Autore: Mauro Francesco Minervino

  • IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    C’è quel brano di Alvaro, divenuto col tempo un comodo luogo comune, che dice che la Calabria e i calabresi hanno bisogno di essere parlati: «il calabrese “vuole essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo». Poi ce ne sarebbe un altro, in cui lo stesso Alvaro immagina che: «Di qui a cinquant’anni, se ai moti esteriori della civiltà risponderanno quelli interiori, la regione sarà una regione totalmente cambiata».

    A elezioni regionali 2021 chiuse si può dire che a distanza di quasi un secolo da queste osservazioni che identificavano l’idealtypus dell’escluso calabrese da romanzo verista, rovesciando lo stereotipo alvariano, oggi i calabresi per parlare parlano (e non poco). Ma di sicuro non hanno ancora imparato a cambiare, o non vogliono proprio che nulla cambi nella loro regione.

    Nulla è cambiato

    All’indomani del fatidico voto, presentato da più parti come una sorta di ultima spiaggia, un redde rationem per la politica della Calabria e dei calabresi per i prossimi cinque anni, rispetto a prima del voto, infatti nulla, ma proprio nulla, è cambiato. La Calabria ha scelto il proprio futuro. E ha scelto Occhiuto, con gli stessi consensi che andarono alla Santelli. Forza Italia, caso unico in Italia guida di nuovo la Calabria come trent’anni fa. La Bruni e il centro-sinistra a guida Pd è di nuovo l’alternativa principale, come da quando è nata la Regione.

    L’astensionismo cresce

    Il numero percentuale dei votanti in una Calabria che perde costantemente elettori interessati al voto con lo stesso ritmo con cui la gente emigra e abbandona paesi e città, è sceso persino più in basso di quello di gennaio 2020. Siamo al 43%. Molti dei calabresi residenti altrove e all’estero, ma anche in Calabria, sono rimasti a casa. Il non voto continua a crescere.

    Azzoppato Lucano dopo l’abnorme sentenza di condanna, bandiera delle opposizioni antisistema, neanche la consolazione di vederlo eletto. Lo straniero Luigi de Magistris, capo della coalizione civica, avversato dal centrosinistra ufficiale, pur respinto dal voto popolare, fa con le sue liste un 16% di voti. Che equivale a circa 127mila calabresi che hanno immaginato e creduto in uno strappo risolutivo alla continuità del sistema. Pochi, troppo pochi. Ma non una frazione insignificante.

    Segnali di resistenza

    A Cosenza, città che votava anche per il Comune, De Magistris ha superato il 30%, battendo la Bruni e limitando il distacco da Occhiuto a circa il 13%. Risultato, due consiglieri regionali eletti in Consiglio, e con l’introduzione della preferenza di genere, nello schieramento DeMa Anna Falcone tra le donne ottiene diversi consensi. A Rende, il comune dell’Università della Calabria, de Magistris sta al 33% dei voti. Segno che le aree urbane, con quel poco di opinione pubblica che la Calabria libera riesce ancora a mettere in campo, rappresentano forse le ultime sacche di resistenza alla politica del malgoverno e del malaffare, un argine residuo allo strapotere della corruzione e delle mafie. Non sono, credo, segnali da sottovalutare.

    La rivoluzione eternamente rimandata

    Ma il cambio di rotta, la discontinuità, la rinascita civica, i diritti di cittadinanza, la rottura del sistema, la “rivoluzione”? Sarà per la prossima volta. Per i calabresi il cambiamento vero non è cosa necessaria. Anzi, è un trauma, un salto nel vuoto da scongiurare. Accade nonostante il buco nero della sanità, l’occupazione azzerata, l’emorragia continua dei giovani, i paesi che si spopolano, lo strapotere dei gruppi criminali e l’inanità di una classe dirigente da terzo mondo e incapace di farne una buona. Tranquilli tutti. Per i calabresi va benissimo continuare così.

    Il sistema è salvo

    Il malcostume politico, l’impianto inveterato delle clientele, l’assistenzialismo, la dipendenza parassitaria, il consociativismo e lo scambio orizzontale “cazzi mei/cazzi tuoi”: il sistema è salvo ed è anzi più saldo che mai. Altro che opinione pubblica libera e fluida, altro che cittadini attivi e consapevoli come vorrebbe la moderna politica post-ideologica.
    Le vecchie clientele in Calabria sono ancora oggi il nucleo pesante del sistema di potere. Sono fortezze inespugnabili, formano una sorta di enclave etnica, in cui i bisogni fondamentali e la vita quotidiana dei gruppi sociali sono scanditi con metodo orwelliano, ottenendo per chi ci sa fare consensi duraturi e serene carriere da politico di lungo corso.

    Chiedere favori invece che reclamare diritti, inginocchiarsi per ottenere privilegi e grazie, è ancora oggi una cosa normale in una terra in cui la libertà è ritenuta un lusso per pochi. E la gente continua a sottomettersi a scelte, comportamenti e simboli che dilatano lo spazio del silenzio complice dell’obbedienza, con le prassi e i riti di un potere vetusto e prepolitico.

    Lontani anni luce

    Un recente sondaggio pre-elettorale aveva dimostrato che su un significativo campione di elettori, solo pochi cittadini calabresi avevano manifestato liberamente le loro intenzioni di voto. Insomma neanche davanti ai test impersonali di internet e dei social i calabresi si sbottonano, non si dichiarano, temono. Restiamo lontani anni luce dalla fluidità ideologica del mondo post-industriale e delle libertà del post moderno. Eterogenei al laicismo e alla mobilità che contraddistinguono altri campioni di popolazione italiana nei confronti delle risorse civili della politica e della partecipazione democratica.

    Ma nonostante l’abbarbicamento al passato, anche in questo perdurante panorama di conservazione, alcuni profili cambiano. Non solo nell’elettorato. Anche la politica politicante si mostra capace di stare al passo con le tendenze, e a modo suo in sintonia coi tempi. Si profila anche in Calabria una figura ibrida di politico (aspirante o in carriera, il modello è il medesimo): una sorta di populista iper-presenzialista, ruzzante e rampante. Personaggi che si pongono tra l’olocrate arruffapopolo e l’influencer della porta accanto. Sempre presenti sui social e nelle piazze virtuali, come “uno di noi”.

    Lamentele e azioni

    È l’olocrazia della governance alla plebea, la fenomenologia del politico pop che si fa vedere allo stadio con la sciarpa della squadra di casa, che addenta un panino nella calca di una sagra di paese, quello che incontri per strada e a cui si dà populisticamente del tu. È l’olocrazia dei Cicc’ dei Nanà, dei Pinuzz’, dei Maruzz’, dei Carlett’, dei Totonn’. Mestieranti, ingegni modesti, macchiette da strapaese. Che però una volta sbalzati oltre il proscenio social mettono le mani sul potere vero, quello della politica che decide, e che poi pesa per anni sul groppone di una Calabria che soffre e si lamenta. Si lamenta sì, ma non agisce.

    Un casting sui generis

    In Calabria il casting senza fine che approvvigiona il ceto della politica dice che oltre ai soliti inossidabili mestieranti che hanno fatto il giro delle sette chiese (e sono sempre lì incollati alle poltrone e agli ambiti scranni con annesse prebende garantite da un posto nel parlamentino regionale), a fare la fortuna di un carneade debuttante non può bastare un profilo da influencer politico di mediocrissimo calibro strapaesano. L’empireo degli ottimati tra i politici regionali non può essere raggiunto senza certe requisiti di qualità che fanno potere e consenso. Come aver amministrato un comune, diretto un’ASP, o avere alle spalle una professione di quelle che la politica trasforma in fonti di clientele e di varie utilità.

    La politica come risorsa

    Vale però tanto per debuttanti che per i politici di lungo corso, prima che per i loro elettori, un principio di ferro: che la politica è e resta per loro una risorsa. Un ascensore sociale. Per arricchimenti, carriere, vite comode. Un’occasione quindi da non perdere. Perciò si battano i territori con i vecchi strumenti del galoppinaggio di buona tradizione calabra: il clientelismo, le promesse di lavoro, i voti contati casa per casa, con la spesa fatta nel supermarket di riferimento. Perché in Calabria c’è chi, tra gli elettori, il voto lo esce solo all’ultimo momento. C’è chi lo mette all’asta, chi lo promette a tutti. Mentre, invece, molti altri elettori neanche ci vanno più a votare. Come dimostra la massa crescente di indecisi e di restii del voto. Sono coloro che vivono in una condizione assicurata, che nulla o quasi hanno da chiedere alla politica.

    Crisi d’identità

    Il voto fotografa quindi in Calabria un panorama di fenomeni assai complessi. Conseguenze della regnante confusione sociale (c’entra qualcosa anche l’impoverimento e l’ulteriore fragilità inflitta dal Covid), con la crescente opacità che avvolge la realtà di questa regione-laboratorio. Da un lato la democrazia rappresentativa, sempre più esposta a forze demagogiche che si consolidano e riorganizzano, sfruttando anche la potenza digitale dei nuovi mezzi di comunicazione. Dall’altro, le emergenze e il caos di una regione in profonda crisi di identità collettiva, dove vecchi gruppi di potere e nuova poliarchia politica cozzano senza sintesi, ma volentieri si associano e stressano i limiti da valicare per giungere a conquiste democratiche moderne, a soluzioni laiche, rapide e incisive.

    Dicevamo anche degli indifferenti: quel 57% che resta a casa, che da anni si disinteressa e non vota. È la maggioranza silente. Il nocciolo di un’opinione pubblica potenzialmente libera, più consapevole, mobile e laica. Che invece finora accondiscende e legittima i piani di coloro che, a turno, comandano. Questi ceti, dalla fisonomia sociale e dai confini ancora incerti e indecifrati, che fanno a meno della risorsa politica, sono forse gli unici in Calabria in grado di cambiare il gioco, di aprire ad un altro futuro. Ma per ora restano fuori e privi di rappresentanza.

    Aspettando il cambiamento

    Stando così le cose, la Calabria cambierà mai? C’è ancora qualche speranza? Esiste la possibilità reale che accada? Per chi proponeva il cambiamento, dopo l’ennesima delusione, dopo la cocente sconfitta, è d’obbligo chiedersi come andare avanti, che fare in questa regione. Di strade ne restano solo due. Andare via: molti continueranno a farlo. L’altra è continuare a resistere e a combattere, con ostinazione, civilmente e per il bene di tutti. E in parecchi continueranno a farlo ancora.

    Sarà però impossibile se non spazziamo via, una volta per tutte, la retorica e la prassi vittimistica della resa al peggio, della lamentazione rituale, della subalternità autoinflitta dal nostro cattivo agire, individuale e collettivo. Se ai nostri comportamenti e al nostro orizzonte sociale asfittico, in cui il privato vale sempre più del pubblico, non ridiamo lungimiranza e dignità di cittadini. Per davvero, o così o non avremo speranze.

    Sessant’anni dopo

    La Calabria è il cuore malato della Questione Meridionale. È una condizione cronica, che va affrontata con coraggio, assumendosi nuove responsabilità culturali, civili, umane, respingendo le solite scorciatoie dell’assoluzione collettiva per giustificare tutti i nostri mali. Si smetta di fuggire. Si resti davvero, per il bene di tutti. E «senza dramma, senza rancore», con tutte le sue forze migliori, finalmente la Calabria trovi il coraggio di reagire «ad una condizione inferiore o servile» che dura da troppo tempo. Cerchi di meritare finalmente «una condizione in cui l’uomo sia padrone di sé e del suo destino». Anche questo lo diceva Alvaro. Più di sessanta anni fa.

  • Libere, brillanti, moderne: il cambiamento della Calabria passa dalle sue donne

    Libere, brillanti, moderne: il cambiamento della Calabria passa dalle sue donne

    In questa regione gli uomini, quelli che comandano da sempre, in politica, nelle istituzioni, nella cultura, nelle imprese, si giudicano da quanto hanno saputo fare, dalle loro opere. Piuttosto pessime, a soppesare senza troppe illusioni la realtà che hanno costruito intorno a noi. Le donne invece dalla speranza che hanno saputo destare e che tengono viva in questa società che opprime e che ancora oggi non riesce ad amare la libertà, e spesso neanche a farsela amica.

    Vecchi copioni

    Come antropologo e narratore giro la Calabria in lungo e in largo da anni. Spesso per strada, arrivato in un posto, città o paese che sia, mi fermo solo per guardare le donne, le ragazze che senza saperlo sono lo spirito dei luoghi. Sono comunque la cosa più viva da queste parti. Questo è il tempo in cui le donne danzano. Gli uomini, invece, trascinano i passi, ovunque. Recitano vecchi copioni, arrancano, talvolta distruggono e si autodistruggono. Li sostiene una tradizione misogina, quel patriarcato secolare eredità di un lungo medioevo sessista: A fimmana ndavi i capiji longhi e ra menti curta; A fimmana è cumu a crapa, mangia a centu erbi e non è mai cuntenta; Petri i punta, tavuli i cozzu, e fimmani curcate; Arberu ca stridi e fimmana c’arridi, pigghjia a gaccetta e tagghjia; Fimmana chi s’alliscia è gran puttana.

    Una marcia in più

    Sono anni che insegno a classi intere di studenti universitari, Antropologia Culturale ed Etnologia. Propongo loro il confronto col mondo, con le diversità culturali, con le differenze, con il nostro tempo pieno di contraddizioni ma anche ricco di vantaggi di conoscenza, di tante occasioni di autocoscienza e di libertà che la realtà ci mette davanti ogni giorno. Ne conosco a Catanzaro e Cosenza da tutta la regione, e ne ho laureati tanti di questi ragazzi e ragazze. Hanno alle spalle storie di periferie urbane abbandonate e di realtà sociali difficili, di comunità minuscole e in crisi spesso abbarbicate a tradizioni, a diffidenze difficili da infrangere.

    Prevalentemente sono però figli di gente di paese e di paesini. L’istruzione è un salto, un balzo in avanti per tutti loro. Le differenze tra questi giovani però sono flagranti, soprattutto nel genere più che nella provenienza sociale. La femminilizzazione degli studi è un fatto per me ormai chiarissimo, inconfutabile. Sono loro, le ragazze, le studentesse le più brillanti. Largamente fuori media, rispetto ai più pigri e convenzionali colleghi dell’altro sesso. Studiano di più le ragazze, sono più intelligenti, sensibili, colte, curiose, positive, innamorate di conoscenza e affamate di futuro. E quelle che arrivano in coppia, ho notato, finiscono gli studi che il più delle volte lei guida lui.

    Un nuovo spazio

    Anche nei borghi trasecolati dalla povertà e dall’abbandono, dove ancora siedono le donne vecchie con i fazzoletti in testa, crescono così giovani donne istruite, colte, affamate di vita, di libertà, di desideri. Per loro adesso c’è uno spazio nuovo da conquistare in queste comunità, e c’è anche un altro tempo e un altro modo di vivere da reclamare. Accade ovunque, a Catanzaro come a Campana Calabra. Gli uomini, sì gli uomini, che se ne sentono minacciati, dovrebbero farne tesoro. La libertà più vera e una nuova coscienza delle comunità e delle relazioni passa anche da queste donne più libere delle loro nonne e madri.

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    Sono più consapevoli, più aperte, più libere. Meglio delle borghesucce del bovarismo che faceva mormorare il moralismo bacchettone della provincia e dei paesi di una volta. Meglio di quelle madonnette che crescevano educate alla musciarìa dei maschi fidanzati-in-casa, lasciate a languire nella noia del paese in attesa di essere offerte per sposare i bancari, i figli dei farmacisti “per bene”. Queste ragazze e donne calabresi di adesso, sono finalmente donne nuove (nuove, non senza difetti, ogni tempo, ogni società, genere e individuo, se ne trascina dietro tanti). Ma scegliere la libertà, saperla vivere e metterla in opera è, e sarà, la scelta radicale. Un bene individuale e sociale, sempre e per tutti.

    Parola alle donne

    Se ti metti in ascolto, comprendi che lo stato di salute di una società come quella calabrese, specie oggi in mezzo al caos della crisi pandemica che la rende più che mai fragile, pericolante e in regresso, non può che ripartire proprio dal femminile, dalle risorse del femminile. È così perché ogni comunità e ogni luogo della società se vuole davvero restare vivo e progettare futuro deve diventare un luogo che oggi parla di sé attraverso la vita e l’esperienza di rinnovamento delle donne. Solo se lascia parlare le donne e le rende protagoniste del cambiamento di tutta la società, la Calabria produrrà finalmente la sua trasformazione.

    Le donne che ho incontrato e che racconto in tutti questi miei viaggi di scoperta in giro per la Calabria di adesso, io le porto con me. Sono amiche, alleate, compagne di vita, e hanno cambiato un po’ anche me. Certo, si sposano. Hanno figli che allevano, lavorano quando possono. Vivono e amano più liberamente. E quando decidono di liberarsi di amori sbagliati, da abusi o relazioni malate, lo fanno con maggiore risolutezza, con la dignità e il riguardo che si deve alla propria vita, a quella dei propri figli. Questo oggi per fortuna accade di più rispetto al passato.

    I residui tossici del patriarcato

    Molte di queste donne non possono ancora vivere da sole (mancano lavoro e sostegni, servizi essenziali), ma quando soffrono le compagnie oppressive di mariti e compagni, adesso se ne liberano.
    Come dimostrano la recente vicenda del femminicidio di Fagnano Castello, le invettive sessiste rivolte alle colleghe da un consigliere comunale di Cirò, la medievale e avvilente “lista delle zoccole” diffusa a Cinquefrondi, 6500 abitanti nella Piana di Gioia Tauro, spesso accade che queste donne siano ospiti disprezzate a casa loro, stigmatizzate dal conformismo e dalla violenza paternalista che cova nelle famiglie, e che quasi sempre le mette ai margini delle comunità locali.

    C’è una specie di bolo velenoso che risale a tratti dal ventre astioso della vecchia società dei paesi in crisi di identità, dove spesso resiste il residuo tossico del patriarcato più oscuro. Un resto di autoritarismo maschile accanto al quale crescono però nuove (e forse persino più pericolose) forme di violenza, di diffamazione e di odio sessista ai danni delle donne e dei fragili.

    La retorica della restanza

    Fenomeni che si muovono sulla rete e si diffondono in formato digitale via social, su Facebook o Whatsapp, nelle chat regno del machismo che animano i gruppi di balordi che avvelenano la scena sociale e incattiviscono la gracile vita di sponda dei paesi. I paesi, altro totem della retorica di ripiego sudista, con l’enfasi della restanza, l’elucubro virtuosistico e sin troppo presunto sulla buona società idealizzata delle piccole comunità, dei vicinati, delle tradizioni del pane e della sussistenza slow, sotto il quale spesso si nascondono invece comunità allo sbando, piccoli inferni che mescolano anomia sociale, prepotenze e controllo oppressivo. Laboratori di un degrado talvolta persino più feroce di quello urbano.

    Certo, oggi anche nell’angustia dei paesini più tradizionalisti e retrogradi ci sono donne giovani e meno giovani che vanno in giro a cercare qualcuno, qualcosa di vivo, che hanno bisogno di sesso e di legami nuovi o di relazioni, anche se capita poi di sentirsene prigioniere, e per non rassegnarsi all’abitudine decidono di volerli rompere sfuggendo alle pretese di assoggettamento e controllo di un uomo. E poco importa se questo accade un anno o un attimo dopo il primo incontro, il primo giro in auto, il primo bacio di nascosto. La riprovazione pubblica, la maldicenza, l’insulto, cala come condanna nei confronti di donne considerate troppo disinvolte nei comportamenti sessuali o nel modo di vestire.

    Stop ai pregiudizi

    E allora? Sono donne che hanno bisogno di “paesaggi” sociali nuovi queste donne, di un nuovo appaesamento libero da ipoteche tradizionali e pregiudizi. Ma la rete dei consultori familiari, dei presìdi socio sanitari e dei centri antiviolenza è stata via via indebolita. E con questi le iniziative che potrebbero prevenire i delitti e contrastare, anche culturalmente, le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne. Oggi mancano spazi civili e comunità aperte in cui per le donne sia finalmente possibile scegliere, potersi raccogliere e ripartire, liberamente.

    Eppure ogni loro scelta di libertà è un progresso, un diritto umano sacrosanto, non negoziabile, individuale e indisponibile ad altri che non siano le stesse donne. Per questo c’è anche bisogno di un po’ di racconto, di narrazioni minime rispettose, che ricreino solidarietà, pace, possibilità, allegria, proprio intorno alla difficile liberazione di queste donne, trasformando il silenzio ostile e la violenza dello stigma sessista e tradizionale, in uno spazio nuovo da abitare e condividere, in un dono di parole. La cronaca queste storie le scopre invece solo quando le protagoniste vengono offese e diventano vittime, uccise da uomini, familiari o compagni, che credono ancora che di una donna si possa essere padrone.

    Il tema del femminile

    Molto più di quanto so vedere e ascoltare, mi piacerebbe avere la capacità di saper far parlare le vite qualunque di queste ragazze, di queste giovani donne, ma anche di quelle che hanno perso il loro momento, che già si sentono fuori dal gioco della vita, perché in realtà ogni esistenza incontrata per questa via è particolare, e merita di essere illuminata prima di essere riassorbita dal vuoto. Le donne sono per me, sempre più spesso, l’ospite da interrogare tra un passaggio e l’altro, tra una rilettura e l’altra delle mie giornate per capire i luoghi e la società concreta e attuale di questa regione di confine.

    I paesi e le città passano dai finestrini dell’auto, mentre il tema del femminile permane, continua a interrogarmi. La scrittura e il paesaggio della storia delle donne sono insieme un problema reale e un ecosistema simbolico, personale e collettivo. Le donne parlano sempre di ciò che condividiamo col mondo, e aprono a ciò che del mondo, e per ciascuno di noi, resta pur sempre diverso e qualche volta irreprensibile, estraneo.

    Un enigma da decifrare

    Le donne oggi portano lo stesso abito, si truccano e si muovono allo stesso modo, tutte, ovunque: città di provincia o quartiere periferico, paesino o sobborgo. Ma è ancora solo apparenza. Il vero sembiante deve ancora disegnarsi, e le mode c’entrano poco. Sono un geroglifico tutto da decifrare le donne della Calabria di oggi. Lo stesso enigma mi capita ancora di sfiorarlo nella Calabria più recondita, nei dintorni di Savelli, Cerenzia, Cicala, Paludi, oppure di Longobucco, Cropalati, Zagarise, Petronà, Carfizzi, in certi minuscoli paesini conficcati come un chiodo dentro la polpa verde e nei recessi più angusti e siderali del marchesato, del Pollino e della Sila Grande, Greca o Piccola. Le donne sono là, sono loro quelle che restano, e sono sempre la cosa più viva di tutto.

    calabria_donne

    In posti così ci vado di tanto in tanto solo per verificare se le donne calabresi, le giovanissime o le vecchie, sanno come si fronteggia il tempo incerto di adesso. E se, oltrepassata la soglia di una certa indefinibile età, si somigliano tutte, o se piuttosto ricordano le donnine involgarite dal lusso delle griffe alla moda che escono nei sabato sera della città provinciale (che si autodefinisce “europea”) in cui abito ora. O se invece le donne sono quelle che masticano a denti stretti l’amaro fiele delle giornate vuote di senso che si consumano nei paesoni dai confini slabbrati, in mezzo ai casermoni che si spandono a macchia nella Calabria di questi anni di caos. Tante cose insieme, credo.

    Tutti al funerale, ma prima?

    Ieri ho preso l’auto e sono andato a vedere con i miei occhi a Fagnano cos’è il piccolo, sparuto, paese di 2000 abitanti sotto le pendici interne della catena costiera tirrenica. Il paesino dove è stato consumato nei giorni scorsi l’ultimo dei femminicidi calabresi di quest’anno. L’aspetto è la solita mescola disordinata di vecchio e di nuovo che si accavallano sottosopra, come nella fisionomia spaesata di quasi tutta la geografia antropica di questa Calabria del secolo XXI.

    Era tutto molto triste a Fagnano. Tutto il paese chiuso, sbarrato per il lutto cittadino proclamato dalle autorità locali. Poca gente per strada, un’aria attonita e stranita. Soprattutto poche donne, poche giovani a far da corteo a questa tragedia. La chiesa era piena. Il manifesto con l’immagine colorata di Sonia Lattari, 43 anni, era dappertutto. Aveva subito percosse. Ma non aveva denunciato il marito che l’ha poi ammazzata a coltellate.

    Sembrava davvero il funerale di tutto un paese. Ma quanto il paese di cui quella giovane donna è stata cittadina, lo stesso paese che la piangeva ora nella chiesa dell’Immacolata, era stato con lei solidale, attivo? Quali sostegni ha ricevuto Sonia da ambiente, famiglia, parrocchia, autorità? E chissà quali paure ha avuto Sonia prima che tutto accadesse. Sono andato via. La strada per uscire dal paese si dilegua per chilometri tra l’ombra brunastra e la luce cruda che svela i boschi di castagni che stanno per portare frutto ad un autunno fiacco e svogliato. Non mi è sembrato giusto fare neanche una foto.

    La vera rivoluzione? Senza uomini

    Non basta sapere che le imminenti elezioni regionali accompagneranno al voto i calabresi con la doppia preferenza di genere. È tempo anche in Calabria di nuove libertà e di reali equivalenze di genere. È tempo di una nuova autorità femminile al potere per il governo delle comunità. Che non è certo quella che ancora oggi imita e puntella il potere esausto e autocratico del patriarcato che domina la politica politicante. Gli uomini si mettano invece da parte per un po’, è meglio. Trovino un modo nuovo di vivere i sentimenti, gli affetti, la famiglia, il lavoro, la politica. Sarà un bene, per la vita di tutti, prima ancora che per la politica, l’economia, la cultura. Sarà questa la vera rivoluzione in Calabria.

  • Il Buco di Frammartino e la farsa della calabresità

    Il Buco di Frammartino e la farsa della calabresità

    E così il baratro della cosiddetta “calabresità” da esportazione, ormai una specie di pozzo senza fondo di luoghi comuni, dichiarazioni strampalate di identitarismi metastorici e regressioni passatiste e rivendicative, si arricchisce di nuove immaginette e inghiotte anche le immagini dell’abisso del Bifurto. Il pretesto, allettante e di ovvio impatto mediatico, è stato offerto stavolta dal meritato successo del cineasta di origine calabrese Michelangelo Frammartino, che a Venezia 78 ha ricevuto il premio speciale della Giuria per Il buco, un bellissimo film che racconta l’impresa di un gruppo di speleologi piemontesi in Calabria al principio degli anni’60 del secolo scorso.

    Il regista Michelangelo Frammartino al Festival del cinema di Venezia
    Tutti sul carro del vincitore

    Il film, prodotto da Rai Cinema (e con un contributo dalla passata gestione della Film Commission della Calabria), è un autentico capolavoro. La corsa per intestarselo come al solito è partita due minuti dopo. Ed ecco che spunta, come sempre, puntuale come i comunicati dell’Isis dopo gli attentati, la rivendicazione della “calabresità” (per giunta stavolta “più autentica” dell’autentico, sic!) di autore e pellicola. Ci provano tutti, in testa politici in fregola elettorale, accompagnati da un corteo di figuranti e “dirigenti” di qualcosa che parlano sempre a nome della cultura di questa regione.

     

    Banalità identitaria

    Certune di queste affermazioni, more solito, si segnalano per la goffaggine, oltre che per banalità situazionistica: «Uno straordinario riconoscimento ad un talento purosangue calabrese, alla sua passione nel dare un nuovo volto a luoghi e persone del nostro territorio». Poi, «il prestigioso premio a Frammartino è la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione». Poi, il logoro e onnipresente richiamo alla «promozione del territorio, a rafforzare la visibilità del patrimonio naturalistico e artistico locale», che, ovviamente, integra «la giusta strategia da seguire per ribaltare, in termini positivi, la narrazione del nostro territorio al di fuori dei confini regionali». Insomma ammuina, pura retorica identitaria a palate.

    Una sequenza de “Il Buco”, una pellicola di Michelangelo Frammartino

     

    Le solite etichette

    Possibile che il giusto (e forse persino tardivo) riconoscimento al valore di un artista e a un’opera d’arte così originale non riesca qui da noi a evitare il dazio di etichette e rivendicazioni identitarie così spropositate e arbitrarie, così vistose e marchiane? Può un film diventare «una straordinaria storia in grado di esaltare la vera “calabresità”, con il suo cuore autentico»? E cos’è mai, se qualcuno può dirlo con cognizione di causa, la “vera calabresità” dei calabresi e della Calabria oggi, nel 2021? E perché mai il prestigioso premio a Frammartino, che è il riconoscimento a un artista e alla sua opera, sarebbe «la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione a livello nazionale ed internazionale»? Lo stesso Frammartino si è subito affrettato a smarcarsi da simili inciampi da strapaese dichiarando, ben oltre il suo amore per la Calabria («La Calabria, la regione più bella del mondo», certo, why not?), che il suo film è una personalissima esplorazione dell’umano e della natura, «è la storia di un abisso, e noi siamo speleologi del cinema underground».

    In fondo al “Buco” raccontato dal film di Frammartino
    La Calabria di oggi

    È anche il caso di ricordare a tutte le anime belle che hanno a cuore questa regione a colpi di spot e proclami, che solo un paio di settimane fa piangevamo i roghi boschivi e gli incendi devastanti appiccati con dolo criminale che hanno annichilito le foreste calabresi in Aspromonte, in Sila, sul Pollino (il Monte Sellaro, la stessa montagna percorsa dal fuoco, non distante dal set del film di Frammartino). Che questa è la regione dove comandano ’ndrangheta e massomafie. Che la politica è quella che ne ha fatto la regione peggio amministrata d’Europa. Che i treni viaggiano ancora senza elettricità, che gli ospedali sono lazzaretti. Che qui si muore di malasanità, ma anche di noia e di conformismo.

    È ancora il caso di ricordare che molti di quei luoghi bellissimi che vorremmo buoni per viverci e prosperare sono oberati dal cemento, inquinati da discariche, da cumuli di monnezze abbandonate in ogni angolo e violati da abusi di ogni genere. Che il mare è sporco e che turismo tanto strombazzato è il trionfo dell’economia dipendente e di una monocultura consumista e massificata, pericolosissima. Che le nostre magnifiche montagne, buone per i film e per le cartoline per escursionisti della domenica, si spopolano ogni giorno di più e franano puntualmente dopo gli incendi dell’estate. Che i paesi chiudono perché non c’è più vita, che i giovani calabresi emigrano ogni giorno anche se adesso vanno via con laurea, ma sono tanti, troppi. Che le “eccellenze” calabresi diventano tali solo quando trovano opportunità fuori da questa regione, che espelle i migliori e mortifica chi resta.

    E che in fondo quel film di cui oggi molti fanno ruffianamente gli elogi, che racconta di una voragine senza fondo in cima a una montagna, è un po’ come noi, come la Calabria di adesso. Un enigma. È un film fatto di silenzio e di buio. Di pietra, di vento, e di abissi di pietra. E che l’unico calabrese che vi compare con una parte nella storia – gli speleologi che esplorano il buco sono ragazzi piemontesi dell’Italia del Boom – è un vecchio, un taciturno e certo ben poco arcadico pastore del Pollino (Frammartino predilige i vecchi pastori nei suoi film). E il vecchio è una figura scabra, antiretorica, solitaria, arcana, vuota e piena allo stesso tempo; uno che sembra muto, di pietra anche lui, come la voragine che sprofonda ogni cosa dentro l’ombelico del mondo che si spalanca nella fessura lì vicino.

     

    L’originale bellezza di Frammartino

    Come antropologo e scrittore seguo, e non credo di essere tra i molti, il cinema di Frammartino dagli esordi. Ritengo che i suoi film siano una delle poche cose davvero interessanti spuntate negli ultimi vent’anni nell’asfittico panorama della cinematografia italiana. Quello che fa vedere e racconta non assomiglia a nessun altro. Il suo è un cinema che prescinde dai condizionamenti di genere e dai retaggi ai quali la maggior parte dei suoi colleghi sembra oramai assoggettata (con l’eccezione, secondo me, di autori che recentemente hanno messo modernamente a tema un riflesso ambiguo e scivoloso come quello identitario, quali Pietro Marcello, La bocca del lupo e il recente Martin Eden, e Alice Rohrwacher, in Corpo celeste).

     

    Quando stupì Cannes con Le quattro volte

    Frammartino, 53 anni, nato a Milano da genitori calabresi originari di Caulonia, è regista non nuovo a importanti prove d’autore che mettono a tema con originalità e straordinaria potenza narrativa il rapporto con la terra delle origini. Prima che con Il buco lo ha già fatto con pellicole dal budget limitato ma intensamente poetiche e di grande impatto artistico, come Il dono (2003), la sua opera prima, un piccolo film ambientato nel paese natale dei genitori, che ristampato in una copia in 35mm fu poi proiettato al Festival di Locarno. Nel 2010 scrive e dirige Le quattro volte, un documentario etnografico, un film mimetico, magico e misterioso, sulle tradizioni dimenticate dell’Appennino calabrese. Un film che è anche una sorta di apologo, un moderno conte philosophique sul persistere delle credenze animistiche nelle civiltà rurali non ancora travolte e cancellate dalla modernizzazione omologante. Le quattro volte, presentato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, fu anch’esso girato in Calabria da Frammartino, che portò allora il suo set in tre luoghi differenti: Alessandria del Carretto, Caulonia e Serra San Bruno.

     

    Raccontare l’indicibile à la Werner Herzog

    Il buco è un film che ancora una volta sullo sfondo di magnifici e inquietanti scenari naturali e antropici calabresi affronta l’indicibile, con il mistero del mondo delle grotte e degli abissi della natura più indomita e inospitale e l’esplorazione del regno minerale, in cui la pellicola si immerge poeticamente quasi solo con l’ausilio delle immagini. Come in un suo film Werner Herzog, Cave of Forgotten Dreams (realizzato dal cineasta tedesco nel 2010) trattava dei misteri dei dipinti paleolitici sepolti nella Grotta Chauvet nell’Ardèche francese, qui Frammartino sprofondando il suo racconto per immagini nell’abissale inghiottitoio, mai prima esplorato, che si apre in una fenditura della roccia in cima al monte Sellaro sul massiccio del Pollino (una dolina che sprofonda nel vuoto vertiginosamente per quasi 700 metri, creduta a quel tempo una delle grotte più profonde del mondo), sonda nello stile del suo cinema l’esperienza dell’insondabile, il buio profondo, l’angoscia di conoscere, la paura e l’ansia di perdersi in questa stessa avventura.

     

    Non è un film sulla vera identità calabrese

    Nella storia, non a caso, il regista adotta il punto di vista alieno e spaesante dei giovani e ignari speleologi piemontesi che furono attratti in questo recesso della Calabria più isolata e impervia nel lontano 1961, per poterlo esplorare sino in fondo, con rispetto e ammirazione, non privi in partenza di pregiudizi e luoghi comuni. Vince su tutto la misteriosa e affascinante bellezza di luoghi che sembravano fuori dalla storia. Un salto nel buio che è anche un salto nel tempo, negli interrogativi del presente. Infine, alla stregua di un filosofo e antropologo dei giorni nostri, il regista ha manipolato il materiale così faticosamente raccolto per trarne una riflessione di straordinaria intensità e rigore sull’enigma dell’esistenza. Non quindi un film sulla presunta “vera identità calabrese”.

     

    L’insegnamento che risale a Pitagora

    La lezione di Frammartino ancora una volta sembra invece scandita da un insegnamento che risale a Pitagora, secondo il quale in ciascun essere ci sarebbero quattro vite distinte, ma unite nel passaggio dell’una nell’altra: minerale, vegetale, animale e razionale. Il film che ci getta tutti nell’esplorazione folle e meravigliosa che avviene dentro – ma anche intorno – a quel buco oscuro del Pollino ci lascia attoniti e senza fiato come in un viaggio nella maestà arcana di un luogo di natura essenziale. Un’immersione abissale attraverso questi stadi fisici e metafisici in cui tutto è avvolto dall’incertezza, dal pericolo, dal buio. E anche il vecchio pastore calabrese, che con i suoi silenzi, i suoi gesti arcani e misteriosi e i pochi verbi smozzicati fa da contrappunto ai giovani e temerari speleologi del nord, pare così antico e mitologico da sembrare una divinità primordiale, tanto da far dubitare che possa essere davvero sopravvissuto sino ai giorni nostri.

     

    La calabresità vera che non esiste

    Anche in questo caso, quindi, Frammartino tratta la “sua” Calabria come un archetipo, e affronta con un linguaggio poetico e congiuntivo la nostalgia di un’identità primordiale cancellata per sempre dal peccato originale della civiltà industriale. Ma formula anche un richiamo implicito alla ricerca di un nuovo equilibrio, semmai capace di ricomporre la frattura fra il genere umano e gli altri esseri viventi: piante, animali, rocce, polvere, luce, buio, acqua, vento. C’è di mezzo un abisso. Come quello del Bifurto sul Pollino. Poi c’è, ci sarebbe, la “calabresità vera”, appunto, che non c’è, che nessuno sa o può sapere davvero cosa sia veramente. E nel caso, francamente, ne facciamo pure volentieri a meno.

  • La monnezza fa parte del paesaggio umano calabrese

    La monnezza fa parte del paesaggio umano calabrese

    Questa non è solo l’estate degli incendi appiccati a comando e dell’olocausto rituale e paramafioso di boschi e foreste. Come se non bastasse. Ci sono anche le monnezze, le discariche a cielo aperto, i cumuli di rifiuti urbani abbandonati per mare e monti a fermentare sotto il sole per mesi, anni. Un’esplosione di scarti dispersi e seminati ovunque da mano umana per paesi, città e strade più o meno trafficate. Polluzione nociva da cui non si salvano affatto boschi, riserve, aree verdi, parchi nazionali. Anzi. Succede specie quando vanno tutti in vacanza, e i servizi ai cittadini sotto la voce Tari latitano.

    La monnezza non sparisce mai

    Le spazzature oramai sono presenze incombenti, entità materiali e simboliche, “oggetti” che non spariscono dal nostro paesaggio neanche quando i servizi migliorano, la raccolta differenziata viene messa in opera correttamente. Le monnezze restano, troppe e insolubili, anche nei casi migliori di civismo e buone prassi. Perché non è solo un problema di politiche di smaltimento arretrate, di discariche e inceneritori che dominano le scelte delle politiche regionali sul ciclo dei rifiuti. E allora? Il guaio è la prevalenza delle monnezze abbandonate negli spazi pubblici, le discariche fuori controllo, la presenza macrofisica e microfisica di resti ingombranti, rimasugli, avanzi. Buste di spazzatura e rifiuti urbani si impongono così, malgrado le buone eccezioni, come nuovo e significativo oggetto-monumento-documento: sono un carattere del paesaggio e dello spazio pubblico contemporaneo in Calabria. Stanno lì, sotto gli occhi di tutti, e ci interrogano. Su cosa? Un fenomeno esorbitante come questo non può non dirci qualcosa sul senso civico e le mentalità diffuse tra i nostri corregionali.

    Una passeggiata tra i rifiuti nel centro storico di Cosenza (Foto Alfonso Bombini)
    Siamo noi i colpevoli

    Come per gli incendi boschivi, gli operatori di questi scempi ambientali non sono gli altri. Non sono soggetti estranei o truppe d’occupazione, ma nostri concittadini: autoctoni, indigeni, calabresi doc. Sono i nostri vicini di casa, siamo noi, nessuno si senta escluso. La pantopologia delle monnezze non risparmia un angolo che sia uno della regione: paesi, province o città metropolitane. La Calabria espone le sue scorie e suoi scarti ingombranti, polverosi, sporchi e olezzanti, ovunque a cielo aperto. Come fossero le installazioni di un artistico museo en plein air di Trash Art. Ma non lo sono, e non lo diventeranno. Sono altro.

    Produciamo più monnezza di una metropoli asiatica

    Su un piano di realtà viene seriamente da chiedersi. Come sia capace la regione dichiaratamente più povera, disamministrata e più disperata d’Europa per la disoccupazione e l’emigrazione crescente, quella con la miseria preindustriale dei suoi redditi medi e i sostegni a pieni mani dei redditi di cittadinanza, ad accumulare in proprio, per poi e sparpagliarla ovunque, tanta monnezza superconsumista? Già, perché la monnezza significa una cosa sola: eccesso di consumi, di beni superflui, di cibo in eccesso, di plastica, di imballi e di tutto il resto. Insomma è prova flagrante di sovrabbondanza, dismisura, eccedenza. Lo spirito del capitalismo che si manifesta in rumenta al 38° parallelo. Perché quello che si butta via e che si mette disinvoltamente fuori, prima si acquista nei santuari del consumo di massa: supermercati, iper, centri commerciali. La Grande distribuzione organizzata in Calabria ha i suoi hub del consumismo piazzati ovunque e per tutti i gusti. Poi le merci che passano dalla GDO prima di finire in giro nei sacchetti di plastica scaraventati ovunque fuori la porta di casa, stanno dentro le case dei calabresi, quelle di paesi e città, al mare o in montagna: riempiono i frigoriferi, le dispense, i ripostigli, gli armadi. Ecco un altro dei misteri ingloriosi che ben rappresentano lo stigma autoinflitto della società calabrese contemporanea. Una società di poveri che consuma in eccesso. E fa più monnezza di una metropoli asiatica.

    Murales e rifiuti a pochi metri dal fiume Crati a Cosenza (foto Mauro F. Minervino)
    I rifiuti sono un oggetto reale e simbolico

    Come antropologo che lavora sul campo temo che in questa regione si debba  considerare l’evidente e ormai annosa supremazia degli scarti e degli ingombri inquinanti abbandonati nei luoghi pubblici, con le irreparabili conseguenze dei danni procurati su paesaggio antropico e natura (insieme alle cattive abitudini civiche correlate), come un “oggetto reale” che è parte del progetto politico (consapevole, sempre meno inconsapevole) dello spazio pubblico realizzato, e quindi come documento della dimensione etica, culturale e simbolica condivisa e praticata nei comportamenti dalla media larga dei cittadini di questa regione. Le monnezze oggi sono lo status symbol distorto e socialmente malvagio del raggiunto benessere e dell’iperconsumismo democraticamente distribuito tra classi e gruppi sociali. Da sobri e parchi che furono quando erano poveri, nel 2021, in piena emergenza globale pandemica e climatica, i calabresi-medi ribadiscono oggi spargendo rifiuti e monnezze dove capita, e a colpi di spazzature allegramente scaraventate dai finestrini delle auto in corsa, una sorta di posizionamento sociale “selvaggio” che si dichiara nelle forme riottose e sprezzanti di un diffuso respingimento di codici di condotta e prassi condivise che sono fondamento di ogni elementare regola civica e di convivenza responsabile tra i cittadini.

    L’arte del rifiuto

    Da documento-status symbol del raggiunto benessere, i resti le spazzature abbandonate e le scorie accumulate negli spazi pubblici per via di questa distorsione divengono un oggetto-monumento che manifesta simbolicamente il problema indigesto che più in generale la modernità, con tutto il corteo delle sue flagranti disfunzioni, in Calabria configura. L’esorbitanza di resti, scarti e monnezze diviene così esibizione drogata e oscena dei nuovi status symbol del consumo fine a se stesso. Questa sorta di esibizione abborracciata che si situa tra le installazioni di land art, l’insulto sistematico all’ambiente e l’arte popolare dell’accumulo, ha conquistato in termini di maggiore evidenza il luogo esibitivo per eccellenza di questa regione: la strada, ovvero il nervo più lungo di tutto lo spazio pubblico, lo spazio pubblico e infrastrutturale che collega e connette i diversi territori e omologa tutti i luoghi del paesaggio vecchio e nuovo di questa regione.

    Dentro pulito, fuori sporcizia e cumuli di rifiuti

    Dalla casa pulita alla strada sporca in Calabria il passo è breve. Dentro lo spazio privato lindo e scintillante di detersivi e igienizzanti, e fuori quello pubblico oppresso dai cumuli di scarti, buste di spazzatura e congerie di rifiuti. Ecco servita un’altra schizofrenia sociale, dopo la malvagità altrettanto sociale degli incendi boschivi. Dentro puliti, fuori sporchi. “Robb’a i tutti jettala allu jjum’e” non sostiene un forse un vecchio adagio popolare? La necessaria riconsiderazione della strada e dei luoghi dello scarto come condensatori di tracce e di informazioni sociali e antropologiche problematiche ma preziose, è una conseguenza dell’entropia scaturita dalla crescita incontrollata dei consumi, dall’intreccio irrisolto nella complessità dei processi di modernizzazione e dalla spinta crescente all’urbanizzazione che hanno costruito la realtà di questa regione negli ultimi cinquant’anni.

    Rifiuti abbandonati tra i boschi della Sila Grande. Fago del Soldato, Parco Nazionale della Sila
    Non ci resta che ragionare sul riuso

    Sono circostanze così pesantemente reali e cariche di conseguenze che dovrebbero indurre la Calabria a ragionare collettivamente non solo su una nuova coscienza del riuso e degli orientamenti da adottare nelle politiche regionali del ciclo dei rifiuti, ma anche a riflettere su una nuova immaginazione progettuale, in grado di ridisegnare il ruolo degli spazi pubblici e dei beni comuni per città, paesi, aree naturali e trasporti più adeguati alla geografia del contemporaneo di questa regione. Considerando lo scarto come uno degli oggetti del progetto politico e civico dello spazio pubblico a venire, e non come destino. Sublimare lo scarto fino a renderlo oggetto di trasformazione dello spazio pubblico contemporanea è ovunque il progetto delle città contemporaneo che investono intelligenza e applicano risorse su questi temi. Per ora, invece, una enorme rimozione culturale e simbolica (oltre che materiale) giace sotto i cumuli di rifiuti e le discariche incontrollate che costellano a cielo aperto il paesaggio e le strade della Calabria di adesso. Questo resto indigesto e ingombrante, questo nuovo oggetto sociale che si insedia nelle spazzature abbandonate, visibile ma oscuro, che si accumula e avanza come un inarrestabile blob fuori dalle porte di casa e per strada ai lati della nostra vita pubblica, siamo noi stessi. Un mucchio selvaggio di segnali e di informazioni utili per lo studio dell’evoluzione della società, della città e del territorio, della regione che siamo e di quella che come cittadini vogliamo costruire.

    L’anarchia della monezza come sfregio

    Il nostro irrisolto rapporto con la modernità passa dalla spazzatura forse più che dai libri. Esso costituisce il dato esperienziale e di una nuova drammaturgia umana e sociale che non trova per ora forme di rappresentazione che non siano quelle prive di forma ma cariche di evidenza, del rifiuto irredento. L’anarchia dello sfregio tale e quale.
    Occorrerebbe invece rapportarsi al tema dello scarto affrontandone il geroglifico antropologico e culturale che vi resta insediato. Ciò che in esso mistifica e semplifica i caratteri identitari delle più antiche resistenze e riottosità etniche dei calabri mescolandole al conformismo iperconsumista di oggi, decostruendo così le ragioni di quel posizionamento “selvaggio”, a cui prima alludevo, per venirne finalmente a capo.

    Lo stato di natura in Calabria

    C’è una pagina sorprendente di un grande filosofo del secolo dei lumi che in un apologo sulla libertà metteva in valore il carattere esotico e primordiale, lo stato di natura dei fieri calabresi di un tempo: “… Tutte le istituzioni politiche, civili e religiose. Esaminatele a fondo: o io mi sbaglio terribilmente, oppure in esse vedrete la specie umana sottomessa di secolo in secolo al giogo che un pugno di furfanti ha voluto imporle…E i Calabresi sono forse gli unici sui quali le lusinghe dei legislatori non hanno avuto effetto.
    A – E questa anarchia della Calabria vi piace?
    B – Mi appello all’esperienza, e scommetto che nella loro barbarie ci sono meno vizi che nella nostra civiltà. Le tante nostre piccole scelleratezze equivalgono all’atrocità dei loro grandi crimini di cui si mena tanto scandalo. Io vedo gli uomini non civilizzati come una grande riserva di forze sparse e isolate. Senza dubbio potrà accadere che qualcuna di queste forze si scontri con un’altra, e o l’una o l’altra andrà in pezzi, o magari accadrà a entrambe…, e in questa macchina chiamata società tutte le forze furono messe in azione, pressate incessantemente ad agire e a reagire l’una contro l’altra, tanto che se ne frantumarono di più in un giorno nello Stato retto da leggi che in un anno nell’anarchia dello stato di natura!..
    A – Dunque, voi preferite lo stato di natura bruto e selvaggio?
    B – In verità non oserei dirlo, ma so che si è visto spesso l’uomo di città spogliarsi e tornare alla foresta, mentre non si è mai visto l’uomo della foresta vestirsi e andare a vivere in città”.

    Il viaggio di Monsieur de Bougainville e quella certa anarchia

    Certo, siamo in tempi post-illuministici e lo scetticismo è di moda. Nessuno di noi oggi vive nelle foreste silane e qualche comodità, come mostrano le montagne di spazzatura che sparpagliamo ovunque, nel frattempo ce la siamo pure guadagnata. Questa pagina del passato però stupisce e interroga alla stregua di un autorevole paradosso. Colpisce, non solo perché riprende il mito irredentista del calabrese “tutto natura”. Un “buon selvaggio” che sopravvive in una sorta di riserva indiana sul bordo estremo della vecchia Europa, refrattario alle regole della società e dello stato moderno: “I Calabresi sono forse gli unici sui quali le lusinghe dei legislatori non hanno avuto effetto”. Dice, anche, purtroppo, qualcosa di oggi. La pagina, sconosciuta ai più, ruffiana e bellissima, compare in un dialogo immaginario che si trova in un’opera minore, il Supplemento al viaggio di Monsieur de Bougainville del grande Diderot, uno dei padri dell’Illuminismo. Un tempo lo stato di natura era pieno di speranze. La storia no. E noi siamo ora più che mai dentro la storia. Quella di adesso. Davanti a tutte le nostre monnezze per strada chi può più dire dei calabresi di oggi che “nella loro barbarie ci sono meno vizi che nella nostra civiltà”?

  • La Calabria brucia nei suoi roghi di speculazione e indifferenza

    La Calabria brucia nei suoi roghi di speculazione e indifferenza

    La Sardegna quest’anno rischiava di soffiarci il campionato dei roghi. Che di solito è calabrese. C’entra poco il caldo e la scusa del global warming non basta. La Calabria brucia. È la regione più ustionata d’Italia, ci sono stati già adesso più di 1200 incendi boschivi. La provincia più colpita negli anni scorsi è stata quella di Cosenza, con ben 413 kmq di aree percorse dal fuoco, l’equivalente di 60.000 campi di calcio, 45,8 kmq di boschi in cenere, come succede ormai quasi ogni anno, da troppi anni. Comunque è buona abitudine che la Sila e il Pollino brucino per mesi durante estati sempre più torride e arse. La Calabria è un lungo ininterrotto barbecue silvestre. Un olocausto verde. L’ustione più vasta di tutta l’Europa continentale.

    Ma quale autocombustione?

    I boschi qui non sono mai bruciati per autocombustione e comportamenti distratti. La montagna in Calabria è stata il regno dei mistici e dei briganti, il deserto spirituale dei santi ecologisti in fuga dal mondo e il rifugio preferito di furfanti e irregolari in lotta col potere.
    La storia della Calabria dice che qui la gente non ama la natura che regna per sé. Le montagne che incombono incontrastate sui paesi dalla marina alla Sila fanno paura, e i boschi e le foreste un tempo fitte ed estese sono stati considerati sin dall’antichità un danno più che una ricchezza, «terra rubata» all’agricoltura.

    I tagli dei boschi per far legna e il debbio, l’incendio regolato di porzioni del manto forestale per far posto alle coltivazioni e ai pascoli, sono sempre stati praticati da contadini e pastori per limitare l’estensione delle superfici considerate improduttive.

    Cancellata la più grande risorsa di questa regione

    La più grande risorsa pubblica di questa regione, la terra e le aree protette, negli ultimi 50 anni è stata cancellata e immiserita in nome della speculazione continua e degli scambi incrociati del consenso. Il settore della forestazione in Calabria è un’altra delle piaghe dolorose della crisi civile di questa regione.
    Le inchieste sulla corruzione dei dirigenti sono all’ordine del giorno. Chi appicca i roghi delle aree verdi che ogni anno a centinaia divorano con ordine geometrico macchie e boschi in ogni contrada della Calabria? Non c’è forse una regia occulta anche per gli incendi che scoppiano ogni estate in questa regione in cui tutto ormai è occulto e trasversale? Chi ha interesse a bruciare, e perché?

    La Calabria brucia, ma non è solo colpa della mafia

    La colpa è, solo, della mafia? E gli speculatori che dopo i roghi incettano biomasse per le centrali, gli intermediari che a vario titolo si disputano fette di territorio per i loro comodi? E i costruttori senza scrupoli di nuovi slums abusivi, e i vecchi pastori di una perduta arcadia che fanno terra bruciata per ridurre i boschi a pascolo per pecore e capre? E gli stessi forestali, che (si dice sempre sottovoce) bruciano quello che loro stessi piantano per assicurarsi il lavoro sui cantieri di rimboschimento?

    In prossimità delle centrali a biomassa

    Un dato soprattutto fa riflettere: praticamente tutti gli incendi estivi in Calabria si sviluppano da anni in prossimità delle centrali a biomassa, disposte ad anello rispetto ai roghi. Si consideri che in situazioni normali non è possibile tagliare nemmeno un ramo all’interno dei parchi, mentre in caso di incendi si ottiene un permesso speciale per la potatura degli alberi. E in questi casi parliamo di alberi carichi di resina, cioè facilmente infiammabili.

    Il doppio ruolo di Calabria Verde 

    L’azienda che in Calabria si occupa dello spegnimento dei roghi è poi la stessa che è incaricata della bonifica delle aree incendiate: Calabria Verde (che con legge regionale 25 del 2013 ha sostituito le funzioni delle Comunità Montane). Altro dato anomalo registrato dalla Protezione Civile calabrese, è il boom di iscrizioni di nuove ditte boschive nate negli ultimi 5 anni. Non poche sono in odore di mafia.

    La favola dell’autocombustione

    Sarà pure l’estate più calda del secolo questa, ma riesce sempre difficile credere all’autocombustione (puntiforme), ai piromani isolati, ai fanatici del fuoco in gita di piacere, ai mozziconi gettati distrattamente dai finestrini. Forse il totale che assomma i fuochi che estate su estate divampano incontrastati è il risultato di tutte queste scelleratezze messe assieme. C’è un bel mucchio di persone che appiccano incendi dolosi conto terzi.

    Nessuno sa più come custodire i boschi

    Il fatto è che nessuno sa più come custodire i boschi. Nessuno più sa come si fa. Non più i forestali riformati, con il nuovo Corpo Forestale (diventati Carabinieri, sono scarsi di mezzi e con poca esperienza), non gli eclettici volontari-disoccupati delle squadre antincendio. Sapeva come farlo la gente di montagna. Che in montagna, spopolata da tempo, non vive più. La buona volontà di ambientalisti e gruppi ecologici è un palliativo da fine settimana en plen air. Una volta lo facevano pastori, i boscaioli e i «mannesi», gli operai forestali di un tempo. E persino i carbonai sapevano come trattare e accudire il fuoco nei boschi.
    Di questi tempi invece non bastano i Canadair, le squadre di vigili del fuoco e gli interventi antincendio della Protezione Civile a mettere fine a questo scempio di roghi incontrollati che da anni fa olocausto dei boschi e dei monti della Calabria che brucia.

    La Calabria va a fuoco

    La Calabria va a fuoco, in tutti i sensi. Il nostro è un mondo democraticamente caduto nella follia dei roghi autostradali e dell’olocausto incurante di boschi e foreste. Si bruciano i boschi secolari, si brucia la Sila, il Pollino, l’Aspromonte, si bruciano i parchi nazionali e le oasi naturalistiche da cui dovremmo, si dice tra l’altro, ipocritamente, saper trarre opportunità di sviluppo per un “turismo sostenibile”.
    La verità è che qui la tragedia della natura è il seguito degli altri disastri di una democrazia senza qualità, degenerata in abuso, governo caotico di un blocco di potere disordinato, tetragono e quasi privo di regole intellegibili.

    Il sacco del territorio

    Domani pagheremo di nuovo con le frane e con le alluvioni ciò che il fuoco ha distrutto in estate. Con il seguito dissimulato e peloso di pretese e lamentazioni rituali. La pianificazione del territorio in questa regione continua ad essere una piaga. Si costruisce ovunque, sparisce la campagna, il sacco del territorio favorisce l’espansione senza limiti. Il paesaggio è abusato senza soste, la bellezza dei luoghi stuprata di continuo.

    Il delirio nichilistico

    La natura stessa, in tutte le sue molteplici manifestazioni, resta cosa dissacrata, spazio da occupare, materia denudata a disposizione di ogni sfregio: res extensa. Non più natura vivente al centro di pratiche e sapienze tramandate provenienti dal passato e dalla spiritualità popolare. E, quel che è peggio, nemmeno argomentata da ragioni e strumenti di un pensiero del moderno che possa dirsi tale.
    La Calabria continua a bruciare. Brucia per il delirio nichilistico di una volontà umana ebbra e devastante.