Le ricche dimore dei nobili e dei possidenti calabresi di un secolo fa erano per i viaggiatori colti mete ambite, almeno quanto musei e siti archeologici. E Gissing, impossibilitato a visitare le case più eleganti dei suoi ospiti crotonesi a causa di una febbre polmonare, chiede al dottor Riccardo Sculco, esponente della borghesia cittadina, di descrivergli le ville e le ricche dimore che le famiglie nobili crotonesi possedevano nei pressi delle rovine del Tempio di Hera Lacinia.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
«Il dottor Sculco – riporta il viaggiatore – fece del suo meglio per descrivermi il paesaggio del Capo Naù. Quelle piccole macchie bianche che avevo intravisto col binocolo all’estremità del promontorio erano eleganti ville e storiche dimore, occupate d’estate dai ricchi nobili e dalle famiglie agiate di Cotrone. Il Dottore stesso ne possedeva una lì sul promontorio. Una villa di campagna che era appartenuta a suo padre prima di lui. Alcuni dei primi ricordi della sua infanzia erano appunto legati a quel luogo sul Capo Naù: quando aveva nozioni importanti da imparare a memoria, era solito ripeterle camminando intorno alla grande colonna. Nel giardino della sua villa si divertiva a volte a scavare. Pochi colpi di vanga bastavano a tirare fuori qualche preziosa reliquia dell’antichità».
Porte aperte per un tuffo nella storia
Anche in Calabria il più grande museo diffuso d’Italia, quello delle dimore storiche, riapre in questi giorni le sue porte gratuitamente. Torna la Giornata Nazionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane, quest’anno alla sua XII edizione. Saranno visitabili gratuitamente centinaia di luoghi esclusivi come castelli, rocche, ville, parchi e giardini, in un’immersione nella storia che rende ancora oggi il nostro Paese identificabile nel mondo e che potrebbe costituirne il perno dello sviluppo sostenibile a lungo termine.
Dopo questo lungo periodo di restrizioni, possiamo approfittare oggi di un’importante occasione di cultura e di conoscenza, e riscoprire grandi tesori, in luoghi a noi prossimi, città e paesi. Sarà possibile rivivere così l’emozione del Grand Tour e visitare, a distanza di secoli, custoditi e offerti per la prima volta al pubblico, i luoghi più segreti, affascinanti e meno noti della nostra regione, per ammirare più da vicino oltre a grandi bellezze architettoniche, la storia, i beni culturali e brani del paesaggio tra i più belli e significativi della Calabria.
Anche in Calabria le dimore storiche dell’ADSI, veri e propri musei e case della memoria, rappresentano un patrimonio vasto ed diversificato, diffuso in quasi tutte le città e centri minori della nostra regione, tra dimore e palazzi nobiliari, castelli, fortificazioni, ma anche ville di campagna, giardini, tenute agricole, insediamenti storici e produttivi, costruzioni di particolare pregio architettonico e artistico. Esse caratterizzano da secoli con la loro presenza la fisionomia dei centri abitati piccoli e grandi della Calabria.
Il Castello Gallelli a Badolato (CZ)
Le dimore storiche in Italia
Quello delle dimore storiche è un patrimonio di immenso valore sociale, culturale ed economico, spesso oscurato a scapito delle nuove generazioni. Distribuito in tutto il Paese, le dimore storiche per quasi l’80% si trovano insediate in aree periferiche ai grandi centri urbani e in provincia. Secondo l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, esso costituisce ben il 17% del totale dei beni culturali in Italia. Il 54% di questi siti si colloca proprio nei centri con meno di 20.000 abitanti e, di questi, il 29% nei comuni sotto i 5.000 abitanti. Le oltre 9.000 dimore hanno generato, già prima della pandemia, ben 45 milioni di visitatori. Da qui può passare quindi la ripartenza culturale, sociale ed economica nei centri urbani e nelle aree interne più svantaggiate del Paese.
Trastevere (Roma), l’interno dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
In Calabria oltre 150 siti
Ognuno di questi insediamenti ha infatti una sua precisa identità e caratteri di unicità, per via della sua storia, per il suo valore culturale, per lo stretto legame con l’ambiente antropologico, per la natura e il paesaggio che caratterizzano i diversi territori locali. Da qualche anno anche nella nostra regione, l’insieme di questo importante giacimento si identifica nella rete associativa dell’ADSI Calabria (sezione regionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane).
Palazzo Sanseverino a Marcellinara
Nata nel 1977, l’ADSI conta circa 4.500 soci in tutta Italia. Già più di 150 i siti in Calabria rappresentativi della complessità storica, della cultura, delle tradizioni e del paesaggio che identificano nella nostra regione una preziosa memoria di beni architettonici, di storia, di arte, di conoscenze e saperi originali, con le innumerevoli rarità cultuali e naturalistiche che si nascondono da secoli tra le antiche mura di queste dimore e tra i viali del loro giardini.
Le opportunità per il turismo e il lavoro
La valorizzazione delle dimore storiche offre anche nuove opportunità ai mestieri antichi della cura e dell’arte, alle professioni artigiane, a restauratori e giardinieri. Figure che già affiancano di necessità i proprietari-custodi, senza i quali non sarebbe possibile la manutenzione delle dimore, degli oggetti d’arte, dei giardini, delle bellezze e delle rarità che rendono unici e irripetibili questi beni. I lavori di cura e restauro delle dimore contribuiscono inoltre al recupero e al decoro degli spazi pubblici, delle vie, delle piazze, delle contrade antiche nelle quali le dimore si trovano insediate da secoli.
Aumentano così le capacità d’attrazione di un turismo sostenibile e la qualità di vita delle comunità locali e dei territori di cui questi complessi monumentali costituiscono spesso il principale elemento di interesse e di attrazione, alimentando la filiera delle attività legate al turismo e alle nuove professioni dei beni culturali, che già vantano un significativo numero di laureati formati all’interno delle nostre università e Accademie di Belle Arti.
Dimore storiche, un progetto targato Calabria
L’ADSI Calabria, con un proprio progetto pilota di interesse nazionale (a cui di recente ha fatto seguito anche l’adozione dello stesso da parte della Conferenza nazionale dei presidenti e dei direttori delle Accademie delle Belle arti d’Italia, hanno siglato un accordo proprio col fine di valorizzare il patrimonio culturale privato delle dimore storiche calabresi).
«Il progetto Ritratto di Dimora, prevede di documentare e raccontare con immagini e restituzioni artistiche dal vero altrettanti “ritratti” delle dimore storiche calabresi associate all’ADSI, disvelando così un patrimonio di grande valore per tutta la collettività, che amplia la fruizione delle bellezze della nostra regione, stavolta prima in questa originale proposta culturale adottata nel nostro Paese, di cui le dimore e gli edifici storici calabresi costituiscono una parte fondamentale», ha dichiarato Gianludovico de Martino, vicepresidente di ADSI Nazionale e presidente di ADSI Calabria.
Una stanza di Palazzo Carratelli
Ritratto di Dimora consiste nell’esecuzione di immagini fotografiche e “ritratti” di interni realizzati con tecniche le tradizionali (acquarello, gouache e olio) dagli studenti dell’Accademia delle Belle arti di Catanzaro presso le principali dimore storiche della Sezione ADSI Calabria. Una scelta di queste immagini illustrerà il volume Dimore Storiche in Calabria, pubblicato da ADSI. Le foto e i dipinti formeranno i materiali di una mostra itinerante che ADSI e A.BB.AA. di Catanzaro allestiranno presso le dimore storiche e negli spazi di musei pubblici. Col patrocinio dell’ADSI la mostra infine verrà proposta, d’intesa con la Regione Calabria, presso la rete degli Istituti Italiani di Cultura all’estero.
Ville e palazzi da (ri)scoprire
Si parte in questi giorni con alcune tra le più prestigiose e rappresentative dimore storiche calabresi, che aprono le porte al pubblico. Come il Palazzo Amarelli, importante residenza d’epoca che a Rossano ospita il Museo della Liquirizia (uno dei musei d’impresa più visitato d’Italia); Palazzo Carratelli, storica residenza urbana eretta nella seconda metà del 1400, rimaneggiata e ampliata a seguito del terremoto del 1638, che nel centro storico di Amantea domina il panorama della città e il mare.
Il museo della liquirizia all’interno di Palazzo Amarelli
E poi, ancora, Villa Zerbi a Taurianova, costruita nel 1786 in stile barocco siciliano su progetto dell’architetto Filippo Frangipane, testimonianza delle abilità artigiane di scalpellini e decoratori calabresi impegnati dopo il terremoto del 1783, caratterizzata inoltre dalle essenze rare del suo prezioso giardino mediterraneo; Palazzo Stillo-Ferrara, nel cuore del centro storico di Paola; Villa Cefaly-Pandolphi ad Acconia di Curinga (Cz), elegante dimora adibita a casino di caccia, costruita alla fine del 1700 e circondata da piantagioni di agrumi pregiati. In questa villa la storia è trascorsa lasciando tracce sui bei pavimenti antichi ed i soffitti di legno con affreschi. Qui la famiglia Cefaly ha dato vita a pittori, prelati e uomini di Stato, come Antonio Cefaly che dal 1890 al 1920 è stato vice presidente del Senato e consigliere di Giolitti (l’epigrafe sulla sua tomba fu scritta da Benedetto Croce).
La biblioteca di Palazzo Stillo-Ferrara a Paola
Degno di nota anche Palazzo Sanseverino a Marcellinara, dimora storica risalente al 1400, che conserva tra i suoi numerosi reperti anche uno dei pochi ritratti coevi di San Francesco di Paola, un dipinto devozionale del santo realizzato per mano di un pittore locale durante il suo soggiorno nella casa, custodito insieme ad un altare votivo e altre reliquie come il piatto e le posate utilizzate dal santo durante il soggiorno nel palazzo al tempo del suo viaggio in Sicilia.
Non manchiamo dunque di visitare le dimore storiche per goderci le bellezze che insieme costituiscono il più grande museo diffuso della Calabria. E, dopo i selfie di rito, scattate anche voi un bel ritratto di dimora.
E va bene. Dopo il bruciante flop di Muccino e Bova, ci voleva una ventata di novità e ottimismo, la freschezza di facce allegre e un bel ritmo pop. Adesso è il turno di Jovanotti. E anche da lui ci si aspetta l’exploit. Allora i fatti: Jovanotti dopo il successo superpopolare dei recenti happening dello Jova Beach Party la nuova Film Commission della Calabria – spericolatamente affidata non ad un esperto di cinema, ma al couturier Anton Giulio Grande – debutta con uno spottone che dovrebbe fare marketing territoriale per la collezione Calabria Spring-Summer 2022.
Jovanotti e la Calabria meravigliosa
Gli ingredienti, ça va sans dire, sono i soliti: bellezze da cartolina, di cui la Calabria, nonostante lo scempio ubiquitario che è sempre meglio nascondere, non è certo avara, e poi il profluvio di elogi sperticati da turista per caso, che Jovanotti dai social ha abilmente provveduto a distribuire, appunto, a casaccio: dichiarazioni di costernante banalità tipo «La Calabria è una terra meravigliosa», «Io sono un grande fan della Calabria», o ancora «Amo questo posto (Scilla, ndr)» (pur avendolo visto solo per la prima volta). In una diretta social, affacciandosi dal balcone della sua stanza sul porto di Scilla, dice: «Questo posto lascia senza fiato, è bellissimo».
Svela il cantante toscano che sosterà ancora in Calabria, «in un altro paese meraviglioso», per continuare le riprese del video. «La Calabria è una terra bellissima – racconta – venendo in macchina dall’aeroporto di Lamezia Terme, ho visto un paesaggio bellissimo». E giù luoghi comunià gogo: «Voglio far vedere a chi mi segue che meraviglia è questo posto, lascia senza fiato»; «Mamma mia ma è fantastico qua! Non c’ero mai stato!».
Scilla, Gerace e i borghi
E, ancora, una sequela di post con immagini patinate e molto instagrammabili da diverse “località iconiche della nostra amata regione”. Mentre, sottolineano i social in tripudio, “cresce, intanto, la curiosità per vederlo online”. Un attimo dopo, come un sol uomo, anche le testate televisive, insieme ai giornali di carta e i media digitali diffusi in Calabria, rimarcano “la scoperta della grande bellezza calabrese” testé fatta della famosa pop star: “Jovanotti ha raccontato attraverso i suoi profili social Scilla e Gerace, le coste e la granita, il mare e i borghi” (borghi, non paesi).
Lui stesso spiega perché ha scelto la Calabria: «Il video aveva bisogno di un’ambientazione festosa perché la canzone è un brindisi e un augurio, sono in Calabria a girare il video di Alla Salute, una canzone che è un augurio e una festa. Stamattina abbiamo girato a Scilla #chianalea un posto bellissimo, un gioiello. L’affetto di tutti mi sorprende sempre, grazie #scilla. Ora ci siamo spostati a Gerace per altre scene. Luoghi incredibilmente belli. Sono un fan della Calabria, verrà un bel video, il regista è Giacomo Triglia, calabrese (l’ho “rubato” a Dario Brunori, altro calabrese doc). Ringrazio moltissimo tutti qui, per il supporto che ci state dando e per l’accoglienza generosa e piena di affetto. Grazie! avanti tutta!».
La Calabria Film Commission e Jovanotti
Dopo un po’ gli fa eco la suadente dichiarazione resa in occasione dalla conferenza stampa della Calabria Film Commission del suo nuovo presidente fresco di nomina, lo stilista di moda Grande: «Dove sorge il bello c’è la Calabria, la musica, il cinema, così il videoclip di Jovanotti è il primo importante passo del nostro progetto e del nostro percorso. Scegliamo la sua musica per promuovere le nostre location, così da creare interesse e veicolare immagini cult dei nostri spazi migliori».
Orsomarso, Jovanotti e Grande durante la conferenza stampa
Dal couturier delle dive non ci si poteva certo aspettare La corazzata Potëmkin. Così debutta ufficialmente l’idea che i paesaggi “animati” di questa regione possano funzionare da spazi di posa («i nostri spazi migliori»). E fungere così da fondali ideali per la messa in scena di una eterna e festosa rappresentazione folklorica della vita quotidiana dei suoi abitanti, astoricamente chiamati a vestire i panni di figuranti di una specie di carnevale dei buoni sentimenti in cuitutto è felice, ospitale, autentico, in cui è facile e facilitato riprodurre “il bello, la musica, il cinema, i videoclip”, e ogni zuccherosa riduzione turistica della realtà, appunto ridotta a spazio, a cosa esteticamente fungibile per scopi convenevoli. Più chiaro di così.
Uno spot per la Regione
Personalmente non ho proprio niente contro il mondo dello spettacolo, beninteso. Cinema, musica, pubblicità, marketing territoriale, turismo possono essere tutti strumenti utili, nella giusta misura. Quello che trovo invece abnorme è l’enfasi falsificatrice, l’abborracciata visione prospettica della realtà, la deformazione prognostica del futuro in cui tutto deve fare spettacolo e trasformarsi in finzione, attrattiva da villaggio turistico en plein air, per poter essere considerata “utile”. Una regione-trovarobato, fondale, proscenio, con paesi e comunità locali trasformate in “borghi” attrezzati come teatrini di posa di cartapesta, paesaggi buoni per essere trasformati in location pittoresche e a buon mercato per video clip, fiction improbabili, spettacoli e ricostruzioni di genere.
Non è irrilevante che l’operazione d’immagine che ha per protagonista Jovanotti abbia ricevuto, anche in questo caso, l’approvazione preventiva dei vertici regionali. E che il video della canzone di Jovanotti sia stato sponsorizzato e finanziato anche con il denaro pubblico dei cittadini calabresi. Non ha mancato di dichiararlo lo stesso presidente Occhiuto: «Ringraziamo Jovanotti per il suo affetto, e gli auguriamo il meglio per questo suo ultimo lavoro. Da presidente della Regione, ringrazio anche la Calabria Film Commission e il suo presidente Grande che hanno seguito passo passo l’evento, sostenendo finanziariamente l’organizzazione di questa due giorni. Jovanotti in Calabria è uno straordinario spot per la nostra regione».
Eroi e turismo
Non so voi, ma io quando sento echeggiare sinistramente parole chiave del lessico reclamistico-creativo come “location”, “evento”, “spot” e cose come “immagini cult”, se non fosse che mi ripugnano le armi, metterei volentieri mano alla fondina. Iscrivetemi pure d’ufficio al partito della deprecata categoria (ormai usata come una clava contro ogni garbata critica al conformismo neofolk e agli eccessi imperanti del neoidentitarismo sudista) degli scoraggiatori militanti. Ma poi di cosa sareste incoraggiatori voi? Non milito da nessuna parte, e non pratico il benaltrismo, cerco solo di capire. E a me di Jovanotti, con tutto il rispetto, frega comunque molto poco, in termini relativi e assoluti.
Piuttosto, quello che sempre mi stupisce di questo genere di trionfalistiche quanto deludenti campagne d’immagine basate su facce televisive conosciute, testimonial d’occasione, vipperia modaiola, artistoidi o personaggi veri o presunti, tutti lautamente compensati per portarsi a rimorchio l’immagine di una regione intera, è proprio l’investitura eroica, il ricorrente mito di fondazione che ogni volta si rinnova come un rito. Uno sproposito. Di chiunque si tratti, sono tutti sempre convocati con la sciamanica aspettativa che forniscano loro il sesamo giusto a riscattare l’immagine appannata della regione (appannata sì, ma da chi?). E tutti sono a turno vanaglioriosamente investiti della missione salvifica di “far decollare il turismo”.
Il problema della Calabria non sono Jovanotti e Gregoraci
Già, il Turismo. In una regione con l’economia perennemente sotto i tacchi, una società paralizzata dalle clientele e dal peso dei poteri criminali, l’ossessiva remissione alla monocultura turistica è l’autentico totem di tutti i clan politici e amministrativi, di ogni risma e colore, che in assenza di qualsiasi idea di futuro, in nome della palingenesi turistica della Calabria si avvicendano alla guida di questa regione sempre in cerca di autore. Sono loro il problema, i decisori politici di questa regione a corto di idee, non gli allegri Jovanotti e le allegre Gregoraci, chiamati a riverginare cosmeticamente l’immagine calabra per incrementare miracolosamente i flussi dei vacanzieri. I testimonial, i vip che saltano fuori a turno dal goffo cilindro creativo delle ricorrenze calabre, tutti più o meno incongruamente prescelti per rivestire il ruolo in commedia dei facilitatori dell’irrilevante marketing territorial-turistico calabro, passano e passeranno. Le immagini scorrono, cambiano i figuranti.
Elisabetta Gregoraci e Roberto Occhiuto alla Bit di Milano
La Calabria vera invece somiglia ad una giostra a perdere, che tra riflussi, abbandoni e ripartenze, appare ormai come un edificio più fragile e malfermo di un castello di carte. Le maggioranze silenziose, i gruppi d’affari che mettono le mani sui soldi veri, e che dispongono delle risorse e del futuro dei calabresi, no. Loro restano saldi e granitici, non cambiano se non cambiamo noi. Mentre capita sempre più spesso che tutto quello che distrae e fa scena viene sempre preso così enormemente sul serio. Persino una canzoncina di Jovanotti, che gira un videoclip ruffiano dalle parti di Scilla.
Un documento notarile estratto dagli archivi mette in luce aspetti particolari della quotidianità della corte baronale che abitava il castello di Paola a fine Cinquecento. La città di San Francesco è, all’epoca, un centro portuale molto attivo dell’alto Tirreno cosentino, infeudato sin dal 1496 alla casa Spinelli, tra le più influenti e potenti dinastie del Regno di Napoli.
La parabola di questo casato iniziò nella prima metà del XVI secolo, col matrimonio tra una Spinelli dei marchesi di Castrovillari, baroni di Fuscaldo e della Civitas Paulae, e il Vicerè spagnolo Pedro de Toledo.
Il castello dei baroni Spinelli in una stampa d’epoca
Il castello degli Spinelli: da forte a dimora deluxe
Paola, col suo castello e coi suoi 4.000 abitanti (quando Cosenza ne contava 10.000 e Amantea 3.000) divenne la capitale dei numerosi feudi Spinelli in Calabria.
Nato nel periodo normanno-svevo con funzioni militari e difensive, il castello di Paola si era trasformato in palazzo signorile, che sin dalla seconda metà del XVI sec. «somministra sontuosa dimora» al signore feudale e alla sua corte.
Un indizio singolare della vita a dir poco dispendiosa dei baroni è fornito anche un secolo dopo dall’importo della spesa per l’allevamento di ben «70 bracchi nella Canatteria» del castello. Il mantenimento della muta di caccia di pregiati bracchi degli Spinelli necessitava nel 1693 una somma che sorpassava i «due mila ducati annui» (un ducato napoletano si stima avesse il potere di acquisto di circa 50 euro attuali).
Costosi e pregiati: bracchi da caccia
Le ricchezze nel castello
Altri elementi importanti per ricostruire il tenore di vita possono essere acquisiti da un rogito del 1551 (7 agosto) stilato dal notaio Angelo Desiderio di Cosenza.
Il documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Cosenza, è un «Inventario del Castello di Paola e degli arredi in esso contenuti».
Il castello, come appare dalla descrizione che ne fa il rogito, era composto da più piani abitativi. Il piano nobile era in basso. Nella «sala subtana» e in una «camera grande» erano situati invece gli spazi di rappresentanza, le camere da letto e alcuni «magazzeni».
Nei magazzini si trovavano stipate, fra le altre «massarizie, quattro pezze di panni nigri di arbascio […] item un materazzo piccolo», e non mancano oggetti alla rinfusa e strumenti disparati della vita quotidiana, come «una pala di ferro […] item una sella foderata di velluto […] item quattro baliggi di cojro, due grandi e due piccole […] item venti candele di cera […] item due redini di cavallo».
A tavola con gli Spinelli
Antica tavola nobiliare
Il notaio passa alla descrizione di un cospicuo elenco di suppellettili di valore, oggetti di uso comune e utensili, arredi e vestiario, ma anche di molte provviste e alimenti che danno una idea concreta e reale dell’esistenza lussuosa condotta dai signori di Paola nel XVI secolo.
A partire dal “superfluo” – e soprattutto dall’abbondanza di carni, vino, provviste e alimenti pregiati di cui vivono i pochi facoltosi e i privilegiati della corte feudale – è possibile restituire una immagine realistica di un’esistenza priva di angustie e ben lontana dagli assilli del quotidiano.
Apprendiamo così che «nelle stanze de supra», si trovano «altri magazzeni» per le derrate e «le cucine», con la «stanza del forno, il cellaro, et la dispensa con vittuvaglie diverse». Fra le vettovaglie e gli alimenti conservati in dispensa, compaiono anche molti alimenti ricchi: «due pezzi di carne salata, item lardo […] item suppréssate […] item una pezza di caso palmeggiano».
Neve ’e Parma: un formaggio speciale
La diffusione del «caso palmeggiano» alle latitudini calabresi e la presenza di questo insolito formaggio padano sulle ricche mense degli Spinelli, è una rara eccezione gastronomica che infrange le rigide consuetudini alimentari della Calabria del Cinquecento. La regione, all’epoca, era grande esportatrice di formaggi ovini in tutto il Mediterraneo. E la dieta popolare era poverissima: cacio pecorino è praticamente la fonte esclusiva di proteine e grassi animali a buon mercato per i ceti meno abbienti.
Tuttavia, va ricordato che nel primo Cinquecento il parmigiano era noto nel Mezzogiorno. A Napoli lo vendevano gli ambulanti, persino nella versione grattugiata. In tal caso, era conosciuto col nomignolo di «Neve ’e Parma» (neve di Parma).
Evidentemente, l’abitudine partenopea di usare il «caso palmeggiano» sui maccheroni, era diffusa tra i ricchi e quindi condivisa anche sulle mense della corte Spinelli.
Il signore della tavola: il parmigiano
Grattacaso, saponi e altri lussi del castello
Lo conferma lo stesso inventario del 1551, che ci fa scoprire assieme alla preziosa forma di «caso palmeggiano», anche il corredo di utensili da cucina che ne completava l’uso.
Infatti, nei magazzini del castello, si trovano «due grattacaso de ferro, una grande et una piccola».
Seguono altri rari beni di consumo. Tra questi, notevole indizio di abitudini igieniche non comuni per quei tempi, la presenza di una cassa di sapone.
Non mancano i pezzi pregiati: nelle camere da letto scopriamo uno «sproviero di raso giallo guarnito di velluto carmosino misto a bianco et frangie […] item un altro sproviero di seta bianca con passamano et frangie di seta carmosina e bianca […] item due segge guarnite di velluto verde […] item due altre segge guarnite di velluto verde […] item la lettiga guarnita di raso con dentro due cuscini di velluto carmosino».
Il guardaroba degli Spinelli
Il guardaroba personale dei signori era costituito da una profusione di vesti e stoffe di lusso, con applicazioni «di frangie di seta verde e oro […] item velluto carmosino […] item seta bianca con passamano».
Il civettuolo guardaroba personale della castellana di Paola, oltre alle molte guarnizioni di «veste complete», i capi di velluto, seta e raso, non manca di completarsi anche con «pelli di martore […] item pelli di lontra». Mentre fra gli addobbi molte delle telerie «sono di oro; item due misali grandi, item quattro altri misali».
La cappella privata degli Spinelli
Fra le non poche suppellettili in oro nell’elenco si contano ben «undici candelieri piccoli», ma anche un oggetto curioso e decisamente superfluo come un «collare di cane arrecamato di oro matto».
Fra i preziosi e gli oggetti d’arte in possesso dei signori di Paola nel 1551 si trovano inventariati fra gli altri «un calice d’argento, item una patena d’argento, item un madonna d’argento». L’inventario fra le gioie conta ancora «molti scrigni con oggetti preziosi […] item reliquiari». Inoltre paramenti sacri e indumenti ecclesiastici completano un quadro di ricchezza di tutto rispetto, probabilmente senza pari anche fra le residenze di altre potenti case feudali della Calabria dell’epoca, come i Sanseverino, i Carafa o i Ruffo.
Un ospite speciale: l’abate Pacichelli
Anche dalla vivace descrizione che fa del castello Spinelli di Paola l’abate romano Giovan Battista Pacichelli, sceso a Paola nel 1693, è possibile ricavare un quadro di riferimento attendibile, seppure limitato al solo campione nobiliare, per certi aspetti della vita materiale.
Il prelato romano annotando nella sua descrizione gli aspetti funzionali e la fisionomia costruttiva del castello Spinelli, descrive una ricca magione. Esso era «partito di più quarti […] e assai commodo», dotato all’ingresso di «un cavalcatore assai largo» e ben illuminato da diverse «fenestre». L’acqua vi veniva condotta per mezzo di un acquedotto di «acqua perenne».
Il castello disponeva anche di una affollata scuderia attrezzata per ben «60 cavalli, e più muli».
Più che una fortificazione militare (la piazzaforte era difesa oramai solo da «qualche cannone di ferro», tra cui uno «crepato»), il religioso racconta un lussuoso palazzo signorile con pochi eguali.
Il visitatore fu condotto «a veder le suppellettili» che impreziosivano il palazzo feudale. Nelle stanze superiori ai trovavano «de tappeti, e de Quadri, scrittori ed altro; una bella tela dipinta da un Forastiero nel volto di un Camerone». La «Cappella nobiliare» esistente all’interno del palazzo era decorata invece con un «Choretto».
Le meraviglie del castello Spinelli
Agli occhi del prelato romano, il castello Spinelli sembrava una vera e propria scatola delle meraviglie. Anche la distribuzione e l’organizzazione interna degli ambienti e delle numerose stanze in cui il grande castello si dipanava, assumono una precisa funzione ed un significato ideologico e culturale non trascurabile. L’articolata distribuzione degli ambienti e la differenziazione degli spazi abitativi è – come afferma Braudel per la società dell’ancien régime – esclusivo «priviligio dei signori». Un privilegio insostituibile poiché conferma lo status dei potenti, rendendo l’idea e l’immagine della magnificenza e del potere immediatamente percettibili a tutti (molto spazio e molto lusso domestico, molto potere).
Gli ambienti di servizio del palazzo – «le stanze di sopra» – con le cucine, il «cellaro», i magazzini e le dispense, risultano ben distinti e defilati dagli altri ambienti in basso, al piano nobile, dove invece si svolgeva la vita domestica della piccola corte, che abitava gli ambienti di rappresentanza costituiti dalle numerose stanze «subtane» e si ritrovava nei «due tinelli» comuni situati «nella camera grande». Questi ambienti, riccamente arredati, di solito ospitavano, secondo la descrizione dell’abate Pacichelli, «corte nobile di molti cavalieri, officiali e inferiore servitù».
L’ufficio del signore
Fra queste stanze, il potente principe Spinelli aveva un suo spazio privato. Era un luogo ben riposto e discreto, necessario all’esercizio privato del potere del principe: la «stanza detta de Burrello». Il «Burrello», ove il signore di Paola riceve i suoi ospiti, prende le decisioni più riservate e disbriga le pratiche del potere, èappuntouna sorta di gabinetto politico.
L’espressione «de Burrello» che compare nel citato inventario del 1551 allude infatti ad una evidente corruzione della parola francese bureau.
A pranzo dai gesuiti
Pacichelli descrive infine in toni entusiastici i cibi e le portate di un banchetto servito in suo onore dai Padri Gesuiti del Collegio di Paola, presso cui fu ospite. In questo frangente, l’abate celebra fra le pietanze il gusto delle «prede di pesce esquisito» che gli furono servite. E ancora riferisce che «nel desinare con le carni più scelte fu copia di fravola, di limoni e di frutti: et alla cena più specie di pesce». Un banchetto raffinato e sontuoso, esaltato dalla «abbondanza de perfettissimi vini e delicatissimi frutti». Come dire il lusso dei ricchi, i privilegi di nobili e clero.
Quando arrivate a Paola ve ne accorgete subito: Francesco di Paola, “il santo glorioso” è imposto ovunque, e ovunque buono per usi convenevoli. Lo incontrate persino elevato a indicatore di direzione e nume tutelare del traffico stradale. Quasi ad ogni svincolo e incrocio, compresa la trafficatissima nazionale, già alle porte del paese alla confluenza del Santuario con la SS 18, c’è una grande statua del santo col bastone di cui tutti i calabresi si dicono timorati e devoti, «u santu nuastru». Come se ci fosse bisogno di lui nelle vesti di vigile miracoloso pure per sbrogliare il movimento soffocante di mezzi che ogni giorno attraversano pericolosamente queste contrade di passo.
Panoramica del Santuario di San Francesco di Paola
San Francesco di Paola, il grande onomastico della Calabria
C’è un gran traffico in giro. Si capisce proprio dalla statale intasata che questa giornata segnata sul calendario di tutti i calabresi si è invece trasformata in una ricorrenza di festa. E oggi, come ogni anno nel nome di Francesco di Paola si celebrail grande onomastico della Calabria. In Calabria il santo più santo di tutti i santi patroni di paesi e città è proprio lui, quello di Paola. E la sua fama non è seconda a quella di Francesco di Assisi, patrono d’Italia, di cui pure l’eremita paolano era stato seguace.
Il convento dei Minimi a Plessis-lez-Tours in un’incisione acquarellata del 1699 (Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi, In primo piano l’orto di frate Francesco)
San Francesco è infatti il vanto universale del paese che gli diede i natali il 27 marzo 1416. Il 2 di aprile, è invece il giorno, era un venerdì santo, della sua morte, avvenuta lontano dalla Calabria. Morì infatti proprio il 2 aprile 1507 nel castello di Plessis Lez Tours, alla corte di Francia, alla veneranda età di 91 anni, negli stessi ambienti che qualche anno dopo videro la presenza di Leonardo da Vinci.
Il santuario e l’identità dei calabresi
Eppure come ogni anno la sua vicenda comincia e ritorna ogni volta qui, alle porte di Paola. La storia di questo santuario è legata a filo doppio con la vicenda e l’identità culturale dei calabresi. «Il nostro luogo di Paola», lo chiamava San Francesco. Verso il recinto sacro del «monasterio» e della «ecclesia», fondati dal taumaturgo alla metà del XV secolo, dalla traccia segnata sulle boscose e segrete balze dell’Isca da un’apparizione del santo assisiate, un luogo sottratto alla natura e già tributario di un suo ordine mitico, mutato in luogo di preghiera, il «deserto», e poi da eremo a santuario.
Nobili e popolani si recavano in affollato corteo per penitenze e suppliche. Ottenevano auspici e consolazione. Invocavano grazie e frequentemente ricevevano guarigione per i mali del corpo e dello spirito dal pater pauperum Francesco di Paola.
San Francesco di Paola, l’eretico
Francesco de Alessio, di Giacomo Alessio, detto “Martolilla”, e Vienna de Foscaldo, era figlio di due ebrei convertiti. Il piccolo Francesco venne al mondo come frutto di un voto fatto da due genitori sterili e di età avanzata. Nasce gracile e con un “posteuma”, un tumore all’occhio sinistro. Guarisce. Diventerà alto e forte come un gigante e morirà quasi centenario. Prima seguace e devoto dell’altro Francesco, diventerà egli stesso santo. Il santo viandante, il frate col bastone, il santo dei poveri e degli ultimi, il “Pater pauperm Francisci de Paula”. “Il povero frate Francisci de Paula, minimo delli minimi siervi de Giesù Christo Benedetto”, che fu asceta e formidabile servo di Dio.
San Francesco di Paola in processione
Fece presto miracoli di carità in Calabria e altrove, ed ebbe fama grande di taumaturgo presso i popoli e le corti del suo tempo. Fu però dapprima giudicato eretico da preti e prelati increduli, e tenuto persino per «eretico», «mago et erbarolo».
Contro i prepotenti di ogni risma e i sovrani malfattori ebbe parole terribili: «Guai a chi regge, e mal regge, guai ai Ministri dei Tiranni et alle tirannie, guai alli Ministri di giustizia che li è ordinato far giustizia e lor fanno il contrario. Guai alli impij che di loro è scritto: non resurgent impij in iudicio, neque peccatores in Concilio justorum». Fu giusto in vita ed ebbe infine gloria universale nel mondo dei cristiani.
Contro i potenti e per la pace
Luigi XI di Francia
In Francia l’eremita visse gli ultimi 24 anni della sua vita. Partecipò in prima persona alla soluzione dei più importanti problemi politici e diplomatici del suo tempo tra il papa e i re francesi. A Parigi teneva testa ai dotti e ai filosofi della Sorbona, dopo aver condannato l’ingiustizia del re di Napoli Ferrante d’Aragona, e non fu più tenero col re di Francia. Il frate asceta fu infatti chiamato per la sua fama di taumaturgo alla corte dell’uomo più potente del secolo gravemente ammalato, Luigi XI.Gli rifiuterà la guarigione del corpo per concedergli solo quella dell’anima.
Francesco di Paola fu in anticipo sui tempi e protagonista della riforma cristiana. Nella verità della carità per i poveri e gli umili il “bono patre Francisci de Paula” guardò sempre ai potenti del secolo con “occhi di lione”. E nel nome del Signore non fece sconti a nessuno. «Conserva i giusti, et alli ingiusti l’inferno», sentenziò. L’asceta che seppe reggere il confronto con re e papi era dunque un calabrese con la schiena dritta. Fiero con i potenti, generoso con gli umili.
In tempi di guerre di religione fu però ispiratore di armonia e di concordia, che esortò sempre i governanti e potenti del suo secolo alla pace: «Amate la pace, perché è molto meglio di qualsiasi tesoro che i popoli possano avere». La regola del suo Ordine dei Minimi, Ordo Minimorum, approvata nel 1506, alla stregua di una costituzione democratica, vale ancora oggi come codice di moralità etica e sociale per gli uomini e le donne di tutti i tempi.
Il culto di San Francesco di Paola nel mondo
Sparse in Italia e in tutti gli angoli dei cinque continenti, esistono ancora oggi centinaia di chiese intitolate al santo di Paola. Sono 54 le congregazioni religiose che rispondono ai tre Ordini dei Frati Minimi di San Francesco di Paola (circa 200 monache, 220 frati e 5-6.000 laici), con comunità diffuse in paesi come Spagna, Francia, Repubblica Ceca, Ucraina, Brasile, Colombia, Messico, Usa e India. La sua figura di taumaturgo e di protettore è particolarmente sentita e venerata nel mondo dei migranti, delle genti di mare e nelle comunità calabresi e meridionali all’estero.
La chiesa di San Francesco di Paola a Napoli
Fondatore dell’Ordine dei Minimi (1506) che divenne uno dei quattro ordini religiosi più importanti nel secolo della controriforma cattolica, taumaturgo formidabile, teologo, mistico e asceta tra i più importanti del XV secolo, il santo della carità, il pater pauperumfu anche una delle figure di maggior spicco del cristianesimo europeo, a cui lo storico Johan Huizinga nel suo L’autunno del medioevo (1919) dedicherà pagine esemplari.
Dalla fede popolare al supermercato della devozione
Ma per sua predilezione per gli ultimi la figura del santo di Paola appartiene ancora oggi prevalentemente all’agiografia, alla religione dei ‘poveri’ e alla fede popolare. Da un secolo all’altro il Santuario di Paola divenne un centro di fede e devozione sempre più importante. Si sono moltiplicati i pellegrinaggi sempre più affollati e cortei di auto e bus verso il Santuario e al monastero, con la visita alle reliquie e al primo romitorio medievale fondati dal taumaturgo paolano. Era il 1969 quando Annabella Rossi, allieva di Ernesto de Martino, nelle sue ricerche antropologiche sulla religiosità popolare pubblicate in Le feste dei poveri (1971), scopriva in Calabria il santuario di Francesco di Paola.
Mostacciolo di San Francesco
Ma il santo patrono dei calabresi era già ultrapopolare, patrono delle genti di mare, degli emigrati e a quel tempo soprattutto dei “poveri”. Il flusso annuale dei devoti nel 1969 veniva stimato dalla Rossi in 800 mila persone all’anno. Ma la festa a quel tempo era quella della tradizione locale, del mondo contadino e degli emigranti, con i pellegrini che si radunavano tutti davanti alla chiesa: organetti, balli popolari, gruppi di famiglia, mangiate e dormite all’aperto, processioni, fratini ed ex voto. Poche macchine, pochi pullman, poche bancarelle. Scarsi e ancora simbolici gli affari e i proventi della devozione anche per il convento: medagliette e bottiglie di acqua benedetta, immagini tradizionali, ex voto e statue di creta con l’effigie del santo col bastone.
Oggi è un posto da “antropologia del casino” meridionale. Il santuario è più simile a una sorta di supermercato della devozione di largo consumo, tappa di trasferimento nei tour del pellegrinaggio parrocchiale fast-food. È pur sempre un bagno di buoni sentimenti. Ma anche per la memoria e per il nome di Francesco di Paola il rischio è quello di una religione popolare smorzata e ridotta spesso a superstizione secolarizzata in invettive e proclami, una fede che nessuno pratica sul serio e che non costa niente tranne qualche souvenir di plastica.
Musical, fiction e Padre Pio
Ormai la sua effigie sulle bancarelle gareggia infatti a pochi euro con quella più modaiola e telegenica di Padre Pio. Fino a qualche anno fa i bancarellari li offrivano affiancati i santi del Sud pauperizzato, un tanto alla coppia. Adesso di statuette votive ne fanno certe fuse in un orrendo impasto di resine sintetiche conciate in formato bipartisan, modello ibrido “San FranPio”. Nel frattempo, dopo il recente successo di un musical, per rinfrescare e rendere più modaiola la popolarità appannata dal lungo medioevo rurale del santo calabrese ascetico e incazzoso, si minaccia una fiction televisiva della Rai modello Padre Pio.
Ma se invece volete farvi un’idea del carisma e della forza del suo sembiante, a conferma delle impressioni fissate dalle fonti coeve e della fede popolare dei Calabresi di quei tempi, ben difficili dei nostri, l’immagine più attendibile di Francesco di Paola proviene dall’iconografia pittorica più vicina ai tempi della sua vita. C’è un dipinto che si può ammirare a Montalto Uffugo, Chiesa dell’Annunziata, che viene ritenuto il più prossimo a un ritratto dal vero San Francesco di Paola (autore, “Bastianus Floretinus”, 1513 circa).
Il ritratto di San Francesco di Paola
Impressionano i particolari delle mani che reggono il bastone, i tratti severi del volto, la figura vigorosa avvolta dal saio, i piedi con i calzari. Dettagli del sembiante che già parlano chiaro. Guardategli quelle dita nodose e le mani con le vene gonfie, così contratte e nervose che sembrano pronte a scattare per scagliare contro i prepotenti di tutte le risme il grosso bastone a cui si appoggia lungo lungo come fosse una lancia da armigero. E quel cipiglio da leone arruffato e gli occhi insonni da sentinella d’accampamento, il naso affilato dalla fame spirituale e dal fanatismo vegano, la barba da mistico e profeta, e quei piedi forti e snudati, i ditoni sghembi, le unghie scheggiate, le palme ossute e deformate dal cammino senza soste del pellegrino solitario, che non ha risparmiato nemmeno i suoi santi piedoni usati per calci formidabili sferrati al diavolo in persona.
Vegetariano per amore degli animali
San Francesco di Paola fin dall’inizio della sua vocazione, si attenne a una dieta rigorosamente vegetariana escludendo ogni derivato animale. Ad appena 14 anni si ritirò nei boschi di Paola in solitudine. E vi rimase, dormendo in una grotta e mangiando ciò che la natura donava lui spontaneamente, con la sola compagnia degli animali selvatici. L’astinenza dalla carne praticata dall’asceta e dai suoi seguaci entrò nella regola sotto forma di 4° voto di “perpetua vita quaresimale”.
Il frate amava troppo gli animali per mangiarseli: «Un giorno, mentre Francesco di Paola andava per boschi, trovò un piccolo cervo che i cacciatori volevano catturare. Francesco lo protesse e lo lasciò libero. Dopo lungo tempo, mentre altri cacciatori inseguivano quel cervo per catturarlo, fuggì verso il convento e si fermò sotto la cella di Francesco. Quel cervo poi seguiva il buon padre in chiesa e dovunque andasse, leccava il suo saio facendogli festa come un suo difensore».
San Francesco resuscita i pesci
Il santo vegetariano fece anche partecipi gli animali del miracolo più grande della religione cristiana: la resurrezione dalla morte. Resuscitò due animali a cui era molto affezionato: l’agnellino Martinello e la trota Antonella ripresero vita non appena il santo, che soleva dare un nome a tutti gli animali, impose loro le mani. Ma le resurrezioni di animali avvenute per l’intercessione del santo calabro non si esauriscono qui. Ospite alla corte di Napoli gli offrirono da mangiare dei pesci fritti, ma egli li tirò fuori con le mani nude dall’olio bollente e li risuscitò. Altri miracoli parlano di un serpente che era stato schiacciato e ucciso, miracolosamente riportato in vita da San Francesco e di un bue, anche questo risuscitato.
Un ecologista ante litteram
Prima che spuntasse “il sole che ride” il santo della Charitas era perciò anche un ecologista ante litteram. Di recente Francesco di Paola che era già nella “hall of fame” dei santi vegetariani, è diventato il patrono “de facto”, di tutti le comunità dei vegani cristiani. Qualche anno fa la questione fu argomento di discussione anche al Vegan Fest di Lucca. Il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa pare molto prossimo.
Vita quaresimale, regime vegetariano, sensibilità da ambientalista e rispetto caritatevole per il creato, l’amore solidale per i viventi e per tutte le forme di vita della terra e dell’acqua, i boschi, gli animali, la natura. Sta tutto nella sua “Regola” (1506). Una grande ricchezza. Basterebbe leggerla. E rispettarla un poco. In questi tempi di bassi orientamenti etici e di incerti sentimenti sul sacro sarebbe forse questo il vero miracolo di San Francesco. Liberarsi del superfluo, amare il creato, rispettare il prossimo.
Strane apparizioni vicino al Santuario
Ma qualcosa nonostante tutto riemerge dal sottofondo delle mentalità, dall’immaginazione sorgiva di un passato del sacro soffocato dal turismo religioso e dalla fede-spettacolo. Già nell’anno del quinto centenario della morte, il 2007, u santu nuastru si era mostrato ai viventi con qualche prodigio di difficile decifrazione. Adesso in tempi di crisi conclamata dirà la sua sulla guerra e uomini e su ciò che piace a Dio? In questi giorni difficili tra i fedeli si riparla sottovoce di un’ultima profezia di Natuzza Evolo, la veggente di Paravati che del santo di Paola era devotissima.
La fede popolare reclama manifestazioni, vuole vedere segni. Qualcuno tra i fedeli più tradizionalisti di frate Francesco giura pure di aver visto un monaco incappucciato aggirarsi di notte sui luoghi intorno al Santuario profanati dalle ruspe e da troppi abusi edlizi. Ha un bastone in mano e un’aria santamente incazzata. Che cosa vorrà dirci adesso frate Francesco?
Samprancisk
Ma in questo giorno del calendario San Francesco è per tutti i calabresi Samprancisk. Uno che puoi prenderlo a bestemmie o invocarlo al bisogno. Uno che ci parli e gli dai del tu, come un amico o un parente che si incontra per strada, e che è di casa ovunque dal Pollino allo Stretto. E così in giro per la regione, e in mezzo mondo, nel suo nome si possono festeggiare anche tre processioni all’anno, sempre con la folla dei devoti dietro l’effigie barbuta e austera del patrono calabrese. Il protettore di Paola, un asceta medievale incazzosissimo e bonario, è il patrono dei pescatori e di tutta la gente di mare.
La statua sommersa di San Francesco di Paola
Il santo protettore di tutti i calabresi, dei fuggiti per emigrazione e di quelli rimasti per ostinazione non cessa di attrarre fedeli e devoti. Ogni anno questo onomastico è perciò uno degli appuntamenti che scandiscono la vita della Calabria. Fuori c’è la guerra, ritornano a galla paure antiche come il mondo. Nel flusso di stucchevoli banalità quotidiane, farcito del solito pastone di notizie truculente, gossip e veline emesse dai palazzi per alimentare le cronache del politichese locale, i santi spezzano la monotonia della prosa calabra di attualità.
Il cammino della 107
Adesso sulla statale calano le ombre, io giro le ruote per allontanarmi dal bivio del Santuario. Il pomeriggio sul Tirreno brilla dei raggi obliqui di un tramonto rossastro. Risalendo verso la Crocetta ho visto per strada un gruppo di pellegrini e devoti fare a piedi, sfidando la notte, il cammino di fede che porta qui sulle strade incasinate della 18 delle Calabrie in direzione del monastero di Paola. Lo stesso bordo trafficato dai pendolari del fine settimana sulla 107 Paola-Cosenza si trasforma così in una specie di “camino de Santiago” nostrano.
Il giubbettino giallo catarifrangente delle soste di emergenza addosso come un saio penitenziale a scansare il risucchio delle macchine che sfrecciano. Un sacrificio vero. Una prova di fede che mi commuove e spaventa. Così per voto al frate di Paola c’è chi ancora rischia la pelle. Anche i pensieri di quelli che ci sono stati a fare visita e a chiedere grazie al “santu nuastru” restano ancora un poco incollati a mezz’aria sulla strada, come un resto di preghiera. Il vento di San Francesco li porterà fino a mare. Anche quelli miei che pure mi chiamo Francesco, e che santo non sono.
«Benvenuti a Montalto Uffugo, il paese di Ruggiero Leoncavallo». Recitava così un enorme cartellone stradale visibile dal 2002 all’ingresso di quello che ora è lo smantellato e fatiscente ipermercato Emmezeta, appena fuori dallo svincolo Rose-Montalto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Curioso invito alla sosta tra luoghi-non luoghi collegati alla genesi artistica e alla vicenda di uno dei più famosi e popolari melodrammi del teatro lirico italiano. Eppure il palinsesto originario di Pagliacci riconduce a un territorio estraneo e distante dalla soglia mobile ed effimera di questi santuari provvisori del consumismo planetario. A un mondo “altro”, lontano anni luce dalle finzioni glamour e dalla spettacolarizzazione a cui ci ha abituato oggi la cultura di massa.
Montalto Uffugo, il museo dedicato a Leoncavallo
Il piccolo Leoncavallo e la vera storia di Pagliacci
Il più famoso melodramma di Leoncavallo (autore peraltro molto prolifico) nasce intorno al 1890. Enfatizza gli echi più tragici e coinvolgenti scaturiti da un episodio registrato dalle cronache e dal folclore locale. L’opera si ispira a un delitto realmente accaduto a Montalto Uffugo, quando il compositore era bambino. In seguito, il padre di Ruggiero Leoncavallo, Vincenzo, un magistrato napoletano destinato a quel mandamento giudiziario, ebbe il compito di istruire il processo che portò alla condanna dei colpevoli.
Ecco in breve come andarono realmente le cose. Per una carambola del caso il piccolo e irrequieto Ruggiero venne affidato dalla famiglia alla sorveglianza di un domestico, il ventenne Gaetano Scavello. Siamo nel 1865, Leoncavallo (che prendeva lezioni di musica da quando aveva 5 anni) all’epoca dei fatti ne aveva appena 8.
La cronaca nera stava per entrare nella sua vita turbando anche la pigra tranquillità di Montalto Uffugo. Proprio Scavello, giovane factutum di casa Leoncavallo, si era preso una sbandata per una bella e forse non del tutto “illibata” (ma quella era la morale paesana di quei tempi) ragazza del paese, che risultava comunque promessa al calzolaio Luigi D’Alessandro.
La morte del factotum di casa
Un giorno di marzo il giovane Scavello vide entrare furtivamente la ragazza in una casa colonica. Era insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, tale Pasquale Esposito. Pretendendo maggiori spiegazioni, Scavello fermò Esposito, ma il suo rifiuto di rivelare il motivo dell’incontro con la ragazza lo fece infuriare al punto di ferire l’avversario alle gambe con un bastone. La ragione dello scontro venne subito riferita allo stesso Luigi D’Alessandro e al fratello di questi, Giovanni.
La sera successiva i due feriti nell’onore minacciarono più volte Scavello. E al culmine di un alterco, approfittando della confusione e del parapiglia promiscuo che si era creato all’uscita di uno spettacolo di varietà messo in scena da una compagnia di sciantose e guitti ambulanti che visitava il paese, accoltellarono il giovane a morte tendendogli un agguato in un sopportico. L’istruttoria e il successivo processo per l’omicidio dello Scavello, celebrati da Vincenzo Leoncavallo, si conclusero con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.
Troppo verista per Ricordi
Difficile che il piccolo Leoncavallo possa aver assistito direttamente al fatto di sangue, mentre è certo il legame di familiarità stabilito all’epoca dei fatti con la vittima. La traduzione dei fatti originari è quindi piuttosto diversa da quella che segnerà poi lo sviluppo successivo della scrittura dell’opera lirica. Anche la trama e la scrittura del libretto per Leoncavallo non furono cosa semplice e non mancarono scoraggianti contrarietà e rifiuti. Il compositore sottopose il lavoro all’editore Ricordi, che rimase turbato dalla modernità del libretto e dal prologo eccessivamente verista in cui Leoncavallo, tramutando quella tragedia paesana di sangue e di coltello consumata dal vero, aveva tratto ispirazione e materia creando un ardito cortocircuito tra scena comica e vicenda tragica.
Ruggiero Leoncavallo
Leoncavallo provò infine con Sonzogno, che imponendo qualche revisione, gli consentì di portare finalmente a teatro il lavoro che aveva così a lungo e accanitamente immaginato, scritto e musicato. Il suo lavoro mette per la prima volta a contatto figure e costrutti della tradizione e della culturale locale calabrese con i linguaggi della modernità.
L’opera lirica fu perciò ambientata dal compositore napoletano proprio nella «sua» Montalto Uffugo, il piccolo paese della provincia di Cosenza dove si consumò l’episodio di cronaca che lo condusse a scrivere a 35 anni Pagliacci.
Toscanini e il primo clamoroso successo
L’opera ha nell’aria Vesti la giubba e nella definizione del Prologo, espressione di teatro nel teatro che già anticipa la drammaturgia novecentesca, i suoi passaggi librettistici e musicali più conosciuti. Leoncavallo non fu infatti solo musicista ma anche un buon letterato, fu allievo di Carducci a Bologna, visse e lavorò a Parigi – dove conobbe Zola e Hugo – viaggiò dall’Egitto agli USA, in Francia, in Svizzera e in Sudamerica.
Arturo Toscanini
Partita in sordina, considerata opera di un autore minore, con un libretto di argomento rozzo e «barbaramente verista», aggravato dalla remota ambientazione locale e per giunta rurale, sin dalla prima recita messa in scena il 21 maggio 1892 al teatro Dal Verme di Milano, direttore un giovane Toscanini, Pagliacci si rivelò invece inaspettatamente un clamoroso successo, proseguito e riaffermato poi nei teatri lirici di tutto il mondo.
Anche meglio di Verdi
Con Pagliacci Leoncavallo e il suo editore Sonzogno, non molto tempo dopo, riusciranno a superare persino gli incassi delle opere di Verdi. A distanza di un secolo Pagliacci resta nei fatti un unicum. Un esempio di sintesi culturale tra i più autentici e riusciti in mezzo ai capolavori del verismo musicale italiano. Sulla scena è protagonista un povero guitto deriso e fatto becco da una Circe da fiera di paese che sceglie il suo ultimo amante tra uno dei ganzi che le ronzano intorno nella confusione della folla eccitata e stordita di un afoso paesino in cui si celebra tra libagioni omeriche e danze contadine la festa di mezza estate.
La commedia degli attori girovaghi si tiene sotto un tendone lacero e improvvisato. Ma l’attrazione sta nei carrozzoni colorati da cui occhieggiano zingare compiacenti e sciantose imbellettate, il cui fascino profano gareggia con le immagini pie delle madonne barcollanti portate in processione nella controra. Siamo nella Calabria del 1870, ma due elementi danno una credibilità e uno spessore antropologico universale (e beninteso, teatrale) al melodramma: il paesaggio e l’ambiente sociale, emblema di tutti i Sud che si affacciano per le ultime recite sul bordo del vecchio mondo contadino che già declina verso il Novecento, con l’incipiente mondo contemporaneo che vedrà la globalizzazione dei costumi. C’è poi il dramma «classico» e luttuoso che grava sulla figura tragica di Canio.
Il melodramma più rappresentato in giro per il mondo
Il verismo di Pagliacci non è solo rappresentato nei costumi, nelle invocazioni gergali, nell’ampio coinvolgimento scenografico di figure popolari –tratte come le scene dal vero della prima rappresentazione teatrale, dai dipinti del pittore calabrese Rocco Ferrari –, ma anche soprattutto nel dramma dell’onore, nelle figure di Canio e Nedda, nell’apoteosi brutale del duplice omicidio finale.
Un dipinto di Rocco Ferrari per Pagliacci
Disegni di Rocco Ferrari per la scenografia di Pagliacci di Leoncavallo
Una protagonista e il suo costume
La Montalto Uffugo di Pagliacci
Disegni di scena
Un altro degli oggetti in mostra al museo
Disegni di scena nel museo dedicato a Leoncavallo
Con gli omaggi di Enrico Caruso…
Pagliacci è di scena a Buffalo
Ed è forse per questo che l’opera di Leoncavallo, scritta pensando alla Calabria e al suo mondo segregato e distante, ritrova ancora oggi i contrasti tragici della sua radice più classica e insuperata nella congiuntura culturale, che nonostante il secolo trascorso ne mantiene intatto il successo anche in ambito contemporaneo. Pagliacci è infatti ancora oggi il melodramma italiano più frequentemente portato in scena e cantato, persino più volte delle opere di Verdi e Puccini. Ogni anno in giro per il mondo, nei teatri di tutti i continenti, si contano più di 400 rappresentazioni dell’opera.
Pagliacci alla Scala di Milano
Leoncavallo, Pagliacci e l’industria culturale
Anche l’industria culturale e il cinema ne hanno attinto a piene mani. Le note delle arie più famose di Pagliacci risuonano ne la trilogia de Il padrino di Coppola e una delle scene clou de Gli intoccabili di De Palma, sino alle più recenti versioni melò dell’opera di Leoncavallo firmate in Italia da Zeffirelli (1983), Liliana Cavani (1998) e Marco Bellocchio (2016). Uno dei marchi delle global company più conosciute nel mondo, la Coca Cola, già più qualche anno fa aveva pensato bene di utilizzare per la pubblicità della sua così poco mediterranea bevanda, proprio la traccia musicale di una delle arie più sentimentali e patetiche che danno lustro universale alla vicenda di questo melodramma.
Leoncavallo fu in grado di operare così una “traduzione” culturale di realtà marginali nelle forme e nei linguaggi più moderni e comunicativi disponibili all’arte popolare di quel periodo: il melodramma verista, e poi la musica popolare delle arie e delle romanze stampate e diffuse ovunque per la prima volta su disco, e particolarmente diffuse grazie questo primo veicolo tra le comunità di emigrati italiani all’estero e soprattutto nelle due Americhe.
Un tesoro per gli americani
Ne è prova il National Recording Registry, un museo di files sonori creato dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. In questo archivio multimediale è stata immortalata la storia culturale degli USA. Vi hanno trovato consacrazione le voci ruvide e stentoree di presidenti e generali, le icone sonore di Martin Luther King che pronuncia il suo celebre «I have a dream», la voce da crooner di Frank Sinatra e quella libertaria di un giovane Bob Dylan che canta Blowin’ in the wind.
La biblioteca del Congresso a Washington
In mezzo a questo campionario di voci memorabili è possibile ascoltare i maestri del jazz e della musica classica, i poeti e gli artisti del rock, pezzi di storia popolare come la prima trasmissione radiofonica americana, il primo disco di jazz, il primo album in stereo e altro ancora. In tutto le registrazioni da consegnare ai posteri per ora sono solo cinquanta, selezionate da un gruppo di esperti guidati da James H. Billington, responsabile della Libreria del Congresso, che le ha giudicate «culturalmente, storicamente o esteticamente rilevanti per importanza» per la ricostruzione della storia culturale degli USA.
Enrico Caruso e una registrazione da record
Al n. 7 del repertorio, c’è per ora l’unico brano in italiano: un’aria d’opera che divenne subito famosa e amata, e non solo tra gli immigrati italiani, «Vesti la giubba from Pagliacci of Ruggiero Leoncavallo. By Enrico Caruso. (1907)». Il celebre brano è preceduto da questa motivazione: «Tenor Enrico Caruso was probably the most popular recording artist of his time. His recording of this signature aria by Leoncavallo was a best-selling recording». (Il tenore Enrico Caruso fu probabilmente l’artista più popolare del suo tempo a incidere. La sua registrazione dell’aria simbolo di Leoncavallo fu tra quelle più vendute, ndr).
Enrico Caruso in abiti di scena
Si trattava dunque già allora di un successo ultrapopolare del belcanto; Leoncavallo dimostrando grande fiuto per lo showbiz fu tra i primi compositori a registrare le sue musiche su disco. Successo che dura ancora oggi intatto. Merito di Caruso, merito di Leoncavallo e soprattutto di una storia di paese che raccontava al nuovo mondo l’anima degli italiani del Sud.
Leoncavallo e i Pagliacci globalizzati
Con Pagliacci Leoncavallo riformulava il melodramma classico, ibridando il belcanto con i temi e gli ambienti sociali emersi dal basso. Del resto lo stesso Leoncavallo, per guadagnarsi da vivere aveva suonato nei bistrot e nei caffè-concerto malfamati di Parigi.
Ed è forse per questo che all’epoca autore e opera (nonostante il grande successo popolare) furono ambedue così apertamente osteggiati dalla critica musicale purista e dalle posizioni più ufficiali e conservatrici dell’intellettualità nazionale. Piaceva molto invece agli emigranti italiani, e agli americani, quella musica «tumultuosa e vistosa». Era esagerata, ibrida e sporca, come come il jazz, come un musical, come un’opera rock. Pagliacci, globalizzati.
È un posto duro da raccontare Reggio Calabria. La più difficile tra le città e i luoghi che incrocio da anni in questa regione nei miei giri solitari da antropologo e narratore sul campo. Ci arrivo ancora una volta in auto seguendo il lungo spago della SS 18. Dopo aver attraversato traffico, agitazione e scompiglio, allacciando lungo il tragitto tutto quello che sorge sulla costa tirrenica calabrese da nord a sud, la lunga strada delle Calabrie si arresta qui, in riva allo Stretto. E poi si spegne quasi anonimamente, in un modesto vialetto che si perde tra le auto parcheggiate sotto le case del quartiere urbano di Santa Caterina.
Gli stereotipi, la realtà e le sue contraddizioni
E già guardandola oltre i finestrini dal nastro sconnesso della SS 18, ti accorgi che Reggio è un enorme geroglifico scarabocchiato sopra il mare dello Stretto. Un luogo di soglia, margine estremo del disegno confuso dello stato dei luoghi e delle persone in questa Calabria di adesso. Una sorta di documento/monumento concreto. La sigla più indecifrabile e ostica tra i segni della scrittura umana e della geopolitica incisa nella regione.
Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri
Gratteri nel 2011 dichiarava che la densità criminale, con il coinvolgimento a vario titolo nelle attività illecite di una parte della popolazione, nella provincia di Reggio era stimata al 27% della popolazione totale. Perciò comincio a credere che, forse, solo sottraendola dalle narrazioni corrive e dall’inappellabilità della sua storia recente, riprogettandola nell’atemporalità e nella ricchezza solare dei suoi miti, rifondandola tra le suggestioni dei racconti e delle pagine che la nominano, a Reggio si può immaginare una via d’uscita per il riscatto e la costruzione di un futuro rinnovato.
Reggio Calabria è infatti lo Scilla e Cariddi di tutta la Calabria contemporanea, la capitale immorale che ne assomma tutti i mali e le dismisure, la luce e l’ombra, il suo distillato di società disegnata – male, malissimo – su un territorio che un tempo fu abitato dalla bellezza e dalla sapienza degli antichi. «Reggio, città bella e gentile», si diceva una volta. Se la metamorfosi del moderno ne ha sino ad oggi imbruttito e mostrificato il volto, non ha però svuotato del tutto l’aura luminosa del suo sigillo originario. Qualcosa vi resta ancora impresso come un calco, oltre i dissidi e le contraddizioni del moderno, nella forza sommersa dei princìpi.
Miti di ieri e di oggi
La realtà che mostra oggi le evidenze e i contorni di Reggio è però, come in tutti i miti, intrappolata nelle opposizioni flagranti che ne costituiscono il senso. Miti di ieri e miti di oggi, che qui cozzano e lottano senza mai raggiungere un ragionevole punto di sintesi. Odisseo e le sirene, la Fata Morgana, lo Stretto e il panorama del chilometro più bello d’Italia, Eracle e la fondazione dei coloni della Ionia, la Magna Grecia, il culto dei Dioscuri, Aschenez, San Paolo e le radici cristiane.
Il fenomeno della Fata Morgana
Sul lato opposto, la ’ndrangheta e la pervasività delle cosche, la corruzione diffusa, la città fascistissima e irredenta dei moti del 1970, la malapolitica e il famigerato “modello Reggio”, il Circolo del Tennis e il Circolo del Cinema, gli Amici del Museo e quelli delle logge coperte dei capi della massomafia e dei servizi deviati, i Boia chi molla! e le associazioni cattoliche, il pescestocco e i cudduraci, i ruderi greci abbandonati in mezzo alla città, il Calopinace interrato e pieno di detriti, i bronzi di Riace nel Museo Archeologico e il genio futurista di Boccioni, il colonnato di Tresoldi piegato dal vento, palestra per i topi che ci ballano sopra, la devozione alla Madonna e quella al Santuario di Polsi, il centro con le palazzine liberty da nobile decaduta e appena fuori i quartieroni abusivi senz’acqua, l’incuria, le strade sommerse di monnezza, l’urbanistica miserabile da gran bazar del cemento.
Una delle statue di Rabarama sul lungomare di Reggio Calabria
Reggio Calabria sottosopra
Ciò che di Reggio colpisce al primo colpo anche l’occhio di un profano è il suo aspetto sottosopra. Una città che sembra costruita a immagine e somiglianza del provvisorio che gareggia con l’eterno, del brutto che sottomette il bello, del privato che prevarica il pubblico. Il regno perfetto del geometra alla Cetto la Qualunque, che qui in anni e anni di abusi a mano libera ha deturpato il volto di Reggio in faccia al panorama più bello d’Italia. La città è oggi una colata di macerie del moderno dallo skyline barcollante e instabile, con costruzioni alte e basse spruzzate ovunque, sino ai recessi di una enorme retrovia periferica che ormai assedia quello che resta della città storica. Anche la vita che si volge in questi spazi in subbuglio ha un che di pericolante, un fondo tellurico che si nasconde nelle pieghe dell’ostentata indolenza caratteriale degli abitanti.
Il quartiere Arghillà a Reggio Calabria
Il fantasma del terremoto
Il reggino inurbato di recente si nasconde in un dialetto limaccioso e sciovinista (che è già un orpello dell’isolanità siciliana a cui Reggio aspira), da cui spunta sempre un senso di fatalismo, di noia, di aggressività trattenuta. Tutta la città vive in una sorta di perenne stato d’emergenza, e l’inquietudine la scuote sotterraneamente come un’onda sismica. Il fantasma del terremoto è da sempre presente come attesa di un cataclisma venturo. Dilatata in “città metropolitana” Reggio è esplosa in un’interrotta colata di cemento solcata da un labirinto di strade anguste, scassate o troppo grandi e spesso senza nome, come quelle che portano tra vicoli e ridossi in cima al nuovo compound fuori scala delle torri dell’Università, verso il nuovo Centro Direzionale e il Tribunale.
Quel che resta del bello a Reggio Calabria
Quasi sparito il “panorama” naturale che ammaliò i viaggiatori del Grand Tour, con «la sera che scende sull’Etna ammantato di nubi e le tremule luci che balenano su Scilla e Cariddi» (spettacolo che ormai si coglie a sprazzi solo dal Lungomare intitolato al sindaco Falcomatà, il primo), nonostante la riproposizione del progetto di Waterfront dell’archistar Zaha Hadid, quello che resta della bellezza di Reggio oggi sono solo interstizi e sparuti frammenti.
Il Waterfront progettato da Zaha Hadid
Il corpo della città è una accozzaglia deforme, interrotta solo dagli spazi residuali che si intravedono tra i palazzoni nuovi, con riquadri di terra e di mare sempre più striminziti e impolverati ai lati sfiancati delle strade, con le sponde dei fossi delle fiumare interrate e le antiche aree agricole abbandonate che presto saranno preda della nuova speculazione.
Radici nel cemento
Città apologo urbanistico dell’intero sfacelo ambientale che affligge tutta la Calabria, a Reggio si consumano gli ultimi suoli di quella battaglia ormai persa tra vuoti e pieni, tra natura e spazio costruito (male, malissimo), con la vittoria e l’estensione dell’abuso sulla misura, il trionfo incontrastato della cancellazione progressiva di ogni remora nella distruzione sistematica dei beni comuni e della salvaguardia della bellezza. È la legge della “crescita” illimitata inseguita da politici e amministratori, che qui continuano a legittimare il consumo di suolo e l’annichilimento di risorse irripetibili, quasi che tutto il territorio possa essere considerato “spazio in attesa di destinazione”.
I paradossi di Reggio Calabria
Uno dei paradossi di Reggio sta nel fatto che il saccheggio continua anche a dispetto dell’insediamento (risalente a più di 50 anni fa) della prima università calabrese, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, il cui primo nucleo nel 1968 fu l’Istituto Universitario di Architettura, oggi DARTE diretto dal professor Gianfranco Neri.
Dipartimento e università in cui anche Renato Nicolini insegnò architettura fino alla morte nel 2012. Reggio possiede dunque una brillante università che si occupa di architettura e pianificazione territoriale, di scienze agrarie e innovazione ambientale, di progetti di sostenibilità e di azioni di riqualificazione. L’ateneo sembra vivere però una vita a parte, con la scienza e un patrimonio di buone prassi che Reggio rifiuta.
La facoltà di Architettura di Reggio Calabria
L’unica Città Metropolitana
Nonostante il caos dal 2016 Reggio è l’unica città che in Calabria ha ottenuto statuto di Città Metropolitana. È oggi la più grande conurbazione della regione, e conta, nell’espansione incontrollata di un’area metropolitana simile nel disordine urbanistico a una new town asiatica, sparpagliati dalle cime dell’Aspromonte e spruzzati fin sulle rive dello Stretto, circa 200.000 abitanti. Con un aeroporto che funziona sì e no, un porto asfittico monopolizzato dal traffico dei traghetti, riemerge a tratti anche il mito sacrilego del Ponte sullo Stretto (incombenza retorica rievocata anche in questi giorni per fare un po’ di grancassa mediatica da un politico come Calenda).
La sacralità dello Stretto
La storia infinita del ponte è all’opposto del genius loci meridiano che dall’antichità prescrive l’inviolabile sacralità dello Stretto. Il mare tra le due sponde di questo Sud è stato mito, lingua, letteratura, spazio culturale e memoria. Sin da quando un responso dell’Oracolo di Delfi guidò su queste rive i fondatori greci di Reggio: «Laddove, mentre sbarchi, una femmina si unisce ad un maschio, là fonda una città; il dio ti concede la terra Ausonia» (Diodoro, XIII, 23).
L’Oracolo di Delfi
Nella letteratura più recente il passaggio dello Stretto il 4 ottobre 1943, segna invece la scena tragica in dell’odissea minore del marinaio ‘Ndrja Cambrìa, narrata nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, romanzo-mondo che ha inciso un nuovo valore simbolico e figurale su questi luoghi. ‘Ndrja trova una terra stravolta e devastata dalla guerra, offesa dal degrado e dalla miseria. Non ci sarà un’altra Itaca da raggiungere. Dopo mille traversie nel «paese delle Femmine» (ritorna il mito fondativo di Reggio), ‘Ndrja non tornerà più a casa; mentre rema su una barchetta in mezzo allo Stretto e si avvicina a una enorme portaerei americana, nel buio parte un colpo che lo prende in mezzo agli occhi uccidendolo.
Il mare dello Stretto
«La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli… come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Il pathos di ‘Ndrja Cambrìa si è chiuso tra le pagine di quel libro magnifico, ma in riva al mare di Reggio un’altra guerra non è mai cessata. È la guerra dei tempi di pace che disprezza la storia, con il consumo per il consumo, l’abuso ininterrotto della bellezza e dei beni comuni. E siamo noi i veri invasori.
«Un mondo che non è più riconoscibile»
Se n’era accorto Pier Paolo Pasolini già nel 1959, quando la prima ondata modernizzatrice del cemento senza regole si abbatteva su questi paesaggi magnifici e su luoghi che nemmeno la guerra mondiale appena trascorsa aveva oltraggiato e sfregiato così irrimediabilmente come oggi. Di passaggio su queste sponde per il reportage La lunga strada di sabbia, dopo l’incanto del mare incontrava i primi avamposti della città nuova di Reggio. E scriveva: «Sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” – mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi, della costa… Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile».
È l’impostura infinita che stiamo ancora vivendo.
Diamante ha davvero un bel nome. Ma non è bastato. Non sarà capitale della cultura italiana nel 2024. Finisce così l’inseguimento del “grande evento” che avrebbe potuto cambiare la storia non solo del paese – spopolato d’inverno con meno di 5.000 abitanti, che d’estate diventano 50.000–, ma forse anche di un intero comprensorio che sogna da sempre di diventare meta del turismo che conta. Resta la realtà recente, luci e ombre, di questo piccolo centro della Riviera dei Cedri. Scosso anche, non molti giorni fa, da preoccupanti episodi di cronaca nera.
Diamante è nota anche per i suoi murales (foto pagina Fb Diamante Murales 40)
Diamante da D’Annunzio a Cetto la Qualunque
Diamante è un bel paese di mare, di quelli col mare sotto. Sorto intorno al 1630, colonia penale di galeotti trasferiti dai viceré spagnoli là dove c’era un tempo il porto dei Focesi, si dice che già ai tempi della Belle Époque da queste parti venissero in gita D’Annunzio e Matilde Serao. Palati fini, e strana coppia a volerci credere. Oggi è decisamente un altro vedere. Centro storico minuscolo e ancora bello. Il resto è un assedio di villette standardizzate stile immobiliarista à la Cetto La Qualunque, tutte assiepate sui bordi sbaraccati della Statale 18. Gli anni in cui Diamante è diventata quella specie di Positano dei poveri che si vede adesso, sono stati gli anni del debutto del cemento armato sulla SS18, la città-stradale della Calabria. E qui chi poteva ha fatto grandi affari.
La giornalista e scrittrice Matilde Serao
L’estate dei cosentini
Adesso d’estate c’è il chiasso del turismo dei grandi numeri del Peperoncino Festival, l’inquinamento, la smania di apparire. Diamante è da sempre la scena estiva dei cosentini-bene e di tutti gli autoconvocati del generone politico di sopra e sottogoverno, che qui hanno villa e tengono corte. La sera sul lungomare è una sfilata di yachtman di provincia col Paul Picot al polso, sfoggio di soubrettine glamuor e completini Henry Lloyd.
Riccardo Scamarcio ospite della ventinovesima edizione del Peperoncino Festival
Il paesino ad agosto si trasforma in un labirinto di club privè che accoglie quelli che da queste parti vogliono, fortissimamente vogliono, champagne e posto-barca a Diamante. Anche se quella del porto turistico da costruire proprio sotto la bella passeggiata a mare è una vicenda che va avanti da anni tra inchieste, scandali sugli appalti, stop e proroghe. Un porto delle nebbie che non c’è, e quel poco che c’è è abusivo, brutto e molto malmesso.
La Diamante di Matilde Serao
Pare invece che la definizione di “Perla del Tirreno” attribuita a Diamante sia una stima d’affezione proprio dalla spiritosa Matilde Serao (come, un ‘diamante’ che diventa una perla?). Lei che fu la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma, candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte, scoprì questo tratto di costa e restò stupita che ci fosse spargimento di tanta bellezza anche più giù di Sorrento, Positano e Capri. Così fuorimano, nelle vecchie Calabrie. Pezzi di paradiso, e la Serao si innamorò di Diamante. Meglio dire, di quel Tirreno d’altri tempi, limpido e profumato che allora si vedeva sotto la balaustra del costone della vecchia camminata a mare che dava riparo alle piccole case e alle barche da pesca del borgo marinaro.
Alla giunonica Donna Matilde, la Diamante limpida, cenciosa e odorosa di pesce degli anni della Belle Époque piacque. Era un posto più saporoso e bello della solita Costiera amalfitana, una variante marinara del suo Paese di Cuccagna napoletano. Oltre l’affaccio sul mare c’era la bellissima scogliera, ampia come un enorme acquario, da cui era possibile vedere “pesci di ogni genere, ricci di mare, patelle, capelli di mare”. Una peschiera naturale, ghiottonerie e un vero spettacolo all’aperto. I polpi con le tane nella scogliera si pescavano con il “coccio”: bastava immergere in mare una vecchia “lancella”, la brocca di terracotta che teneva in fresco l’acqua da bere. Poteva farlo anche uno scugnizzo, che da sopra gli scogli tirava su con lo sagola il coccio con il polipo dentro, già pronto per andare in pentola.
Un mare di cemento (e non solo)
L’acquario della Serao ora è morto da un pezzo. Pescatori non ce ne sono più. I paesi di mare sul Tirreno, adesso che pure loro si fanno chiamare borghi, hanno accecato il mare con il cemento. Come a Diamante, hanno perso il mare e i pescatori, hanno perso l’amore degli occhi delle amate alla finestra.
La scogliera naturale con l’acqua bassa e trasparente – così ancora fino a qualche anno fa – è destinata tra breve a far posto ad un nuovo scempio. Il progetto prevede che sia ricoperta da un sarcofago di cemento. L’interramento servirà a fare di quello che resta della bella scogliera di Diamante il piazzale dell’ennesimo porto turistico. Una rastrelliera di acqua morta per lasciarci a mollo un po’ di barche da diporto e i motoscafi dell’upper class locale a caccia di status. Al posto degli scogli, dei pesci e dei polpi, le barche e gli yacht che dovrebbero risolvere la crisi del turismo e la moria di lavoro post-covid.
Il mare, la risorsa primaria del turismo delle spiagge e delle seconde/terze/quarte case. Pure su questo fronte poco di buono da dire. La stagione ormai anche qui non si schioda dal pienone le due settimane-due. Tanto che gli immobiliaristi ormai non vendono più neanche una villetta, pure se le danno via a prezzi d’inflazione. Lo stato delle acque di balneazione. Una situazione folle che ormai non si nasconde più neanche con il rito delle promesse e con le rassicurazioni pelose di amministratori e tecnici. Ogni fine primavera, puntuale come il destino, una macchia di schiume marroni larga e limacciosa viene a galla a pochi metri dalle spiagge.
Teatro di chiazza
Resta lì a fare compagnia ai bagnanti e ai pendolari delle vacanze low cost che traghettano qui per il poco che restano. Ogni anno è uno psicodramma. Con l’acqua che diventa sempre più torbida e sospetta e i turisti, sempre di meno, che invocano l’intervento della magistratura e poi scappano via. Naturalmente i sindaci si discolpano, la Regione pure, i giornali strillano allo scandalo e poi ospitano lamentele e accuse bipartisan. Insomma un teatrino. Nessuno fa niente. A volte la Procura interviene e sequestra qualche depuratore arrugginito. Troppo tardi, con i turisti e i bambini già a mollo nella mota, a stagione balneare in corso, quando picchia il sole, suscitando l’ira degli albergatori, le proteste convenienti degli amministratori, lo stupore dei cittadini e l’indignazione degli stessi poveri turisti implacabilmente fottuti.
A parte qualche commendevole episodio giudiziario, la fabbrica di merda che ogni anno ammorba Diamante e il resto del Tirreno Cosentino continua a girare indisturbata, a pieno regime. Ed è un peccato, perché tra Praia a Mare, Diamante e Amantea, sulla bella costa luminosa del Tirreno non si vivrebbe affatto male. Sono luoghi ospitali e naturalmente ricchi di bellezze e di benedizioni, nonostante il demente ingolfamento edilizio. Insomma, se rivedesse adesso Diamante pure Donna Matilde si dispererebbe. Invece gongolano il ricco farmacista cosentino, l’esotico diportista napoletano, il commercialista e l’avvocaticchio rampante. Tutti con la barca a mare. Questi i turisti, il turismo che avanza: tra gli avanzi.
La chiesa di San Biagio a Diamante
Diamante d’inverno, voci nel deserto
Dopo il casino rutilante delle ferie d’agosto, scomparse le folle in fermento dei vacanzieri napoletani, in posti come questo dipendenti dall’agitazione psicotica del turismo estivo, resta da smaltire la noia mortale degli inverni di 10 mesi.
Inverni che coi capricci climatici sembrano, un giorno sì e uno no, quelli delle coste atlantiche del Mare del Nord o quelli del Nordafrica. Variabilità che anche potrebbe tornare utile ad un turismo ben fatto, che tiri fuori davvero dall’ombra la natura violata, il mare, le bellezze del paesaggio, qualche discreto attrattore cultuale e non forzi esclusivamente il suo appeal su peperoncino, discoteche e murales. Nessuno qui pensa a un parco marino, a un’area protetta. Nessuno vuole salvare quello che resta del mare, della natura, delle risorse archeologiche. Neanche qui a Diamante, la riviera dei cedri, la “perla del Tirreno”.
Qualche voce nel deserto da queste parti resiste e testimonia per l’impegno culturale e il cambiamento. Fabrizio Mollo docente universitario e archeologo di fama , scopritore di importanti siti archeologici e allestitore dei pochi, e purtroppo trascurati, musei archeologici sparsi su questa costa; Enzo Ruis vignettista talentuoso che racconta con dolente ironia la sua Diamante, i matti del paese, i personaggi più iconici e coloriti di chi se ne va; Francesco Cirillo, ambientalista riottoso e da sempre contrario a speculazioni e abusi edilizi; Francesco Minuti, giovane pittore che a Diamante realizza con successo la sua pittura raffinata e iconica come quella di un artista rinascimentale, imprimendola però sugli scafi e il fasciame scrostato delle vecchie barche oramai arenate e inservibili.
Un bar che si chiama Desiderio
Vicinissime a Diamante e al suo prossimo porto, si stagliano le uniche due isole calabresi, Cirella e Dino. Sono ancora belle, sulla costa massacrata del Tirreno, davanti al mare di tutte le storie. Ormai vicine, vicinissime a questi paraggi di costa incasinatissimi e trafficati, zeppi di albergoni vuoti, discoteche, gelaterie, pizzerie e ipermercati. Se ne stanno lì solitarie e tristi a poche bracciate dalle riva, tonde come carcasse rigonfie di capodogli spiaggiati. Due mucchietti di rocce e di terra calabra ammonticchiati in acqua. Appena un’ombra sotto la linea ininterrotta dell’orizzonte del tramonto immenso che cala senza ombre sul Tirreno.
I ruderi di Cirella e l’isola omonima
La scogliera di Cirella verso l’imbrunire è un mare grigio di scogli appuntiti. Irti come spuntoni di bottiglie rotte da ubriachi che si lasciano dietro vetri scheggiati e una spiaggia scorticata dal maestrale. A Cirella anni fa c’era un bar che fu a lungo uno dei luoghi dell’estate: una fermata obbligata. Il bar si chiamava “Desiderio”, come il tram della pièce di Tennessee Williams o forse più banalmente era il cognome del proprietario. Non saprei dirlo, suonava bene però. Adesso anche il bar Desiderio non c’è più. Chiuso, per una brutta storia.
Mentre vado via in auto sulla 18 trafficata, i monti aguzzi e seghettati che sovrastano Diamante all’imbrunire sono come le guglie e i pinnacoli di un solenne duomo di pietra. Per un attimo tolgono di mezzo gli spropositi del cemento, tutta la fatua noncuranza e la prepotenza che si agita di sotto, sulla strada delle vacanze. «Cosa mi rimane? L’azzurro là in alto, e l’inquietudine, da niente, proprio da niente domata, che la vita, nonostante tutto, sia poi vasta, precaria e insieme inesplicabile: che sia romanzo, anzi una prigione, questa, dove tutto si rispecchia e irrimediabilmente abbacina». Diamante, Enzo Siciliano (Mondadori, 1983).
Una delle opere nei vicoli di Diamante (foto “Diamante Murales 40”)
Qualche mattina fa ho percorso in macchina la statale 106 ionica, da Catanzaro Lido verso nord. È una strada trafficatissima e sinistramente famosa, infiorettata di edicolette, di cippi e di altarini di plastica ai lati delle carreggiate. Volevo arrivare a Crotone. L’auto è l’unico mezzo per farlo in tempi ragionevoli. Trasporti pubblici assenti e isolamento sono uno dei problemi che fanno della antica città ionica una sorta di enclave: la ferrovia costiera è ancora quella di fine Ottocento, a binario unico, non elettrificata, e con i vecchi treni spinti dalle automotrici. La stazione sembra uno scalo in mezzo al deserto.
La stazione ferroviaria di Crotone
Il porto invece è diviso in due: il bacino più antico è ancora quello che fu costruito con i blocchi divelti nel corso del Settecento dal tempio di Hera Lacinia; quello “nuovo” si limita al cabotaggio di naviglio piccolo, per via dei bassi fondali sabbiosi. L’aeroporto Sant’Anna funziona a singhiozzo e lì vicino c’è un grosso centro Sprar. Soppressi da anni i treni notturni e quelli a lunga percorrenza. Per qualsiasi altrove lontano da qui ormai si salpa in bus, di notte.
In mezzo alle pale
Crotone è un posto della Calabria che ha qualcosa di magnetico e fascinoso, di allucinato e di incongruo allo stesso tempo. La strada verso Crotone, già dopo Botricello, non riesce più a staccarsi dal collo i morsi degli abusi al vasto panorama dell’antico Marchesato del grande latifondo, il serbatoio del Mediterraneo preindustriale, quello delle terre del grano, delle pecore e del formaggio di cui scrive anche Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo.
La curva di orizzonte delle dolci colline ioniche oggi è tutta trafitta dalle mostruose torri eoliche costruite nei terreni degli Arena, cosca intoccabile del pantheon mafioso locale. Ce ne sono centinaia sparpagliate per chilometri. Se guardi meglio ti accorgi che ne girano pochissime, inutili come enormi segni di interrogazione. Il Marchesato di Crotone è uno dei luoghi più aridi del continente, a imminente rischio desertificazione. In più c’è il rischio mafia. Qui più che il vento servirebbe l’acqua. Ma gli interessi sull’eolico sono molti, scottano, sono poco illuminati dal sole e difficili da arginare. Intanto i mulini a pale continuano a crescere e a roteare indisturbati nei posti più improbabili.
La nuova Crotone
Circa un’ora di tragitto sulla 106 e mi sono ritrovato nel dedalo di giravolte, incroci e cavalcavia che porta a Crotone. La città nuova è questa colata di macerie alte e basse, scolorite e tetre, un teatro di quartieroni popolari come Vescovatello (dove il grande mercato coperto in abbandono, col tetto in lastre di amianto, sparge al vento i suoi veleni), Lampanaro e Fondo Gesù. Si ergono dai sabbioni di una costa un tempo malarica. Sono luoghi pericolanti di noia e di sciagure umane, che crescono tra stecche di casermoni disadorni.
Case popolari nel quartiere crotonese Fondo Gesù
Sul paesaggio della Crotone di oggi campeggia l’enorme accozzaglia di ferraglia industriale abbandonata tra gli sterpi e le discariche supertossiche. Poi abituri indistinti, ristoranti per matrimoni, sfasciacarrozze, stazioni di servizio sgangherate, grandi ipermercati, nuove speculazioni e gru che crescono come steli di fiori maligni non lontano dalle lusinghe eterne del mare odisseo. Crotone staccata dal mare appare come una spessa piastra di cemento fratturata da un groviglio di strade sconnesse che sembrano smarrirsi nell’inerzia sul bordo esausto, sopraffatto e guasto del litorale.
La Stalingrado del Sud avvelenata
Si sapeva già dalle inchieste dei magistrati che a Crotone i carichi di rifiuti tossici, una volta finiti nelle mani delle mafie, sulla terraferma diventavano materiali per costruire case e asfaltare strade. Come già è accaduto per le ferriti di zinco e le altre scorie contaminate smaltite liberamente nell’ambiente dopo la chiusura del polo chimico della Pertusola, proprio davanti alle periferie arrugginite del vecchio stabilimento. Poi i veleni industriali sono finiti dentro la città calabrese simbolo dei guasti ambientali e della lunga crisi della chimica industriale. Era la Crotone millenaria, l’ex Stalingrado del Sud, a cui qualche mediocre cronista locale ancora affibbia l’altisonante aggettivo di “pitagorica”.
Una mappa degli ex stabilimenti Montedison di Crotone (foto Archivio storico Crotone)
Adesso si sa che per anni nessuno ha saputo opporsi al paradosso criminale della costruzione di scuole, marciapiedi, strade, uffici pubblici e abitazioni civili impastate di un amalgama micidiale di veleni e scorie tossiche provenienti dalla bomba chimica sotterrata nei piazzali della Pertusola. A Crotone adesso si contano i morti per cancro, regalati come buonuscita agli operai e alle famiglie cresciute nei quartieri popolari vicini agli stabilimenti o all’ex Montecatini-Edison. Mentre ancora si aspetta di arrivare alla bonifica delle scorie tombate per decenni. Cumuli di scarti tossici movimentati nel porto e diretti alle lavorazioni nello stabilimento della Pertusola, appena più a nord di quello della Montecatini. Lì sotto giace, ed è un paradosso, un pezzo della antica Crotone dei greci. Insieme alle bonifiche ci si aspetta un processo che accerti finalmente i danni e le responsabilità. Qualcosa che rimetta ordine e dia pace, e un qualche risarcimento, a queste contrade.
La Storia è sempre più giù
Neanche il calcio offre più consolazione. Il tesoro sommerso dell’antica Crotone, più che una risorsa per il futuro della città, sembra un ingombro di cui disfarsi. Anche lo stadio Ezio Scida, abusivo come quasi tutto quello che sorge da queste parti, ampliato di recente tra polemiche e sequestri, convive, si fa per dire, con l’area archeologica che rientra nel programma di riqualificazione dell’antica Kroton. Si fa fatica a crederlo, ma nonostante dal 1981 la Soprintendenza archeologica abbia dichiarato inedificabile l’area su cui l’impianto sorge, il prato e gli spalti rinnovati negli anni della serie A sono stati allargati sopra i resti dell’agorà di una delle più importanti polis della Magna Grecia.
A parte pensare alla meraviglia seppellita sotto il rettangolo verde, c’è una cosa che ogni volta che vado a vedere una partita del Crotone allo Scida mi mette i brividi addosso. Quando la curva Sud, prima del calcio d’avvio o in un momento difficile della gara, all’improvviso fa salire al cielo l’incitamento ai rossoblù. Migliaia di tifosi cantano all’unisono e a gola spiegata Ma il cielo è sempre più blu o A mano a mano di Rino Gaetano, omaggio al ragazzo di Crotone che ha iscritto il proprio nome nel pantheon della canzone popolare italiana. La squadra ha adottato entrambi i motivi come inni ufficiali. Non so se ne esista al mondo una che possa vantarne di più belli.
Da Cutrone a Crotone
L’addizione urbanistica novecentesca che forma il nucleo della Crotone nuova scivola dai piedi del castello di Carlo V e dal piccolo centro medievale murato poco oltre gli alti bastioni, dilagando fino alle campagne dell’antico latifondo del Marchesato. La città nuova è un labirinto ansimante di cemento impolverato e caotico, sparpagliato per chilometri sul litorale e costellato da ammassi di spazzature e rottami non rimossi. Resta ben poco delle memorie classiche della antica città magnogreca, tutta sepolta e divelta sotto i cascami e gli ingombri di cemento della nuova.
Crotone, Il Gladio
Crotone si chiamava Cotrone fino al 1928 e la gente del posto con inflessione dialettale la chiama ancora così: Cutrone. Poi il fascismo in vena di grandezze restaurò il nome classico della polis, la colonia achea di Kroton, di cui non restava più traccia. Sarà forse per questo che su una delle colline argillose che guardano verso la città un sindaco fascista non molti anni fa ha issato il totem ideale per la Crotone di oggi: un enorme gladio romano che campeggia sul panorama cittadino come una croce blasfema su un regno di tormentati.
La città della bellezza
E pensare che qui Zeus, secondo il mito, pare abbia incontrato le donne più belle del mondo dei greci (cinque diverse fanciulle di Crotone, ognuna per un dettaglio del sembiante, formavano il composito ideale estetico della più desiderabile bellezza). Un canone di bellezza eterno che fu ripreso da Shakespeare nei Sonetti – sino a precipitare poi nel famoso motivetto di Mambo number five di Perez Prado e nella hit di Lou Bega.
Affidato (a destra) con Amadeus a Sanremo
La bellezza trascorsa, per quanto rattristata dalle corrosioni del moderno, qui è però una suggestione che ancora fa scuola. A Crotone cesellano ancora la loro arte antica, divenuta nel frattempo brand griffato per dive e grandi firme della moda, gli orafi Gerardo Sacco e Michele Affidato (suoi i premi di Sanremo). Realizzano i loro gioielli ispirandosi alle tradizioni popolari. Rifanno citando – e molto aggiornando alla voga modaiola – i modelli classici indossati un tempo da aristocratiche, vestali e dee greche. Preziosità venute alla luce con il diadema d’oro e gli altri magnifici reperti affiorati dal tesoro di Capo Colonna.
Gissing a Crotone
Lusso e prosperità erano di casa a Crotone ancora in tempi non lontani. George Gissing, scrittore e viaggiatore vittoriano in Calabria nel 1897, si rammaricava di non aver potuto portare con sé «nessuna lettera di presentazione qui a Cotrone. Mi sarebbe piaciuto poter visitare una delle dimore più in vista, entrare in uno dei salotti migliori della città. Qui a Cotrone, ho saputo, vivono persone molto ricche e benestanti, hanno belle case e, mi è stato detto che con il bel tempo, almeno una mezza dozzina di carrozze private si possono vedere fare il giro alla moda sulla Strada Regina Margherita. Quasi come a Napoli». Della città ricca di un tempo resta qualche vestigia concreta. Come la bella piazza Pitagora, in pieno centro, incorniciata dai portici, caso unico in Calabria. Sotto i portici c’è lo storico Bar Moka, dove si può ancora gustare un dolce belle époque come l’Iris. In piazza Pitagora, dormire ancora oggi all’Hotel Concordia come fece Gissing, vuol dire ritrovarsi nel bel mezzo di atmosfere del Grand Tour.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
In prossimità della riva jonica c’è un altro luogo gissinghiano: il vecchio cimitero dalle alte murate di cocci diroccati che sembrano cotti in un crematorio del tempo. Un tempo l’elegante recinto dei morti di Crotone era ai margini assolati della città, circondato di mura e adornato da piante solenni e palme svettanti come preghiere. Era un’oasi di pace «simile a un bel giardino fiorito». Oggi il camposanto è circondato dalle auto e dal movimento caotico che va verso la periferia. Lo salva ancora quell’alto recinto di mura sbeccate, quasi fosse una rotonda spartitraffico dimenticata ai margini della waste land alla fine del lungomare.
Malattie e sanità
Nella periferia sconciata dagli abusi spicca anche lo stato di abbandono degli ex Villini Pertusola. Da lì in avanti la città non ha più profumi, avvizzita tra i veleni e il catrame infetto. Sembra che di fiori a Crotone non ne crescano più, neanche fuori dal recinto dei morti, con la città che ha le apparenze di un reclusorio di malattie micidiali. Crotone è immersa in una mortale quarantena per i vivi, malata fino al midollo. La città di oggi è mostrificata, inquinata dai resti mefitici della Montedison, di cui restano le spoglie spente e rugginose di un enorme compound degli orrori che continua ad alitare veleni sopra e sotto terra sulla vita di tutti.
L’Ospedale San Giovanni di Dio è l’unico presidio sanitario pubblico rimasto in città. Affollato, dolente e sempre in affanno sembra un lazzaretto per i poveri. Il sistema sanitario nazionale qui come altrove in Calabria è in crisi. Invece quello delle cliniche private, che ha fondato vere e proprie dinastie della sanità a pagamento, è fiorente. È uno dei punti di preminenza per l’intero settore, ma solo per quelli che possono curarsi senza passare da intralci e guasti del servizio pubblico.
Calcutta, Tirana… Crotone
A dispetto del bellissimo mare, Crotone ha un aspetto grigio spento. È piena di pozzanghere, di detriti e cascami decomposti che fermentano vicino a cliniche di lusso per ricchi che sembrano hotel. Una carcassa smembrata dagli abusi infiniti e dagli orrori spesso rimessi all’aria dai segni delle periodiche alluvioni che atterrano la città. La comunità cittadina sembra ormai afflitta dalla noia strisciante o dalla rassegnazione di vivere senza più speranze, nonostante i recenti cambi di poltrona nei palazzi del comune. Una dimissione civile che leggi anche nelle facce della gente per strada.
Crotone allagata nel novembre del 2020
Ai ragazzi di Crotone restano la carta dell’emigrazione o i mestieri provvisori del precariato a vita. Come riparo di fortuna ci sono solo i call center dei grandi gruppi di gestori di telefonia. Qui hanno fatto man bassa, con paghe inferiori a quelle dei pària tecnologici che rispondono dalle postazioni di Calcutta o Tirana. Servizi di recalling e customer care interconnessi agli utenti di cellulari e smartphone urbi et orbi, che rispondono nella lingua globalizzata del business da qui, da Crotone. E invece stiamo con i piedi sopra le tombe degli eroi, nella Magna Grecia delle migliori annate.
Cultura, legami e resistenza
Ogni volta che passo da Crotone faccio un salto alla Libreria Cerrelli, in via Vittorio Emanuele, di fronte al vecchio Municipio e di fianco alla Chiesa dell’Immacolata. Fondata nel 1900, è la più antica libreria della provincia. Ed è una delle ultime rimaste vive in Calabria senza passare dalla servitù delle catene editoriali. In più di 120 anni di storia, visitata anche da Corrado Alvaro e da molti altri scrittori, è oggi uno dei pochi punti caldi rimasti come riferimento per la vita culturale cittadina. È un presidio che resiste nonostante la crisi. Merito di Paolo Cerrelli, che la gestisce come un luogo di grande vivacità, con numerosi appuntamenti.
La Rari Nantes in un’immagine d’epoca
Oltre che libraio, è un attivista e agitatore culturale, difensore delle librerie indipendenti e del valore della cultura crotonese, antica e moderna, che anima anche attraverso festival di musica e letteratura. Ha un passato da militante di sinistra e da atleta nella mitica pallanuoto “Rari Nantes Auditore”, settant’anni di storia sportiva di cui oggi restano solo gli avanzi desolati di una piscina olimpica scassata, ricettacolo di rifiuti. Cerrelli ha chiesto di recente all’amico Sergio Cammariere di poter utilizzare un brano tratto dal suo ultimo disco “Piano nudo” per sviluppare sul tema una poesia o un breve racconto, massimo di 20 parole. Il cantautore è un altro dei crotonesi da ricordare per il suo legame con la città. Nel suo libro autobiografico Libero nell’aria la ricorda così: «Volevo vivere di musica e ci sono riuscito, ma lontano da Crotone, a Roma», dove lo aveva preceduto Rino Gaetano, che di Cammariere era appunto lo zio.
Sergio Cammariere
Invece Giacinto de Rosario, esperto alimurgico e cuoco raffinatissimo, impegnato in azioni pubbliche per la sovranità alimentare, sulle sorti di Crotone, da crotonese di ritorno dopo una vita da antiquario di successo a Firenze, sottolinea il dovere di andare oltre le dichiarazioni d’amore per la città: «Occorre l’impegno di scoprire, salvare, avere cura della memoria e non farla più seppellire, per quel che resta di sopra e soprattutto di sotto. Non occorre stilare luoghi e storie da primato, ancor meno mi aspetto aiuti dagli eletti in parlamento, dagli ordini professionali ed altre categorie. È giunto il momento di farsi sentire e vedere tutti insieme, altrimenti è bene rassegnarsi al nulla». A proposito di impegno, il Gruppo Archeologico Crotonese assieme agli attivisti di Italia Nostra si batte da anni per difendere il grande patrimonio archeologico della città e dei dintorni.
I nuovi mostri
Sventato per ora il massacro di una grande lottizzazione speculativa per la costruzione di ville sull’area archeologica di capo Colonna, si profila all’orizzonte un’altra mostruosità: un colossale parco energetico offshore da piazzare nelle acque antistanti la città. Se verranno confermate le concessioni alla trivellazione alla Global Med, una società estrattiva americana, il progetto promette in un sol colpo di collocare su una superficie di mare di ben 2.250 kilometri quadrati tre nuove piattaforme di trivellazione, un campo di enormi pale eoliche offshore e una piastra di approdo per navi container e navi gasiere per rifornimento di gas naturale liquefatto. Tutto dentro le sacre acque che bagnano l’antica città di Kroton.
Si narra che Pitagora, che 2.500 anni fa scelse Crotone per fondare la sua scuola sapienziale, iniziasse la giornata insieme ai suoi scoliasti salutando il sole che saliva da oriente. Per ora il megaprogetto, avversato da gruppi ambientalisti e associazioni, pare aver trovato oppositori anche tra gli attuali amministratori cittadini. Se così non sarà, dopo lo scempio compiuto in terra, anche l’orizzonte ionico blu cobalto e il meraviglioso paesaggio marino dello specchio d’acqua crotonese avranno forse le ore contate.
Il prezzo del progresso
Oggi il Sud e la Calabria sono com’è Crotone: un immenso e caotico terreno di battaglia disseminato peggio che altrove delle macerie e dei ruderi informi di una modernizzazione scarsa di sviluppo che è stata – e sarà – incapace di tenere fede alle promesse di progresso annunciate un secolo fa. Il prezzo delle conquiste della modernità qui è stato tra i più compromettenti ed elevati: territorio massacrato, assenza di un’economia reale, disoccupazione che non smette di crescere, amministrazioni e governi locali allo sbando, una mafia efficiente e pervasiva come qui nessun potere legale riesce ancora a diventare.
Un nuovo e più sottile disordine sociale sta finendo per sgretolare una società pericolante. Che, a dispetto del benessere materiale ostentato ovunque, resta sottomessa, immiserita nei valori e culturalmente dimidiata nel suo unico bene: la sua memoria, la bellezza dei luoghi, il monito dimenticato che proviene dalla storia e dalla forza del suo paesaggio. Una società entro la quale nessuno pare avere il coraggio, la forza sufficiente a contrastare il peggio. Altre regioni, si dirà, altri Sud offrono della modernizzazione un bilancio simile, e tuttavia ‘ora’ è meglio di ‘allora’. Restano pur sempre il benessere dei consumi, le macchine, i frigoriferi, i computer, i telefonini, le parabole, l’economia di carta. Certo, è vero. Ma non è comunque una buona ragione per tacerne stupidamente il prezzo e nasconderne lo scandalo.
L’ultima colonna
Rivolgo lo sguardo al Capo Lacinio, da qui si intravede l’ultima colonna rimasta in piedi sul promontorio. Capo Colonna con la sua solennità a futura memoria resta lontano, sembra confinato a una distanza disperata, crescente. Un’altra nemesi sfacciata, uno scherzo beffardo della storia. Più di cent’anni fa, di passaggio nella “terrificante Crotone” battuta dallo scirocco e senz’acqua potabile, si ammalò di febbre polmonare George Gissing, e qui restò lungo in balia della tisi.
Si salvò solo grazie alle cure di un medico di campagna, il dottore Sculco, che divenne poi suo amico, e all’amore per lo straniero di un paio di donnette del popolo che aveva incantato, la povera gente che lo risollevò alla vita in una misera stanzetta dell’albergo Concordia, un posticino che in realtà era un bordello maltenuto. Il vittoriano solitario così scrisse grato: «Per me sarebbe stato meglio meglio morire qui sulle rive dello Ionio, piuttosto che in un tugurio di Shoredicth», il quartiere per dannati della Grande Londra dove era finito a vivere.
L’area archeologica di Capo Colonna
Prima di riprendere la strada voglio andare a rifarmi gli occhi e la mente al Museo di Capo Colonna, che conserva meravigliose la bellezza e la magnificenza che qui abitarono e che sono solo del passato. Ad accogliermi, anche qui, sono cumuli di monnezza traboccanti da cassonetti artisticamente piazzati nell’area archeologica, all’interno dell’oasi naturalistica del Parco di Capo Colonna, un centinaio di metri appena dall’ingresso del Museo archeologico. Se Gissing fosse venuto in macchina con me a rivedere Crotone, anche lui si sarebbe sentito coinvolto nel disastro morale della storia. E avrebbe pianto.
Confesso: io la fiction La sposa non l’ho vista per intero. È grave? Dopo la prima puntata non ho resistito oltre. Ho cambiato canale senza rimpianti. Ora che la miniserie, molto vista in tv, che ha fatto scontenti sia tra calabresi che veneti, si è conclusa, restano i fatti che la fiction evoca.
Le calabresi vendute e comprate
Conviene soffermarsi sul dettaglio che da queste parti brucia di più. Sì, le calabresi negli anni ’50 e ’60 venivano comprate e vendute nelle campagne e nei paesi. E un sensale se le poteva portare in giro per piazzarle spose per procura dove più servivano. Dove mancavano braccia per il lavoro e donne per far figli. Nel Veneto zoticone e cattolicissimo, nella pingue bassa mantovana (ho tre cugine maritate così che hanno messo radici a Gazzuolo, Viadana e Pegognaga, e costruito con sacrifici e fatica il successo del loro melting pot padano tra forme di parmigiano, biolche di terra grassa e stalle con centinaia di vacche), nella nebbiosa conca pavese (quando andavano spose ai “pavesini”), nelle Langhe non ancora slowfooddizzate, nelle valli strette e assolate dell’alto imperiese, dove le ragazze di Calabria si sono industriate con ortaggi, limoneti e i fiori di Sanremo.
Orfane di guerra, zitelle, figlie di famiglie contadine povere e numerose erano nel Sud immiserito del secondo dopoguerra, bocche da sfamare. Una eccedenza demografica divenne così una “risorsa” utile. L’esogamia obbligata era una delle poche opzioni possibili.
Alla base dell’emigrazione forzosa di queste donne e di queste forme di “commercio” (fenomeno molto doloroso e ben noto agli studi antropologici), operava un principio antico quanto la cultura patriarcale. Quello che consentiva, fondandosi su un piano materiale e simbolico, di scambiare le donne, considerate elemento mobile delle organizzazioni parentali, e di destinarle a forme di circolazione economica primaria.
La povertà non fa sconti
Questi fatti, giocati sul corpo vivo delle donne, quasi mai con il loro consenso, hanno consentito il compimento di uno scambio circolare che da primario è diventato subito dopo culturale, consentendo la comunicazione e la sintesi tra gruppi umani diversi. Capitava nelle famiglie contadine del Sud e alle ragazze dei paesi più poveri. La povertà è brutale e non fa sconti. Ma questo “commercio rituale” delle donne si estendeva anche alle strategie di case regnanti, nobili e borghesia più ricca. Da quelle donne portate via dai sensali di paese in Calabria sono nati nuovi sistemi di parentela e relazioni più estese, una comunità più larga dei confini tradizionali delle regioni di appartenenza. Anche così è nata l’Italia contemporanea. Così è nato il boom dell’Italia degli anni ’60 e la società di cui tutti siamo figli e nipoti.
Senza scrupoli
Piaccia o no si tratta di una invarianza transculturale, l’esogamia obbligata, che pratichiamo ancora. Anche in forme più nuove, persino più strumentali e spietate nei confronti delle donne. Quelle degli altri però, e adesso a parti invertite. Noi oggi “compriamo” e “importiamo”, persino con minore scrupolo e con interessata disinvoltura, le nigeriane sulla strada o le ragazze dell’est che finiscono nei club, le operaie e le lavoratrici immigrate che alimentano l’economia a basso costo del nord-est industriale, le donne rumene, moldave, polacche a “servizio” di vedovi, anziani e malati a cui fanno “compagnia”. Quelle donne che ogni giorno, sole a casa nostra, si occupano di tenere in vita i nostri vecchi scaricati nella solitudine dei nostri paesi ora spopolati, affidati loro da famiglie, le nostre, indurite da crisi di valori e nuovi egoismi.
La Sposa delle polemiche
Nel frattempo attorno alle polemiche sulla fiction La sposa si sono infittite le solite proteste e le “provocazioni”. Nei giorni scorsi Antonio D’Orrico, autorevole firma calabrese del CorSera, mi ha chiesto da antropologo e da calabrese cosa pensassi delle polemiche sorte intorno alla fiction e di questo narcisismo etnicista e difensivo che si è scatenato su stampa e social. D’Orrico ha poi fatto da par suo sulle colonne del Corriere un’ottima sintesi del caso. Insieme ci siamo fatti pure due risate per il rituale, scontatissimo, dell’“interessante dibattito culturale”.
C’è il riflesso pavloviano delle opposte fazioni e le indignazioni pelose degli estremismi “autenticisti” di su e di giù. Gli alti lai corrono dai balconi di Giulietta ai proclami rivendicativi dei soliti, remoti, fasti magnogreci. Reprimende indignate ed esaltazioni acritiche riempiono i social anche dopo l’ultima puntata di ieri. Tutto uno spreco di enfasi partorita da un nutrito corteo di intellettualoidi che farebbero molto meglio ad adontarsi per fenomeni sociali e realtà ben più concrete e vicine, per punti di degrado civili e culturali dei rispettivi fronti ben più attuali e sconfortanti dell’attendibilità di un prodotto di puro intrattenimento televisivo.
Insomma, ancora una volta, “molto rumore per nulla” – che pure se shakespeariano è sempre roba che succedeva a Messina e giù di qui. In nessun angolo dell’Occidente civilizzato si pretende dagli intenti di un regista di televisione o di cinema impegnato in una produzione spettacolo, di difendere la conformità ad astrusità ideologiche come il riscatto, la verità, l’identità di una regione. Un compito degno di un’azione umanitaria che si svolga sotto l’alto patrocinio dell’Unesco o delle Nazioni Unite. Sono decenni che le variopinte e ripetute operazioni di riverginatura mediatica della regione galleggiano tra lo sproposito e il ridicolo, azzoppate da una cronica mancanza di misura che spesso aggrava la già appannata esposizione mediatica di una regione che resta avvolta (ma per colpa di chi?) da una reputazione che non va oltre i soliti cliché folkloristici e le cartoline di un catalogo di ovvietà e travestimenti d’avanspettacolo.
La Calabria dei cliché
Ci si aspetta che ogni prodotto tv, ogni iniziativa artistica, di spettacolo o di intrattenimento popolare si debba trasformare obbligatoriamente in una campagna mirata alla creazione di un percorso di simpatia e di superamento di pregiudizi e luoghi comuni che preoccupano la regione e i suoi abitanti. Come se la Calabria fosse solo un prodotto da vendere nel mercato della fiction, nelle immagini della comunicazione o alla borsa del turismo. È una regione. Un insieme di comunità e di culture differenti e stratificate da millenni. Tutte tessere di un mosaico che compone il profilo di una società e di una storia. Il rischio è che per uscire quindi dai più vetusti cliché sulla Calabria infelice e irredenta si ricorra ad altri cliché. Solo più nuovi, più patinati e alla moda.
Questa volta è Campiotti, ma la mano non cambia la musica. Altre manipolazioni al posto delle vecchie icone della Calabria statica e protomoderna (le ragazze tastate in piazza, le facce dei pastori e dei contadini inebetiti dalla fatica del latifondo, le donne con lo scialle nero, gli emigranti con la valigia di cartone, la ‘ndrangheta, il folklore abborracciato). Ci sarebbe bisogno di aggiornare il catalogo. E invece no. Queste de La sposa sono immagini di un mondo certamente trascorso, e perciò più facilmente «de-realizzato» da una finzione televisiva. La moda degli ultimi decenni ha imposto le parole «evento», «comunicazione», «immagine», «marketing territoriale»: idoli di un progressismo di maniera intriso di una retorica dello sviluppo che ha stufato. Si susseguono perciò con indifferibile noiosità fiction e spot commerciali degni di un’enfasi senza passione che rende ormai ogni discorso sull’autenticità e i valori di questa terra pomposamente vuoto e buono per tutti gli usi e per tutte le occasioni.
Non credo a tutte le statistiche che ci fanno sempre ultimi. Non occorrono guru della pubblicità e serie televisive da candidare a “culto” per annunciare l’autenticità di un’altra Calabria civile che pure esiste e resiste a dispetto di tutto. Altrimenti nel caso della Calabria si aggiunge al perdurare del pregiudizio, la riduzione dello spazio per le idee, per la memoria, per la cultura e per l’immaginazione. Si assolve solo il compito di liquidare tutti i contenuti, tutti i problemi. I problemi veri della Calabria e della sua cattiva reputazione mediatica non si possono risolvere con un colpo d’immagine. Ce li risolviamo noi o non ce li risolve nessuno.
Per riabilitare la Calabria servono cose più serie
Se ci affidiamo alla comunicazione, alla tv e al marketing restiamo fuori dalla misura della realtà. E se ci consegniamo all’immagine ci rassegniamo a un’autenticità al ribasso. «Con l’immagine», scrive Jean Baudrillard, «quando si parla di autenticità, è il falso che virtualmente ha già avuto la meglio». Per riabilitare la Calabria ci vogliono cose più serie di un bel gadget di immagini turistiche (il turismo, un altro totem della monocultura del sottosviluppo digitale) e di fiction seriali piene di ragazze e ragazzi buoni per fare da testimonial alla prossima Bit.
Il successo popolare delle immagini di Campiotti e della sua sposa calabrese in prima serata ha finito per convincere gli altri, che convinti di ciò che siamo come tribù eterologa al progredire dei tempi lo sono già, che le cose in Calabria non cambiano mai. E a noi che al massimo stiamo alla pari con le apparenze, senza mai superarci: retrogradi, patriarcali, mafiosi sì, ma anche bravi ragazzi e belle ragazze con le facce presentabili da seriali tv o da spot commerciale da marketing globale.
La Sposa è un format già visto
Non va discussa l’intenzione della fiction, ma piuttosto la sua forza di persuasione, la capacità di suscitare davvero una riflessione o una “reazione positiva”. Non credo che Campiotti insieme alla sua factory di autori e creativi, abbia perso più di cinque minuti per realizzare suo prodotto di intrattenimento televisivo. Il problema non è il linguaggio (non la presunta veridicità del dialetto), o la fedeltà geografica delle cosiddette location in cui la fiction è ambientata (la Puglia invece della Calabria, ma il cinema e la televisione funzionano così, creano falsi verosimili), ma invece l’intonazione di quel format. Vecchio e già visto, un riciclo di cortometraggi neorealisti e di immagini da parodia etnologica, con pretese di verità rifatte a orecchio, senza spessore e originalità.
Quelle icone così discusse nei giorni scorsi su media, giornali e social, saranno presto dimenticate senza neanche passare per i memorabilia dell’archeologia del contemporaneo che la televisione riscrive ogni giorno. Quelle facce che a qualcuno sono sembrate tanto significative sono così esteticamente scialbe e prive di forza (a parte il candore-finto povero da sposalizio griffato) da non assumere su di sé alcuno dei significati catartici o piuttosto offensivi di identità e cultura, di ingiuria ai sacri crismi identitari, di cui sono state artificiosamente caricate dalle reazioni scomposte dei fieri difensori del volkgeist calabro.
Perpetuare poi gli stereotipi negativi sentenziati in calce a immagini così fragili con slogan da autogol, inoltre, non ci fa affatto bene. Si autorizzano i pregiudizi già radicati a cui siamo costretti a dare riparo proprio con simili «campagna d’immagine». Nel rivolgersi direttamente al pubblico (ma quale?), con la pretesa di saltare qualsiasi mediazione culturale, quelle immagini e le storie riassunte che dovrebbero avere un’apparenza democratica e un effetto massmediologico correttivo, rappresentano in realtà soltanto una forzatura omologratrice di differenze, aspettative e bisogni. Insomma, altro sale sparso sulle ferite aperte dei calabresi, sempre più vittime e complici allo stesso tempo dell’idolatria dell’immagine e delle sue deformazioni più corrive.
Un po’ di sano orgoglio calabrese
Un poco di orgoglio intellettuale non guasterebbe (ricordo il richiamo diderottiano «ai fieri calabresi» di cui parlava già il vecchio Augusto Placanica, storico e ispiratore del volume sulla Calabria di Einaudi che dal 1985 ormai nessuno più legge quando si ragiona della Calabria moderna). Siano noi a enfatizzare un senso di colpa che ci trascina all’indietro. Il principio di un’antropologia della contemporaneità è che oggi stiamo dentro al mondo esattamente come gli altri e non siamo antropologicamente diversi, perché non lo siamo mai stati in un modo così reificato e assoluto come quello che la sintesi televisiva della miniserie La sposa vorrebbe ristabilire, nel bene e nel male, in modo così retorico.
Non credo che esistano più da un bel pezzo calabresi inveterati nelle chiusure ataviche, macchiati da colpe insanabili e indolenti rispetto alle urgenze dei tempi (non più che altrove). Che poi la politica in Calabria, tutto il ceto politico di governo e non, che nella decadenza di questa regione ha avuto e ha responsabilità enormi, creda di potersi lavare la coscienza con un candeggio virtuale così facile e a buon mercato, dice già tutto sulla loro onestà.
Il Giorno della Memoria in Calabria ci ricorda un frammento del secondo conflitto mondiale, fra i meno tristi e pur sempre angoscioso, legato alle leggi razziali e alla storia degli internati ebrei. Tra il 1940 e il 1943, per una serie di circostanze fatali alcune migliaia di ebrei deportati e di prigionieri provenienti dall’Italia e da altre nazioni europee, ebbero la ventura di concludere la loro odissea non nei vagoni sigillati davanti ai cancelli senza ritorno dei campi di sterminio polacchi o tedeschi, ma in un angolo remoto e dimenticato della Calabria interna. Approdando, dopo dolorose vicissitudini e peregrinazioni, nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, «in provincia di Cosenza, una landa deserta e malarica». Lì ebrei «provenienti da tutte le terre d’Europa, il fior fiore della scienza e dell’intelligenza ebraica», ricorda lo scrittore e fotografo ebreo dalmata Luciano Morpurgo in Caccia all’uomo, un introvabile libro-memoriale pubblicato nel 1946, erano stati concentrati in una dozzina di «grandi baracche di legno costruite per la bonifica» dal fascismo nel 1940.
Ferramonti, il primo campo liberato
Il campo, un recinto di 16 ettari di superficie, fu costruito dallo speculatore Eugenio Parrini. L’impresa di Parrini, sodale di importanti gerarchi fascisti, era già presente a Ferramonti per eseguire i lavori di bonifica delle paludi del Crati. Alcuni dei capannoni predisposti con camerate da 30 letti erano in origine dormitori e alloggi per gli operai della bonifica agricola del Crati. Ferramonti con i suoi 4.000 internati divenne così il più grande dei 15 campi di concentramento per ebrei costruito in Italia da Mussolini dopo le leggi razziali del 1938. Fu il primo in Italia ad essere liberato dopo l’armistizio. Era sorto in una plaga del malarico vallo cosentino nei pressi di Tarsia, su di una grande spianata infestata dagli insetti e frequentemente inondata dal Crati.
Soldati all’esterno del campo
A qualche chilometro lontano dai reticolati del campo, protagonista di alcune fughe senza fortuna, correva il binario della ferrovia Sibari-Cosenza, mentre a circa sette chilometri da Ferramonti restava lo scalo di Mongrassano-Cervicati, sulla diramazione del tronco ferroviario che da Paola, via Castiglione Cosentino, e proseguiva per Cosenza. Percorso attraverso il quale giunsero al campo, con tradotte in littorina e vaporiera in partenza dai binari della stazione di Paola molti degli internati. Mentre dai binari della linea ionica Sibari-Taranto furono raccolti a Tarsia anche gruppi di internati ebrei provenienti dal nord Europa, insieme a quelli rastrellati lungo il versante adriatico della penisola.
Lontani dal genocidio
Insieme agli ebrei furono detenuti nel campo anche prigionieri civili, partigiani jugoslavi, carcerati politici greci, militari francesi e persino un gruppo di prigionieri cinesi a cui venne affidata la lavanderia interna al campo.
In questo luogo isolato del vallo cosentino appena sfiorato dal treno, remoto e inospitale come pochi altri, ma per questi stessi motivi rimasto a lungo intoccato e lontano dai fuochi divampanti della guerra e dal fanatismo antisemita dei regimi nazifascisti, gli internati ebrei, pur privati della libertà poterono sfuggire al genocidio. Furono trattati con umanità anche dal personale militare italiano addetto alla sorveglianza del campo.
Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti
Ferramonti, che ricadeva sotto la responsabilità del ministero degli interni fascista, fu sempre diretto da commissari di pubblica sicurezza. Solo la sorveglianza esterna al campo era affidata alle camicie nere della gendarmeria territoriale. I deportati poterono durante gli anni di prigionia, godere anche di una certa libertà di movimenti, e solidarizzarono con le popolazioni locali con le quali praticamente convissero a lungo, dando vita durante gli anni di guerra ad un insolito rapporto di simbiosi civile e umana, improntato alla solidarietà e costellato da frequenti episodi di fraternità umana, tanto più significativi in quanto scaturiti in tempi e circostanze storiche che vedevano consumarsi altrove nel resto dell’Europa i crimini dello sterminio antisemita.
Ferramonti, il più grande kibbutz prima di Israele
Condizioni di vita insolite, al punto che lo storico ebreo Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti «il più grande kibbutz sorto sul continente europeo, prima di Israele». Per molti degli internati ebrei, affluiti in Calabria dopo le leggi razziali del 1938 e poi più numerosi nel corso della nuova diaspora durante gli anni del genocidio, l’ultimo dei treni che portava a destino l’«ebreo errante arrivato in catene» fu quello della salvezza.
Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici
Numerosi fra gli ex internati ebrei del campo di Ferramonti di Tarsia hanno conservato un ricordo vivo e intenso di quei viaggi compiuti sui treni a vapore che percorrevano il faticoso tracciato a cremagliera della Paola-Cosenza. Come Luciano Morpurgo, che procedeva sulla tratta per far visita ai parenti internati. «Negli otto giorni» trascorsi dal suo arrivo a Ferramonti, si servì ancora dello stesso treno, portandosi dietro a ogni suo ritorno da Paola un «un carico di buona frutta che mancava ai rinchiusi al campo». Nella cittadina tirrenica, «quando si seppe di me – continua Morpurgo – e della causa che mi aveva portato fin là, fu una gara di gentilezza, di bontà, da parte di quella gentile e buona gente che con le cortesie e le premure voleva compensarmi di tanti dolori e amarezze».
L’omnibus dei poveri
Per gli internati di Ferramonti questo piccolo treno divenne così il treno del rifugio e della speranza. Si può dire che solo l’immagine di questo modesto omnibus dei poveri che solcava lento fra sboffi di vapore i recessi boscosi e assolati di questa ignota frontiera calabrese, resta a lottare contro l’immagine terrificante e disumana di quei lunghi treni di morte, neri e sigillati come bare, che ogni giorno nelle albe buie nate sotto i cieli di piombo di Mauthausen, di Dachau, di Treblinka conducevano all’ultimo calvario di atrocità milioni di ebrei.
«A Paola ci fecero trasbordare su di un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera come quella del parco Petrìn di Praga. Salimmo molto in su verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti». E così, lontano dagli orrori dell’olocausto, per alcuni anni sui banchi di legno di terza classe dei umili convogli a vapore della Paola-Cosenza, accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene ma per concludere fortunosamente le angosce di quei lunghi viaggi incogniti verso il destino di Ferramonti, ebrei italiani, polacchi, slavi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi, e al familiare dialetto calabrese si mischiarono per un momento le voci e le parole sradicate di quegli idiomi lontani.
Il viaggio contrario
I pochi internati ebrei che per sfortunate circostanze ebbero la ventura fatale di compiere un giorno su quello stesso rassicurante trenino il viaggio contrario che li allontanava dalla Calabria – quelli che tra loro fecero richiesta di trasferimento verso altri campi e quelli destinati dopo un periodo di mite internamento dal campo di Ferramonti ai campi del centro e del nord Italia (Trieste – S. Saba, Fossoli, Urbisaglia e altri), quasi tutti conclusero tragicamente le loro peregrinazioni, incontrando il destino nei carri piombati dei lugubri convogli avviati ai campi di Dachau, Auschwitz e altri luoghi di morte.
Paradossalmente a Ferramonti le uniche quattro vittime belliche le fece per errore il mitragliamento di un aereo inglese durante un combattimento contro un caccia tedesco che ne sorvolava la superficie nell’agosto del 1943.
La scritta “Il lavoro rende liberi” sul cancello di Auschwitz
Troppo permissivo per i fascisti
All’interno del campo agli ebrei deportati e agli altri internati fu permesso di organizzarsi e di eleggere propri rappresentanti. I medici ebrei presenti usufruirono di un’infermeria con annessa farmacia, e spesso anche gli abitanti dei dintorni del campo che si rivolgevano loro vi furono curati. Vi fu attiva una scuola, un asilo, una mensa per bambini, una biblioteca, un teatro e luoghi di culto (due sinagoghe, una cappella cattolica e un’altra greco-ortodossa). Non furono rare le unioni e i matrimoni tra gli internati e durante il periodo di detenzione nel campo nacquero 21 bambini.
Paolo Salvatore, uno dei funzionari di polizia che condussero il campo di internamento, venne sollevato dalla direzione agli inizi del 1943 per un atteggiamento che fu giudicato poco fascistae troppo permissivo nei confronti degli internati, ai quali aveva persino permesso di lavorare fuori dal recinto del campo per integrare le scarse razioni alimentari di guerra. Quando gli inglesi liberarono il campo di Ferramonti nell’estate del 1943, la gran parte degli internati ebrei si erano già dispersi nelle campagne intorno a Tarsia. Molti rifugiati e nascosti nelle case dei contadini calabresi con cui avevano solidarizzato durante il periodo di detenzione.
Gli internati più famosi
Tra gli internati a Ferramonti trovarono riparo personalità eccezionali. Numerose le figure singolari e i caratteri geniali che ebbero salva la vita entro quel remoto recinto sorto su una sponda malarica del Crati, lontano dagli orrori dell’Olocausto. Quando poterono ritornare al mondo, il segno che parecchi di loro lasciarono nella vita successiva scampata proprio nel periodo trascorso a Ferramonti, non di rado fu memorabile. Traiettorie di rinascita e di affermazione personale che raccontano imprese e fioriture tra le più varie. Come quelle segnate da
Ernst Bernhard, medico e psichiatra berlinese, che fu un importante allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo, analista di grandi personalità della cultura italiana di cui divenne amico e confidente, come Federico Fellini, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli e Cristina Campo;
l’internato jugoslavo David Mel, che nel periodo di detenzione a Ferramonti fece il cuoco ma che divenne poi uno scienziato più volte candidato al premio Nobel per la medicina, scopritore del vaccino per la dissenteria;
Alfred Wiesner, ingegnere jugoslavo che dopo la liberazione fu partigiano e che alla fine della guerra si mise a produrre gelati, iniziando così l’attività che lo portò nel 1953 a fondare il marchio Algida, nato dal suo innovative sistema di produzione industriale dei gelati di cui inventò sia il nome che il logo, oggi conosciuti e affermati in tutto il mondo;
Oscar Klein, giovane ebreo austriaco imprigionato con la famiglia a Ferramonti, dove pare imparò i primi rudimenti del jazz, e che divenne poi un famoso compositore ed esecutore di musica swing e dixieland;
Menachem Shelah, ebreo dalmata, poi emigrato in Israele dove divenne un importante storico e studioso della Shoa;
Michel Fingesten, ebreo italo-austriaco che studiò a Vienna insieme all’amico Oskar Kokoschka, divenendo a sua volta uno dei più importanti artisti ed incisori del ‘900, famoso per i suoi ex-libris per le sue opere grafiche esposte nei musei di tutto il mondo – deportato a Ferramonti istituì per i detenuti del campo una scuola d’arte. Fingesten morì purtroppo pochi giorni dopo la liberazione a causa di una infezione contratta in prigionia. È ancora oggi sepolto nel piccolo cimitero di Cerisano, vicino Cosenza.
A Cosenza l’eredità culturale dei deportati ebrei di Ferramonti si mantenne viva nella figura di Gustav Brenner, un ebreo austriaco che trasformò la sua detenzione a Ferramonti nella scelta di vita che lo portò a stabilirsi a Cosenza, dove nel dopoguerra fondò una casa editrice di cultura specializzata in opere antiche e rare ripubblicate in edizioni anastatiche, ancora oggi attiva.
Un treno per vivere
Nel giugno 1944, ormai liberi, erano partiti per il loro ultimo viaggio sul treno a vapore per Paola, proseguendo poi sino a Napoli, dove al porto li aspettava per l’esodo finale una nave diretta in Palestina o negli Stati Uniti, alcune centinaia di ex internati ebrei di Ferramonti. Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo di Ferramonti di Tarsia», un ultimo convoglio ferroviario partito dai binari di Mongrassano, via Cosenza-Paola, avrebbe riportato gli ultimi profughi ebrei alla stazione di Paola. E da qui cambiando nuovamente treno, verso il centro di raccolta di S. Maria al Bagno, in Toscana, presso Lucca. Con quell’ultimo viaggio verso la libertà anche «il trenino degli internati» di Ferramonti, poteva dire estinto quel debito fortuito contratto – suo malgrado – con la grande Storia. Regolato il suo conto e restituitosi libero tornava ancora una volta alla sua piccola storia di sempre.
Quel che resta del campo
Degli ebrei morti durante il periodo di detenzione nel campo, 16 trovarono sepoltura nel vicino cimitero cattolico di Tarsia (solo 4 sepolture sono tuttora visibili), e 21 nel cimitero di Cosenza, dove è ancora possibile visitare le loro tombe. Del tentativo da parte del Comune di Tarsia di fare dei resti del campo un piccolo museo della memoria, rimane per ora solo una baracca esterna al recinto originario, con dentro poco più di qualche riproduzione fotografica di vecchie immagini di repertorio; niente altro. Del campo, che all’interno del perimetro contava in origine 92 baracche, comprese officine, depositi, laboratori, refettori e cucine, smantellato nel tempo e sopraffatto da abusi e incuria, non restano oggi che sterpaglie e pochi capanni residui, abbandonati e fatiscenti. Uno spazio senza nome tagliato in due da un rettifilo della A2 Salerno – Reggio Calabria. Il traffico scorre immemore e veloce sopra la scarpata dell’autostrada del Mediterraneo. Altre storie asfaltate via.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.