Autore: Mauro Francesco Minervino

  • IN FONDO A SUD | Calcio, mito e apparenza: la Grande Cosenza in crisi di identità

    IN FONDO A SUD | Calcio, mito e apparenza: la Grande Cosenza in crisi di identità

    […] Un altro dei simboli popolari della crisi d’identità che affligge oggi la Grande Cosenza è il calcio cittadino. Precipitato nelle polemiche della gestione Guarascio e ben al di sotto dei fasti del passato. Un adagio ben noto tra gli appassionati di pallone dice che la piazza calcistica di Cosenza ha un tifo da serie A, una storia da serie B e una dirigenza di quarta serie. Oggi la squadra che fu arena consacrata da atleti simbolo come Bergamini e Marulla, è rimasta orfana di calciatori-bandiera. Quelli che segnano un’epoca e diventano leggenda, anche lontano dai campi di calcio.

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    Un bar semideserto

    Una serata fredda di dicembre di anni molti fa, un po’ prima di Natale ero in un bar di Roges, periferia urbana di Cosenza, e mi capitò di incontrare forse l’ultimo dei grandi pedatori passati dal prato declassato del San Vito-Marulla di Cosenza. C’era un’aria ferma, i vetri appannati. Fuori quasi si gelava per la gala di ghiaccio che scende dalla Sila. Dentro solo pochi avventori. Un paio seduti a un tavolino. Poi io e una mia amica bionda che rivedevo dopo molto tempo. Un po’ di chiacchiere lontano dagli affanni.

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    L’attuale San Vito-Marulla visto dall’alto

    Solo, in piedi, affacciato sui gomiti davanti al banco, c’era un ragazzo magro e dinoccolato. Un tipo sopra la trentina, i capelli lunghi tirati indietro a coda, fermati da un elastico. Qualche filo di grigio già a inargentare le tempie. Un orecchino gli dava invece un’aria un po’ truce. La ragazza che serviva dietro al bancone con lui fa la gatta. Si mostra, si affaccia col petto sul bancone. Gli fa smorfie per invogliarlo. Lui sembra il più annoiato e taciturno dei presenti. Addosso ha una tuta sportiva e un marsupio, calza scarpe da ginnastica. Ha la faccia stanca e un’aria persa e stralunata. I suoi gesti sono lenti, come rappresi nell’aria. Poche parole scambiate con la barista gli escono di bocca come spezzate dalla noia dell’abitudine.

    «Un lattuccio»

    Potrebbe essere uno dei tiratardi, borgatari del posto. Però parla troppo basso, senza la voga strascicata di questi rioni di periferia. Un buon italiano corretto e senza accenti, che gli esce di bocca con un rintocco gentile e malinconico. A un certo punto è lui che si rivolge alla ragazza del banco, dopo che lei gli aveva chiesto con smorfie più insistenti cosa poteva preparargli. Lascia cadere l’invito in una pausa che dura quasi un minuto, l’aria assente. Poi le dice piano piano: «Per favore puoi scaldarmi un lattuccio?». Dice proprio: «un lattuccio».

    Uno così mi sembra d’averlo già visto, lontano da questo bar di periferia. Certe cose non sono mai come te le immagini. Quella sera nel freddo di quel bar di Roges mi sono chiesto cosa stava a farci a Cosenza in una squadretta da campetti parrocchiali scivolata nell’inferno della D uno bravo come lui. Prima di ricominciare dalla quarta serie del pallone, gli avevano offerto di nuovo soldi buoni e ingaggi di prestigio la Fiorentina in B e pure la Sampdoria in A. Ma quel ragazzo triste aveva preferito il Cosenza in D ed era pronto a dare una mano alla squadra che aveva lasciato in B prima del fallimento.

    Capitani impolverati

    E invece era stato messo fuori squadra da allenatori da oratorio. Si era allenato, ma è chiaro che in D non erano i suoi soliti ritmi. Non si gioca di fino sui campetti spelacchiati dei semiprofessionisti. Sono ring da zuffa, rettangoli sconnessi dove si suda e si sgomita senza complimenti. Dicevano che ormai era spompato, che gli mancava la partita vera. Ma aveva lavorato con gli altri per fare il capitano, per presentarsi bene. Non giocava, ma non se l’era sentita lo stesso di lasciare Cosenza.

    Gigi Lentini in azione sulla fascia con la maglia del Cosenza
    Gigi Lentini in azione sulla fascia con la maglia del Cosenza

    Chissà se c’è un vero perché in storie così. Forse era rimasto per un amore che voleva resuscitare, forse per la speranza di ricominciare in provincia una vita normale dopo le mille illusioni ruffiane del grande calcio. Forse a 35 anni Gianlugi Lentini era solo un uomo che non aveva più voglia di rientrare nel tritacarne del sistema-calcio. Uno che viene solo per tirare calci alla palla, che gioca solo per giocare e non per caricarsi di responsabilità che ti schiantano, di nuove delusioni. Pensai che forse era rimasto perché ancora, non importa su quale campo, davvero gli piaceva correre così come sapeva fare lui. Scartando e caracollando dietro a una palla persa per inventare un cross che non ti immagini, per cercare lo spazio più imprevisto, come un acrobata che rimane in bilico sul filo bianco teso a bordocampo.

    Campioni malinconici

    Forse a Cosenza ci si poteva stare senza farsi male, perché in un bar di periferia, da solo in una serata fredda di dicembre, uno come lui, un campione vero, può chiedere «un lattuccio» alla ragazza che serve al bancone senza vergognarsi, senza sentirsi addosso tutta la nostalgia e il peso del declino. Un artista malinconico del football, Lentini. La sua era una storia di passione luminosa, di grandezza vera. Di quelle rare nel calcio già ridotto a un Barnum per televisioni e affaristi magliari.

    Sarà sempre così. In questo sport contano gli incanti della fantasia, le ascese degli uomini quanto le cadute. Senza la passione il football è una cosa morta. Solo 22 uomini grandi e grossi che corrono su un prato e danno calci ad una palla. Sono solo la passione e la fantasia che ci mettono certi giocatori di genio a farlo diventare una cosa importante, una cosa estetica. Un istante di bellezza adolescente, un’acrobazia figurata che somiglia all’arte.

    Tre generi di giocatori

    Sono passati molti anni da quella sera, ma ricordo bene. Il Cosenza di adesso se la batte malissimo in B, una squadra raccogliticcia, senza capitani veri e uomini simbolo come fu Lentini. Raccolgo a mente i ricordi e gli ultimi istanti di quello strano incontro in una notte d’inverno al bar di Roges. Non c’erano stelle in cielo, e nemmeno la luna. Tirava il vento della Sila, quella tramontana che taglia la faccia. Io e la mia amica ci avviamo senza parlare. Poi mi torna in mente un grande racconto all’interno di Fútbol di Osvaldo Soriano.

    «Lo conosci?», chiedo alla mia amica distrattamente, prima di accompagnarla fuori nelle strade senza nome di quella periferia. Ad un certo punto, le dico che c’è una pagina in cui Soriano scrive che “ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna, e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono giocatori che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dentro un rettangolo di gioco, dove non avrebbe più dovuto esserci nessuno spazio, nessun pallone”.

    Quello lì, quello che alla barista lì dentro chiedeva di scaldargli «un lattuccio», è uno di loro. Uno di questi profeti dell’innocenza che inventa figure impossibili, uno che aveva nei nervi quel tremore che spinge gli uomini a giocare su un prato dietro a una palla di cuoio. È un poeta sconfitto, era un astro tramontato del gioco del pallone. Tu non lo conosci. Si chiama Gianluigi, Gigi Lentini, era un campione.

    Gigi Lentini contrastato da Jocelyn Angloma durante la finale di Champions League tra Milan e OM del 1993
    Gigi Lentini contrastato da Jocelyn Angloma durante la finale di Champions League tra Milan e OM del 1993

    Prima di andare via dal bar con la mia amica, mi sono avvicinato. Ho chiesto un autografo a quel ragazzo dalla faccia triste. Sorrise, sorpreso che qualcuno lo avesse riconosciuto in quel posto, a quell’ora, in quella situazione. Qualcuno che si ricordava di lui come calciatore, quando fino a qualche anno prima calcava i palcoscenici del calcio vero. Lentini scrisse su un pezzetto di carta, con una biro che le passò la ragazza dietro al bancone, calmo e gentile. Poi quasi sottovoce mi chiese per chi era l’autografo. «È per mio figlio», rispondo io. Non è vero. L’ho tenuto per me.

    Cosenza oggi

    Oggi Cosenza per me è questo: l’aria di periferia di certi bar e negozietti fuori moda, certi angoli svisti tra i palazzoni di periferia, l’odore delle cucine che la domenica preparano il pranzo di buon’ora tra le case popolari. Rumore di stoviglie, i balconi spalancati sul mattino, i panni stesi, le stanze che si affrettano al riordino. Un vecchio in pigiama che è sceso nel cortiletto di una vecchia casa colonica assediata dal cemento ad annaffiare del basilico che cresce in una grossa lattina di conserva arrugginita. Una imprecazione che sembra un proverbio antico, qualche risata di gola che arriva da lontano, una donna che rimprovera un bambino in un dialetto che sa ancora di cantilena.

    Sullo stradone il camioncino del venditore viaggiante di patate della Sila che chiama a raccolta donne col suo verso da muezzin, la macchina con gli scarichi truccati che passa correndo via e lo stereo acceso forte sulle canzoni di un cantante neomelodico. Il buongiorno di una domenica qualsiasi in un posto senza grilli per la testa, le officine e i gommisti che armeggiano tra i marciapiedi e le strade piene di buche, il mercato degli ambulanti, i saluti e la festa del mattino nel quartiere popolare in cui sono venuto ad abitare da un paio d’anni.

    La città-chimera

    Da qui, da questo margine, si dileguano come in una nebbia opalescente le sagome tristi della teoria infinita di casermoni, strade e circonvallazioni, luci al neon, semafori intermittenti e file d’auto incolonnate nel traffico del rientro pomeridiano. La vita che ristagna tra le siepi di palazzoni multipiano degli attici in vetrocemento che riflettono il profilo scialbo della Grande Cosenza. La città-chimera, che non c’è mai stata e che non si farà. E con lei eclissa forse per sempre da queste sponde antiche anche il mito della città ribelle, socialista, colta, libertaria.

    Resti di palazzi crollati si affacciano su corso Telesio
    Resti di palazzi crollati si affacciano su corso Telesio

    Restano solo le spoglie del suo centro storico svuotato di senso e popolato solo da invisibili e clandestini. La ridotta sbriciolata dei palazzi patrizi di Cosenza Vecchia, nobile e decaduta, e fuori da quella cerchia vetusta, a far perno nel vuoto del cielo invernale solo il lungo traliccio strallato del ponte di Calatrava. Poi le orbite involute del traffico e i pilastri di cemento armato di quella foresta di cubature sfuse che occupa lo spazio sfilacciato come una bandiera al vento che si prolunga per miglia e miglia oltre i ponti nella valle del Crati.

    Una periferia senza centro

    Il fiume di cemento si arresterà mai prima di sboccare la sua corsa finale verso lo Ionio? Fin lì Cosengeles per ora è solo un groviglio di centri commerciali, strade che si perdono nella campagna scassata dagli abusi, tra gli avamposti delle burocrazie e del terziario rigonfiato. Cosenza è oggi un organismo aspira-tutto che prospera risucchiando il vuoto intorno a sé e assommando intorno ad un’enorme periferia senza centro tutta la popolazione di giovani che si raccoglie nei paraggi dell’Università.

    Studenti in attesa dei bus ai piedi dell'Unical
    Studenti in attesa dei bus all’ingresso dell’Unical

    Qui si radunano nel posatoio provvisorio degli studi, delle lauree tecnologiche e delle specializzazioni da Silicon Valley in riva al Crati, i pochi giovani rimasti a vivere in tutta la Regione. Ma anche loro restano giusto il tempo di ripartire. Prima che volino via altrove, come uccelli di passo. Un flusso provvisorio che ancora per un po’ terrà viva Cosenza e tutta la sua cosiddetta area urbana.

    Mito e apparenze

    È questa in fondo l’unica forza viva che alimenta da quarant’anni il mito della Grande Cosenza. Un mito provvisorio che sembra di tanto in tanto risorgere senza mai diventare vero oltre le apparenze. Ma solo perché è la Calabria intera che si squaglia intorno a Cosenza, che ogni giorno rimpicciolisce e diventa sempre più scarsa, più scolorita e spaesata.

  • IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    Prima che Cosenza diventasse lunga e scheletrica com’è adesso, l’Unical di Arcavacata, la prima Università dei calabresi, fu per molti di noi provinciali un incubatoio di vite in movimento. L’università è stata la nostra Utopia. Oggi è semplicemente il serbatoio di Cosenza, il suo unico motore sociale, la linfa vitale che nutre tutta l’area vasta. Tra quei cubi da paesaggio surrealista ha messo radici il progresso disunito di questa Calabria, e anche buona parte della vita di sponda della Cosenza di adesso si gioca lì. Un progresso che per noi generazione di arcavacanti si è affacciato sull’orlo della Storia, e subito si è dato via con un risucchio, attratto all’indietro da una forza d’entropia.

    Ora gli studenti del campus sono circa quarantamila. Ma l’università sembra un altro pezzo sfuso del domino di periferie senza centro che si allarga oltre il villaggio totale di Cosenza e di Rende. Ordinata ed efficiente in apparenza, ordinaria, spenta e molto normalizzata vista da dentro. Se quel posto ha cambiato da giovani la vita di molti di noi, non ha però cambiato granché Cosenza e la Calabria intorno. È andato tutto poco oltre la sua cerchia. Fuori è arrivato poco. Ma dopotutto, qualcosa di quello che è accaduto lì ad Arca ancora resta significativo: in fondo è la storia di un sogno. E un sogno frantumato si espia lungo la storia come una pena.

    L’Arca di Cosenza
    Studenti sul ponte Bucci all'Unical prima della pandemia
    Studenti sul ponte Bucci all’Unical prima della pandemia

    L’affresco post-meridionale della sua parabola è diventato l’allegoria capziosa di un’antropologia del casino calabrese. Dove il casino è tutto contemporaneo, ma stratificato e multiforme, una sinossi della storia che ancora sale di spessore come un soufflé ma non cancella nessuno degli strati irrisolti che vengono a galla dal bolo di un passato mai veramente oltrepassato, rubricato e digerito. L’Arca di Cosenza è un’erma bifronte, un sistema perfetto. Doveva essere l’inizio di un tempo nuovo. La rinascita, il meridionalismo applicato bene, il riscatto dei figli delle plebi, il trionfo della cultura meridionale.

    Delle facoltà di un tempo oggi sono rimaste le sigle da app alla moda, i Cal park, l’innovescion solo digitale, un recinto di poteri convergenti controllato da vecchi e nuovi lupi d’accademia. Ma quelli di adesso non fanno sogni d’utopia e non sanno insegnare come i buoni e i cattivi maestri di una volta, non sanno amare e non sanno scrivere bei libri. Sono lupi senza nulla di seducente, famelici e basta. In fondo in lingua calabra Arcavacata, il posto in cui è cresciuta l’università, significa “arca-vuota”, vacante, svaligiata. Un luogo dissacrato.

    Vecchie e nuove diarchie

    E a Cosenza da dove si ricomincia? Come si ricostruisce l’idea di un orizzonte comune, un’immagine di città? Cosenza oggi fa fatica a ritrovare i suoi simboli dopo il tramonto della sua grandeur provinciale, che si trascina ancora nella retorica un po’ stucchevole di “Atene delle Calabrie”, difficile da rinverdire. Come rimettere in piedi una classe dirigente credibile e adeguata ai tempi, dopo i fasti della Prima Repubblica, scandita da personalità discusse ma di grande rilievo come Mancini e Misasi.

    Dopo i due dioscuri cosentini, ministri della modernizzazione, del rigonfiamento terziario, delle opere pubbliche e del cemento, gli ormoni che hanno ingrandito a dismisura la nuova Cosenza senza farne però un organismo urbano dalla fisionomia compiuta, gli anni più vicini a noi sono stati quelli di una diarchia minore che ha però comandato da Cosenza sulla Calabria intera, regnando sui palazzi della politica cittadina, provinciale e regionale.

    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei bruzi
    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

    L’era dei due proconsoli, oggi tramontati e superati dai successori (anche in linea dinastica). L’età dei “due Maruzzi”, Occhiuto e Oliverio, di cui restano a futura memoria le feroci contrapposizioni e gli incroci di interessi trasversali, lo sciupio di luminarie e concertoni, i rodeo di cowboy in Sila e altre discutibili imprese. Da viale Parco incompiuto al tentativo abortito della metropolitana di superficie, fino alla celebrazione dei fasti di seconda mano dell’isola pedonale e del museo all’aperto su corso Mazzini.

    Il tramonto della cultura

    Una città che dall’avere avuto in passato un assessore alla Cultura di prestigio come Giorgio Manacorda, opta per non averne più(ancora oggi, sotto il neosindaco Caruso) neanche uno. Un movimento musicale e teatrale ormai privo di riferimenti, con la crisi cronica del teatro di tradizione Rendano, con la fine della leggenda off del Teatro dell’Acquario (diventato un bistrot) e con lo stop definitivo dato alla prosa pubblica, cessata a Cosenza con il Teatro Stabile di Produzione, il Morelli (oramai disabilitato, ma diretto in passato da uno scrittore come Enzo Siciliano), la vita culturale della città di Telesio è scesa dalle poltrone di velluto della cultura dei salotti buoni di un tempo alle parodie postmoderne dell’impegno.

    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza
    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il declassamento è presto approdato ai surrogati ultra pop degli “eventi” e degli happening piccoli e grandi, come la fiera di San Giuseppe, i concertoni di Capodanno, la Festa del cioccolato sul corso. E anche peggio alla quota dei festivalini celebrativi dell’eclettismo post-tutto intitolati a invasioni e re barbarici, fino alle celebrazioni elevate a idoli identitari farlocchi. Mentre servizi pubblici, scuole, istituzioni e centri culturali con alle spalle tradizioni centenarie presenti in città rimangono orfani e languenti, la Casa della Culture sbarrata, biblioteche e importanti archivi pubblici disertati e allo sbando.

    La città tra resistenza e retorica

    Qualche residuo fermento antagonista e qualche punto di resistenza culturale e civica sopravvive comunque o ha fatto in città storia recente: l’eredità del collettivo Gramna, Radio Ciroma, i gruppi di lotta per la casa, gli attivisti per il centro storico e i beni pubblici, un po’ di associazionismo laico e di solidarismo cattolico, una piccola casa editrice indipendente, CoEssenza, che anima il centro storico abbandonato, e una casa editrice senior che nonostante la crisi festeggia i settant’anni di vita (Pellegrini, la più antica fondata in Calabria e attiva a Cosenza dal 1952, con più di 5.000 titoli in catalogo).

    Ironia e devozione al cuddrurieddru sui muri di Portapiana a Cosenza

    Pochi simulacri di gusti popolari, trasversali e bipartisan, facilmente assimilabili al neofolklore cittadino, sopravvivono strenuamente all’omologazione. Superimposti, aldisopra di tutto e sempre presenti nella fiorente retorica identitaria che a Cosenza abbonda e celebra gli sparuti simboli eredità di una presunta autenticità e di un passato metastorico in cui si fatica a riconoscersi. Fin troppo elementari però, anzi alimentari, se il richiamo di consolazione sempre più sbiadito da opporre alla crisi di valori e al caos dei tempi nuovi è quello offerto dalla insuperata triade gastronomica di tradizione locale formata da scirubbetta invernale (neve e miele di fichi), dal must silano delle patate ‘mbacchiuse (patate al tegame), e infine dal trionfo incontrastato dei sempiterni cuddrurieddri, le ciambelle fritte (prodotto non originalissimo in verità) presenti in ogni stagione e in ogni dove, assunte in funzione totemica, autentiche e insuperabili colonne d’ercole della più autentica distinzione cittadina.

    Un patto civico

    Ma quel che difetta oggi in città è, soprattutto, il tratto culturale, una tradizione di stile che contraddistingueva un tempo non solo le elìtes vere, ma segnava il carattere stesso dei cosentini. Una sorta di principio fondativo, di patto civico. Doti che certo non facevano difetto tra gli intellettuali e le diverse famiglie politiche cosentine del passato, intorno alle quali si tenevano circoli e cenacoli culturali come quelli che si formarono intorno a personalità di opposte appartenenze ideologiche, ma di pari valore cultuale e peso politico.

    Dario Antoniozzi
    Dario Antoniozzi

    Figure colte e appassionate come quelle dei comunisti Gino Picciotto (che fu il primo a sollevare le questioni del centro storico abbandonato già alla fine degli anni ’80) e di Umile Peluso; di democristiani interpreti delle istanze del solidarismo cattolico e popolare come Riccardo Misasi e Dario Antoniozzi; di fuoriclasse della politica ragionata in forma di diritto e di azione riformatrice come Fausto Gullo e Giacomo Mancini, a cui si deve nel 1949 l’istituzione del prestigioso Premio Sila, riesumato dall’oblio nel 2010 per volontà della Fondazione Premio Sila, attiva in città con appuntamenti letterari e un premio nazionale.

    Ritratto di un califfo

    Quello stesso Mancini a lungo idolatrato come idealtypus weberiano del cosentino da esportazione, il cui carisma di grande politico, insieme all’indubbia caratura culturale, risaltano anche da un indimenticabile ritratto a firma di Gianpaolo Pansa (in una pagina de La Repubblica del 1987). Quando Pansa lodando la raffinata retorica della “orazione manciniana”, definiva Mancini «Califfo di Calabria». Poche righe, ma balza fuori prepotente la sua personalità da ottimato, il notabile di un Sud giunto al successo della scena politica nazionale.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    Il socialista modernizzatore e l’uomo di Stato che non perde però – nelle più pastose pennellate del dipinto di Pansa- il suo tratto aristocratico e l’aura da gran provinciale, con quel suo parlare lento e colto e le sz arrotate da cosentino di lignaggio, con «quel profilo da gran signore che tutto ha visto e tutto ricorda, quelle occhiate di sbieco che suggeriscono tante cose, quell’eloquio lento e solenne, senza impennate, le parole bene incise dalla voce nasale ma ricca di zeta che son lame di rasoio».

    La classe dirigente dei galoppini

    Pansa senza saperlo metteva in enfasi in Mancini anche quel tratto di vanità colta e di autorevolezza affluente che tutta l’intellighèntzia cosentina di un tempo aveva ereditato o appreso a forza di educazione colta e di buoni studi, senza i quali non si faceva politica e non si diventava classe dirigente. Una classe dirigente tutta passata, sino agli anni del boom, dalle severe e pensose aule neoclassiche del prestigioso liceo-ginnasio Bernardino Telesio.

    A sostituirla sulla scena politica cittadina di oggi, sbriciolati i partiti e le ideologie novecentesche, è il rampantismo social di un generone politico ignorante e rozzo, specie antagonista naturale di libri e sensibilità culturale, ma sempre in primo piano, fungibile e riposizionabile a piacere, che vanta gli addottoramenti dell’università della strada e carriere veloci percorse all’Asp o a Calabria Verde, per lo più formato da galoppini ed ex portaborse, tenutari di clientele spesso eredità di notabili di terza fila della vecchia politica non ancora in disarmo.

    Princìpi condivisi

    Gli ultimi testimoni di quella stagione trascorsa della buona politica cosentina, raccontano invece un tratto colto e dialogante che, dalla politica al costume, quale che fosse poi il colore di queste élite cittadine, improntava lo stile della vita collettiva sino agli strati più popolari. Formando una solida comunità di presupposti di convivenza e di princìpi civici e culturali condivisi. Significava saper stare al gioco della dialettica, saper tollerare e comprendere le ragioni opposte alle proprie.

    C’era un peso per la cultura e i per i ragionamenti. Le parole spese nella dialettica che alimentava la cultura e il dialogo politico tra questi grandi cosentini del secolo appena trascorso che frequentavano i libri e parlavano un italiano di buon gusto erano un contributo devoluto sempre alla causa della convivenza civile. Anche nella polemica più aspra c’era il sapore della civile conversazione, della conoscenza progredita, del pensiero alto e della buona critica.

    Lo stile smarrito

    Era un costume, una postura di stile a cui la città aderì fino a quando si sentì provincia colta e civile, ancora lontana dalle smanie degli arruffapopolo in cerca d’autore e dei palazzinari speculatori con la fissa della Grande Cosenza. Ora Cosenza è una città che ha smarrito lo stile, la misura di una terza via che non sia quella punzonata dal potere avventizio degli snob dialettofoni e ignoranti al potere, dei radical chic con risvoltino e premio letterario prêt-à-porter.

    Auto sul ponte di Calatrava
    Auto sul ponte di Calatrava

    Quella dei nuovi ricchi col Suv, della cricca dei populisti più rozzi che fanno la gara ai quattrini con gli ipermercati e il nuovo cemento spalmato in giro dagli immobiliaristi d’assalto. Quelli della Cosengeles dei grattacieli tirati su ben oltre i 15 piani, gli artefici della stesa di cemento sterile e privo di socialità che ha stampato la stecca di casermoni stile eclettico e finto international style che adesso corre ininterrotta dal nuovo land marker artificiale del più recente ponte sul Crati, opera modaiola e seriale dell’archistar Calatrava. Un blob di conglomerati edilizi che, scivolando da Macchiabella di via Popilia primo lotto, oltrepassa abbondantemente la frangia di Quattromiglia, fino a spandersi oltre gli ultimi compound dei capannoni di concessionarie di auto di lusso e dei lotti dell’area industriale di Rende-Castiglione Cosentino-Montalto.

    Il fantasma della città

    Di notte il fantasma scheletrico della nuova Cosenza sbiadisce nel gelo umido della valle del Crati distesa nelle luci fatue di questa Cosengeles disciolta nel buio intermittente dei suburbi. L’oblunga città-stradale, cullata da un’inquietudine che lentamente illumina il paesaggio fuori dalle auto che sfilano tra le cortine di costruzioni nuove e gli scheletri di palazzine mezzo abitate sorte tra gli spigoli di campagne smangiate, ormai guaste e desolate. Così per evitare la sensazione disunita e precaria che si apre sulle albe insonni di certe strane giornate, qualche volta cambio strada e vado a guardare la città dall’alto.

    Dalla rotabile che dai quartieri in collina porta dentro la città dal canalone di Laurignano, fin dentro le vecchie case della Riforma, vicino ai padiglioni scorticati dell’ospedale dell’Annunziata, e poi si perde dentro il labirinto dei cantieri non finiti, tra le strade provvisorie e senza nome dei nuovi lotti dietro via Popilia e Malavicina.

    Sotto la luce stordita di pochi lampioni la città nuova si macchia di una consistenza fatua e polverosa, ha qualcosa di stregato. Già dalla strada di mezza costa verso la città, i grossi pezzi del Lego che compongono i quartieri nuovi distesi come una colata di lava rappresa nella lunga valle del Crati, diventano immagini inutilmente vaste, imprecise e sfocate. I semafori si illuminano esitanti sul giallo, qualche corriera di linea parte per destinazioni più lontane dalla stazione degli autobus e qualcun’altra si infila stancamente lungo il viale degli arrivi, già carico di studenti e pendolari raccolti dalle pensiline dei paesi della provincia.

    L'autostazione a Cosenza
    L’autostazione a Cosenza

    I piazzali della stazione dei bus già molto prima del mattino sono fitti di impiegati partiti nel cuore della notte per arrivare in tempo negli uffici. Le facce smunte e intontite dal sonno delle donne ucraine che vanno a prendere servizio nelle case borghesi, o che staccano da una notte passata a fare le pulizie nei condomini. Il resto della ressa sono migranti, operai e manovali dei paesi che devono ancora arrivare a destino, comandati come me ad aprire svogliatamente il turno della vita del mattino.

    Hinterland, traffico e casermoni

    Poi il traffico si riversa di nuovo alla periferia nord di Cosengeles, dalle parti di Roges, dove si distende l’hinterland assiepato di enormi casermoni squadrati e di crocevia illuminati da grandi lampade che guidano come rastrelliere il traffico dei viali verso l’imbocco dell’autostrada. Ancora oltre, il traffico va a sfiatare verso l’università e la statale che riporta alle colline scure della vecchia Arintha e alla branca della 107.

    Il Tirreno visto dal valico della Crocetta, tra Cosenza e Paola
    Il Tirreno visto dalle montagne tra Cosenza e Paola

    Lì la strada si lascia alle spalle le ultime sagome della Grande Cosenza, e risalendo prende la rincorsa per prepararsi a scavalcare tra una spira di tornanti la sella più alta dell’Appennino, precipitando subito dopo dall’altra parte della costiera fino a Paola. Solo in quel punto gli ultimi sentieri della grande periferia sembrano assottigliarsi e scomparire, dileguando i loro confini contro il buio denso e magnetico della montagna che separa Cosenza dal Tirreno, col mattino che si apre già davanti al presagio del mare e ai suoi spazi smisurati. [continua…]

  • IN FONDO A SUD | Il sacco di Cosenza, dal sogno del Boom all’incubo della speculazione

    IN FONDO A SUD | Il sacco di Cosenza, dal sogno del Boom all’incubo della speculazione

    Ogni città con la sua storia, con i suoi simboli, con le sue architetture, con il suo via vai, ci parla di sé come luogo sociale, perché è la casa di molti. Ma ogni città, e in Calabria non sono parecchie, nello stesso tempo è un luogo dell’immaginazione e della costruzione dell’avvenire. Le città più dei paesi ci mostrano un tempo in movimento. Dove comincia Cosenza? Per me Cosenza, e tutto quello che rappresenta, comincia da Paola. Il posto in cui sono nato. E da cui sono sempre fuggito.

    A portarmi via era, da ragazzino, la vecchia littorina della cremagliera, poi il bus di Preite, poi l’autostop, anche due volte al giorno. Cosenza per me era come una calamita di irrequietezza pura. Era Cosenza in my mind. Eppure i mei primi ricordi di Cosenza non sono affatto simpatici, anzi.
    La prima volta che ci sbarcai, in treno, avevo al massimo otto anni, dopo la metà degli anni ’60. Era per passare una visita oculistica all’Enpas, negli ambulatori tetri di Via Miceli. Ero un bambino miope e i primi occhiali li misi proprio a Cosenza. Comprati dopo la visita con la ricetta dell’oculista dell’Enpas che si chiamava Cozza. E che mi mandò a prendere montatura e lenti da un ottico che si chiamava Cozza-Le Pera, su Corso Mazzini.

    Corso Mazzini negli anni '60
    Una cartolina degli anni ’60

    Ma il ricordo di quelle prime volte a Cosenza era anche scendere dalla littorina che sbuffava lenta e vedere ancora davanti alla stazione in centro le carrozzelle con i cavalli alla stanga e i cocchieri di piazza che davano la biada e le carrube da secchi di latta e sacchi di iuta alle bestie ferme coi paraocchi di cuoio in mezzo al traffico del primo mattino, già fumoso e strombazzante di 600 e vecchie Fiat Millecento. Si faceva sempre con mio padre una passeggiata e io mi incantavo davanti alle vetrine fornite di tutto dei negozi di Corso Mazzini. Era la cosa più vicina al cinema che avessi mai visto. Ma l’incanto più grande era quando si entrava nei “grandi magazzini”, i primi templi provinciali del consumo nati negli anni del Boom.

    Delizie di Cosenza

    Sul corso c’erano Bertucci e, soprattutto, la Standa. Quando si entrava alla Standa non era solo per comprare qualcosa che a Paola non c’era. Alla Standa c’erano le “Signorine”. Le mitiche commesse, giovani e belle, con le divise color pastello all’ultima moda e una specie di crestina o foulard in fronte. Erano tutte ben pettinate, con le unghie laccate di rosso e un bel rossetto vivace sulle labbra che sembravano attrici. Le voci e gli accenti flautati risuonavano ai microfoni per le chiamate alla cassa. Era un paradiso di delizie la Standa.

    Clienti in fila all'ingresso della Standa
    Clienti osservano le vetrine della Standa di Cosenza negli anni del Boom

    Fuori si passava davanti a un chiosco di cravatte fornitissimo e poi ad un altro dove c’era una specie di pasticcere-acrobata, Ciccillo u caramellaro, che dietro un bancone fabbricava al momento caramelle. Stendeva la pasta di zucchero bollente e colorata manovrando spatole e attrezzi con l’abilità di un funambolo, poi quel serpente coloratissimo si trasformava in bastoncini di zucchero. Il resto lo tagliava con una forbice e spezzava in tocchetti grossi le caramelle che si vendevano a dozzine. Io prendevo sempre quelle frizzanti al limone, colorate a strisce di verde e di giallo. Poi c’era la fermata all’edicola vicino al Comune, dove per consolazione dei pianti che mi facevo per gli occhiali che non volevo mettere, papà mi comprava gli albi a fumetti del grande Blek e di Capitan Miki e pure le bustine delle figurine Panini. Prima o dopo il passaggio dall’ottico, che nel frattempo era diventato Ambrosio.

    Enzo Giudice, noto a tutti i cosentini come "Cicciu 'u cravattaro"
    Enzo Giudice, “Cicciu ‘u cravattaru”, nel suo chiosco
    Due personaggi da cinema

    A quei tempi si incontravano per strada altre due strane attrazioni cosentine, personaggi eccentrici che ricordo nitidamente, come fossero usciti da un film. Il primo era un tizio dal fare dimesso con una cassetta di legno e dei santini in mano che chiedeva con molliccia e querula insistenza un’offerta per Sant’Antonio. Erano dieci lire, dieci lire: «Picciri’. mi ci metti dieci lire pe’ piaciri?». La richiesta mi metteva sempre a disagio.
    Poco più avanti si parava una donna grassa con i capelli giallissimi, vestita con stoffe colorate, collane vistose e grandi orecchini. Aveva sul marciapiede del corso una specie di banchetto per le riffe dietro cui stava seduta come una matrona, e un pappagallo sulla spalla che se compravi un numero l’uccello a un suo comando tirava via col becco da una specie di rastrelliera di carta il biglietto corrispondente.

    Giacinto Tarantino, “Cintuzzu Sant’Antonio i l’uartu“
    Giacinto Tarantino, “Cintuzzu i Sant’Antonio i l’uartu“, pochi anni fa su corso Mazzini

    Poi c’era l’immancabile visita di devozione (mia madre ci teneva che lo facessimo) alla chiesa di San Francesco di Paola, appena sopra il ponte Garibaldi. E prima di tornare a piedi alla stazione a riprendere la cremagliera per Paola, papà comprava un pane caldo e fragrante insieme a una guantierina di paste da riportare a casa. Era tutto buonissimo. Così, da quei primi viaggi, presi da ragazzo l’abitudine, anzi il vizio, di Cosenza.

     Il richiamo della città

    Era un posto pieno di richiamo: aveva l’aria della città, Corso Mazzini, il Rendano, i palazzi grandi, i bar sempre pieni e i negozi con le vetrine e le commesse eleganti, le automobili nuove. Una delle scuse per salire a Cosenza erano i traffici con gli zingari accampati tra le baracche di Gergeri e via Popilia. Io e una banda di lucignoli del quartiere ferroviario nei giorni di filone salivamo sul trenino per Cosenza e passavamo da loro a vendere il rame raccattato lungo i binari della stazione e dai resti avanzati dai lavori sulla ferrovia sotto casa.

    Ne ottenevamo in cambio un po’ di soldi e meglio ancora: fibbioni di ottone molto beat (quelli erano gli anni dei Beatles e dei teddy boys). Oggetti bellissimi di artigianato che in realtà erano per loro solo finimenti per cavalli, o anche le bellissime zingarole, gli scacciapensieri, forgiate da un fabbro al momento, con la linguetta di ferro che se non la sapevi suonare bene ti tagliava la lingua come una lama di rasoio.

    Pane e rose

    Poi quando divenni ancora un po’ più grande Cosenza la frequentai per la vecchia libreria Feltrinelli di Corso Telesio. Qualche volta, complice un vecchio funzionario del Psi messo lì a fare da libraio che chiudeva un occhio, rubavo i libri di letteratura e filosofia che non potevo comprarmi.
    Dopo il pane, le rose. Le rose erano le scorribande a Piazza Kennedy e quel formicaio di ragazzine vocianti che si aggrappavano sotto le ali del monumento di Baccelli. Poi venne il tempo del Teatro dell’Acquario e il Centro RAT, gli spettacoli di prosa impegnati di Antonante, i seminari del Living di Julian Beck e Judith Malina, di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, Mario Martone e Memé Perlini, la musica e le parole colte del teatro al buio, e quell’aria da off-Broadway di provincia che si respirava lì intorno.

    La vecchia piazza Kennedy
    La vecchia piazza Kennedy a Cosenza col monumento di Baccelli trasferito poi su viale Mancini

    E poi lì, accanto alla sala dell’Acquario, c’erano le ballerine della scuola di danza della Sisca. Giravo sempre lì intorno. Le ragazze della scuola erano belle, sottili, diafane, eleganti, allegre e garrule come rondini di primavera. Poi per me venne il tempo serio e pensoso dell’Università di Arcavacata, Arca, la nostra Macondo. L’Arca di Noè del nostro diluvio generazionale. Arca fu l’incubatore della mia metamorfosi da figlio di ferroviere scapestrato e sognatore a studente modello di sinistra-incazzato-impegnato e, infine, professore.

    Tempi moderni

    E intanto mi accorgevo che anche Cosenza un anno dopo l’altro dilatava i suoi confini, cambiava di fisionomia. Diventava grande, sempre più grande e piena di palazzoni di cemento, nuovi, grigi e colorati, attraversati da strade piene di auto. Tutti segni che si vedevano già dai finestrini della Littorina prima di scendere alla stazioncina-capolinea di Cosenza-Piazza Bruzi. Di mezzo c’era passata altra storia e gli effetti della politica, i grandi cambiamenti, la “modernizzazione”. La fame di terra e la crescita del cemento in alto e in basso, dopo l’ininterrotta spinta urbanistica e speculativa iniziata negli anni del Boom, giunge al suo apice a Cosenza dopo che una richiesta di “depennamento dall’elenco delle zone sismiche di secondo grado” trova accoglimento alla fine degli anni ‘60.

    Il limite di prudenza che aveva stabilito sino ad allora la sopraelevazione dei nuovi edifici in città “sino ad un massimo di cinque piani” fu innalzato con un provvedimento ad hoc approvato dai governi di centrosinistra dell’epoca. Decisivo l’accordo dei due massimi dioscuri della politica cosentina, Giacomo Mancini e Riccardo Misasi. Sono entrambi alfieri della modernizzazione calabrese al cemento e dell’espansione clientelare del terziario assistito, settori che infoltiranno le fila della pubblica amministrazione e della piccola borghesia urbana che in quel momento rappresentano il contingente più significativo della nuova popolazione inurbata che affollerà la Cosenza in espansione di quegli anni.

    Quali sono stati i ministri calabresi nella storia repubblicana
    Giacomo Mancini al tavolo delle trattative per la formazione del primo governo Andreotti
    Il sacco di Cosenza

    L’elevazione delle nuove costruzioni oltre il limite del quinto piano, svecchiando l’aspetto urbanistico della città, “avrebbe inoltre reso accessibile alle classi meno abbienti l’acquisto dell’alloggio”. Gli amministratori cosentini dell’epoca salutarono la rimozione del fastidioso vincolo sismico come “uno strumento idoneo per il ribasso dei prezzi delle aree fabbricabili”. In realtà risulterà presto chiaro che quell’abolizione, determinando “una sensibile riduzione per i costi dell’edilizia”, avrebbe favorito le crescita delle rendite immobiliari. S’intensificò l’attività di speculazione edilizia nelle aree in piano, un tempo agricole, ai piedi del centro storico. E si diede così la stura all’abbandono dei vecchi quartieri del centro storico e delle prime addizioni urbanistiche tardo ottocentesche e novecentesche.

    Fu l’inizio del sacco edilizio della città. Da quel tempo dura ancora oggi in modo inarrestabile. Cosenza fu tutto un fiorire di gru e di cantieri. Quella poderosa spinta alla speculazione partita negli anni ’60 e non ancora arrestata dalla crisi si è rivelata una manna per cementisti, costruttori e palazzinari. Già nel 1971 Cosenza raggiunge di gran carriera la quota di quasi 118.000 abitanti residenti nel circuito della città nuova che si dilaterà ben oltre il limite del Campagnano. Un record che neanche la ricorrente retorica della “Grande Cosenza” di oggi sfiora, se non raccogliendo i cocci sparsi della cosiddetta area vasta formati dai comuni limitrofi, oramai conurbati.

    Una zuppa di città

    Nel frattempo sono cresciuti quartieroni sempre più nuovi e più grandi, nuove zone residenziali, periferie e suburbi, svincoli, rotatorie, semafori e incroci, bretelle, viali attrezzati, aree commerciali e dirigenziali. Tutto tenuto insieme solo dal traffico e da strade che spesso si perdono nel vuoto. Un groviglio più o meno fitto e disunito, che forma tutt’al più una zuppa di città. Per ora c’è solo il simulacro, il fantasma scheletrico del cemento armato, a disegnare le linee interrotte della Grande Cosenza. Ma non gli abitanti, i cosentini. Anzi i cusendini. Gli abitanti degli avamposti della nuova Cosengeles, sono invece sempre di meno: oggi assommano poco più di 65mila, da 118 mila che erano cinquant’anni prima. Cosenza però, pur se gonfia di ormoni consumistici e cemento da metropoli post moderna, non è ancora diventata una vera città metropolitana, nonostante le sue ambizioni provinciali.

    I palazzi cresciuti a Cosenza intorno all'imbocco dell'ex Salerno-Reggio Calabria
    I palazzi cresciuti intorno all’imbocco dell’ex Salerno-Reggio Calabria

    Dove comincia e dove finisce Cosenza adesso? Non è mica davvero Cosengeles. Eppure non si capisce che geografia abbia, che volto voglia mostrare, che postura voglia tenere. Strade, e Cosenza in mezzo a un groviglio di strade: la 107 Silana-Crotonese, che valicando l’Appennino congiunge Paola all’autostrada del Mediterraneo (che una volta era semplicemente la Salerno-Reggio Calabria) e poi risale verso la Sila fino a toccare lo Ionio a Crotone; il lungo stradone che conduce ai Cubi Gregotti dell’università di Rende e a quella striscia slineata e disarmonica di grigi quartieri dormitorio che scende dalle colline presilane e dai suoi antichi casali e si salda come una frana che un chilometro dopo l’altro inghiotte tutto il fondovalle costeggiando le due sponde del Crati, fino alla soglie di Montalto, Taverna, Rose.

    I quartieri sul Tirreno

    È la Cosenza capitale del cemento facile che vorrebbe intitolarsi “area urbana”, dove l’urbano altro non è che il prolungamento isolato e zeppo di casermoni in cui la vita scorre ai lati della 107, della vecchia e nuova 19 delle Calabrie, prima di confluire nel traffico che si dirama ininterrotto sull’asse nord-sud, fino a scendere di nuovo verso Paola, sulla traccia tortuosa della statale 18, la prima Salerno-Reggio Calabria della storia. Per spegnersi poi a rivoli di sudore, polvere e catrame diuturni sulle spiagge del Tirreno.

    In mezzo, quel vasto e sfrangiato compound delle vacanze pendolari e low cost che è fatto di fitti di fortuna e delle seconde e terze e quarte case dei dannati dei bagni con famiglia al seguito. Vacanze al mare che sono i cubicoli all’implacabile calura d’agosto e le scatole da imballaggio delle due settimane con le famiglie al mare, in fila sotto i cavalcavia e i binari della ferrovia tra Torremezzo, San Lucido, la marina di Paola, Fuscaldo, Acquappesa, Sangineto: i quartieri d’estate dei cosentini.

    (le immagini d’epoca all’interno dell’articolo sono pubblicate sul gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)

  • Santa Lucia: dalla cuccìa ai Ferragnez senza più doni ai bambini

    Santa Lucia: dalla cuccìa ai Ferragnez senza più doni ai bambini

    Oggi è il giorno di Santa Lucia, il giorno del calendario che precede il trionfo dell’avvento, la luce del Natale cristiano, il giorno del sole che per la fede non conosce tramonto. È la giornata che coincide nella mappa del cielo col giorno del solstizio d’inverno. Dal buio alla luce. Santa Lucia segna infatti il passaggio tra la notte più lunga dell’anno e il giorno che per la prima volta accorcia le tenebre della notte invernale. È la giornata che vede mescolarsi la commemorazione cristiana della santa protettrice della vista e della luce con simboli e liturgie precristiane e ancestrali molto più antiche.

    Demetra e Kore
    Demetra e Kore

    La festa cristiana coincide infatti sincretisticamente con il mito pagano della vittoria della luce sulle tenebre. Demetra ritrova la figlia Kore sequestrata dalle tenebre e riemersa alla luce. Attraverso la notte più lunga e oscura dell’anno, la Dea Madre rigenera e riporta la vita dalla morte verso la Luce del Sole nuovo, in grado di riconfermare benessere, ricchezza e abbondanza per tutto l’anno a venire, nutrendo i semi delle piante primaverili nel suo grembo invernale.

    A livello astrologico, la rappresentazione celeste della Grande Madre, e delle divinità femminili Demetra, Persefone, Artemide e Cerere (e Santa Lucia) si ritrova nella costellazione della Vergine (Virgo), dalla natura astrale femminile e associata alla fertilità e alla purezza. La stella più luminosa della costellazione della Vergine si chiama Spica, ovvero la “spiga”, la cui levata nel cielo era tradizionalmente connessa nel mondo contadino al periodo dei raccolti e della mietitura del frumento e degli altri cereali.

    Il giorno della cuccìa 

    Questo in Calabria, e soprattutto nella provincia di Cosenza, è il giorno della cuccìa (dal greco koukkìa). È una preparazione alimentare tradizionale che ebbe origine nella Grecia antica, dove assumeva in origine i connotati di un cibo rituale per la commemorazione dei defunti. Da qui la cuccìa si diffuse nei paesi dell’Europa orientale e nelle regioni dell’Italia meridionale, dove venne associata alla ritualità della celebrazione della santa della luce, venerata anche dalla chiesa ortodossa. Nella tradizione popolare calabrese la cuccìa diviene quindi l’alimento rituale che assurge a simbolo gastronomico dell’assimilazione cristiana dei miti antichi e del mondo greco-bizantino.

    Paese che vai, cuccìa che trovi

    In alcuni paesi della Sila Greca, la cuccìa è un dolce realizzato con ingredienti di antica tradizione: grano, noci, miele di fichi (o di mosto) e, a piacere, cannella. A Mendicino, piccolo centro di origine medievale a pochi chilometri da Cosenza, la sua preparazione e consumazione sono parte integrante delle celebrazioni in onore di Santa Lucia, a cui la comunità è molto devota.

    Cuccìa in preparazione a Mendicino
    Cuccìa in preparazione a Mendicino

    La cuccìa mendicinese è composta da 13 ingredienti (come il giorno del calendario cristiano in cui si commemora la santa della luce) tra cui molti legumi e cereali: ceci, cicerchie, fave, piselli, lenticchie, fagioli, orzo, grano, poi castagne, olio d’oliva, sale. Il composto si prepara dopo lunga cottura in un calderone che, nel dialetto locale, prende il nome di quadara. La tradizione degli antichi rituali di condivisione vuole che la pietanza sia consumata in piazza, nel pomeriggio del 13 dicembre, accompagnandola con del pane caldo e un bicchiere di vino.

    Con la cioccolata a Paola

    Sempre nel cosentino, a Paola, patria di San Francesco, patrono della Calabria, la cuccìa tradizionale è pure un dolce. La pietanza infatti assume le fattezze di una cioccolata calda arricchita dall’aggiunta di noci, scorza d’arancia, uva passa, grano bollito, cannella e chiodi di garofano. La sera del 12 dicembre, secondo la tradizione, ogni famiglia prepara la cuccìa, affinché durante la notte Santa Lucia possa imprimere il suo segno su di essa e da quella notte favorire la rinascita del sole per riportare luce e calore. Il giorno successivo il dolce viene scambiato tra amici e parenti.

    Cuccìa al cioccolato
    Cuccìa al cioccolato – I Calabresi
    La zuppa presilana 

    Vicino a Cosenza, nei comuni della cortina presilana, la cuccìa, che si mangia soprattutto lontano dal Natale, è invece ancora una volta una zuppa salata che si prepara con grano bollito e carne di capra o maiale, abbondantemente condita da spezie. La tradizione di questi luoghi vuole che il piatto venga preparato in tre lunghe giornate, passando per varie fasi: la pulizia del grano, la sua macerazione in ammollo, e poi la bollitura in un calderone e la cottura finale nel forno a legna, in un recipiente di terracotta che è detto tinìellu.

    La versione presilana della cuccìa
    La versione presilana della cuccìa – I Calabresi

    Il nome popolare della pietanza “cuccìa” deriverebbe dal processo di selezione del grano che veniva fatto a mano chicco per chicco per separarlo dalla veccia. Nell’area dei Casali cosentini il piatto è anche collegato a una tradizione devozionale che viene fatta risalire al XXVI sec. quando fu edificato il convento di San Francesco di Paola a Pedace, costruito sui resti del cenobio della confraternita di Santa Maria della Pietra.

    Santa Lucia portava doni 

    Un tempo non molto lontano, ben prima dell’invenzione di Babbo Natale, Santa Lucia in Calabria era portatrice di doni e di abbondanza e visitava le case proprio nella notte tra il 12 e il 13 dicembre. Era la Santa della luce che viaggiando a dorso di un asino portava i doni ai bambini. Anche l’asino sul piano simbolico è un animale collegato prima che alle tradizioni cristiane dell’avvento, ai miti pagani del mondo saturnino, connesso alle forze della natura, alla terra, alla morte, ma è anche simbolo di regalità, di umiltà e di saggezza.

    Un disegno che raffigura Santa Lucia e il suo asino mentre portano doni ai bambini – I Calabresi
    Le offerte per la santa

    La sera prima del 13 dicembre, i bimbi in attesa dei doni lasciavano delle piccole oblazioni alla santa e alla sua cavalcatura, vere e proprie offerte rituali. Arance e mandarini, noci, una fetta di pane, mezzo bicchiere di vino rosso per la santa attesa ospite per la notte; e anche l’asino, fedele compagno di lavoro di contadini e braccianti poveri, riceveva a sua volta un premio di doni particolari portati nelle stalle contadine in quella notte di incanti, come fieno, oppure farina gialla, acqua e sale per la sosta della notte. La notte più lunga dell’anno passava così, tra attese e incanti infantili. Poi il giorno tornava a risplendere.

    Il dopo Occhiuto senza arredi e lustrini

    Di passaggio sul corso Mazzini a Cosenza ho visto, mutatis mutandi, come oggi, si ricorda la festa di Santa Lucia da queste parti, il giorno della luce che risorge dall’inverno, la prima festa dell’avvento che precede il Natale. Non sono più gli incanti pasoliniani del vecchio mondo contadino a far luce, le povere cose della vecchia Calabria sono, piaccia o non piaccia, ricordi lontani o occasioni di ritrovo gastronomico. Il dopo-Occhiuto è decisamente più sobrio di arredi e lustrini, e in città c’è risparmio di quelle luminarie coloratissime e bizzarre che contraddistinsero lo scenario urbano delle festività e della Cosenza by night degli anni ruggenti.

    Luminarie su corso Mazzini durante il decennio da sindaco di Mario Occhiuto
    Luminarie su corso Mazzini durante il decennio da sindaco di Mario Occhiuto

    Ovunque, invece, occhieggiano le super offerte di Natale e le lusinghe dei negozi di telefonia. E soprattutto spiccano le proposte di molte storiche rivendite di ottica e occhialeria di Cosenza che propongono per santa Lucia grandi sconti per le griffe firmate di occhiali da sole, montature costose e modelli alla moda. Santa Lucia dei nostri giorni è la patrona degli occhiali da sole in versione fashion design alla Ferragnez. E, invece della palma del martirio degli occhi nel piatto, preferisce il “trattamento antiriflesso e le lenti fotocromatiche che sono in grado di proteggere gli occhi dalle radiazioni UV e dalla luce solare, dannosi per il cristallino e la retina”.

    In tempi di rilancio dei consumi pop, in mezzo al Covid che in Calabria, proprio allo scoccare di Santa Lucia, coincide col giorno che dalla luce bianca declina invece pericolosamente verso l’allarme a luce gialla, la luce che sorge è questa. È pur sempre una tradizione che si rinnova. Forse.

  • IN FONDO A SUD | Il treno della memoria all’incontrario va

    IN FONDO A SUD | Il treno della memoria all’incontrario va

    Il FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) ha eletto la linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza “Luogo del cuore” per il 2021. Ovunque cresce l’interesse, anche turistico, per le ferrovie storiche. Nessuno in Calabria ha finora pensato che valesse la pena di fare sul serio qualcosa per salvare e ridare valore a quel che resta del tracciato dismesso dell’epica tratta Paola-Cosenza. Eppure ha una storia che richiama fatti, personaggi e circostanze che sono patrimonio comune e meritano di ritornare a fare memoria, per tutti.

    La vecchia cremagliera

    La Paola-Cosenza fu una straordinaria realizzazione dell’ingegneria ferroviaria dei primi del ‘900. Ai suoi tempi sfidò i limiti fisici e i vincoli geografici della vecchia Calabria preunitaria per creare finalmente il primo collegamento moderno tra la costa e l’interno. Rompeva così, col suo tracciato ripido e pericoloso, vinto con la potenza delle grandi macchine a vapore, una separatezza plurisecolare. Cosenza poteva vedere il mare che non aveva mai visto. La vecchia linea ferrata fu dismessa dalle Ferrovie dello Stato nel 1987. Cessò la sua vita a favore della nuova tratta veloce in galleria, la Santomarco, che buca ben 25 chilometri di Appennino calabro e unisce Paola e il resto d’Italia a Cosenza in meno di 25 minuti.

    Passeggeri in attesa della littorina a Paola
    Passeggeri in attesa della littorina a Paola
    La prima vaporiera

    “Il treno speciale” cominciò solo il 2 agosto del 1915 a risalire la china tortuosa verso la costiera con tre carrozze e un bagagliaio. Il convoglio partito dal capoluogo era «folto di sindaci, deputati e autorità prefettizie, e reso più gentile dalla partecipazione di alcune distintissime signore del pubblico». Quel giorno «fu accolto in trionfo alla stazione di Paola, alle 18 e mezza, dopo appena due ore e mezza di comodo viaggio».
    Prima dei treni si percorrevano i 40 chilometri tra Paola e Cosenza in non meno di 14 ore. Era un viaggio incerto e fortunoso su una scomoda vettura postale a cavalli, o un tragitto solitario a dorso di mulo o a cavallo. Chi non aveva fretta e denaro sufficiente per pagarsi la diligenza o non disponeva di un mezzo proprio (ed erano i più) non di rado si recava al capoluogo a piedi per sentieri di montagna. Non solo per il disbrigo di affari. Anche ogni giorno, a piedi, per frequentare le scuole d’avviamento o il liceo Telesio, come ricorda nelle sue memorie il medico paolano Francesco Ferrari.

    Dai soldati agli emigrati

    A Paola la stazione della tratta Battipaglia-Reggio Calabria, prima tra le “Grandi Opere” costruita dallo Stato unitario per il Sud, inaugurata nel 1895 dopo 20 anni di lavori, collegava già la costa al resto del paese. Scarsi i passeggeri, rarissime le merci movimentate. Questa prima grande strada ferrata per il Sud servirà per decenni, sin dalla guerra di Libia (1912) e poi oltre il primo conflitto mondiale, quasi esclusivamente, come le grandi strade dell’antichità romana, al trasporto di truppe nelle interminabili tradotte ferroviarie. Poi al deflusso umano di quell’altro immenso esercito in esodo che partirà dal Sud verso le due Americhe. E, dagli anni del boom in poi, per alimentare l’ininterrotta emorragia dell’emigrazione interna ed europea.

    La morte corre sui binari

    Questi binari ricordano anche l’orgoglio del lavoro dei ferrovieri, custodi delle ansimanti locomotive a vapore, e poi delle automotrici. Le eleganti littorine si arrampicavano un dente dopo l’altro su un percorso temerario e pendenze massime, solo grazie a tre tratte armate con “cremagliere speciali di tipo Strub”, dipanate per 23 chilometri sempre in salita tra boschi e burroni. Il convoglio solitario attraversava alti viadotti ad archi e gallerie buie e lunghe prima di aprirsi all’orizzonte chiaro e libero del Tirreno e alla vista liberatrice dell’agave.

    In “Aurora”, un vecchissimo film di Murnau, c’era un treno a vapore che attraversava una di queste foreste minacciose come se avesse appunto fretta di uscirne. Su una cartolina inviata da Cosenza negli anni ‘20 la mano anonima di un viaggiatore di passaggio aveva aggiunto a penna, accanto alla legenda stampigliata sull’immagine della “Stazione ferroviaria di Cosenza”, la parola “liberatrice”. Da quei primi tempi per anni sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza è sfilata un’anonima moltitudine umana. Di questi eventi minuti rimasti senza memoria le cronache restituiscono come sempre soltanto le tracce più spesse e rumorose. Come gli incidenti mortali, i viaggi fatali di cui purtroppo la vicenda della Paola-Cosenza non è mai stata avara. Sin da principio.

    La vecchia stazione di San Lucido
    La vecchia stazione di San Lucido

    Era la primavera del 1916 quando «una tradotta militare, percorrendo la tratta da San Lucido a Falconara Albanese, subì uno svio all’imbocco di uno dei ponti provvisori in legno gettati sul vallone di San Giovanni. Lo svio, dovuto al cedimento della sponda su cui poggiava il ponte, causò il ribaltamento di un paio di carrozze della tradotta affollata di militari e conseguentemente il precipitarsi delle stesse verso il fondo del vallone». Alla fine fra le lamiere sul fondo del burrone «si contarono 5 militari morti e il ferimento di numerosi altri». La tragedia si ripeté nel 1942, l’incidente fece allora 17 morti e 41 feriti.

    Testimoni di un’altra epoca

    La storia di questa ferrovia è anche storia della fatica degli uomini che giorno e notte, in condizioni spesso difficili e pericolose, vi hanno lavorato insieme lungo 72 anni. «Negli ultimi anni di servizio della tratta – mi raccontava un vecchio macchinista della Paola-Cosenza, Salvatore Manes (1923-2019) – il convoglio, stracarico di gente, per l’usura dei mezzi qualche volta scivolava sulle livellette. Oppure bisognava ripartire dopo una sosta urgente per riparazioni, sempre frequenti, che eseguivamo lungo la linea. Nel dopoguerra era ancora fresco il ricordo del disastro del ‘42 con tutti quei morti, e anche dei crolli sul vallone di San Giovanni, sempre lesionato e rabberciato alla meglio. Attraversarlo era un problema per tutti, per i viaggiatori e per noi ferrovieri. Ogni volta tiravamo un sospiro di sollievo. Mi è capitato di farlo finanche con le macchine a bassa velocità per le prove di carico, partendo dopo qualche scossa di terremoto. C’era sempre una nuova lesione. Ma quel ponte ancora sta lì».

    Il lungo addio

    Poi ci sono i ricordi «di quegli anni Cinquanta così poveri, o degli anni Sessanta. Gli anni dell’emigrazione: ricordo le automotrici ogni giorno stracariche di gente, gli emigranti con le facce scure, le valige logore arrangiate alla meglio. Partivano tutti a cercare lavoro: Milano, Torino, la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio, il Brasile, l’Australia. Ricordo quegli addii alla stazione fra pianti, baci e lacrime. La gente li salutava e li piangeva come morti quelli che partivano. In quegli anni noi ci sentivamo traghettatori di poveri e di dannati, non ferrovieri! Gente che portavamo via a migliaia dalle case di campagna, dai comuni del Vallo cosentino soprattutto, e della Presila. Li sbarcavamo a Paola sui lunghi marciapiedi della stazione da dove, i treni del sole si chiamavano, i direttissimi a lungo percorso, 12-15 carrozze e più, li avrebbero avviati come deportati, assieme ad altri calabresi, siciliani e lucani, nelle città del Nord o fuori dall’Italia».

    emigrati alla stazione di Milano
    Emigranti in attesa a Milano Centrale

    Sulle littorine fino al 1981 il vecchio macchinista ha trasportato ogni giorno da Paola a Cosenza anche tanti giovani. Sul vagone che partiva ogni mattina per Castiglione Cosentino e l’Unical, nei primi anni ’80 c’ero anch’io, studente di Filosofia. Figlio di ferroviere. Anche dopo l’apertura della superstrada 107, con l’autoservizio sostitutivo delle FF.SS, i treni della cremagliera Paola-Cosenza non si fermarono. Spesso le vecchie e fedeli littorine restavano l’unico mezzo di trasporto utile a tutti, studenti, lavoratori, pendolari, per raggiungere Cosenza e l’Università.

    Il treno per Ferramonti

    Col fascismo e la guerra, alla Calabria più povera sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza si mischiarono i deportati a Ferramonti di Tarsia. Accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo di Crati, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene, ebrei italiani, polacchi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi. Con i suoi 4000 internati Ferramonti divenne il più grande campo di concentramento per ebrei costruito in Italia. Poco lontano dai reticolati del campo, correva la diramazione del tronco ferroviario. Numerosi fra gli ex internati a Ferramonti hanno conservato un ricordo vivido di quei viaggi carichi di angoscia e poi schiusi alla speranza.

    L’ingegnere cecoslovacco Erik Novak con altri 300 ebrei stranieri, dopo tre settimane nel carcere di Poggioreale, era stato condotto verso la fine del settembre 1940 alla stazione di Napoli e da lì avviato con un treno sorvegliato verso una destinazione ignota: «Il treno viaggiò molto a lungo costeggiando il mare finché non si fermò alla stazione di Paola». Giunti a Paola, gli internati furono fatti salire a gruppi sui convogli a vapore diretti a Cosenza. «Lì a Paola – prosegue Novak – ci fecero trasbordare su un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera. A me pareva di andare su una funivia, come quella del parco Petrìn, di Praga. Salimmo col treno molto in su, verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti».

    Internati a Ferramonti
    Internati a Ferramonti

    A Cosenza gli internati cambiavano nuovamente per andare ancora più a nord, verso quel «un campo che sembrava costruito da poco». Molti ebrei in fuga da Ferramonti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ricordano ancora il trenino come un’immagine liberatrice: «Dalla collina dove presto ci trovammo si vedeva la ferrovia per Paola e si sentiva il treno che passava sotto il tunnel». Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo», un convoglio partito dai binari di Mongrassano avrebbe riportato i profughi rimasti fino a Paola e da qui verso la libertà.

    L’ultima cremagliera della notte

    Anche nella letteratura il fato ha inciso indelebilmente la storia della cremagliera da Paola a Cosenza nell’ansiosa geografia dei viaggi dei fuggiaschi. Un giorno d’estate del 1938 il destino si compie per Nora Almagià tra le pagine de La Storia di Elsa Morante. La scrittrice narra nelle prime pagine del suo romanzo sul destino dei vinti la triste vicenda di questa donna ebrea che per paura delle persecuzioni perde il lume della ragione.

    La scrittrice Elsa Morante

    Da Cosenza, dove abita insieme al marito, il maestro elementare anarchico Giuseppe Ramundo, fugge via con «l’ultima cremagliera della notte». Va a togliersi la vita lasciandosi annegare nel mare di Paola. «Qualcuno ricorda vagamente di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là in quei dintorni che è stata ritrovata. Lungo quel tratto della costiera, di là dalla ferrovia, si stendono dei campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneggianti nel buio con la loro distesa ondulante potevano dare l’effetto d’un’altra apertura marina. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata».

    Della vecchia tratta Paola-Cosenza, della piccola stazione di fronte al mare, c’è ricordo anche in un’altra pagina del romanzo. Giuseppe sale ogni dì sul trenino e si reca a Falconara: «Qualcuno, in passato, m’accennava – scrive la Morante – che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse proprio la cremagliera che sale da Paola su per il fianco della montagna. E io mi sono sempre immaginata che nel suo interno scuro e fresco all’odore del vino nuovo si mescolasse quello campestre dei bergamotti e del legname, e forse anche l’odore del mare, di là dalla catena costiera».

    I binari della stazione di Falconara Albanese
    I binari a Falconara Albanese
    Il progresso divenuto rudere

    Un miracolo d’ingegneria, uno scrigno di storie e paesaggi mozzafiato che, come il trenino di Harry Potter, potrebbe richiamare ancora oggi turisti e appassionati di ferrovie storiche da tutto il mondo. Invece ruggine, macerie, depositi dismessi, stazioni disabilitate lungo la linea sono tutto quel che resta del pathos di quella ingenua illusione di progresso. Oggi quei treni non ci sono più. Materiale da fonderia. Le vecchie stazioni sono ruderi scorticati, ricettacoli sfondati di rifiuti e rottami arrugginiti. Tracce di ricordi seppelliti nella fretta del presente.

    Scavalcata l’ultima cresta verde della costiera, quelli che una volta erano i chilometri finali percorsi in piano dai binari adesso svaniscono arruffati sotto il sole senza scampo di una periferia urbana. Auto incolonnate e traffico intenso a tutte le ore. Centri commerciali esagerati, capannoni di concessionarie di lusso e palazzoni pretenziosi dove una volta erano distese di olivi, campi verdeggianti di fichi, gelsi, tabacco e granturco che ombreggiavano accanto allo sbuffo delle locomotive. Accanto si alzano gli enormi cubi dell’Università disegnata dall’archistar Vittorio Gregotti.

    Un treno nella vecchia stazione di Cosenza
    Un treno nella vecchia stazione di Cosenza

    Siamo alle porte di Rende. Poi i binari soffocati dall’asfalto diventano viale Parco, fin dentro Cosenza, al capolinea della vecchia stazione cancellata, accanto al municipio. Tutt’intorno la conurbazione ingigantita dagli steroidi dall’edilizia intensiva dei quartieri nuovi e dalla crescita aggressiva della speculazione più distruttiva d’Italia. Al posto della ferrovia, sul lato dove più fiorisce il cemento, adesso scorre un filare quasi ininterrotto di costruzioni ecletticamente assiepate sul bordo della 107. La strada trafficatissima per il mare, che dal caos della Statale 18 risale da Paola fino alla Sila. Una vetrina ininterrotta di crescenti orrori urbanistici e di misero sfarzo provinciale. La Calabria di adesso.

  • IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

    IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

    […] Catanzaro è città complicatissima da raccontare in poche pagine, da fotografare in poche immagini. È impossibile tenerla ferma, costretta in posa. La sua dialettica è instabile, un’altalena di sensi opposti, oscillanti tra alto e basso, salite e discese. È un luogo sfuggente, molteplice, contrastante. L’intera fisionomia della città ha qualcosa di pericolante, sgangherato e diffratto. Sembra percorsa da una corrente alternata.

    Fuggito da Catanzaro per diventare Rotella

    Come la stessa ansia esaltata di una di quelle affiche cinematografiche fatue e sognanti sovrapposte alle vecchie pubblicità annonarie e alle belve circensi graffiate e strappate via in un gesto di sfregio carico di furiosa rabbia creativa, alla maniera iconoclasta di Mimmo Rotella. Mimmo Rotella, che fu il suo più grande e geniale artista-simbolo. Che da Catanzaro, per poter diventare Rotella, però, è fuggito, anche lui, prestissimo.

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    Un’opera dell’artista catanzarese Mimmo Rotella
    Il Marc Augé che non ti aspetti

    Qualche anno fa nel corso di un viaggio di studio in Calabria, a vedere Catanzaro c’ho portato in visita Marc Augé. Eravamo in macchina, guidavo io, lui guardava fuori: dopo un’ultima curva, sbucati dalla caverna buia del tunnel Sansinato, Catanzaro si parava improvvisamente davanti, alta fino al cielo: il suo skyline scosso da una specie di onda sismica di cemento e bastioni fatti di palazzoni in technicolor aggrappati a casaccio su una rupe a precipizio tra i due mari, in cima alla vertigine arcuata del ponte Morandi. E Marc Augé, l’antropologo inventore della nozione di “non luogo”, l’esegeta delle metropoli contemporanee e delle società post-tutto, davanti a questa sorprendente visione, ha esclamato, colmo di stupore: “et voilà Catanzaro!, c’est extraordinaire!”.

    L’antropologo francesce Marc Augé

    Non si sbagliava l’antropologo dei non luoghi, già a prima vista Catanzaro è un posto è sorprendente. La visione di quello che ti viene addosso dall’auto prima di infilare la bretella che sale fino al Ponte Morandi è senza scampo. Sbuchi fuori ed è un muro di palazzi e palazzoni, di case vecchissime e nuovissime, screpolate e compatte, alte fino al cielo, nude e malinconiche come l’azzurro allucinato dello Ionio.

    Catanzaro è un inganno del tempo

    La città nuova si rovescia ben oltre l’argine di creta grigia dalle colline di Germaneto, l’antico granaio del suo contado. I cantieri fervono, a ritmi folli, incessanti. Questo terreno incerto su cui avanzano le ultime propaggini urbane sfrangiate dalle ruspe dei cantieri e spellate da un vento proverbiale, è il lembo più stretto d’Italia. Oggi è la trincea fluttuante di una terra di confine. Eppure all’alba, da lontano, Catanzaro, la città capitale della Calabria di oggi, potrebbe ancora apparire a un viaggiatore sonnolento e svagato un antico caravanserraglio chiuso tra le dune di un deserto orientale. Un inganno del tempo.
    Catanzaro ha le sue stranezze, un’astuzia delle forme apparenti fissate nel suo carattere paradossale, è il suo contrassegno, il distintivo perdurante.

    Un capoluogo con l’anima da strapaese

    È diventata città e capoluogo nonostante la sua ristrettezza da strapaese, l’isolamento e l’incredibile discontinuità spaziale. La fame insoddisfatta di spazio contrapposta all’abitudine atavica alla separatezza e all’abbarbicamento, qui ancora contano molto. Specie oggi che ogni cosa è cresciuta a dismisura. Catanzaro non ha mezze misure, qui tutto pare da un momento all’altro frenetico o stagnante. Dopo l’agitazione folle del mattino, c’è la gora languente della controra catanzarese. La città si svuota. Certi pomeriggi d’estate il Corso rovente è divorato dai soffi riarsi dello scirocco. Circolano solo i matti e qualche furtiva ombra umana risucchiata dal caldo, fantasmi che slittano via attaccati ai muri.

    Tra i cubicoli delle sua antica cittadella murata Catanzaro ridiventa provincia meridiana e orientale: i suoi cento caffè a tutte le ore (un rito: tu pijjhasti u’ ccafhhè?), i baretti sempre affollati, il sapido cibo di strada (c’è in città un’Accademia che celebra il culto interclassista del Morzello, la sua piccante zuppa di trippe e interiora), il discutere a crocchi, lo sfottò ferocissimo, il dialetto ostentato come lingua scettica e iniziatica, il lento passeggio sul corso.

    Il Paparazzo di Fellini era un oste di Catanzaro

    Catanzaro un tempo nota per la fiorente arte della seta e dei velluti ereditata dai fondatori bizantini e dagli ebrei della diaspora mediterranea, conserva uno spazio residuale per la storia e l’aneddotica. Qui vi sopravvivono le sue espressioni più ineffabili e vistose, i suoi linguaggi mischiati, le sue figure più umane paradossali. I “cathanzarisi”, con le loro posture sguincie, gli ammicchi teatrali, le sue stradine stravolte dal traffico che sale addosso ai pedoni. Questa città sta dentro il mondo contemporaneo con un suo certo particolarissimo stile. Come quel Coriolano Paparazzo, il “grumpy hotelier”, l’oste affettato e petulante proprietario dall’Albergo Centrale (sull’attuale Corso Mazzini), di Catanzaro, di cui lo scrittore vittoriano Georg Gissing, di passaggio da questa “cima ventosa” nel 1897, lascia una gustosa e memorabile descrizione nel suo diario di viaggio. Ritratto che non sfuggì a Fellini, che in crisi creativa, tra le more della sceneggiatura de “La dolce vita”, spostò il senso di quel cognome ruzzante così tipicamente catanzarese e ne fece il famoso nomignolo del suo reporter, fissando così l’appellativo che designa ancora oggi universalmente i fotografi d’assalto.

    I paparazzi della Dolce Vita di Federico Fellini

    Un altro risarcimento culturale che curiosamente, per l’eterogenesi dei fini così frequente nella vicenda catanzarese, la città del ponte e del vento ha regalato al mondo. Come ricorda anche una targa-memoriale apposta dal Comune nel 1999 sul luogo del fatidico incontro cittadino tra lo scrittore vittoriano e quel catanzarese doc.

    Dopo un po’ sei “amicu meu” ma non troppo

    Del resto a Catanzaro è facile sentirsi ospite. Fare amicizie e, pure, inimicizie durevoli. La gente ti vuole conoscere, ti annusa e accoglie, cordiale, manierosa, e circospetta e diffidente insieme. Non importa da dove vieni, dopo un poco sei “amicu meu”. Ma dopo anni qui non ti levi mai di dosso la sensazione che resterai comunque altro, separato da loro, come uno straniero tenuto sempre sotto osservazione, un avventizio in uno stato precario. È una città che dissimula e ti tiene in sospeso Catanzaro. Ti fa sentire di passaggio, in equilibrio sulla soglia, sempre un po’ indecisa sul da farsi.

    Città dove contano le superfamiglie e i segreti indicibili

    Catanzaro è resistente, fortemente identitaria. Basta a se stessa. Con poco meno di 89mila abitanti, Catanzaro è una città conservatrice, sfiancata dagli intrighi, da vizi strapaesani e da inossidabili e nostalgiche liturgie sociali. È chiusa in cerchie impermeabili, raccolta intorno a superfamiglie, consorterie sempiterne e a segreti non sempre dicibili.

    Piazza Matteotti e via Indipendenza a Catanzaro
    Cosa scrivono Strati e Alvaro

    Un romanzo (dimenticato) dello scrittore Saverio Strati, “È il nostro turno”, pubblicato da Mondadori nel 1975, rappresentava una Catanzaro post-bellica attardata negli anni 50’ in un’atmosfera da ancien régime, esasperata da povertà e disagi materiali e dalle sue angustie provinciali da nobiltà decaduta. Il realismo di Strati metteva a nudo il carattere ipocrita, pavido e valetudinario dei piccoli burocrati e della classe media catanzarese. Prima di lui Corrado Alvaro, che a Catanzaro si formò e fu allievo del Collegio Galluppi, degli ambienti culturali e della vita cittadina a sua volta aveva scritto in modo acre e penetrante in “Mastrangelina” (uscito postumo nel 1960).

    Città di burocrati bocciata da Pasolini

    Le chiusure e l’ostinato narcisismo, “l’esasperazione rituale” di certi tratti del costume cittadino non sono sfuggiti neppure a un reportage di viaggio di Pier Paolo Pasolini, che in visita in Calabria, era di passaggio per le vie di Catanzaro nell’aprile del 1964, in compagnia di Elsa Morante, alla ricerca di volti interessanti per il suo “Vangelo secondo Matteo”. «Sono stato più volte a Catanzaro ed ho avuto sempre la stessa sensazione. Come tutte le città burocratiche, è una città un po’ triste e deprimente. Ha un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo. Non credo che possa considerarsi vita e quindi vivacità quella che caratterizza un certo tipo di società medio borghese, in cui i problemi, le ansie, le attività, nascono solo dalle preoccupazioni individualistiche di una grigia classe impiegatizia».

    Una Metropolis da fumetto

    Oggi Catanzaro incombe e svetta sui valloni quasi come una Metropolis da fumetto futuribile disegnata a mano libera sul canyon della Fiumarella, il profondissimo dirupo naturale che un tempo la separava dal mondo. Migliaia di veicoli che arrancano sulle corsie intasate e verso i ponti, risalendo come una corrente inversa la cima della città. Sembra la vecchia fotografia di un luogo arcaico simile a un forte medievale, un nido d’aquile o l’acropoli antica di una polis sorta a guardia dei due mari. Le vecchie mura del forte di San Giovanni e il suo centro storico fitto di piccole case costruite da arabi e bizantini resistono disperatamente aggrappate sul filo del precipizio, simili a naufraghi abbracciati agli scogli di un’isola.

    Prova a trovare un parcheggio

    Il traffico è impressionante, non c’è mai un parcheggio. Si continua a costruire negli interstizi, tra un vuoto e l’altro si elevano le gru. A Catanzaro ogni cosa si presenta in salita, stretta, cabrata verso l’alto. Puntualmente, ogni volta che ci arrivo, il colpo d’occhio mi sfrena verso certe sensazioni profonde e incontrollabili. Catanzaro scatena irrequietezze. Ha inquietudini erotiche e languori, qualcosa che mi ricorda sempre l’inizio e la fine di certe oscure e intricate storie d’amore.

    Un emblema del Sud di adesso

    Vista più da vicino ti accorgi che la Catanzaro che oggi si affaccia dal suo ponte sequestrato e malsicuro (ma dal traffico sempre ininterrotto) che spicca su questo panorama ondeggiante tra svincoli e flying bridges da far invidia a Los Angeles, è davvero, forse più di altre, una città-emblema del Sud di adesso. Caotica e annoiata, avvolta come un ottovolante dal traffico delle ore di punta e orlata da una spessa e screziata cortina di grandi edifici e palazzoni nuovi che si superano in altezza e tracimano passando come un’onda di cemento da un vallone all’altro, da un ponte all’altro. Uno spettacolo sempre impressionante. In uscita, verso il tramonto, un altro punto di vista cade sulla crosta ininterrotta di case e palazzi cresciuti ex novo a catasta, in un enorme intrico di vani, svincoli e anelli di circonvallazione, cubature e prospettive fuori scala, quasi a formare un vasto ed esteso termitaio umano.

    C’erano una volta le aquile di Palanca

    Altro che Magna Graecia delle migliori annate, come proclamano di queste contrade sconvolte le guide di un turismo nostalgico. Ma anche la Catanzaro del XXI secolo a suo modo resta tributaria dei miti. Un mito suo, araldico, nobiliare, da primatista, molto auto-costruito, sempre preteso e mai conquistato, che risorge ogni giorno anche come tema politico e civico. Un leitmotiv rinfocolato e respirato dai catanzaresi come tema identitario che si impone assumendo spesso le forme di un delirio collettivo piuttosto sconnesso. Dopo la crisi della politica, si pensi al tifo e alla squadra delle aquile giallorosse, che è dai tempi dello storico gol segnato nel 1972 da Mammì alla Juve e dalle gesta funamboliche del mitico bomber–tascabile “Massimé-pari-‘na-molla-Palanca” (tripletta alla Roma nel 1978) non riesce più a rinverdire i suoi allori calcistici, galleggiando con frustrazione crescente dei tifosissimi locali nelle sabbie mobili di una serie C molto maldigerita per le pretese di pubblico e dirigenti cittadini.

    Un posto da antropologia del disordine

    Passano gli anni e Catanzaro la osservo, come faccio sempre ogni volta che ci ritorno; resta lì come un geroglifico disegnato tra il ponte e il cielo meridiano. Sono un irrequieto, e il mio è mestiere che si fa in movimento. Ma Catanzaro si è infilata dentro il mio lavoro, e dentro la mia vita come un ospite. Sono quasi una trentina d’anni ormai. È qui, nella città capitale di quelle che una volta erano le vecchie “Calabrie” degli scrittori del Grand Tour, che faccio quella che Marc Augé chiama “antropologia della prossimità”, l’antropologia di quello che vivo e vedo da vicino, di quel che siamo, piaccia o no. Col tempo dentro questi sguardi incrociati Catanzaro è diventata così anche il luogo di molte pagine della mia scrittura. Dovrei dire, dopo tutto questo via vai, che la città dei ponti e del vento si è presa un posto, un posto non da poco, anche nella mia vita. È un luogo interessante per uno come me. È un posto da antropologia del disordine sudista. Anzi, per me, è la già a modo suo la capitale post-moderna del gran bazar calabrese.

    LEGGI QUI LA PRIMA PARTE: IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

  • IN FONDO A SUD | La Calabria e la cultura non si incontrano

    IN FONDO A SUD | La Calabria e la cultura non si incontrano

    La Calabria e la cultura non si incontrano. Neanche dopo che i fuochi fatui della propaganda elettorale si sono spenti. Restiamo ai fatti, a quelli di oggi. La politica non crede che il futuro di questa regione abbia a che fare con la “Cultura”. Che sarebbe anche quella cosa con la quale, in una democrazia degna di questo nome, si smette di essere sudditi e clienti e si diventa cittadini attivi e consapevoli. E non di rado, dato che la cultura «non è cosa libresca e astratta», ma appartiene «al mondo della vita ed è in grado di produrre effetti politici e di muovere l’azione storica» (A. Gramsci), è quindi anche “lavoro”, e col lavoro, persino in Calabria, si mangia. E invece no.

    Nessuno si meraviglia se manca l’assessore alla Cultura

    Dall’organigramma comunicato dal nuovo presidente della giunta regionale Occhiuto, a mancare è proprio un assessorato e un assessore regionale che nel nome in ditta abbiano proprio il sostantivo identificativo di “Cultura” (e non i suoi surrogati di marketing). Idem, è notizia di alcuni giorni fa, la scelta amministrativa fatta dal nuovo primo cittadino di Cosenza, Franz Caruso, che nella città di Bernardino Telesio, quella che un tempo ebbe fama di “Atene delle Calabrie”, ha pensato bene a sua volta, almeno per ora, di fare a meno di un assessore responsabile alla cultura a alle politiche culturali.

    E questo in una città capoluogo, al centro di una vasta area urbana a cui risponde anche una popolazione universitaria, quella dell’Unical -la prima università- campus fondata in regione-, oggi seconda (dati Censis 2018) tra i grandi atenei statali italiani con circa 30.000 studenti e un migliaio di professori.

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    L’Università della Calabria
    Una strategia bipartisan

    Complimenti quindi per la scelta lungimirante e di grande efficacia strategica per il futuro della Calabria. Cultura: se ne fa a meno. Con accordo e spregio bipartisan che mette sullo stesso piano schieramenti politici, sulla carta, di diverso orientamento.
    La Calabria ha certo molte urgenze da risolvere. Altri problemi, molto compromettenti, si sono accumulati in decenni di malgoverno e di incuria. Sono sotto gli occhi di tutti, e tutti ne paghiamo caro il prezzo. Ma la crisi delle politiche culturali e lo stato di paralisi della cultura amministrata dai poteri pubblici in Calabria non può essere considerato il livello meno compromettente e preoccupante della crisi complessiva che attraversa da decenni la società regionale.

    Lavoratori della cultura in ginocchio

    Chi lavora nel teatro, nei musei, nello spettacolo, nella musica, nell’arte, nell’editoria e nell’associazionismo culturale, nelle attività di produzione di beni e servizi per la cultura, settori già colpiti e messi in ginocchio a causa della pandemia, spesso in Calabria si trova a combattere solo per la sopravvivenza, mentre si arranca da anni a colpi di immagine e di interventi spot privi di visione, tra indifferenze, favoritismi e inadeguatezze croniche e umilianti da parte di politica e istituzioni.

    Protesta dei lavoratori dello spettacolo a Cosenza
    Della cultura si può fare a meno qui

    Fare a meno di assessori con deleghe specifiche (e dunque anche del sostegno di adeguate strutture amministrative) sancisce in fondo solo un dato di fatto, una realtà, che è nota e non da ora a chi è impegnato nel settore. Della cultura in Calabria si può fare a meno, senza troppi rimpianti.

    Se non è questo il sottotesto, è dissimulazione pura. Perché anche quando un assessore e un assessorato in grado di programmare e decidere ci sono, quando si passa al confronto tra i designati di parte politica, amministratori ed enti pubblici – Regione in testa-, e i cosiddetti operatori accreditati (i famigerati stakeholders), nella prassi quello che accade in questo mondo, e tra le pieghe non sempre trasparenti del suo fitto sottomondo, riguarda cose che spesso hanno davvero poco a che fare con la cultura. Quello che normalmente capita da anni nella conduzione di questo settore e nella definizione di leggi, provvedimenti, regolamenti, obiettivi e strategie, volumi di spesa e destinatari, dimostra che l’intero settore viaggia da tempo in ordine sparso. Manca del tutto una politica per la cultura.

    Troppe rendite di posizione

    Quello che accade segue troppo spesso le traiettorie di convenienze, rendite di posizione e discrezionalità procedurali che non rispondono sempre, come si dovrebbe, a valori culturali solidi, a competenze e professionalità certificate, e men che meno da processi originati da conoscenze e da confronti di partecipazione civile e democratica alla vita culturale di questa regione.

    La Calabria, come nella Sanità, nella scuola e nelle politiche del lavoro, con i suoi numerosi ritardi e tare, è una regione opaca, che ancora non favorisce processi fondamentali di elaborazione e sviluppo di politiche pubbliche per la cultura in grado di promuovere le libertà, il civismo, l’innovazione di qualità e quindi il cambiamento culturale necessario nella società. Pochi settori della vita regionale come quello della cultura hanno invece necessità e bisogno urgente, oltre che un decisivo impulso in termini di immaginazione, di competenze e professionalità, di essere anche urgentemente illuminati da criteri autentici di pubblica utilità e da azioni di legalità e trasparenza.

    Capitali della cultura (per tre giorni)

    Bisogna, per esempio superare, definitivamente la logica dell’evento, dei cosiddetti “Fiori all’Occhiello”, delle “Capitali della Cultura (per tre giorni)”, dei “Festival di Qualcosa” e dei “Premi Importanti”, che finora ha contraddistinto con inutile monotonia e indifferibile conformismo le politiche culturali di questa regione.

    Una sequela di eventi, premi e festival, sovente dai contenuti culturali incerti, rigonfiati da risorse spropositate e rigorosamente sponsorizzati da politici regionali in cerca d’autore, poi i tanti festivalini che prosperano, con largo utilizzo di denaro pubblico, le effimere fiammate estive della premiopoli in cui fanno passerella i personaggi che vediamo ogni sera accendendo il televisore, a che (e a chi) servono? Gli strombazzati e alquanto incerti “attrattori turistico culturali”, i fantasiosi e misconosciuti “marcatori identitari”, gli eventi identitari al morzello e al sugo di capra, sono altrettanti cattivi esempi di intervalli pubblicitari che il giorno dopo, risolto il clamore mediatico, lasciano le cose come stanno e dove stanno. Il vuoto, il nulla.

    Lo scrittore Corrado Alvaro
    Parlano di Alvaro senza averlo mai letto

    In Calabria la dimensione pubblica della cultura resta confinata in una dimensione di intrattenimento per escursionisti da riserva indiana, o peggio immersa nella fuffa di un baraccone itinerante con offerte da avanspettacolo televisivo per turisti da pro loco estiva. Nessuno pensa che la dimensione pubblica della cultura debba riguardare invece, più concretamente, i diritti che garantiscono l’accesso a beni e servizi fondamentali per i diritti di cittadinanza, a sostegno di studenti, anziani, giovani e famiglie, da destinare ad aree di crisi, a piccoli centri e a comunità fragili.

    Per la salute di questa regione sarebbe urgente, piuttosto che indire l’ennesimo bando per alimentare la macchina festaiola dei “Grandi Eventi” (sic), potenziare il languente sistema delle biblioteche, dei sistemi bibliotecari e dei centri di lettura. Nella regione che a ogni piè sospinto si vanta di Alvaro senza averlo mai letto, (per non parlare poi di Strati, Perri, La Cava, Seminara, Repaci, Calogero, Costabile, De Angelis, Zappone ed altri, solo per restare al passato) siamo ben lontani da queste urgenze civili.

    In fondo alle classifiche di lettura

    E questo vuoto di politiche per la cultura a cui corrisponde il mancato adeguamento dei servizi primari per la cultura, è tanto più grave per le sorti civili e per il futuro prossimo di questa regione se solo consideriamo un punto di crisi che è di per se sufficiente a gettare una luce sinistra sul futuro prossimo della nostra collettività regionale: la Calabria è da anni invariabilmente in fondo a tutte le classifiche di lettura e di accesso al libro e ai consumi culturali (come teatro, musei, mostre e cinema).

    Solo il 28,8% dei calabresi ha comprato un libro (1 libro!) nell’ultimo anno, non solo per effetto della pandemia. Una conferma. Dato che la Calabria con il 69,3% è terza (a contenderle il podio del non invidiabile primato solo Campania e Puglia) nella più alta percentuale assoluta dei “non lettori” in Italia. Gente che in 12 mesi non ha mai aperto un libro e che non avverte il bisogno di farlo, neanche nel tempo libero, e quel che è peggio si tratta di una fascia di popolazione che va dall’età scolare, i 6 anni (sic!), sino agli 85 (dati Istat 2018).

    Il contesto sociale gioca un ruolo decisivo

    Altra aggravante per la nostra regione è che l’insieme dei non lettori è composto in misura prevalente da persone con un basso livello di istruzione e che l’incidenza è maggiore nei piccoli comuni, e tra gli uomini e tra coloro che hanno ridotte disponibilità di reddito. La scarsa confidenza dei nostri corregionali con i libri è spiccatamente associata dunque al contesto urbano e sociale di appartenenza: l’incidenza di persone che non hanno mai letto negli ultimi 12 mesi raggiunge infatti il 63,2% nei piccoli centri e nei comuni fino a 2.000 abitanti.

    La scuola e persino l’università non se la passano meglio: il 52,3% dei bambini di 6-10 anni e il 47% di quelli tra 11 e 14 anni non hanno letto altri libri al di fuori dei testi scolastici e non hanno praticato alcuna forma lettura se non per motivi di studio. E considerando anche il divario di genere, lo scarto maggiore tra i due sessi (ben 24,4 punti percentuali) si registra tra i 20-24enni, dove le “non lettrici” sono più di una su tre (il 37,2%) mentre i “non lettori” sono il 61,5%.

    Verso il peggio

    Quel che più allarma è l’inarrestabile tendenza al peggio: negli ultimi anni in Calabria si è registrato un calo progressivo di fruitori di libri e di centri di lettura. Nel 2016 la percentuale fu del 28,8, nel 2014 del 29,9 e nel 2013 del 34,5%. La quota di famiglie che possiedono libri nel 2017 erano l’89,4%, ma dal 2009 in poi il 10% di famiglie calabresi ha stabilmente dichiarato di non avere libri in casa. Commentando questo dato Guido Leone, dirigente tecnico dell’Urs (Ufficio scolastico regionale) ha stimato che «la Calabria è la prima regione italiana ad avere la percentuale più bassa di famiglie che non possiede libri in casa. Mentre il 16,4% ne possiede da uno a dieci, il 14,9% da undici a venticinque, e solo il 4,1% più di quattrocento».

    La cultura non è un optional

    Di fronte a questo dramma piuttosto che far finta di niente e tirare avanti con i soliti spottoni mediatici e gli eventi ad effetto “vacanze intelligenti”, è necessario che la politica prenda atto dell’insostenibilità del divario ormai profondissimo e del danno civile che ne deriva, provvedendo con urgenza ad allargare e riqualificare le politiche per la cultura e il circuito territoriale dei servizi culturali. Se vogliamo che il libro e una dimensione democratica e civile di cultura sopravviva e cresca nelle biblioteche pubbliche, nelle librerie, nelle case e nelle piazze dei calabresi. Tutto questo accadeva peraltro quando un figurante di assessore alla cultura ancora c’era.

    Oggi si pensa addirittura di farne tranquillamente a meno. La cultura non è un optional, non è nemmeno divertimento circense o sagra estiva: è quello che siamo, ed è quello che, nel bene e nel male, possiamo diventare e diventeremo tutti, come individui, come società, come democrazia. Vale anche i politici e gli amministratori calabresi. Che sarebbe il caso che qualche libro in più, dando il buon esempio, lo leggessero. Un assessore ci vuole. Un Assessore alla Cultura. Bravo e competente. E occorre immaginare urgentemente buoni progetti e un futuro decente.

    Marcatori identitari per le solite sagre

    E occorre anche spendere e spendere bene per la cultura. Indipendentemente dalla crescita del Pil. Non per fumisteriosissimi “attrattori culturali” (doppioni, nel migliore dei casi, del marketing turistico), e non per definire in una sorta di menù à la carte fantomatici “marcatori culturali identitari”. Non per abboffare l’estate di inutili e costose vetrine, non per le solite sagre culturali copiate dalla televisione, ma per aiutare i calabresi, magari con un libro in mano, dentro a un museo, in una mostra, in un concerto di musica decente, davanti a un gruppo di attori che animano un teatro, a capire meglio a che punto sono della loro vita, e dello loro scelte.

    È con i libri che si fa la cultura, non senza. E’ urgente e necessario, perché rende i calabresi cittadini più attivi, più democratici, più liberi, più consapevoli e persino felici. O invece non è proprio questo che si ritiene superfluo? Ed è forse per questo che meglio di un nuovo assessore alla cultura, c’è un nuovo, e tanto facebukiano, assessore agli “attrattori culturali”?

  • IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

    IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

    Povera Catanzaro. Il suo destino sembra giocarsi di continuo tra le pretese di grandeur provinciale e suoi sogni di egemonia regionale, e i pesanti risvegli che puntualmente gettano la città capoluogo nel fango delle cronache. Molto spesso quelle giudiziarie. Come la recente inchiesta della DDA catanzarese, che dopo la tragedia del ponte di Genova ha fatto in tempo a far luce sugli appalti truccati del ponte di Catanzaro, inquinati da affaristi senza scrupoli e funzionari corrotti in combutta per lucrare sui finti lavori di messa in sicurezza del Ponte Morandi.

    Ponte Morandi totem identitario di Catanzaro

    Già, dici Catanzaro e ti figuri il ponte. L’opera pubblica-simbolo che di Catanzaro è diventata il totem identitario. La sua più grande celebrità. Era il 1963, appena pochi mesi dopo il taglio del nastro, e lo scorcio iconico di modernità raggiunta con il ponte, arditissima opera di ingegneria ammirata in tutto il mondo, entra eloquentemente in campo e conquista la scena in “La ballata dei mariti”, pellicola diretta da Fabrizio Taglioni, e interpretata da Memmo Carotenuto, Marisa Del Frate e da un calabrese di successo come Aroldo Tieri, protagonista di questa non indimenticabile commedia all’italiana, tutta di ambientazione calabro-catanzarese – anche molti interni furono girati in centro a Catanzaro, in quello che allora era l’elegante Albergo Moderno, altro vanto cittadino dell’epoca.

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    Il Grande Albergo Moderno di Catanzaro in una foto d’epoca
    Vista dal ponte, bella o brutta che sia

    Il viadotto sulla Fiumarella come fosse il suo ponte di Brooklyn, disegna ancora oggi il punto più alto e scenografico dell’inconfondibile skyline catanzarese. Vista da lì sopra, così com’è adesso, l’intera città, bella o brutta che sia (guai a sminuirla, Catanzaro per i catanzaresi è Parigi), è un museo all’aperto, il paradossale santuario di se stessa. Tutta la città trae identità proprio da questo suo simbolo identificativo, il brand sacrilego e universale del Ponte Morandi. Ancora oggi porta principale e unica via d’accesso alla città dal versante occidentale.

    Questa è la più vera scultura concreta di Catanzaro, coessenziale alla città edificata in verticale dal calcestruzzo vertiginosamente innalzato come una ininterrotta torre di Babele dagli anni del boom fino a oggi. Il ponte che ancora oggi svetta sulla piccola Catanzaro storica è un’opera formato king size degna dell’enfasi impacchettatrice di un Christo, il monumento al presente in cui Catanzaro si celebra al suo meglio (e ora, stando alle cronache giudiziarie, anche al suo peggio).

    L’unico ponte rimasto in piedi dei tre gemelli

    Ogni volta che ci passo sfidando in auto il traffico delle ore di punta – qualche volta anche a piedi, esperienza, assicuro, da escursionismo no limits -, mi vengono i brividi pensando all’incredibile e inavvertita sottigliezza di quel lungo arcone in calcestruzzo armato, opera capolavoro degli anni del boom, universalmente conosciuta e celebrata. Costruito tra il 1959 e il 1962 su progetto dell’architetto Riccardo Morandi, quello di Catanzaro fu a lungo il primo ponte ad arco al mondo per ampiezza tra quelli a campata unica (l’unico rimasto in piedi di tre che gemelli che furono costruiti).

    Il vento di Catanzaro

    Il viadotto di Catanzaro, che un tempo sorgeva dal nulla tra i valloni coperti di ulivi e fichi d’india, si apre sulla città che oggi si disegna ininterrottamente da un capo all’altro dell’orrido spalancato sotto i palazzoni aggrappati all’orlo dei burroni in secca che scivolano verso le rive dello Ionio. È come una vertiginosa passerella tibetana, spaventosamente oblunga e tesa su una sola gettata di calcestruzzo che copre una luce di quasi mezzo chilometro.

    Uno scenario astruso e indimenticabile che diventa ancora più impressionante in una giornata d’inverno. Quando una formidabile tramontana (il famoso vento di Catanzaro) soffia feroce come una bora e scuote le tre corsie automobilistiche e le due sottili fettucce pedonali che corrono ai lati del ponte infinito. Un vento così forte che imperversando sulla città cupa e infreddolita, culla il ponte e chi ci passa sopra per tutta la sua luce, accompagnando il transito con un sinistro dondolio.

    I nuovi quartieri lungo la Statale 106

    Sotto e intorno al ponte Morandi (poi ribattezzato “viadotto Bisantis”) la città dei due mari continua a riprodursi a soverchio più giù, avvampata dai rivoli di una colata di cemento che parte in alto dai colli della vecchia “Catanzaru”. Il centro antico raggomitolato intorno all’intrico di vicoli e vecchie case strette sulle mura del forte di origine araba e bizantina. Un riflusso ardente che si spegne solo quando il fiume di cemento tocca il doppio confine sull’orlo dei due mari dell’istmo, fino al lato della valle del Corace chiusa dalla grande borgata marina di Lido. Quasi 10 km più giù del ponte in riva allo Ionio, tra la Cittadella Regionale, l’Università Magna Graecia e la teoria dei quartieri nuovi cresciuti lungo la 106 ionica.

    Cittadella_Catanzaro
    La Cittadella regionale

    Sono i luoghi dispersi in cui tra grandi centri commerciali, raccordi trafficati e lungomari affollati, fermenta la vita dei “marinoti” catanzaresi. Qui vivono i nuovi abitanti di quella grande periferia che forma la Catanzaro del XXI secolo, che a quella vecchia sembra aver voltato definitivamente le spalle. Un vero e proprio centro sdoppiato che del corpo smembrato della città tra i due mari rappresenta già magna pars.

    Capitale della Calabria

    Ripassando a memoria molte delle vicende recenti di Catanzaro, capoluogo che ciclicamente reclama per sé il ruolo di “Capitale della Calabria”, anche invocando – accade proprio in questi giorni – una “legge speciale” che ne sancisca lo status, da antropologo e scrittore sono tornato ad interrogarmi, quasi in forma di apologo, sulla sua condizione sempre oscillante tra avvilimento ed esaltazione. A partire da una serie di storie e di circostanze rappresentative della sua avventura recente, ed esemplari anche della sua contrastata e contraddittoria immagine di città.

    La felpa di Beppe Grillo

    In una campagna pubblicitaria di molti anni fa, Beppe Grillo, allora in versione “solo comico”, si era prestato a fare da testimonial tv per una insolita serie di spot dello yogurt Yomo. Mentre gesticola e motteggia al suo solito modo, in questa buffa situazione (immortalata in sei o sette spot prodotti e andati in onda all’epoca), spicca un dettaglio dell’abbigliamento del comico. Grillo indossa una tipica felpa sportiva da college USA, che porta scritto, ben visibile e in un inglese a lettere cubitali, il logo “University of Catanzaro”.

    Non ricordo se a quei tempi l’università a Catanzaro ci fosse già. Credo di no. Comunque la felpa “americana” indossata da Grillo era come se dicesse che nessuno in Italia poteva sognarsi che esistesse un ateneo con quel nome, in una città improbabile come Catanzaro. Il solo pensiero che all’epoca qualcosa come un’università potesse spuntare in un posto sgarrupato e arcaico come Catanzaro (questo era il sentiment di quel sottotesto) creava da solo un calembour così illogico e comico che quella felpa bastava a far ridere il pubblico di tutta Italia.

    University of Catanzaro

    In realtà anni dopo a Catanzaro la prima facoltà universitaria, distaccata da Napoli, fu quella di Medicina, mentre di sicuro c’era già l’Accademia di Belle Arti, anche quella popolata in origine da una colonia di docenti e artisti napoletani. L’Università di Catanzaro, quella vera, nel frattempo è nata ed è cresciuta assai. Nel 2012 finì nel mirino della Procura della Repubblica per un’inchiesta con 97 indagati, tra docenti, impiegati e studenti della facoltà di Giurisprudenza – eh, sono tradizioni -, per esami, lauree e carriere farlocche. Vicenda passata, che peraltro consolida l’immagine, non proprio amichevole, già fissata a futura memoria nell’immaginario proprio da quella prima agnizione comica di Grillo.

    Lo spot è ancora lì su Youtube, che raccoglie sghignazzi per quella citazione politically uncorrect che motteggia e schernisce ferocemente la città del Ponte (Morandi) e delle tre V (Velluto, Vento, san Vitaliano), poi sede del chimerico ateneo catanzarese. «Ammè me piace! Troppo bella la felpa University of Catanzaro!». «Sì, troppo bella la felpa University of Catanzaro», scrive nel blog filogrilliano “lostinthesky”, un anonimo commentatore. Seguono numerosi cazzeggi e altrettante promesse di feroci vendette pronunciate da incazzatissimi utenti catanzaresi, ancora oggi feriti a morte dalla trovata comica di quella felpa derisoria di Grillo.

    La Catanzaro sovversiva va a Cosenza

    Fu invece l’Unical, sorta alla periferia di Cosenza, che divenne negli anni ‘80 il rifugio dell’intellighentzia protestataria e sovversiva di mezza Italia, guidata dal fisico Franco Piperno, nato catanzarese, come i filosofi Giacomo Marramao e il compianto Mario Alcaro, quest’ultimo, anche lui docente all’Unical, teorico che fu tra i fondatori del “Pensiero Meridiano”. Poi c’è, tra i testimoni di quella stessa generazione, il regista Gianni Amelio, che alla Catanzaro della sua non agevole formazione giovanile trascorsa al liceo Galluppi, e alla decisione della sua salvifica fuga dalle angustie e dai moralismi catanzaresi dei primi anni ’60, ha dedicato pagine intrise di nostalgica cattiveria nel suo romanzo “Politeama”

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    Il teatro Politeama di Catanzaro (foto Antonio Cilurzo)

    Intitolato proprio come il vecchio e un po’ equivoco cinema-teatro cittadino. Politeama riesumato nelle linee eclettiche e zuccherose del nuovo monumentale teatro cittadino catanzarese, le cui forme ricordano per sovrabbondanza e discrezione gli strati di una sorta di enorme torta “gateau mariage”, opera pubblica firmata negli anni ’90 dall’archistar Paolo Portoghesi, divenuta in breve celebratissima gloria e vanto della Catanzaro dal look rifatto dei giorni nostri.

    Il Tribunale controverso

    Per secoli Catanzaro è rimasta, prima di quel fatidico ponte, una lontana città di provincia delle Calabrie, sepolta quasi in fondo a Sud. Un capoluogo minuscolo, scosso da un vento proverbiale, arroccato nella sua tradizione bizantina fatta di legulei, di prelati e massoni intriganti, di funzionari di governo e sottogoverno, di caserme, ospedali e distaccamenti militari.

     

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    La sede della Procura di Catanzaro

    Il tribunale della città, ben prima degli scossoni prodotti dalle ultime inchieste di Gratteri, era noto per investigazioni fumose e processi nebbiosi, lentissimi e spesso controversi. Vi transitarono, per insabbiarvisi definitivamente, alcuni dei più scottanti processi politici, stranamente scivolati fin qui dal lontano Nord. Misteri italiani che vanno da Piazza Fontana ai tentativi di golpe destrorsi, dalle trame mafiose alle lobby politico-massoniche.

    Tradizione durevole all’intorbidamento giudiziario, se scendendo per i rami si arriva fino al più recente affare “Why not” e alle indagini di Luigi De Magistris, che qui come magistrato inquirente finì defenestrato e dovette darsi alla politica. A Catanzaro, è risaputo, la giustizia aveva, e ha, secondo i gusti, vita facile o difficile, amministrata com’è tradizione da punti di vista e interessi piuttosto fungibili.

    Effetti collaterali desiderabili

    Ma la fitta cronaca giudiziaria e la lunga tradizione legulea catanzarese annoverano pure qualche risvolto diversamente utile e narrano anche di qualche effetto collaterale molto più fortunato. Fu infatti qui a Catanzaro che nel 1969 capitò per sbarazzare più agevolmente la pratica dei suoi esami di procuratore legale, a repentina chiusura di una svogliata vocazione di avvocato dalla carriera subitamente abortita, il non ancora cantautore Paolo Conte.

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    Il cantautore Paolo Conte ha fatto gli esami d’avvocato a Catanzaro prima di dedicarsi alla musica

    Conte era uno di Asti che aveva fatto il militare come aviere a Cosenza. Seppe così che per diventare avvocato Catanzaro era la miglior piazza d’Italia, con ottime facilitazioni “ambientali” (lo sa pure la ex ministra Gelmini, anche lei generosamente transitata dagli esami di procuratore legale tra queste aule felpate). Mentre veniva giù in interminabili tradotte in treno da Asti, sapendo cosa lo aspettava a Catanzaro, città provinciale che ancora oggi non offre grandi distrazioni, aiutato dalla trance esotica del jazz e dalla noia di un alberghetto del centro, l’avvocato di Asti componeva da queste parti le sue prime stralunate canzoni.

    Per l’eterogenesi dei fini così comune nelle faccende della Calabria e di Catanzaro, la città dei tribunali e delle caserme, dei ponti e del vento, può in fondo vantare questo suo accidentale e fortuito primato: aver causato un transito vocazionale, trasformando un procuratore legale di Asti scarso e frustrato in un immortale poeta della canzone d’autore. [CONTINUA…]

    LEGGI QUI LA SECONDA PARTE: IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

  • IN FONDO A SUD | Le zucche vuote di Halloween, alla calabrese

    IN FONDO A SUD | Le zucche vuote di Halloween, alla calabrese

    «Halloween è ormai alle porte», sta scritto un po’ dappertutto. Ma si può cordialmente detestare Halloween? Sì, prima di tutto, considerando una serie di ragioni antropologiche. Le stesse che ce lo impongono oggi come un evento improrogabile alla stregua del Natale, frutto com’è della globalizzazione dei costumi, e dei consumi. Così anche in Calabria.

    Il calendario di Google

    Era il Giorno dei Morti, e non era un giorno allegro; si andava nei cimiteri a portare fiori sulle tombe dei defunti, non in discoteca né ai party in maschera. In tempi di confusione globalizzata e dissacrazione spinta, la celebrazione del giorno dei morti è diventata una non meglio identificata “festa tradizionale di tutte le cose ultraterrene”, “la festa del lato oscuro” (Google). In questi giorni si scatena di tutto, con preferenza per il cattivo gusto, l’orrifico e l’apologetica per il macabro, la violenza, la crudeltà.

    Morti per soldi

    Non è un segreto che la morte e il dolore (quantunque la lunga crisi pandemica ce li ricordi ogni giorno) siano oggetto della grande rimozione dell’Occidente. Perciò “Day of Death”: dal giorno dei morti al giorno della Morte. Ovvero feste e business, al posto della compassione, del silenzio e delle preghiere, dei fiori e delle visite ai defunti, in nome di un laicismo banale e di un economicismo ormai privo di finalità umanizzatrici.

    Le teste di morto della Marshall

    In giro per il mondo la moda correlata ad Halloween pretende in qualche caso di elevarsi ad arte. Basta “trarre ispirazione dal lato oscuro”, come la pittrice e “designer” Dionne Marshall. Autrice di una serie variegata di “teste di morto” a tema Halloween e di organi asportati e sanguinolenti (sic!). Niente di speciale fin qui. Ma la Marshall si è fatta un nome nell’arte contemporanea “creando” la sue opere d’arte -“punctured arctefact”-, con tatuaggi su pelle (di chi?) che lei offre al pubblico ben conciati e messi graziosamente in cornici e telaietti da cucito, esattamente come faceva con la pelle delle sue vittime umane il serial killer de “Il silenzio degli innocenti”. Oggettini d’affezione che certo tutti vorremmo esibire sulle pareti del nostro tinello. Pare comunque che vadano a ruba tra i collezionisti.

    La pittrice e designer Dionne Marshall
    Il business di Halloween vale 300 milioni 

    Tutto fa brodo, specie in tempi di crisi del turismo. Dopo la riapertura, il business di Halloween fa gola a molti. Dalle palestre, ai supermercati, ai teatri e ai parchi di divertimento, non si salva nessuno da questo «appuntamento con la festa che è entrata nell’immaginario collettivo degli italiani» (Panorama). Nonostante i consumi in frenata, con le famiglie italiane che ancora limitano del 20% il carrello delle spesa al supermercato per colpa della crisi pandemica, l’Halloween-mania in Italia è diventato in pochi anni un business da 300 milioni di euro (stime CIA). Ognissanti ormai è una festa demodé anche nei paesi e nelle regioni del Sud, Calabria compresa.

    Halloween di Calabria 

    Anche nella regione delle processioni sotto casa e dei santi di paese come san Francesco di Paola, san Nilo da Rossano, san Bartolomeo da Simeri, san Cipriano di Reggio, san Ciriaco di Buonvicino (ma l’elenco santo/paese sarebbe molto più lungo e rappresentativo dell’intera Calabria), oramai la notte del 31 ottobre si “festeggia” dal Pollino allo Stretto nelle forme di un ininterrotto “carnevale dark”, nel trionfo di feste a tema tra costumi da zombie e zucche intagliate. “Il ponte dei Morti” passa così dai cimiteri alle vacanze low cost per famigliole a pensione tutto compreso.

    Dolcetto o scherzetto? No, solo le produzioni dolciarie di una nota pasticceria di Cosenza
    I soliti pacchetti vacanza…in agriturismo

    La rete offre lo specchio di una sorta di sgangherato divertimentificio da prezzi di bassa-stagione che trascorre tra discoteche e notti goderecce, in cui si ricicla l’offerta con pacchetti vacanza tutto-compreso per celebrare degnamente la “notte dei morti viventi”. Fioccano i last minute nostrani, a prezzi stracciati per il “weekend dei morti”; tipo “Halloween al mare a Tropea con famiglia”, “Festa di Halloween in agriturismo a Serra san Bruno”.

    Le allegre famiglie Addams calabresi

    Tutto perfetto per le allegre famiglie Addams calabresi-medie: “Volete sorprendere i vostri bimbi che, ogni anno, vi chiedono di preparare per loro le zucche di Hallowen e le maschere più terrificanti? Allora scegliete di portare tutta la famiglia al mare per Halloween e di divertirvi insieme all’animazione dell’hotel, durante i momenti di festa, serate a tema e spettacolo che abbiamo in serbo per il weekend di Halloween 2021”. “Nella notte dei morti viventi chissà quante magie e sorprese aspettano i fortunati che si regaleranno i pacchetti in hotel a Catanzaro Lido”.

    L’immancabile piccante

    Halloween 2021 piccante a Diamante per un pacchetto da urlo, si garantisce divertimento e comfort cimiteriale per tutti: 2 Notti in camera Classic, Classic Plus o Superior, Trattamento di Mezza Pensione/Pensione Completa, Festa di Halloween in Maschera per i più piccoli, Cena con Delitto per i più grandi (leggi Menù). Tutto a partire da € 66,6”. Raffinata ironia e “Servizi family e bimbi”, così tutti accontentati.

    Morti di fame, col reddito di cittadinanza magari, ma in compagnia di assatanati fantozziani della porta accanto impegnati in tragicomici osanna alle streghe , avvinti nel vortice di danze macabre in compagnia di altri impiegati all’Asl camuffati da zombie dalla cugina estetista.

    Il cimitero della Nocturne per Halloween

    Un veloce giro su internet non manca di fornire un fitto elenco di “Feste di Halloween 2021 a Cosenza” e di “eventi per celebrare degnamente ‘la notte delle streghe’ anche nella colta città di Telesio. Con la garanzia di “Paura da brivido per la notte più lunga, ovvero la notte di Halloween. Il 31 ottobre sera la città si trasformerà, come ormai accade ogni anno, in una città piena di bare, streghe e quella zucca che proprio non fa parte della nostra tradizione (sic!)”. Non mancano i Locali che ricevono anche molti gadget offerti dalle varie birre per una festa dove la paura diventa sorriso. Basta pensare al cimitero che la cornetteria Nocturne di Rende organizza ogni anno. Proprio così i ragazzi della Nocturne si mettono di impegno e il giardino, accanto la cornetteria, diventa un vero e proprio cimitero. E si gioca con la morte di gente che è viva e vegeta.

    Il veglione del brivido all’Holiday Inn di Cosenza

    Aspettando che riapra il cimitero della Nocturne, ci sono altri due eventi che meritano la nostra attenzione. Uno è quello della “discoteca Shake. Ogni anno la discoteca di Quattromiglia, organizza serate a tema di Halloween in maschera”. Altro evento di richiamo “è quello del Loft 10. Nella notte di Halloween vi promettono una notte da brividi, con la gente di Cosenza che deve venire vestita in nero”. Persino a Lappano, alla promettente “Tenuta dei Mantelli”, viene organizzato un party horror niente male. Poi in città “La notte delle streghe propone come ogni anno a Cosenza il veglione del brivido nell’elegante sala dell’Holiday Inn. Musica dal vivo per tutta la notte”.

    Come una pagina del marchese De Sade

    Invece “Per il popolo della notte un po’ più in età matura il consiglio è quello di andare al Beattino”. Per i più esigenti c’è “Halloween al Borgo Citerium Resort”, esclusivo club di Cerisano che “Ogni anno per Halloween propone cena a tema e festa per la notte delle streghe”, in una ospitale “struttura del XVIII secolo sapientemente restaurata che offre a voi, signori ospiti, spazi accoglienti ed ospitali con comfort e servizi all’avanguardia. Il resort si propone di offrire un servizio di qualità ad un eccellente rapporto qualità prezzo, dedicando tempo e impegno perché voi abbiate la garanzia di un soggiorno rilassante e piacevole. Qualunque siano i vostri interessi e le vostre richieste, troverete la più ampia disponibilità per soddisfare prontamente ogni desiderio”. E qui più che la pubblicità per un Halloween fuori porta alla cosentina, sembra una pagina del marchese De Sade o di Histoire d’O, ritorno a Roissy di Pauline Réage.

    Americanate d’importazione

    Halloween è una “nuova festa” che di questi tempi dell’anno ci tocca patire sempre più passivamente. Una festa che, per altri riguardi antropologici, corteggia e gioca molto -troppo- disinvoltamente con la morte, l’horror e l’occulto. Negli USA, paese che ha fatto olocausto dei propri rimorsi, dove questa festa è nata ed è molto sentita, l’hanno come si dice “sdoganata” e trasformata da tempo in una sorta di carnevale dell’occulto.
    Certo, si dirà che forme simili sono antichissime, che esistono anche in altre culture, che i riti e le liturgie del mondo dei morti sono in fondo nobile cosa, che in fondo anche noi “avevamo qualcosa di simile” e bla, bla, bla, in uno sciocchezzaio antropologico di inesattezze e luoghi comuni.

    Una parata di Halloween negli Stati Uniti d’America
    Le origini calabresi (?) di Halloween su Vanity Fair

    Perché, come sempre, anche in questo caso salta fuori la mania tutta calabra di intestarsi il primato. Così la credenza che attesterebbe “la presenza di questa usanza in un paesino della Calabria da tempo immemore: Fino a qualche anno fa, nel giorno dei morti i bambini  andavano per le case, portando una zucca svuotata e lavorata a mo’ di teschio, nel cui interno era accesa una candela.

    Con questa maschera mortuaria giravano di casa in casa chiedendo i morti benedetti, dolcetti (e raramente soldi) per placare le anime dei defunti, come riportato in “Halloween è calabrese, credeteci” (di G. Moraca), comparso su “Vanity Fair” del 31 ott. 2014. Quindi anche il famoso “Trick or Treat” anglosassone, “in realtà sarebbe frutto di una contaminazione degli emigrati del Sud Italia, che una volta giunti in America avevano portato avanti una tradizione molto sentita nei paesi dell’entroterra vibonese. Il rito del “coccalu” da Serra San Bruno, sarebbe stato quindi esportato negli Stati Uniti, dove si sarebbe arricchito di altri elementi simbolici con il passare del tempo. Oggi Halloween può essere considerata una festa di ritorno, dal sapore però tutto calabrese” (sic!).

    Succubi dell’americanismo più deteriore

    Ma ben oltre le ricostruzioni sovraniste e fantasiose sulla rivendicata “origine calabrese della festa di Halloween”, qui ci riguarda piuttosto il suo nocciolo problematico. Quello che ha radici nell’America dei film di zombie e di fantasmi, la stessa delle stragi studentesche, del male che nutre la cultura di massa. E dato che siamo succubi dell’americanismo più deteriore, eccoci qua. Sì, la chiamano ormai tutti così: la “festa” di Halloween. E per capire che “festa” sia basta guardarsi in giro. È il trionfo del ciarpame, della volgarità e del cattivo gusto new age, il clou di un esoterismo farsesco ma per nulla innocente.

    Abbiamo smarrito cultura greca e cristianesimo

    Ora, se le cose stanno così sarebbe molto più ragionevole ridimensionarle. Perché, come scrive Umberto Galimberti: «Questo è Halloween. Il canto della disperazione. Perché la modernità recupera questo antico rito? Perché della cultura greca il nostro tempo ha perso la “giusta misura”, e del cristianesimo, ridotto a religione laica, abbiamo rimosso, cancellato, proprio la speranza di salvezza che esso ci offriva. Ciò che è rimasto è il motivo cristiano della denigrazione del mondo: Qui amat mundum non cognoscit Deum, diceva Sant’Agostino. Una denigrazione che si accompagna e tramuta nel piacere morboso e perverso dell’altrui e della propria dissoluzione. E tutti sappiamo che nel cupio dissolvi c’è anche il gusto del male, dell’orrore, della sua scontata frequenza e banalità: che è l’unico forse che davvero assapora la nostra tarda modernità. Halloween adesso è solo una festa. Una festa che però richiama il sentimento del nostro tempo che fatica sempre più a dar senso alla vita e quindi anche al suo limite invalicabile, la morte, e perciò celebra l’apoteosi del nulla».

    E adesso festeggiatela pure

    Il corteggiamento della morte e l’acquiescenza facile verso delle forze del male, ad ogni età e a qualsiasi gruppo sociale si appartenga, non è mai privo di conseguenze. Al fondo delle sacre scritture ritroviamo un monito che non passa di moda nemmeno il giorno di Halloween: “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, a quelli che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Isaia 5:20-25). Adesso se vi piace la notte del 31, festeggiate pure. In una zucca vuota.

  • IN FONDO A SUD | Non chiamateli borghi, così uccidete i paesi

    IN FONDO A SUD | Non chiamateli borghi, così uccidete i paesi

    Intanto ricominciamo a chiamarli paesi. Questa, non altra, è la geografia umana della Calabria. Anche oggi che in ogni sua angusta città provinciale si litiga per il primato tra periferie e va di moda darsi arie da area vasta, da città metropolitana. Reggio Calabria non arriva a 250mila abitanti; Cosenza, che nel 1971 superò i 100mila, oggi non raggiunge neanche i 70mila. Una regione di paesi e città secondarie, in costante emorragia, non meno che i piccoli centri. Una regione di paesi, paesoni e paesini, dunque.

    Paesani anche se mandano i figli al Trinity

    Sono in tutto 405, sparpagliati sulle due rive, e spruzzati, soprattutto i più esigui, lontano dal mare, sulle montagne. I comuni in Calabria sono più di quelli della grande Sicilia (390 comuni), che una volta valeva da sola un regno a parte. La vicina Puglia, più lunga, ricca e vasta, ne ha pure solo poco più di 250. Questo sono i paesi della Calabria. E pure i calabresi, piaccia o non piaccia: paesani, anche se comprano griffato, fanno la spesa al centro commerciale, mandano i figli al Trinity e hanno internet in casa e la parabola sul balcone.

    La geografia estrema del margine

    Paesani e paesi. Tanti. Paesi di quattro case, una chiesa e un forno (una volta): posti dispersi e gracili come Oriolo, Canna, Longobucco, San Lorenzo Bellizzi, Campana Calabra, o più giù come Nardodipace, Bova Superiore, Carfizzi, Cerva, Brognaturo, Stilo, Varapodio. Nomi dissolti su un foglio, nonostante la storia, qualche volta millenaria. Posti così sono i paesi della geografia estrema del margine, dell’osso rinsecchito dell’Appennino, sopraffatti dallo stigma della scarsità, dalle mancanze.

    La cattolica di Stilo (Foto Alfonso Bombini)
    Troppo piccoli per sopravvivere

    Sotto la soglia limite dei 1500 abitanti, lo sanno bene i demografi, in simili condizioni nel mondo contemporaneo cala drasticamente la possibilità di sopravvivenza delle piccole comunità. Qui sono le case appese al chiodo di coloro che covano vite esigue, che raccolgono la briciola che cade dalla polpa dell’economia. I tinelli dei rassegnati che brancolano nella nebbia delle illusioni di seconda mano. Il mondo dei vedovi, dei senza scuola, dei pensionati con la minima, degli spostati di ogni età che collezionano sospiri e vuotano i fondi di bicchiere in cui inacidisce l’ultima goccia del vino di lusso che cola dal mondo della città, della televisione.

    E quei paesoni messi sottosopra dal cemento

    Molti altri dei paesi di Calabria oggi non sono neanche questo. Non sono più né carne né pesce. Paesoni, tutt’al più. Un po’ più gonfi e dilatati, messi sottosopra dal cemento e dagli abusi, incistati dal malaffare e oppressi dalla noia e dal peso delle mafie. E sono luoghi, questi, diversamente poveri e arresi al peggio, illusi da un’idea di progresso sovraesposta e fasulla. Piccole città provinciali e poi cittadine; paesoni, con il caos ininterrotto e senza nome delle borgate nuove, dei centri sdoppiati e delle piazze in mezzo al nulla, delle marine-dormitorio, dei centri commerciali smisurati, delle teorie dei capannoni delle imprese finte, della monotonia delle villette a schiera, delle seconde e terze case per il mare degli altri, degli avamposti traballanti di amministrazioni improduttive. Delle cittadelle spaziali-albergo di lusso per burocrati e politici incapaci, degli ospedali senza cure, delle scuole rotte e senza bambini.

    Un groviglio di strade

    E paesoni delle strade. Un groviglio di strade che si perdono nel nulla. Che passano oltre e non legano più neanche un paese all’altro. Soprattutto strade. Riportare qui l’elenco di questi posti dove la strada sembra un ottovolante e dove il paese ha preso gli ormoni e ha assorbito i veleni del nostro tempo immemore e caotico sarebbe troppo lungo, inutile. Persino penoso.

    Superano i 15mila per darsi arie

    Li conosciamo tutti questi posti: stanno sui giornali, spiccano dalle cronache. Sono i circa 20 comuni che in questa regione (capoluoghi compresi) ancora superano il punto critico dei 15.00 abitanti, soglia demografica minima per darsi arie e coltivare l’illusione di sembrare qualcosa di più di uno di quei vecchi paesi di fantasmi a cui spesso quelli più grossi voltano sdegnosamente le spalle. Questi posti sono casa nostra.

    Consolarsi con quel che rimane

    La Calabria ridotta a poco più del suo milione e mezzo di abitanti reali, vive lì più che altrove le sue giornate provinciali. In questi posti in cui ogni cosa è ibrida e opaca, dove anche la gente non più quella del paese e nemmeno quella di città, si consumano le sue lotte e le sue sconfitte. Lì si accampano le pretese di chi comanda, lì si coltiva ancora qualche sogno, lì si scontano frustrazioni e si medicano dolori. Lì chi può lavora, e qualche volta, e ancora lì che ci si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane.

    Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli e le curve di questi paesoni rigonfiati, in questi posti della nuova terra di mezzo della Calabria di adesso; che sono pure le sue cinque, piccole, rissose città capoluogo di provincia. Le stesse che poi ritroviamo puntualmente nel sottoscala delle graduatorie nazionali della qualità della vita e dei servizi resi ai cittadini.

    La retorica tossica dei borghi

    Ma in Calabria questa antica e capillare geografia insediativa e umana, microfisica e maggioritaria, col suo irrisolto e crescente corteo di emergenze e problemi critici che gravano su cittadini e istituzioni, finisce oggi per intasare un meccanismo narrativo falsificante e autocelebrativo. La realtà della crisi viene puntualmente oscurata a più livelli da un discorso che coincide sempre più con la retorica altamente tossica dei cosiddetti “Borghi”.

    Contro un’idea economicista dell’autenticità

    Nessuno chiama più un posto col suo nome proprio, e “borgo” è così diventato un artificioso sinonimo buono per tutto. Una sorta di “apriti sesamo” che enfatizza e identifica indistintamente sia le borgate più fatiscenti e decrepite che le antichità; i centri storici come le realtà cittadine e i paesini più microscopici e isolati. Il trionfo dell’ignorante e ipocrita glorificazione di una certa idea confusamente economicista dell’“autenticità”, la mitologia urbana della grande bellezza sparsa a piene mani su -tutti?- i cosiddetti “borghi”, la favola delle loro enormi “potenzialità” per investimenti e sviluppo turistico, gli eccessi verbosi e le truffe mediatiche che si accumulano come strati in una narrazione effimera e a senso unico, anche in Calabria hanno ormai valicato ogni limite di buon senso, misura e realismo.

    Chi condanna i paesi poi li vuole come risorsa

    Chi conosce questa regione e ci vive sa bene che i vecchi paesi sono corrosi dal tarlo di vecchie e nuove povertà e da una crescente anomia sociale. Sono spolpati dall’emigrazione, che li priva progressivamente di energie giovani e di abitanti veri. Sono mortificati dall’abbandono e dall’incuria, che ne distrugge la bellezza di ambienti costruiti e paesaggi, cancellando un giorno dopo l’altro la dignità di secoli di storia per farne mucchietti di case vuote e pericolanti e posti per fantasmi. Lo stesso meccanismo che condanna i paesi all’agonia e li mette ai margini della vita sociale e produttiva della regione e del paese, d’un tratto ipocritamente li riscopre come risorsa. Ed ecco che spuntano “i borghi”.

    Borghi buoni per ogni cosa, tranne per viverci

    I borghi in Calabria sono oggi quei posti piccoli e sparuti di cui l’Italia ricca e affluente si è dimenticata, e che oggi diventano buoni per ogni cosa. Tranne che per viverci davvero. Sempre più evocati che vissuti, ritornano come motivo di interesse nel discorso pubblico su ripartenza e valorizzazione post-covid. Cablati per il telelavoro che impone il precariato a vita nella società post-pandemica, qualche grosso gruppo finanziario e qualche azienda multinazionale ha già scoperto che un paese in vendita in Calabria si può comprare per intero con meno di quello che costa delocalizzare un call center in Romania. O magari si indice la gara dei paesi belli e dei “borghi autentici”, dato che quelli brutti, che sono i più, sono già fuori gioco.

    Il campionato farlocco dei borghi

    Così, per inscenare ogni anno una specie di concorso di bellezza tipo “miss Italia dei borghi”, riparte una sorta di farlocco campionato tv con eliminatorie e finali, per arrivare addirittura a eleggere il “borgo dei borghi”(sic). Teatrino di invenzioni manageriali sempre spacciate come eventi epocali, scenario per improvvisati festivalini di tutti i generi, dal più pretenziosamente culturale alla sagra più cafona, i paesi nella realtà vivono solo i fuochi fatui delle vacanze degli altri. Fiammate che durano qualche settimana o due, giorno più giorno meno. Ridotti a quartieri d’estate o quartieri d’inverno per i cittadini oppressi dall’inquinamento urbano, dalle follie consumistiche e dai ritmi di vita delle metropoli. I paesi rischiano così definitivamente di essere annichiliti e asserviti, in un circuito chiuso di dipendenza e servitù.

    Gli annoiati dalla città

    Nei casi migliori qualcuno, annoiato dalla città, li scopre e li acclama, e ne fa un suo buen retiro personale. Ma si tratta di pochi misogini, ricchi eletti stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle difficoltà: solitudini, isolamento, mancanza di lavoro e di prospettive per il futuro. Eccessi, eccentricità per pochi, che però alimentano incessantemente la retorica mediatica che ormai suborna soprattutto i cosiddetti borghi della Calabria e dell’Italia del Sud.

    Un argomento elettorale

    Di paesi-borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi. Ma ad oggi la gran parte dei più di 400 paesi della Calabria restano luoghi spossati e pieni di malinconie, sospesi in una sorta di limbo, abitati (quando lo sono ancora) solo da poche centinaia di persone. Come accade a Fiumefreddo Bruzio, di recente segnalato come uno dei borghi più belli d’Italia, e certo non il più povero e isolato, e che però, nonostante gli sforzi di pochi volenterosi, mantiene nel suo magnifico e monumentale centro storico a picco sul Tirreno meno di 300 residenti.

    Turistizzazione forzata

    Quando spariscono dai media anche i borghi belli come i brutti, ripiombano nel grigiore e nella stanchezza del quotidiano. E a salvare i paesi non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami mozzafiato. Al più prevale un’idea di una turistizzazione forzata dei paesi e dello sviluppo delle aree interne della Calabria e del centro-sud da trasformare in un unico grande distretto turistico da vendere a un «turismo internazionale con grande capacità di spesa», come da proposta del ministro Dario Franceschini. Una specie di Disneyland per le vacanze en plein air, appaltata senza conoscere e rispettare il patrimonio dei paesi e le necessità di chi quei luoghi vive quotidianamente, legandone invece le sorti a speculazioni di grande scala e ad altissimo costo ambientale e sociale. Una sciagura.

    Non tutto è perduto

    Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei vecchi paesi calabresi autocentrati e partecipati da giovani e associazioni che si segnalano già per equilibrio, buone prassi e intelligenza. Come dimostrano da vicino le esperienze di successo dei giovani della start up Fili Meridiani a Pallagorio (Kr) e l’associazione Campus del cambiamento-Borgo Slow a Civita (Cs). I progetti di ripopolamento dei paesi possono funzionare infatti solo se sono condivisi in prima persona da giovani innovatori e da gruppi di abitanti veri, vecchi e nuovi. Rianimati dalla cura di cittadini e persone attive e consapevoli. Non dal narcisismo effimero di event manager e dagli interessi di speculatori e mestieranti in cerca d’autore. Non puntando tutto sulla monocultura turistica (men che meno su quella che insegue il lusso). Ma lavorando con competenza e ostinazione su interventi di valorizzazione e riequilibrio di risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando lo squilibrio attuale tra aree interne e coste.

    Il centro storico di Fiumefreddo Bruzio (Cs)
    C’è sempre un paese in ognuno di noi

    I paesi della Calabria hanno bisogno di sostegno, di immaginazione, di aiuto, di pianificazione, del riconoscimento della loro unicità. In fondo c’è sempre un paese in ognuno di noi. Nietzsche ci ricorda che ogni paese «è come un diario figurato della nostra gioventù, che comprende le mura, la porta con le torri, l’ordinanza comunale, la festa popolare; e dice di se stesso, dello spirito della casa, della stirpe, della città. Dice che qui si poteva vivere poiché si può vivere; qui si potrà vivere perché siamo ostinati». La salvezza può arrivare solo così. Arrivederci in Calabria, paisà.