complicità e quindi dell’alleggerirci del peso di portare noi soli il fardello dell’indicibile. Su questo, con grande puntualità, l’autore ama citare Simmel, «uno dei più poetici sociologi», quando svela che le relazioni si fondano anche sulla discrezione, sul «tenersi lontani da tutto ciò che l’altro non manifesta in modo positivo», sulla sensibilità capace di cogliere ciò di cui si può parlare oppure no, quelli che Cerulo chiama “confini flessibili”, dettati dal mutare delle circostanze e dai gradi di intimità. Quel che accade quando sveliamo un segreto, oppure quando una persona ce ne affida uno, è molto interessante e tuttavia facendo parte della quotidianità più esercitata, non vi facciamo troppa attenzione. Invece è molto importante, non a caso abbiamo usato il verbo “affidare”, perché svelando un segreto noi ci affidiamo a chi riceve la rivelazione, oppure qualcuno si affida a noi. Si tratta a ben guardare di un vincolo prepotente e molto pesante.

    Si chiede la massima lealtà, l’obbligo del silenzio, la condivisione di un fardello e qui viene in mente la simpatica scenetta in The Big Bang Theory tra Sheldon e Penny, quando quest’ultima svela un segreto a Sheldon che inorridisce davanti alla prospettiva di un impegno così gravoso. Ci sono poi altri segreti indagati da Cerulo e sono quelli che legano più persone, che generano comunità, come le sette o alcune associazioni. Qui i segreti sono il fondamento dell’adesioni stessa al gruppo.

    Per Dio non abbiamo segreti

    La fede cattolica è chiara: Dio sa tutto. Malgrado ciò ogni tanto occorre alleggerire il peso che grava sull’anima tramite la confessione. Questo rapporto tra i segreti il loro disvelamento si consuma nella pratica della confessione, oggi diventata sbiadita, come rivela un sacerdote la cui esperienza viene citata nel libro. Forse sta venendo meno il senso del peccato e con esso il segreto dell’atto sbagliato che si è compiuto, ma se Dio c’è non abbiamo scampo: a Lui non possiamo nascondere nulla.

    La confessione in crisi

    Custodi e ostaggi

    I preti non sono i soli destinatari dei segreti altrui. Condividono il difficile compito di sapere e dover tacere assieme ad altre figure professionali, come i medici, gli avvocati e i giornalisti.  Ma cosa succede quando si rivelano cose indicibili? Per spiegare la dinamica di reciproca e perpetua appartenenza Cerulo si affida ai protagonisti del racconto di Starnone “Confidenza”. E’ la storia di due amanti che quasi a voler eternare il loro legame decidono di svelarsi reciprocamente il «segreto più orribile». Il loro amore, come spesso succede, si spegnerà, ma i due a causa del patto sancito resteranno custodi e ostaggi l’uno dell’altro, in una costante condizione di angoscia. Ma c’è un tempo passato il quale siamo liberati da vincolo del segreto? Questo non è dato sapere, anche perché lo stesso Cerulo ci spiega che «ogni segreto ha un suo peso specifico» e quindi è differente da qualunque altro.

    La condivisione di un segreto genera vincoli sociali

    “L’altro” ci è sconosciuto

    Ci è segreto tutto quanto non conosciamo e da questo punto di vista Cerulo fa parlare Derrida per spiegarci che «l’altro è segreto proprio perché è altro», insomma diverso e dunque per certi versi sconosciuto e finché non si svela, attraverso la pratica della frequentazione, resta un mistero. Ma quando cominciano i segreti? Cerulo suggerisce che questo accade forse quando diventiamo adulti, quando si assume «la costruzione della propria identità»

    Nell’era digitale nessuno ha più segreti

    Non è più tempo di segreti

    Ma possiamo avere segreti nell’era digitale? Nella società della sorveglianza, resta spazio per cose riservate? Cerulo per rispondere prende in prestito la trama di un romanzo distopico scritto da Evgenij Ivanovic Zamjatin, dal titolo “Noi”. Si tratta di un mondo non diverso da quello immaginato da Orwell, o dal Panopticon  di Benthan applicato alla società di cui parla il coreano Byun Chun Han, con la differenza che per quest’ultimo non c’è un regime autoritario a scrutarci nella parte più intima della nostra esistenza, ma siamo noi a rinunciare consapevolmente e volontariamente a ogni nostro segreto mettendoci in mostra sui social. Questa tentazione costante per Cerulo «è un nuovo imperativo contemporaneo» cui nessuno sfugge, per questo la frase «non dirlo a nessuno» potrebbe aver perduto ogni significato.

     

  • Francesco, il Papa che voleva riformare la Chiesa

    Francesco, il Papa che voleva riformare la Chiesa

    «E’ stato il papa che ha cercato di riformare la Chiesa, con coraggio e amore». A pochissime ore dalla morte di Papa Francesco, la testimonianza di Don Francesco Savino, vescovo di Cassano e vice presidente della Conferenza Episcopale Italiana, è un tumulto di emozione e dolore. Le parole di Don Francesco sono un fiume in piena che trascina con sé lo strazio di aver perso una guida e un amico, ma resta intatta in quelle parole la lucidità di chi ha compreso e condiviso un cammino teologico e sociale, perché è impossibile negare anche dal punto di osservazione di un laico, come le scelte, l’operato e la vita stessa di Francesco siano state improntate alla coniugazione ineludibile tra il mondo reale, fatto di persone e l’interpretazione teologica,  incarnando la presenza tra gli uomini e «mettendo al centro il significato del Vangelo, senza mediazioni».

    Per i calabresi è stato il Pontefice che ha avuto il coraggio di scomunicare gli ‘ndranghetisti. Venne a Cassano, ricordando la terribile morte del piccolo Cocò. E lanciò questo grido contro una delle grandi piaghe che affliggono la nostra regione e il nostro Paese. Non era scontato perché gli altri non l’hanno fatto.

    Don Francesco Savino, vice presidente della Conferenza episcopale e vescovo di Cassano

    Un Papa contro le guerre

    Il Vangelo “senza mediazioni” significa trovare il coraggio di gridare parole «contro la guerra, lanciare parole che avvisavano che nessuna pace si può costruire con il riarmo», ricorda don Savino.  E non si può fare a meno di pensare come la sua sia stata una delle  voci contro in una politica mondiale che si prepara meticolosamente al massacro pronta –  come è sempre avvenuto in passato – ad arruolare Dio tra le proprie truppe.

    Le parole contro l’economia che crea ingiustizie

    E invece Dio per Bergoglio stava con gli ultimi, con «i detenuti che fino all’ultimo sono stati uno dei suoi pensieri», racconta ancora, con la voce infranta, Savino, che quasi profeticamente immagina che Francesco sarà il papa che «impareremo a capire e rimpiangere meglio ora che non c’è più, adesso che sentiamo la mancanza di una guida che abbia il coraggio di spiegarci come l’economia non debba generare scarti, non debba alimentare ineguaglianze e ingiustizie», frasi che in tempo di massimizzazione del profitto a scapito della dignità umana, suonano come eretiche.

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    L’accoglienza dei cassanesi durante la visita del Papa

    Il Concilio Vaticano secondo e la sua attualizzazione

    Impareranno a capirlo e rimpiangerlo anche quanti, non pochi, lo hanno osteggiato? Don Savino è mosso dall’ottimismo che gli viene dalla fede e non dubita che anche questo accadrà. Di certo, dal punto di vista del vescovo di Cassano, Bergoglio è stato il papa che più di ogni altro ha cercato di concretizzare il Concilio Vaticano II, che per alcuni versi era rimasto come sospeso e inattuato, «partendo da Paolo VI, e dal suo insegnamento». Ma quanto forte sia stato il percorso tracciato dal pontificato di Bergoglio si vedrà presto, per ora «è il tempo della preghiera e del rimpianto», ma anche della sorprendente casualità, quella che l’ha visto morire nel Lunedì dell’Angelo.

    Papa Francesco celebra la messa durante la sua visita a Cassano, nel 2014

    La Pasqua, la Fede e la vita eterna

    «E’ la sua Pasqua – non esita a dire Don Francesco Savino, con la voce solo un poco più pacata – perché come sanno i credenti e come lui ci ha ripetuto, la morte è solo penultima, dopo c’è la vita eterna». Per i laici resta la meraviglia di aver visto un Papa che parlava contro il disumano che c’è nell’ideologia del profitto e non celava i suoi sospetti verso Trump e i nuovi profeti del neoliberismo. Questo basta per averne il rimpianto.

  • Le democrazie fragili, uno sguardo sul presente e su i tempi che verranno

    Le democrazie fragili, uno sguardo sul presente e su i tempi che verranno

    L’undici aprile del 2018 nelle università cilene sono stati consegnati 126 titoli di laurea postumi a 84 detenuti/e o desaparecidos e 42 studenti uccisi dal regime di Pinochet. Un piccolo atto di giustizia dopo anni di tirannia dei militari di Pinochet, ispirati dai peggiori progetti dei Chicago boys. La voce che racconta tutto questo, di come l’università e l’istruzione pubblica siano state massacrate in Cile negli anni terribili della dittatura e di come ancora oggi quelle ferite siano vive è di Ennio Vivaldi, ambasciatore cileno in Italia e già rettore universitario.

    L’intervento dell’ambasciatore cileno Ennio Vivaldi

    L’ambasciatore cileno racconta la tragedia della dittatura

    La sua lectio magistralis si è svolta all’interno dei lavori della sesta edizione di “Scuola di politiche”, iniziativa del dipartimento di Scienze politiche, storicamente organizzata da Francesco Raniolo e Domenico Cersosimo, entrambi docenti dello stesso dipartimento. «Tutto nasce quando Letta iniziò a dare vita a incontri i cui temi erano le politiche pubbliche, quegli incontri si chiamavano Impact e la nostra università fu la prima ad aderire all’iniziativa», spiega Raniolo, ricordando che nemmeno durante il lockdown causato dal Covid gli incontri si interruppero, diventando online. I temi affrontanti nel corso di questi anni sono stati legati alle urgenze politiche del tempo, dall’attualità dalla Questione meridionale alle forme attraverso cui si esprimono le democrazie, passando per le sfide e le crisi che esse attraversano, come in questa fase storica, dando vita a osservazioni interdisciplinari capaci di coinvolgere nel dibattito studiosi di diverse aree.

    La qualità delle democrazie

    «L’idea da cui si parte è che la qualità delle democrazie si può leggere attraverso le politiche che vengono gestite, sullo sviluppo, il lavoro, la sanità». Lungo una serie di appuntamenti che si svilupperanno nel corso di alcune settimane, nelle aule dell’Unical si affronteranno temi drammaticamente attuali, come il rapporto tra leadership e potere, tra la tecnologia e le democrazie, la valutazione delle scelte politiche introdotte per l’istruzione e il mercato del lavoro. Al centro di questo viaggio c’è l’esperienza cilena, «mostrata al mondo come un esperimento, un modello», spiega Ennio Vivaldi. Un laboratorio politico dove sperimentare, sulla pelle viva di un intero popolo, le formule economiche del neoliberismo più spietato per poi proporle a tutti. In quella brutale esperienza fu teorizzata e tentata l’estinzione dello Stato, l’affermazione di una egemonia dell’individualismo egoista contro l’idea stessa di comunità e questo esperimento coinvolse anche l’istruzione, anzi, specificatamente il mondo della scuola, da sempre luogo dove si costruisce l’idea di società cui si vuole dare forma.

    I diritti trasformati in beni di consumo

    In quel frangente i diritti dei cittadini furono trasformati in beni di consumo. L’istruzione pubblica subì colpi decisivi in termini di impoverimento e delegittimazione, eppure «senza quella scuola noi non avremmo avuto Lucila Mistral e Neftali Reyes, cioè Gabriela Mistral e Pablo Neruda», prosegue nella sua lezione Vivaldi. Oggi gli epigoni di Friedman non hanno bisogno più di carrarmati che passino con i cingoli su qualche democrazia, hanno imparato la lezione e sanno che basta impoverire le politiche pubbliche per dare spazio al privato. Da questo punto di vista la valutazione delle politiche nazionali su lavoro, sanità e istruzione verranno nel corso dei prossimi dibattiti tra i cubi di Arcavacata.

    Potere e società, leggendo “Il signore delle mosche”

    Intanto la dialettica tra forme di potere, affermazione delle leadership e democrazie ha trovato il suo spazio in un incontro tra Marco Marzano, sociologo dell’università di Bologna, Francesco Raniolo e Antonio Samà, proprio sul libro di Marzano “Potere e società”, ma partendo dalle suggestioni che giungono dalle pagine del “Il signore delle mosche”, di Goldin. Un libro che nel suo descrivere la deriva disumana in cui precipitano alcuni giovani inglesi naufraghi su una isola, si presta magnificamente all’osservazione di come la tentazione egoista e irrazionale sia sempre in agguato, in modo da prendere il sopravvento sulle buone pratiche di governo.

    Il rapporto tra scienza, tecnica e potere

    Ma qual è il rapporto tra scienze, tecnologia e democrazie? Per comprenderlo, spiega Ercole Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes, si deve individuare la classe sociale che nel cammino che conduce alla sua affermazione sullo scenario della storia, porta alla rivoluzione industriale. La borghesia, interprete della sola rivoluzione che abbia alla fine avuto successo, come raccontava Marx, è la protagonista del passaggio dal sapere teorico e quello tecnico. Questo passaggio tira in ballo il concetto di modernità e con sé «le rivoluzioni scientifiche, culturali, industriali e politiche». E al seguito di tutto questo ecco giungere le idee di cittadinanza, diritto, democrazia.

    Un momento del dibattito su tecnologie, scienze e democrazia

    Democratizzare la scienza

    Ma le promesse vengono rapidamente tradite, perché nella dialettica della storia non vince la Scienza per l’umanità, che voleva Comte, ma quella dei popoli, che è divisiva. Perché la scienza non è neutrale e oggi la sua più audace rappresentazione è l’intelligenza artificiale. Per questo serve democratizzare la scienza, perché una cosa che riguarda la vita dei cittadini non può eludere la loro partecipazione.