Autore: Mauro Francesco Minervino

  • IN FONDO A SUD| Temesa e l’Amantexit, una secessione al gusto di cipolla

    IN FONDO A SUD| Temesa e l’Amantexit, una secessione al gusto di cipolla

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    C’è chi in Calabria di questi tempi, nonostante spopolamento e crisi delle municipalità e dei piccoli centri, vorrebbe far nascere un nuovo comune. Riproponendo disinvoltamente a pretesto, tra mito e storia, favolose antichità da guida turistica e suggestioni archeologiche che coprono a stento, con una araldica foglia di fico, vecchi e nuovi campanilismi.
    Succede ad Amantea, contrapposta alla frazione di Campora San Giovanni. Intenti secessionistici che la frazione avanza rispolverando una pretesa continuità «etnica» (sic!) con l’antico «popolo di Temesa», risalente niente poco di meno che alla fondazione dell’antica città italica, citata da Omero (Odissea, I, vv.180-184).

    Calabria saudita

    E parte da qui una spericolata rivendicazione secessionista, a colpi di etnicismi e illazioni identitarie. «Da fonti storiche e sulla base di ritrovamenti archeologici si desume che il territorio dell’attuale frazione Campora, compreso tra il fiume Oliva e il torrente Torbido è stato precedentemente territorio appartenente a Temesa. Dalle testimonianze rinvenute si può evincere, fino ai giorni nostri, la naturale e spontanea simbiosi degli abitanti dei luoghi interessati, che mette in evidenza anche sulla base degli eventi archeologici già ampiamente dettagliati, l’uniformità ad un unico territorio (Campora San Giovanni – Serra d’Aiello) che affonda le proprie storiche radici nella città e popolo di Temesa».

    Un cartello sulla Statale 18 dà il benvenuto ad Amantea in cinque lingue (ma non in arabo)

    Si passa poi alle pretese del presunto «contesto linguistico, usi, costumi e tradizioni», che rincara la dose. «Il diverso aspetto socio-culturale viene ampiamente giustificato in quanto comprovato dall’esistenza della città di Temesa sull’attuale territorio di Campora San Giovanni e di Serra d’Aiello, che porta ad attribuire a entrambi gli abitanti dei due territori una comune discendenza riconducibile sotto il profilo etnico al popolo di Temesa. Stante ciò, è naturale spiegare come gli usi, i costumi e le tradizioni si identifichino in Campora San Giovanni e Serra d’Aiello: la diversa terminologia e la cadenza della lingua dialettale comunemente parlata dai Camporesi, è quasi identica a quella parlata dai Serresi e simile al dialetto parlato dai cittadini di Aiello Calabro. Palese è la netta diversità dal vernacolo amanteano che identifica innegabilmente la propria etnia, che a tutt’oggi fa risaltare l’influenza araba degli invasori».

    Il consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano (foto Alfonso Bombini/ICalabresi)

    All’influenza araba degli invasori non ho potuto trattenere le risate. Pure perché il testo citato tra virgolette non è la tesi abborracciata di qualche erudito locale. È il testo di un documento ufficiale della Regione Calabria a firma del consigliere Graziano.

    Anche le frazioni nel loro piccolo si staccano

    Date le premesse, non stupisce che la vicenda secessionista sia finta per adesso sulle carte bollate. Il nuovo comune che dovrebbe nascere dall’esito di un referendum, Temesa, sarebbe frutto dell’unione di Campora San Giovanni (popolosa frazione di Amantea) e Serra d’Aiello, un altro piccolo comune collinare del comprensorio, a danno del centro cittadino di Amantea. Quest’ultima, in caso di perdita della frazione di Campora e con la costituzione del nuovo comune limitrofo, scenderebbe sotto la soglia fatidica dei 10.000 abitanti. Per ora si tratta di un’ipotesi. Per avere la certezza dell’apertura dei seggi, serve attendere una pronuncia di legittimità del Consiglio di Stato, prevista per il 12 gennaio.

    Prescindo ovviamente dal rilievo strettamente tecnico e politico-istituzionale della faccenda. Dal mio punto di vista, quello che rileva piuttosto da questa curiosa ed esemplare vicenda è un dato significativo antropologicamente paradossale. Ovvero che rivendicazioni autonomistiche che cavalcano gli istinti di restaurazione delle piccole patrie, come fenomeno collaterale del populismo sovranista dei nostri tempi, le aspirazioni che fomentano ormai ovunque secessioni e spinte autonomistiche sono ormai divenute moda anche dalle nostre parti. Anche nei paesi. Persino nelle frazioni.

    Proprio laddove, invece, per contrastare spopolamento e crisi delle piccole comunità locali occorrerebbe mirare piuttosto a obiettivi contrari, come le unioni di comuni e il rafforzamento delle strategie di cooperazione e di rafforzamento dei servizi, alla crescita di movimenti civici e di cittadinanza attiva e consapevole necessari per contrastare il decadimento dei territori locali e per rafforzare la già fragile connessione tra piccoli centri, città secondarie e dimensione regionale-nazionale.

    Amantexit

    Il referendum scissionista tra Campora ed Amantea sembra riproporre su scala localissima una specie di derby paesano, fomentato da una sorta di populismo della porta accanto. In una realtà già falcidiata da fenomeni di crisi economica e sociale, da un forte declino delle rappresentanze istituzionali e della partecipazione democratica, ormai tipica dei piccoli comuni, una scissione in un centro medio-piccolo (Amantea arriva a stento a meno di 14mila abitanti), può rappresentare davvero una frattura traumatica nella storia e nella vita sociale di una intera comunità. Ci si chiede quale sia davvero la ratio – e la velleità culturalmente distintiva- che può spingere a separare definitivamente due entità insediative che in realtà sono e resteranno contigue e omogenee.

    È una scelta che rischia di rivelarsi antistorica e avventurista. La separazione tra un comune e una frazione, Campora versus Amantea, potrebbe sommare così due debolezze senza creare davvero nessun punto di forza. E anche il tema retorico dello sviluppismo che differenzia, secondo i fautori del referendum scissionista, la realtà di Campora proiettata verso la crescita da quella di Amantea, cronicamente stagnante e in ritardo, affrontato e risolto a colpi di schermaglie burocratiche o con il ridisegno dei nuovi confini comunali a vantaggio dell’uno o dell’altro non farebbe certo avanzare di un passo i problemi di entrambi.

    Fiato alle trombe

    In certi aspetti la vicenda così come viene delineandosi tocca le punte tragicomiche di uno psicodramma familiare. Una disputa collettiva da strapaese. Alla rappresentazione mancano solo, per ora, un Don Camillo e un Peppone nostrano. Ma già pare di dover assistere a tratti a una questione di diplomazia da arbitrato internazionale Onu per ristabilire chi ha ragione e chi ha torto tra l’ex madrepatria di Amantiella ‘a terza e i neo-nazionalisti dell’ex-colonia rurale che nell’agro annovera i ricchi campi di cipolle (di Tropea) della Campora di San Giovanni.

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    Campora: l’inequivocabile giudizio dei tifosi dell’Amantea sui rivali cittadini

    Con indubbio sprezzo del ridicolo intanto volano parole grosse da una parte e dall’altra.
    «I promotori della separazione si stanno assumendo la responsabilità di compromettere la crescita e l’ammodernamento dell’intero comprensorio del Sud Tirreno cosentino», tuonano esagerando non poco dal confine amanteano.
    Rispondono minacciosi e risentiti i ricchi colonizzatori neo-civici appostati sulle sponde del fiume Oliva: «Distaccandosi da Amantea, i residenti di Campora San Giovanni vogliono porre le basi per un’aggregazione futura, che magari alla lunga riguarderà anche altri municipi. L’atteggiamento sprezzante registrato nel tempo ha favorito il processo in corso auspicato dalla maggior parte dei cittadini di Campora».

    Mare e monti

    A parere dei leader locali, nella disputa autonomista «si scontrano due culture diverse: una meravigliosa cultura marinara, quella di Amantea, e una, differente, di Campora. Questa frazione è passata da 500 a 3800 abitanti, espressioni delle aree collinari limitrofe come, ad esempio, Cleto e Serra d’Aiello».

    A parte l’enfasi, già numeri del genere inviterebbero alla cautela. Preoccuperebbero un demografo e stuzzicherebbero le indagini di un sociologo o di un economista sensato. Invece bastano a rinfocolare polemiche e rivendicazioni secessioniste degne del nazionalismo post-colonialista e terzomondista. È tutto un trionfo della retorica delle origini, dell’autenticità, del senso civico e dei valori tradizionali ad alimentare contrapposizioni artificiose, che fanno a cazzotti con realtà minuscole e pretese comunque sproporzionate. Ma tant’è, ormai la battaglia autonomista divampa, anche a colpi di infiammati comunicati e polemiche incrociate tra le diverse fazioni in lotta.

    Mattarella e Carosello per Temesa

    C’è persino chi ha rivolto un appello al presidente Mattarella «affinché impedisca l’indizione del referendum circa l’aggregazione della frazione di Campora San Giovanni al Comune di Serra d’Aiello-NuovaTemesa».

    «C’è da trasecolare!», afferma invece il Comitato Ritorno alle origini di Temesa (sic!), che dichiara con lessico vagamente neoborbonico remixato con riferimenti iconici da Carosello-anni ’60, che «Lorsignori, evidentemente, spendono il proprio miglior tempo sul pianeta Papalla altrimenti saprebbero che in Italia dal 27 dicembre del 1947 vige una Repubblica democratica che fonda la propria essenza su un ordinamento a base democratica che si regge su tre poteri separati tra di loro, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Al dunque, ma i fatti sono noti, i Camporesi, attraverso un proprio Comitato, Ritorno alla origini di Temesa, hanno avviato un iter giuridico-amministrativo davanti alla Regione Calabria perché fosse riconosciuta questa storica e corale aspirazione, quella di separarsi dal Comune di Amantea in quanto – ormai è verità storica – lo stesso Comune, con colpevole, inadeguata, negligente e assente azione amministrativa ha da oltre quaranta anni ignorato le più elementari esigenze di una grossa comunità a dispetto di un dinamismo economico che avrebbe imposto le migliori attenzioni e il miglior impegno. Così non è stato. Evidenziando, nei fatti un atteggiamento sprezzante, arrogante quanto egoistico che dà ragione, in qualche misura, all’eterno pregiudizio di parte di molti amanteani nei confronti dei camporesi. Loro nobile borghesia, e i camporesi campagnoli».
    Insomma, ci manca solo una dichiarazione di guerra.

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    Statale 18 nel territorio di Campora San Giovanni (foto Alfonso Bombini)

    Derby, indiani, eliporti

    Incuriosito dalla polemica, nei giorni scorsi sono stato da quelle parti per un sopralluogo, per rendermi conto di persona. Alla fine del mio giro sulla SS 18, il nastro d’asfalto con vista mare che qui raccoglie e aspira come un sifone tutto quello che di antico, di vitale e di nuovo si muove intorno alla vita dislocata di questi paesi senza più un centro, ho pranzato in un ristorantino sul lungomare di Amantea. Il posto era frequentato per la pausa pranzo da un gruppo di persone. Prevalentemente bancari, tutta gente del luogo, ma già ben divisa tra tifosi amanteani e camporesi, anche se lavorano ogni giorno fianco a fianco in qualche banca o servizio finanziario locale. Il tono era accalorato ma conviviale. Volavano battute sarcastiche e sfottò pesanti. Il punto era naturalmente il prossimo referendum per l’autonomia.

    Tra le tra le due opposte fazioni a tavola è venuto fuori di tutto: dal derby calcistico locale tra le due squadre che già si fronteggiano nel campionato di Promozione (dilettanti), agli 800 residenti indiani, braccianti occupati (come?) nei campi di cipolle, nell’agricoltura e nei servizi, ai numerosi altri immigrati e rifugiati trattenuti nei centri di assistenza o a spasso per le strade, agli appalti lucrosi previsti per la costruzione di grande piattaforma logistica di Conad. E persino di un eliporto da costruire: «Pe’ le Eolie? No, pe’ Iacucci, cussì piglia e porta!», e giù risate bipartisan (Franco Iacucci è il politico locale di lungo corso che molti indicano come artefice della scissione).

    Franco Iacucci, consigliere regionale del Partito democratico (foto Alfonso Bombini)

    Archeologia e cipolle

    Qualcuno poi azzarda che forse sarebbe meglio prenotare invece uno stand per la prossima borsa del turismo archeologico in cui “vendere” le attrattive del vicino sito archeologico di Temesa: «Seeh! Addu ce su le cepulle» E giù altre risate e battutacce. Intanto un tempio arcaico venuto alla luce nel territorio dell’antica Temesa, l’edificio sacro in località Imbelli di Campora San Giovanni, langue insieme ad un ricco antiquarium, chiuso da tempo.

    Per ora restano solo pochi fatti a giustificare i toni di un secessionismo spinto, convinto unicamente dall’esaltazione paesana, da un campanilismo da condominio: il porticciolo turistico ubicato nello specchio d’acqua antistante la frazione di Campora, le più importanti infrastrutture turistiche collocate sulla fascia costiera di circa otto km che fa capo alla frazione, più alcune imprese all’interno dell’area ex Pip. E appunto le cipolle. Una discreta estensione di preziosi campi piantati a cipolla di Tropea, (il cui areale tipico si spinge fin qui).

    Campora vanta una produzione importante di cipolle

    Campi di cipolle praticamente ormai sovrapposti alle aree archeologiche di Cozzo Piano Grande e di Piano della Tirena, che qui fanno sempre più gola, costituendo la risorsa territoriale che fa reddito più di ogni altra cosa da queste parti. Tutti terreni collocati tra le aste fluviali del torrente Oliva (lo stesso degli interramenti dei rifiuti tossici e radioattivi della Jolly Rosso, su cui non è mai stata fatta piena luce) e del torrente Torbido; superfici molto ampie che quindi passerebbero integralmente in dote al nuovo comune, a danno di Amantea.

    Temesa, una favola senza lieto fine?

    Questo strambo, comico e strapaesano apologo locale calabrese mi riporta ad un saggio che lessi da studente. Un libro eretico che indagava sulle metamorfosi sociali e culturali registratesi in un villaggio francese della Bretagna, Plodemet, scritto da Edgar Morin alla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Qui tra Campora ed Amantea, come nel villaggio francese studiato di Morin, esiste un carattere “plodemetano” che li accomuna. Molti si sentono reclutati per un progetto neo-identitario tanto fantasioso quanto ritenuto ambizioso e necessario. Ingaggiati in una sorta di antropologia elementare del noi e dell’altro tale da definire e promuovere un’umanità in transizione.

    Lo studioso francese Edgar Morin

    Una confusa favola allegorica della modernità alla calabrese che vede di fatto la fine dei paesi, che in questo caso paradossalmente coincide però con la moltiplicazione molecolare dell’ideologia del paese. Con il rischio che alla fine ne resti solo l’involucro vuoto, anche se c’è chi adesso la mette sulla lezione del passato, e accampa radici più antiche della storia, e perciò pretende il riconoscimento di primazie civiche e culturali. Con la pretesa ulteriore che il progresso debba venire solo dalla radicalizzazione delle presunte differenze invece che dalla loro armonizzazione, da una rifondazione artificiale, una sorta di riesumazione del passato, da un ritorno forzato e del tutto nominalistico alle origini.

    Un altro referendum dopo Campora e Amantea

    A me quindi la vicenda secessionista Campora Vs Amantea richiama il paradosso della fragilissima vulnerabilità e infondatezza della gran parte dei cosiddetti “discorsi identitari” nostrani. E se peraltro allarghiamo la scala delle questioni in campo, se guardiamo ai risibili e asfittici campanilismi, alle dispute ottocentesche tra province defraudate di questo a favore di quella che riempiono le cronache di questa regione dal Pollino allo Stretto, dal Tirreno allo Ionio, arrivati al 2023 resta la conferma sconsolante che la Calabria non sa ancora pensarsi come un’unica grande città-regione, con un suo posto dentro la realtà di un paese moderno ed europeo.
    Se per ora ci sia da ridere o da piangere decidetelo voi calabresi. Magari con altro referendum.

  • Strina, presepe e comete: che fine ha fatto Natale?

    Strina, presepe e comete: che fine ha fatto Natale?

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    Arrivano i giorni del Natale con i suoi preparativi, i giorni delle tradizioni popolari, delle riunioni di famiglia, del cibo cucinato con cura e consumato allegramente in comune. E c’è, o c’era, anche la preparazione del presepe, quello immortalato in commedia. Molti ricordano Natale in Casa Cupiello per quella domanda, un vero tormentone, Te piace ‘o presepe, che Luca ripete più volte al figlio (ad essere precisi, la domanda è Te piace ‘o Presebbio), che si ripete fino all’ultima scena, quando per l’ennesima e ultima volta, Luca Cupiello domanda -fiducioso e sconfortato- al figlio che non ne capisce il fascino: «Te piace ‘o presepe?».

    Il presepe al centro della casa era anche il fulcro delle celebrazioni della fede popolare del Natale calabrese. La sua realizzazione era un rito fondamentale, ora è calante. Il presepe era un vero e proprio atto di creazione, un tentativo di riproduzione figurata dell’ordine del mondo, in cui il paese e la casa, macrocosmo e microcosmo, coincidono e diventano spazio domestico e sacro. Le rappresentazioni tradizionali parlano così attraverso le figure del presepe e della sua geografia, naturale e celeste, mettendo al centro il trionfo dei simboli della luce che risorge e prepara l’avvento.

    L’angelo e Giampietru

    Il presepe, una volta ultimato, doveva essere illuminato dalla luce della stella cometa.
    La stella fissata sopra il cielo sulla capanna della nascita era il segno luminoso che avrebbe indicato ai magi il cammino che li avrebbe condotti la notte di Natale al cospetto della grotta e davanti alla nascita di Gesù, annunciata da un’altra creatura celeste, l’Arcangelo Gabriele, e da un’altra statuina, sempre presente tra le figurine dei pastori che popolavano il presepe, il Pastore delle Meraviglie, detto confidenzialmente Giamiupetru (Giovanni-Pietro). L’arcangelo e Giampietru, avvistatori di luce e stelle, contro le tenebre, annunciano l’avvento del il figlio di Dio, che adulto, nelle scritture rivelerà: «Io sono la luce del Mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giov., 8,12), «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Giov. 9,5).

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    Da anni a Cosenza nel periodo di Natale un misterioso appassionato realizza un presepe all’interno di un albero

    Il Natale della tradizione popolare avvolgeva quindi con la sua luce ingenua e fidente un mondo naturale e storico che mutuava ed assorbiva dalla natura i suoi significati più profondi e le sue più oscure fragilità, miscelandoli con riti e culture provenienti da più lontane latitudini.

    Natale (e non solo) con le strine

    Erano anche, questi, i giorni del suono festoso e dei canti popolari della strina e degli zampognari. Nei paesi del cosentino la strina (dal latino arcaico strēna, “auspicio, omaggio di buon augurio”, coincidente con il periodo dell’anno in cui gli astri risalivano il cielo nel corso del periodo dicembre-gennaio) è un canto in versi e in rima accompagnato da strumenti popolari, spesso ricavati da oggetti e attrezzi di lavoro della tradizione contadina. È il caso dei sazeri” conosciuti anche come “murtari” o “ammaccasali. Si tratta dell’antico mortaio in legno o in metallo usato per “ammaccare” il sale grosso delle conserve. Spesso al suono di uno o più di questi strumenti improvvisati si accompagnava una semplice chitarra, un mandolino, un tamburello ed una fisarmonica, a seconda del numero dei “cantori”.

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    Tamburello e fisarmonica sono due classici strumenti utilizzati per la strina

    Il gruppo di suonatori e cantori si recava casa per casa a portare la “buona novella” della nascita del Cristo, ottenendo in cambio un donativo a ringraziamento della visita. Alimenti come uova, formaggio, olio, vino e salumi. La “strina” veniva solitamente cantata nel periodo dell’avvento, che nel calendario tradizionale iniziava con la festa della Immacolata Concezione l’8 dicembre, e durava sino alla sera dell’Epifania il 6 di gennaio. Questa bella e conviviale tradizione è andata via via scomparendo anche dai paesi, anche se i canti della Strina sono diventati nel frattempo oggetto di studio e di raccolta degli etno-musicologi.

    Canti a dispetto a chi rifiuta di aprire la porta

    Come si svolgeva la strina? I cantori iniziavano augurando a tutta la famiglia ospite gioie e benedizioni, per passare poi agli auguri singoli ad ogni componente del nucleo familiare che viene chiamato per nome nella cantata, e al nome si legava un particolare augurio in rima. Si passa alla richiesta dei doni, al “fammi la strina”. A chi non avesse voluto accogliere i cantori e aprire loro la porta di casa, rifiutando l’ospitalità (rara circostanza), i “cantaturi” avrebbero rivolto stornelli “a dispetto”, una sorta di apologo improntato allo sdegno e a profezie di malesorte, che pur di non fatale entità, non suonavano certo liete come ad esempio: “Ammienzu sta casa ci penda nu lazzu, quanno ti lavi mu ti ruppi nu vrazzu”.

    Senza essere chiamati

    Ma quasi sempre la musica era festosa e la “cantata”, accompagnata dalla musica festosa che annunciava per le strade dei paesi una richiesta d’accoglienza e di offerta, era solitamente bene accetta e accolta con fervore come una questua votiva e un dono fatto al Bambino Gesù: «Senza essere chiamati simu vinuti/ oi simu vinuti/ ari patruni avia i bonu truvati/ chini di gintilizza e curtisia; Sentu lu strusciu di lu tavulinu/ è u patruni ca pripara u vinu; Sento lu strusciu di la tavulata/ è a signora ca porta a suprissata/; Sento lu strusciu di la cascitella/ chisti su i guagliuni ca piglianu a custatella/; Nun è vrigogna si purtamu a’ strina/ a’ strina l’ha lassata nostru Signuri/ la strina l’ha lassata a nua nostru Signuri”.

    Natale era dunque la festa più grande della devozione popolare, il cuore di un mondo contadino calabrese che evocava nei simboli luminosi degli astri e delle stelle che comparivano nella geografia del cielo e nel piccolo mondo dei presepi con l’augurio del rinnovarsi divino della luce dell’avvento. Era la favola, il ricordo, l’incanto di un mistero di fede e di luce celeste. Vincenzo Padula, scrive nel 1864 ne La notte di Natale: “Pe’ lu cielu, a milli a milli/, a ‘na botta, s’appicciaru/, s’allumarunu li stilli/, cumu torci de ‘n ataru:/ e si ‘n acu ti cadia/, tu l’ajjavi mmienzu ‘a via/».

    Natale al Cancello

    Nella celebrazione domestica del Natale, il momento più bello era quando la “stella cometa” si tirava fuori dalla paglia, l’ultimo pezzo della cassetta dei pastori, per addobbarla come una corona luccicante sopra la grotta del presepe. Succedeva poco prima della notte di Natale. Le lustravamo col fiato incantato dei sogni le stelle del presepio. Comete dei sogni che restano ingenui.
    Andavo a dormire a casa di mia nonna in certe notti freddissime di inverni della fine degli anni Sessanta. Uscivamo imbacuccati e infreddoliti per andare verso casa sua, a piedi, dalla casa di Via Cancello dove abitavo, fino in cima alla Motta di Paola, vicino al castello, quasi fuori dal paese. Niente macchine in giro allora. La statale 18 non l’avevano ancora costruita. Mia nonna era una donna energica, allegra e dal passo svelto, mi portava in salita e mi reggeva per mano.

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    Quel che resta del Castello di Paola

    Mi ricordo il buio e il cielo immenso, nerissimo, come un velluto impuntato di stelle tremanti. Tremavo anch’io per il gelo, e alzavo il naso nella notte per guardarle, inciampando sui gradoni ripidi tra i vicoli che portavano a casa della nonna Maria, in cima al paese. Le costellazioni rilucevano e sfioccavano nel buio siderale di quelle notti lontane come lampadine in un presepio agitato dal vento. Ero attratto dal buio, dalla luna, dalla vastità siderale. Tentavo di fissarle quelle stelle, e piangevo. Ero già miope, e senza occhiali, tentando di metterle a fuoco, lo splendore di quelle lucine remote nel cielo limpidissimo e nero si allargava sotto un velo di lacrime fredde che mi bagnava gli occhi.

    Le stelle comete puzzano

    E oggi? Le stelle, le comete? Anche quelle, hanno perso il loro incanto sotto le luci sempre accese dei consumi. Poi c’è la scienza, che scruta il cielo e fa la sua parte per distoglierci definitivamente dai miti dell’infanzia. Le stelle comete puzzano, pare, di uova marce e di zolfo. Qualche anno fa ne hanno sondato una – la “67P/Churyumov-Gerasimenko” con un coso supertecnologico costruito dall’Ente Spaziale Europeo, che l’ha fotografata. Ci si è piantato sopra, l’ha sfriculiata in vario modo la cometa e se n’è persino ciucciata un po’. Un assaggio di eternità.

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    La cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko

    Il risultato è che queste schegge di universo primordiale sono impastate di ghiaccio puzzolente e di polvere gelata, guasta, freddissima e piena di gas fiammeggianti. Corpi celesti andati a male, freddi, desolati. Puzzolenti. E ruotano inutilmente nel buio tra le costellazioni, sino a consumarsi come un mozzicone di sigaretta gettato per strada e spento dalla pioggia di un acquazzone. E ancora non lo sapevamo. Così sin dai tempi della creazione. Una scoperta che ci mancava. Che sarà molto utile agli scienziati che studiano i misteri della cosmologia. Microcosmo e macrocosmo corrispondono, sempre. Sappiamo anche questo adesso. Che le comete, anche quelle dei presepi, altro non sono che secchi asteroidi di ghiaccio sporco e fetido come il fondo dei frigoriferi a pozzetto di una cucina maltenuta.

    Natale senza desideri

    E adesso che è caduto pure il cielo dei presepi che ci resta? Anche i desideri (dall’etimo latino del termine de, origine, e sidus, stella, letteralmente, “contemplare le stelle a scopo augurale”, nel senso di trarne auspici e quindi bramare qualcosa-qualcuno), ormai non alludono più alla distanza tra il soggetto e l’oggetto di ogni desiderio, tra noi e le cose, al legame arcano tra l’anima e ciò che ci lega alla natura e agli oggetti stessi. Quello che una volta veniva dalle stelle oggi si compra o si scambia con il denaro e le merci della società turbocapitalista. E si scopre che le comete, quelle vere, sono pezzi di ghiaccio andati a male che girano a vuoto tra il buio delle galassie. A Natale pure le comete esplorate dagli scienziati non danno ali a nessuna fantasia, e sono imbrattate dal caos che avvolge i nostri giorni.

    E senza presepe

    Non ci piacciono più le stelle comete, e non ci piace più neanche il presepe. Il Natale è oggetto degli interdetti del politicamente corretto. E quel «Te piace ‘o Presepio?» di eduardiana memoria, suona oggi quasi come una domanda senza senso. La stella cometa, l’arcangelo Gabriele, i Re Magi, il pastore delle meraviglie. Le strine. Forse tra poco non sapremo più neanche cosa significano. Come nella commedia di Eduardo, Nennillo tace, si risente e alla fine sbotta: «No!».

    Pure la moglie Concetta ha da ridire sul presepe; dopo aver mandato “a quel paese” il presepio nel silenzio della primissima scena, Concetta punzecchia ripetutamente Luca: «Non capisco che lo fai a fare»; «pare che stai facendo la Cupola di San Pietro! Ma vuttace quattro pastori: Vedete se è possibile che un uomo alla sua età si mette a fare il presepio. S’juta pe’ le dicere:-Ma che ‘o ffaie a fa’?-Sapete che mi ha risposto: -O faccio pe’ me, ci voglio scherzare io!-». Eppure Marcel Mauss ha scritto suo tempo che «l’uomo è stato capace di costruire il proprio spirito con tutti i mezzi». E le stelle e il cielo di Natale sono ancora lì, se guardassimo meglio.

  • Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

    Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

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    Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.

    Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
    Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.

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    Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”

    Bellocchio e la rivoluzione

    Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico e la vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.  Il lungometraggio Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.

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    La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival

    Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungo  periodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese. 

    Un manifesto politico con lo stile di sempre

    Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.

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    Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola

    La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.

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    Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca

    Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.

    I pedinamenti dei carabinieri

    Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.

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    Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.

    Un’occupazione in 100 minuti

    Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema. 

    Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.

    Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.

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    Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.

    Paola, 1969

    C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.

    Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.

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    1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il Boom si è fermato ad Eboli

    Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità.
    Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.

    Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri

    Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.

    Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.  

    I poveri e l’avvocato del popolo

    La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.

    Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.

    Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice over dell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.

    Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.

    Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità

    Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.

    Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.

    Il ricordo di Bellocchio

    Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.

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    Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».

    Da comunisti a borghesi

    L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.

    I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.

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    Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.

    Un libro per capire meglio

    Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento».
    La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.

  • IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

    IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

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    Tropea d’estate è caput mundi del turismo calabro. La meta più cercata.
    Te ne accorgi dalla frequenza delle targhe di auto tedesche e straniere. Dal traffico che intasa la Ss 18 verso Pizzo Calabro. Intorno scorre il paesaggio sinistro e desolato della zona industriale, dopo il porto di Vibo Valentia.
    Del sogno della fabbrica restano i cocci, le scorie indigeste: la Nuovo Pignone, la sagoma tetra dell’Italcementi, le ciminiere di Snam e Agip, capannoni dismessi e arrugginiti. Poi restringimenti e interruzioni mal segnalate, la strada impolverata, i resti delle frane e delle distruzioni dell’alluvione di Bivona del luglio del 2006. Ferite vive inferte al territorio, mai medicate.

    La riva sotto il sole

    Superato lo sfacelo di Bivona, c’è un altro bivio che indica Tropea. La statale si dirada e in qualche tratto torna gradevole. Fino a quando gira a mezza costa e si bagna della luce accecante del mare di Parghelia. Che dal greco significa “riva sotto il sole”.
    Tropea si fa aspettare ancora, preceduta dai grandi alberghi nascosti dai recinti nella macchia verde che si avviluppa sopra la scogliera, dai resort di lusso affacciati su alti dirupi marini: i panorami più belli della Costa degli Dei.
    Poi all’improvviso la rupe di tufo spugnoso. Il borgo fitto aggrappato sul mare davanti allo scoglio del monastero dell’Isola, la chiesa della Michelizia, le balconate barocche dei palazzi aristocratici, le vecchie case torreggianti tarlate dal salmastro.

    La Tropea di Escher

    Da lontano Tropea sembra ancora la gemma preziosa di un Mediterraneo da favola immortalata nella litografia di Maurits Cornelis Escher.
    Il grande artista olandese autore della Casa delle scale, l’immagine inquietante che Einstein elesse a simbolo della sua teoria della relatività generale.
    Escher arrivò qui nel 1931 e davanti al mare del mito scoprì Tropea. Incantato dal panorama dedalico e decadente dedicò a Tropea una magnifica veduta dal vero, degna delle sue più stralunate costruzioni fantastiche.

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    Tropea raffigurata da Escher

    La metamorfosi del turismo

    Oggi Tropea vive un’altra metamorfosi: quella del turismo.
    Sempre molti i nordici e gli stranieri, Tropea oggi è piena di rumori, di giovani e di fretta. Disco-Bar e ristoranti alla moda aperti sul corso e nei vicoli del centro storico fino all’alba.
    Per i più esigenti c’è ancora il Pim’s, incastonato in un vecchio palazzo sulla rupe. Era il locale stile dolce vita di Raf Vallone, nato e cresciuto qui, gloria tropeana.

     

    Una finestra orlata da un merletto di tufo racchiude il più bel panorama di Stromboli, ed è la meta preferita dei vip di passaggio. Il porticciolo turistico da cui si salpa per un’ora di mare verso le vicine Eolie, d’estate è piano di barche milionarie.

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    Raf Vallone, Sophia Loren e Vittorio De Sica sul set de “La Ciociara”

    Nella penna di Berto

    Non lontano da Tropea altre tracce ricordano la parabola di un grande scrittore italiano. Uno che molto amò e scrisse di questi luoghi, quando però tutto era ancora scomodo e selvatico.
    Giuseppe Berto scoprì con anticipo la meraviglia di Capo Vaticano e questo spicchio di Calabria tirrenica, appena intravista dai finestrini di un treno.
    Lo scrittore veneto se ne innamorò fanaticamente, come qui può fare solo un forestiero, uno straniero. Tanto che finì per abitare e scrivere sei mesi all’anno nei paraggi del paesino, allora disperso, di Ricadi.
    Berto a Ricadi si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano, una delle formazioni geologiche più antiche del mondo. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo.

    Tropea, Capo Vaticano e la sibilla

    La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi.
    Davanti solo la maestà delle Eolie e «infinite visioni di mare». Berto costruì lì con le sue mani un suo piccolo buen retiro. Una casa minuscola, «un rifugio di pietre», e tra le pietre e i fichi d’india «un pezzetto di terra, giusto per farne un orto».
    La casa di Berto a Capo Vaticano c’è ancora. Un cancello di ferro e un muro bianco vicino al faro.
    Tutto il resto dopo qualche decennio si è mostrificato, come dentro le metamorfosi visionarie e malate incise da Escher.

    Il faro di Capo Vaticano

    Una casbah ’nduja e cipolla

    Intorno adesso è tutto un formicaio. Un assedio di autobus, di turisti in ciabatte, di venditori improvvisati di ’nduja e cipolla rossa.
    L’intero pianoro di Capo Vaticano è un dedalo di strade effimere e senza nome che si perdono nel nulla, un eclettismo da nomenclatura turistica lussureggiante di tabelle per resort, villaggi turistici, alberghi, residence.
    Ovunque scheletri di cemento, l’incubo del non-finito tra i campi di terra rossa ferrigna e gli uliveti impolverati, villette, speculazioni rampanti e abusi di ogni genere.
    Meno male che Berto nel frattempo è morto (1978). Si è risparmiato grandi dolori. Morto prima di vedere quello che hanno combinato quaggiù i continuatori e gli eredi di quel suo paradiso.

    Cosa resta di Berto

    Berto uomo e scrittore, oltre alla casa dell’anima sul costone del promontorio e un premio letterario a lui intitolato, qui ha lasciato una memoria declinante.
    Ormai lo ricordano in pochi. Per alcuni resta un incompreso. E, come per tutti i miti, controverso. Qualcuno lo ricorda distante, tenebroso e ostile. Altri, invece conservano un bellissimo ricordo dello scrittore: appartato ma sempre gentile, confidente e alla mano con tutti.

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    Un momento dell’ultima edizione del Premio Berto

    Il ricordo della barista

    Ho incontrato una donna del posto che dagli anni ’50 ha il bar della frazione di San Nicolò, dove c’era l’unico telefono pubblico della zona. «Ogni volta che Berto veniva qui e parlava dal telefono pubblico con la gente del cinema e con quelli di Roma, lasciava aperta la porta del gabbiotto. Lo sentivamo sempre dire col suo bell’accento veneto, «Sai da dove ti chiamo? Io sono nel Paradiso, in Calabria, a Capo Vaticano, nel posto più bello del mondo».
    Già allora Berto qui combatteva, inascoltato e irriso, le prime battaglie ambientaliste per conservare e difendere la bellezza, la terra e il mare di questi posti millenari azzannati dal cemento.

    Berto, un reazionario illuminato a Tropea

    Berto ai suoi tempi fu scrittore controcorrente, noto per le sue polemiche contro la modernità.
    Da reazionario illuminato identificava proprio nei calabresi dei tempi nuovi il prototipo italico di un fanatismo dello sviluppo acritico e funesto. Un fanatismo tipico degli immemori e dei nichilisti impegnati nella dissacrazione e nella distruzione di ogni patrimonio ereditato dal passato: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo. Ora, la civiltà contadina era sì miseria, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».

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    Berto con il suo cane Cocai

    Il riposo

    Berto, veneto di Mogliano, scelse di vivere qui, lontano dai clamori, in una sorta di grazia angosciosa gli ultimi vent’anni della sua vita.
    Ha voluto farsi seppellire a Ricadi. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno. Voleva farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Ma non fu possibile.
    Lo scrittore ha una tomba nel minuscolo cimitero di San Nicolò, in mezzo ai sui vicini, gli amati e odiati calabresi. Il cimitero è poco più giù del baretto. Non è indicato nella segnaletica. Mi aiuta solo la signora del bar: «Vedete che adesso la tomba giusta la trova. Non si può sbagliare. È l’unica a terra, senza lapide. C’è cresciuto un cipresso».

    Abusivi e kitsch: i vivi come i morti

    Sono ritornato nel recinto del cimitero di Ricadi per la quarta volta: la tomba e lì. Il cipresso, stretto e scuro come una lancia, è cresciuto nella sepoltura e svetta oltre il muro di cinta. Niente cappelle, niente lapidi di marmo, nessuna retorica del ricordo. È in un cantone di questo cimitero di campagna, che sembra anch’esso un tempio all’abusivismo. Cappelle esagerate e kitsch, colombari non finiti, tombe divelte e fatiscenti come le costruzioni di cemento affastellate qui intorno.
    Vivi e morti. Stesso stile. Case dei vivi e dimore dei morti qui si somigliano. Costruzioni identiche.
    Questa involontaria Spoon River della indecenza mortuaria sembra solo un trasloco all’altro mondo, fatto troppo in fretta.

    La tomba di Berto

    Un caos colonizzatore in mezzo alla natura mai doma che in questo recinto dei morti sembra già sul punto di poter ingoiare tutto.
    Gli abusi edilizi, gli ingombri del cemento che anticipano i segni corrivi di una storia che qui, morto Berto, non ha mai smesso di correre verso la “modernità”.
    Questa storia non si concilia con la bellezza che appassiona e turba, con la frugalità meridiana di un tempo, con le tracce millenarie di memoria lasciate su questa terra antica.

    Cascami di un’onda di cemento che pare inarrestabile. Come quelli che ormai quasi tolgono il respiro alla casetta francescana e minimalista costruita da Berto davanti all’orizzonte fatidico del Tirreno.
    Invece Berto è davvero lì per terra, sulla terra nuda, in un recesso dimenticato del piccolo cimitero sotto il sole di San Nicolò. Riposa al bordo del recinto dei morti, appartato, sotto il muro che delimita il camposanto. È lì sotto, aggrappato alle radici di un cipresso scuro che gli fa un po’ d’ombra magra. Intorno solo un mucchietto di sassi di mare a fare da cornice.

    Un disegno infantile

    La tomba di Giuseppe Berto nel cimitero di San Nicolò di Ricadi

    Ma sembra anche questo un disegno infantile, impreciso, svogliato.
    Sopra ci cresce liberamente un prospero groviglio selvatico e profumato di gerani e di erbacce. Un desiderio originale di confondersi con la terra stessa, con l’oblio di questa riva atroce ed esaltante che già allora cominciava sommergere tutto, i vivi e i morti.
    Questo, come il luogo essenziale dei suoi ultimi tempi, davanti al mare, sotto quel cielo magnifico e implacabile, sempre presente, alla fine amato più del resto del mondo.

    «Penso che dopotutto questo potrebbe andare bene come luogo finale della mia vita, e anche della mia morte». Così Berto ha scritto di Capo Vaticano ne Il male oscuro. Non disturbiamolo oltre. Solo una larga scheggia di legno ruvido e consunto, simile nella forma alle lapidi musulmane, ricorda chi sta sotto il cipresso. C’è il nome, raschiato a malapena con un chiodo. Appena visibile: Giuseppe Berto. Più in basso, piccole, quasi illegibili e scorticate, due date: 1914-1978. Nient’altro.

  • Giufà, Grotowski e quel garage eretico: la buona compagnia di Antonante

    Giufà, Grotowski e quel garage eretico: la buona compagnia di Antonante

    Ci sono ricordi che contano molto, perché diventano fatti, luoghi, cerchie di persone. Ci sono persone che in mezzo a un corteo di amici, spiccano perché raccontano molto non solo di te e del tuo mondo, ma anche di una città e di un certo tempo della vita. A volte anche di più. Dato che ci sono figure che diventano (e sono, persino senza saperlo o volerlo) storia: senza le quali mai si sarebbe avverato un cambiamento, e mai sarebbe accaduto un vissuto collettivo e individuale.

    Una persona unica

    E ci sono luoghi che per questa via diventano movimenti, istituzioni, posture, compagnie, modi di essere. E quelle persone speciali che hanno fatto tutto questo e sono lo spirito di quei luoghi, le vorresti sempre con te. Te ne accorgi col tempo, a distanza. A cose fatte. Quando mancano di più. Antonello Antonante era uno di queste persone indispensabili e uniche, e il teatro dell’Acquario – che era casa sua-, uno di quei luoghi speciali. L’involucro che ha dato forma alle mille metamorfosi che il teatro rende possibili. Abbiamo tutti la nostra prima memoria teatrale. La mia risale alla fine dei ‘70 e ai primissimi anni ‘80, e mi riporta a Cosenza, lì, al Teatro dell’Acquario. Io ero uno studente di provincia, nemmeno ventenne, appena iscritto al primo anno di filosofia all’Unical.

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    Il palcoscenico del teatro dell’Acquario

    Il garage metropolitano ed esistenzialistico

    L’Acquario–Centro Rat era uno di quei posti in cui nasceva il cambiamento di questa regione difficile. Era sorto in mezzo ai palazzoni anonimi di una via secondaria discosta dal centro cittadino, quasi a bocca di fabbrica del vecchio stadio in cui giocava la Morrone, nella zona di espansione anni ‘60 di Cosenza. Un luogo che a cominciare dal nome evocativo, tra l’avanspettacolo e la cantina esistenzialista, di quei tempi tra i benpensanti cosentini si usava definire “off”. Di fatto aveva l’aspetto un po’ losco, anarchico e complice di un garage metropolitano (e come deposito-garage fino a poco prima era servito) in cui succedevano cose importanti e un po’ strambe, per Cosenza, per noi che eravamo giovani, per la Calabria di allora.

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    Il manifesto del Living Theatre a Cosenza

    Grotowski a via degli Stadi

    Era già l’incubatoio di tante novità che stavano per prendere vita. Era un teatro nato dal basso del Centro Rat di Antonante, con azioni teatrali che erano concepite per il fondale della strada, in mezzo alla vita quotidiana dei quartieri popolari, sorti dai laboratori della sperimentazione del “teatro povero”, senza palcoscenico, portati in giro sugli sterrati in mezzo ai casermoni di periferia di via Caloprese, via degli Stadi, via Panebianco. Ma c’erano già stati gli spettacoli memorabili su testi di Grotowski e Genet, e i mitici happening teatrali degli anarchici del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina.

    Il garage diventa teatro dell’Acquario

    Poi venne il teatro degli spettacoli sotto un tendone da circo era il tendone del Circo Marius, che Antonello comprò a Roma, in una specie di trattativa-svendita che era già teatro. Quel tendone di fortuna ospitò gli spettacoli sull’utopia di Campanella e la riattualizzione critica dei canovacci di “Mascare e Diavuli” della commedia dell’arte, conGiangurgolo in commedia” (e Antonello era lui stesso Giangurgolo), fino a quando il 7 marzo del 1981 non fu inaugurato in quel mitico garage-capannone, ex palestra polisportiva ed ex deposito, ripulito e riadattato a sala con sedute ricavate da panconi di legno e sedie pieghevoli, di via Galluppi 15-19, il Teatro dell’Acquario.

    Un teatro con gente libera e anticonformista

    Il primo spettacolo messo in scena fu «un Woyzeck bellissimo di Buchner, di Libera Scena Ensamble, per la regia di Gennaro Vitiello», ricordava Antonello. Erano tempi buoni per la cultura e il teatro nella Cosenza di allora, quando assessore alla cultura era stato chiamato uno come Giorgio Manacorda. Da quel 1981 il Teatro dell’Acquario cominciò a programmare con regolarità le sue produzioni e quelle delle compagnie «provenienti da ogni parte, dall’Italia e dall’estero». Anch’io da quel momento in poi presi a frequentare assiduamente quel posto magico, anche fuori dagli orari degli spettacoli. Di quel posto mi piaceva l’atmosfera confidente e alternativa, l’aria chiusa che sapeva di polvere e fumo, i rumori delle macchine di scena, il buio in cui ci si poteva calare a tutte le ore. La gente che ci trafficava, che stava intorno e dentro quel garage fuori mano per fare teatro, aveva qualcosa di speciale. Era attraente, libera, anticonformista. Recitavano, avevano storie strane, vivevano su un palcoscenico, viaggiavano.

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    La locandina del “Woyzeck” di Buchner

    Un po’ circo un po’ santuario

    L’Acquario aveva qualcosa che mi ricordava sempre un misto di odore di circo e di santuario. Bastava quello per dargli l’alone improrogabile di un’urgenza, una calamita: in quegli anni di fermenti, lotte e utopie all’Acquario si doveva andare. Per il teatro, per l’arte, per la politica, per le ragazze. Per tutto il resto che poi è diventato importante, importantissimo almeno per me. E io ci andai, come tanti, e cosi divenni spettatore di teatro. E scoprì lì che il teatro mi piaceva e da allora continua a piacermi. Compravo l’abbonamento agli spettacoli quando potevo permettermelo. Ci andavo (e ci vado) ogni volta che posso e adesso sempre meno di quanto vorrei.

    È uno di quei luoghi che col tempo è diventato indispensabile: arrivare lì ed entrare in quel luogo (anche se oggi che per sopravvivere alla morìa culturale di questa città è diventato teatro-bistrot, è molto cambiato rispetto ad allora) mi emoziona sempre; mi intimidisce, mi affascina, mi diverte, mi ci sdoppio. Come succedeva la prima volta, allora, quasi quarant’anni fa. Forse anche per questi motivi l’Acquario e la sua gente, Antonello e Dora su tutti, divenuti col tempo amici da quegli anni, col tempo non l’ho più persa di vista.

    La legge per riconoscere il Centro Rat

    Da consulente dell’assessore regionale alla Cultura Augusto Di Marco, alla metà degli anni ’90 mi adoperai per il varo di una legge specifica per il riconoscimento del Centro Rat (LR 27/’95), che ne istituzionalizzava la funzione di teatro stabile di produzione e sperimentazione teatrale. Ma anche successivamente a quella legge, la «classe politica di questa regione, distratta, arrogante, sonnacchiosa», come scrive lo stesso Antonello Antonante in una intervista del 2011 alla storica del teatro Valentina Valentini, lasciò quella legge lettera morta, decretando di fatto il declino del centro Rat e la crisi, in cui ancora oggi si dibatte senza trovare sbocchi, l’insieme del vivacissimo movimento teatrale cresciuto nel frattempo intorno all’esperienza teatrale fondata a Cosenza da Antonante.

    Per noi poi vennero altre cose. Tanti incontri e una consuetudine durata fino agli ultimi anni, quando mi chiedeva di venire gratis agli spettacoli a patto che gli scrivessi una recensione, poi i tanti progetti scritti e tentati, collaborazioni che poi per qualche motivo diventavano impossibili, e il rapporto sempre difficile con la città e e le istituzioni di questa regione che non ama la cultura e il teatro.

    Antonello Antonante con l’immancabile basco

    Giufà e il mare

    Poi libri, per me importantissimi. Come il ricco volume-memoriale Centro Rat Teatro dell’Acquario – Trent’anni di differenza di cui Antonello e Dora mi affidarono la curatela, con testimonianze, che raccoglieva tra gli altri di Giorgio Barberio Corsetti, Gianfranco Berardi, Alessandro Bergonzoni, Toni Servillo, Valentina Valentini, Valeria Ottolenghi, Saverio La Ruina, Alfredo Pirri, che feci uscire per Abramo editore nel 2011, quando la parabola dell’Acquario, privo di aiuti e di attenzioni dovute, scendeva purtroppo dentro la crisi istituzionale che ancora avvolge tutto il teatro di ricerca calabrese.

    Infine ci fu il bellissimo Giufà e il mare, un testo divertente e profondo frutto di uno spettacolo-ricerca realizzato per il teatro di Antonello, che lui stesso aveva condotto sulle fonti mediterranee di questo personaggio universale e concorde emblema dell’animo e della narrativa popolare, che pubblicai ancora per Abramo nella collana “Teatro in tasca”.

    La tribù dei teatranti

    Per me resta il fatto che l’ambiente che girava intorno al teatro dell’Acquario e al centro Rat, negli anni, è diventato ed è rimasto anche in mezzo alle crisi convulse alle trasformazioni catastrofiche degli ultimi anni, un punto archimedico nella mia vita. Li sono nate conoscenze, amicizie e storie che per ragioni diverse hanno avuto la forza di cambiare anche il corso della mia età d’uomo. Come scrivono in molti in queste ore dopo la sua morte, Antonello con la sua meravigliosa tribù di teatranti è stato un faro colto e cosmopolita in una città che si è via via rassegnata a restare piccola e chiusa. Lui e suoi spettacoli, il suo teatro, finché sono rimasti accesi hanno tenuto viva una speranza in questa città scaltra e annoiata, che senza luoghi e persone come lui e l’Acquario si ritrova adesso è ancora più buia e spenta di idee e di cose belle.

    Il programma della stagione 1976/1977 della Tenda di Giangurgolo

    Un sorriso da vecchio marinaio

    Per molti della mia generazione il teatro non è stato il Rendano, con i suoi stucchi, le signore impellicciate ai galà delle prime, né le rappresentazioni classiche e paludate di autori noti e compagnie di grido. Ma la polvere, il buio, il fumo, le pensate astruse, i copioni stridenti, i commenti salaci e le risate oscene, le compagnie off e gli strani spettacoli dell’Acquario. Oggi di Antonello mi ritorna in mente la sua faccia da Giangiurgolo e il suo nasone a melanzana, il suo sorriso affabile e obliquo da vecchio marinaio d’avventure, sempre affabile, giocoso e arruffato come un vecchio Giufà. L’eredità che Antonello Antonante lascia a questa città immemore e a questa Calabria distratta è una eredità fragile e luminosissima.

    Ci dice che il teatro è una cosa viva, è un’azione costruita da persone che il teatro vivono. Esiste se lo fai esistere il teatro, insieme ad altri, se crei una comunità, e non puoi farlo mai vivere da solo. Ecco perché Antonante e l’Acquario sono stati (e restano) il primo teatro di questa regione e di questa città. Ma Antonello è però già adesso ben più di un ricordo in questo arido e terribile scorcio di estate.

  • Cedro: il frutto sacro che porta i rabbini in Riviera

    Cedro: il frutto sacro che porta i rabbini in Riviera

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    Per chi arriva in Calabria da nord, in treno o in auto sulla trafficatissima Statale 18, l’estate si annuncia con il paesaggio maestoso del Tirreno.
    Le montagne precipitose e la costa alta e luminosa del golfo di Policastro, che si apre subito dopo Maratea e si allarga ad arco verso sud per 150 km fino a Capo Vaticano. Oggi questa è la geografia di una affollatissima striscia continua di marine, villette standardizzate, alberghi e villaggi turistici.
    Tutto cresciuto a dismisura e incastrato tra le spiagge, la ferrovia e la statale lungo la costa tra Praia a Mare, Scalea, Diamante, Santa Maria del Cedro: la Riviera dei Cedri, questo dicono i depliant.

    Ma i cedri dove sono?

    Sì, ma i cedri? Si fa fatica a credere che tra queste zolle di cemento addossate alle spiagge congestionate riesca ancora a crescere qualcosa.Dove crescono i cedri? Dov’è la terra per coltivarli?
    Poco sopra il caos delle marine, sopravvive un po’ della antica campagna assolata.
    Una terra di muretti a secco e fiumare, un tempo costellata di ulivi, agrumeti e vigneti, di villaggi rurali e borghi aggrappati alle creste appenniniche.
    Il paesaggio è bello e fragile, rotto in modo irreparabile dalla modernità distruttrice. Rimangono i paesini e le frazioni rurali della costiera più alta, spopolati e inariditi dall’abbandono e dagli incendi di stagione appiccati per far posto al pascolo e alla speculazione.

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    Rabbini durante i festeggiamenti della Sukkoth

    La bellezza tra il cemento

    Da queste parti si costruiscono ancora seconde e terze case a frotte. Ma incredibilmente qui resta ancora qualcosa dell’antica bellezza, della natura benigna. E c’è quello che resta del retaggio di una storia e di una cultura insieme antica e modernissima.
    A ben guardare qualcosa si è salvato e ancora dura. Anzi prospera, in pochi anfratti e fazzoletti di terra, irrorati da pochi rigagnoli e da qualche residua fiumara, come il Corvino, che scende al mare fino a Diamante.

    I paesi del cedro

    A Diamante, Buonvicino, Santa Maria del Cedro si coltivano i cedri. Proprio le cedriere, colture agrumicole specializzatissime, sono un ponte tra due mondi.
    Già: qui, per qualche settimana all’anno, oltre al dialetto locale si parla l’ebraico.
    Quasi tutta la produzione italiana del “Citrus Medica”, e dei suoi derivati (compresa la materia prima della celebre Cedrata Tassoni dei caroselli di Mina), si concentrava nei recessi più riparati di questa zona fino agli anni 60-70. Per la precisione, lungo il tratto di costa tirrenica che va da Santa Maria del Cedro sino a Cetraro.
    La Riviera dei Cedri, appunto. Ma quest’area oggi significa turismo di massa, cemento spalmato ovunque, casino estivo.

    Il cedro: in Calabria meglio che in Asia

    Si ritiene che il cedro provenisse dall’India, e che da lì avesse raggiunto il Mediterraneo in seguito all’invasione della Persia di Alessandro il Grande (325 a.C.). Proprio in Calabria, l’agrume ha trovato un microclima stabile: sole tutto l’anno, acqua abbondante e terreni terrazzati dove crescere al riparo dei venti.
    Ma c’è da dire che forse le piante di cedro hanno radici ancora più antiche, in Calabria. Infatti, la cultivar autoctona del “Cedro Diamante” corrisponde esattamente alle caratteristiche del frutto rituale degli ebrei, l’etrog. In questo caso, l’agrume deve essere di un verde puro, sodo, liscio e lustro.

    Alessandro Magno: si deve a lui l’arrivo dei cedri nel Mediterraneo

    Il cedro di Calabria a misura di ebrei

    Il frutto deve essere spiccato dal ramo all’altezza del peduncolo, e deve provenire esclusivamente da piante allevate per talea. Al contrario, quelli cresciuti direttamente dalla terra, sarebbero considerati impuri.
    Per gli ebrei ortodossi di tutto il mondo il cedro Diamante è lo stesso descritto nella Thora (Lev., XXIII – 39). L’etrog è il frutto “dell’albero più bello”, necessario agli israeliti – insieme alla palma, al mirto, al salice – per celebrare Sukkoth, la Festa dei Tabernacoli, la festa del raccolto e della gioia, secondo quanto Dio prescrisse a Mosè durante l’Esodo.

    Una coltura antichissima

    Nell’alto Tirreno cosentino la coltura del cedro risale alla presenza in zona di comunità ebraiche sin dai primi secoli dell’era cristiana.
    Gli ebrei della diaspora tornarono periodicamente in Calabria nel corso del medioevo. Furono definitivamente cacciati, o costretti all’abiura e alla conversione, durante l’età di Filippo II. La loro espulsione definitiva risale al 1541.
    Per questo i contadini calabresi che hanno ereditato il cedro agli ebrei, dedicano alla crescita delle piccole piante di agrumi lunghe cure e sacrifici quasi religiosi.

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    Un rabbino impegnato nella raccolta dei cedri

    Come si produce

    Nelle cedriere servono quattro anni di laboriose potature, a partire dalla talea, per portare il fragile fusto del cedro a fruttificare.
    Si lavora solo a mano, tra le piante basse e profumate. Si sta carponi e si ripulisce periodicamente il terreno dalle zizzanie.
    D’inverno le piante che soffrono il freddo trovano riparo dietro i cannicci. Una pianta di cedro, anche se bene accudita, vive al massimo 20 anni e ogni anno produce non più di 60-80 frutti.
    Lo sforzo, tuttavia, è ripagato dal raccolto: il cedro di Diamante è il migliore del mondo e fa della sua rarità (non più di 6.000 quintali nelle annate migliori) e della qualità originaria un alto valore aggiunto. Coi suoi scarti e i derivati si preparano ancora oggi liquori, bibite e canditi artigianali di primissima scelta.

    L’arte del candito

    Anche la canditura tradizionale del cedro, divisa tra la macerazione in salamoia per due mesi nelle botti di gelso e la successiva canditura delle scorze asciutte con sciroppo di zucchero, si svolge ancora secondo le regole d’arte ebraiche. Questa lavorazione è detta “messinese” o “livornese”.
    Fino agli anni ‘70 il prodotto locale dopo il raccolto veniva commercializzato solo da pochi incettatori e grossisti. Nelle tasche dei produttori locali restava ben poco.

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    Una cedriera in tutta la sua bellezza

    Gli anni del boom: meglio che in Israele

    Poi dopo gli anni ’70, con la rinascita di Israele, la produzione calabrese di cedro fu “riscoperta” dalle comunità di ebrei ortodossi di tutto il mondo, che abbandonarono la qualità più scadente e commerciale del cedro di Portorico, coltivato intensivamente anche in California con abbondante uso di pesticidi.
    E c’è da dire che neppure in Israele riescono a ottenere un prodotto di qualità così elevata.
    Negli ultimi anni in questa zona la coltivazione del cedro rituale ha stimolato un commercio “transculturale” che in tempi di globalizzazione selvaggia e di turismo aggressivo è un esempio di economia sostenibile. Ciò accade quando, assieme ai prodotti, si scambiano anche valori e tradizioni di culture differenti e complementari.

    Culture a confronto

    Le ricadute economiche e antropologiche di questo fenomeno sono curiose ed evidenti. Tra luglio e agosto la Riviera dei cedri sembra un pezzo del quartiere Lubavitch trapiantato nel caos strombazzante delle vacanze all’italiana di Diamante e Santa Maria del Cedro.
    Arrivano i rabbini ortodossi. Sono i Rodal, i Lazar, i Peres, i Maghyar, i Levy, gli Havinery, i Basherijevitch di Amburgo, Londra, Odessa, New York, Tel Aviv, Buenos Aires. Barbe lunghe, cappelli a falda, peyot (i lunghi riccioloni che cadono dalle tempie) e soprabiti neri, nonostante il caldo.
    I volti sembrano usciti da una galleria di ritratti di Robert Visnjach, facce da Khassidim e da kibbutzim. Arrivano qui per acquistare e controllare di persona la raccolta dei piccoli cedri che sono indispensabili agli ebrei ortodossi per celebrare degnamente Sukkoth, che cade a settembre.

    Rabbini in posa a Santa Maria del Cedro

    I rabbini nelle cedriere

    I rabbini vanno nelle cedriere al mattino presto assieme ai contadini. Cominciano a lavorare all’alba in religioso silenzio.
    Il sacerdote va avanti lentamente e con cura scrupolosa ispeziona le piante una per una. Anche gli attrezzi devono essere puri.
    Il coltivatore lo segue con in mano una forbice da potatura, che servirà solo per quello scopo, e una cassetta di legno foderata di paglia. Ci si intende senza parlare.
    Il sacerdote si ferma a guardare i frutti da vicino, uno per volta. Ispeziona anche il tronco del l’alberello: il fusto deve essere sempre dritto e liscio, privo di segni e di insetti. Se li avesse, la pianta sarebbe impura e i frutti inservibili.

    Passato l’esame del fusto si possono raccogliere i cedri tra i rami bassi e le lunghe spine lanceolate. I frutti sono selezionati rigorosamente: non ci possono essere scarti. A questo punto il rabbino si sdraia per terra e guarda i frutti dal basso, scrutandoli tra le foglie senza mai toccarli prima della valutazione definitiva.
    Se infine decide di coglierli li indica al contadino, che li spicca con la forbice.
    Poi, più da vicino ma senza mai toccare il frutto, esamina ancora la buccia liscia e verde: la forma deve risultare perfettamente ovoidale a imitazione del cuore.

    Dopo la scelta

    Solo dopo questo vaglio, il piccolo agrume – non più di 300 grammi, il peso di un cuore umano – è avvolto nella stoppa ed è riposto nella cassetta di legno. Il coltivatore per ogni cedro buono scelto dal rabbino otterrà la somma stabilita.
    Il prezzo è sempre alto, perché dal rischio stagionale dipende anche la qualità e la quantità del prodotto scelto dai rabbini.
    Ci si saluta contenti con un arrivederci. Con la lunga consuetudine e la fiducia, si diventa amici.
    Infatti, molti rabbini dopo anni portano anche le famiglie in vacanza qui. Tra queste famiglie ebraiche e i coltivatori della Riviera dei cedri si è formato una sorta di intenso comparaggio interculturale.

    Una fase della raccolta dei cedri

    Fine del raccolto

    Quando la raccolta si è conclusa le cassette contenenti i cedri avvolti nella paglia e sigillati uno per uno da un coperchio prendono immediatamente la strada dell’aeroporto di Lamezia.
    Quindi i jet riportano a casa i rabbini e, nelle stive, le cassette di legno con i piccoli cedri.
    Gli agrumi dorati si risveglieranno solo un mese dopo, ancora lustri e profumati. E brilleranno per la festa degli ebrei della diaspora, forse già nel freddo di un altro continente, in una metropoli lontana.
    Qui restano gli alberelli, assediati dal cemento, tra gli abusi e i condoni edilizi mentre il traffico dell’estate scorre indifferente sulla vena pulsante della Statale.
    A noi resta un mondo che non sa più riconoscere la sacralità della natura e i frutti più antichi del lavoro dell’uomo.

  • Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

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    Con l’arrivo dell’estate, come ogni anno, lungo tutto il tratto nord della Statale 18, da Praia a mare fino a Cetraro, debutta l’ingorgo delle presenze turistiche anarchiche. Quelle che sfuggono a statistiche e controlli, che significano economia super-sommersa, inquinamento e abusivismo senza fine, ingorghi, bancarelle e lungomari che diventano una specie di Piedigrotta a tutte le ore del giorno e della notte.

    Chi può si gode la vista del golfo di Policastro. Magari da uno di quei villini fucsia o color pisello che occhieggiano dal mostruosissimo Villagio del Bridge, una catasta di spaventosi cottage in cemento con vista sulla baia di San Nicola Arcella, che leggenda dice costruito coi soldi di Maradona.

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    Lo scrittore Francis Marion Crawford

    Grand Tour: stregati dal nord della Calabria

    Niente come il turismo di massa è capace di marcare i cambiamenti nella cultura e nei costumi. Queste coste magnifiche della Calabria del Nord un tempo non così lontano dal nostro furono il luogo elettivo del mito un poco svenevole degli stranieri del Grand Tour a caccia di natura selvaggia e panorami mozzafiato.

    Qui scesero lo scozzese Craufurd Tait Ramage e il più noto e pruriginoso Norman Douglas. Ma, su tutti, da queste parti visse l’eccentrico e ricchissimo scrittore americano Francis Marion Crawford. Non un personaggio qualsiasi, anche se il nome di Crawford (1854-1909) oggi direbbe poco anche al lettore più erudito e smaliziato. Questo autore che compare solo in cataloghi antiquari e nelle ristampe di editori minori di serie horror e fantasy, fu un caso fra i più curiosi e insoliti nella letteratura popolare di fine Ottocento.

    Crawford fu uno scrittore di storie incredibilmente prolifico e versatile, di grande mestiere e di enorme successo. Ma anche uomo eccentrico e misterioso. Eccezionale poliglotta (parlava ben 11 lingue) studioso di culture esotiche ed etnografo sui generis, ma anche uomo di mondo, eccellente marinaio e viaggiatore avventuroso, cultore di esoterismo e scienze occulte, abile schermitore e architetto. Al culmine di un’esistenza intensa e stravagante, bruciata in soli 55 anni, i suoi 44 romanzi ottennero un successo eccezionale fra fine ‘800 e inizio ‘900.

    Autore del primo libro in inglese sulla mafia

    In vita la sua popolarità e la sua fortuna di narratore raggiunsero vette leggendarie. Già il suo primo romanzo, l’anglo-indiano Mr. Isaac (1882), ebbe un successo immediato di pubblico, e Crawford ne fece subito un seguito l’anno appresso, tradotto in 23 lingue. La sua carriera da allora fu un crescendo, fino alla morte improvvisa avvenuta nel 1909 in Italia, a Sorrento.

    Fu lui a scrivere il primo romanzo in inglese sulla mafia che si conosca, l’antropologico I padroni del Sud (The Rulers of the South, 1900). Crawford con la sua penna fosca e fantasiosa riuscì guadagnare grandi fortune, assieme all’ammirazione del pubblico e una celebrità che dava sui nervi. Con un best seller dopo l’altro era infatti il nababbo della letteratura d’evasione del primo Novecento.

    In barca con Joseph Conrad

    Innamorato del mare e della navigazione a vela, nelle sue crociere verso il Sud, Crawford spesso si faceva accompagnare dalla bellissima moglie americana Elizabeth Berdan, da Sarah Bernhardt (per la quale aveva scritto nel 1902 il dramma Francesca da Rimini), dal pittore danese Henry Brokmann-Knudsen e da pochi altri amici scrittori della colonia britannica, come Norman Douglas, che ricorderà Crawford nei suoi Biglietti da visita. Qualche volta nelle crociere verso questi luoghi del Sud lo accompagnò anche Joseph Conrad, con il quale il nostro, che era capitano di lungo corso della marina americana, si alternava al timone del «The Alda», uno schooner a tre alberi, «grande e bello» che lo stesso scrittore, esperto navigatore, pilotava dall’Atlantico a Sorrento, e poi giù fino a San Nicola Arcella.

    Fu durante uno di questi lunghi detour nautici verso il Sud che Crawford scoprì l’estremo arco meridionale dell’ampia insenatura delimitata da un costone di roccia che si apre tra l’isola di Dino e il Golfo di Policastro, a San Nicola Arcella, in Calabria.

    La torre dello scrittore

    Una vecchia torre bastionata che «spunta isolata da un uncino di roccia», squadrata e tetra, affrontava il mare e le tempeste, dominando un tratto di costa a quel tempo deserta e solitaria, dove «nel raggio di tre miglia non si scorge una sola casa». Il paesaggio lo ammaliò, e Crawford trovò proprio in questo scorcio di costa selvatica e disabitata una straordinaria fonte di ispirazione. Così come aveva fatto a Sorrento, decise di prendere dimora a San Nicola per stabilirsi armi e bagagli proprio nella torre che, abbandonata e quasi ridotta a rudere, regnava sulla baia.

    Per un canone irrisorio prese in affitto da un proprietario del posto, un certo Alario, quella tetra e spettacolare torre costiera costruita dagli spagnoli nel ‘500 per tenere lontani i pirati, e la restaurò. E fu proprio in questa sua strana residenza di elezione che Crawford, anno dopo anno, si rifugiò per scrivere quasi tutti i suoi più noti capolavori letterari. Vi scrisse storie di fantasmi, misteri e vampiri come La strega di Praga, La cuccetta superiore e Il teschio che urla.

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    Lo scrittore Francis Mario Crawford nel suo studio all’interno della torre di San Nicola Arcella

    Se ne stava rinchiuso per mesi nello scenografico bastione, isolato in un piccolo studio con biblioteca, vivendo in solitudine nella torre, tra le mura spoglie, abbandonate dai tempi degli spagnoli ai venti e alle sinistre dicerie di luogo stregato. Un posto davvero perfetto per immaginare le trame dei suoi racconti horror e fantasy. Lo stesso Crawford nei suoi diari ricorda lo stupore provato nello scoprire una sorgente d’acqua limpida sullo scoglio, buona da bere, proprio a fianco alla torre, e i successivi lavori di costruzione di un pozzo che spaventarono molto la popolazione del villaggio, estremamente superstiziosa riguardo alla fama che la torre aveva come luogo di calamità e di disgrazie.
    Nel 1911, due anni dopo la morte di Crawford, si pubblica postuma una raccolta di racconti sul soprannaturale intitolata For the Blood is the Life and other Stories. Tra questi otto racconti di «wandering ghosts», Perché il sangue è la vita, che dà il titolo alla raccolta, è ambientato tra le mura di questo eremo stregato e remoto sulle coste della vecchia Calabria amata da Crawford.

    Uno dei migliori racconti horror secondo Lovecraft

    Perché il sangue è la vita fu considerato in assoluto da H.P. Lovercraft uno dei migliori racconti di vampiri mai scritti. La sua particolarità sta nel fatto che la storia, scritta da Crawford forse nel 1908, un anno prima della sua morte, si svolge praticamente in presa diretta, proprio tra le stanze della torre di San Nicola, dal calco di personaggi locali, tra gli scenari naturali affascinanti e stregati di quel fortilizio lungamente abitato dall’«americano», che attinse per questa sorta di «ghotic tale» alla calabrese, a quella che pare fosse un’accreditata superstizione popolare di San Nicola.

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    Lo scrittore americano H. P. Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella

    Per queste particolarità “Perché il sangue è la vita” è, nel suo genere, un capolavoro, «one of the absolute best tales of the folkloric vampire of tradition» (H.P. Lovercraft), in mezzo a decine di altri racconti di vampiri che nei primi decenni del Novecento ripetevano stancamente i temi del Dracula letterario di Stoker. Qui Crawford sfata tutti i luoghi comuni che vogliono questi esseri soprannaturali infestare unicamente le nebbiose brughiere dell’Inghilterra o le montagne nere della Transilvania. Il plot fu dettato dalle numerose conoscenze folkloriche dello scrittore americano, che saprà mescolare le atmosfere gotiche con le credenze popolari del luogo.

    Il vecchio Alario del racconto altri non era che il padrone della torre affittata da Crawford, la leggenda del fantasma di Cristina era una superstizione raccolta di prima mano nel villaggio, i personaggi realistici, mentre il sinistro bastione di Crawford era considerato un luogo interdetto dai tabù locali. Un terribile omicidio fa da sfondo a una storia di passioni morbose e denaro. Due ladri trafugano il baule con la fortuna accumulata all’estero dal vecchio Alario, lasciando in povertà il figlio Angelo. Per farlo, uccidono una serva, la zingara Cristina, una misteriosa ragazza che li aveva visti nascondere il tesoro.

    Dopo la morte di Alario, Angelo, umiliato e povero, viene attirato dal fantasma di Cristina, trasformata in vampiro, con cui si congiunge nel luogo in cui i ladri l’hanno sepolta. Da viva Cristina, creatura misteriosa e sensuale che ha il fascino maledetto della zingara fatale, è sempre stata innamorata di Angelo, che però non l’ha mai corrisposta. Da morta, come vampira, è irresistibile, e Angelo si lascia vampirizzare eroticamente da lei, finché Antonio, «una piccola creatura simile a uno gnomo», il bizzarro servitore del narratore della storia (lo stesso Crawford), con l’aiuto del vecchio prete del villaggio combatteranno contro il maleficio di Cristina, che viene infine sconfitta e uccisa con il solito paletto spaccacuore.

    San Nicola Arcella, la torre e lo scrittore

    Nella torre di San Nicola, Crawford scrisse, tra l’altro, anche i capitoli finali dell’ultimo libro, The diva’s ruby, uno dei suoi romanzi più belli. Quasi a testimoniare che il suo lavoro di scrittore di storie romantiche e gotiche fosse davvero ben concluso solo in quel luogo, in un’atmosfera così carica di suggestioni imperscrutabili. Il manoscritto di The diva’s ruby, conservato alla Houghton Library dell’Harvard College (dono della figlia «Countess Eleonora Marion Crawford Rocca»), suggella la circostanza. Con solennità Crawford alla fine dell’opera impugnò la penna e, testimoniando il profondo legame instaurato con la sua torre alchemica, con i personaggi e i luoghi circostanti, lasciò che l’inchiostro vergasse la chiusa: Francis Marion Crawford, San Nicola Arcella, 6 Settembre 1907.

    La passeggiata di Crawford a San Nicola Arcella

    Oggi resta ben poco del paesaggio e dei luoghi incantati che «l’americano», aveva scelto per vivere e scrivere. Qui un tempo il paesaggio era quello del magnifico e intoccato tratto di costa che va da Castrocucco, su cui scendono a picco i monti di Maratea, fino a San Nicola Arcella. Un mare azzurrissimo dominato dall’isola di Dino, punteggiato da isolotti e scogli, con splendide insenature e la piccola baie dell’Arco Magno, che sovrasta una piccola laguna dove il mare è raffreddato da polle sorgive di acqua dolce. Sull’arco di accesso alla grotta passava, dove oggi è franato, una stretta mulattiera. Era la passeggiata di Crawford, sulla vecchia strada di collegamento tra la Taverna dell’Orco e la Fonte del Tufo. Sui luoghi immortalati tra le pagine fantasy del magico Crawford si compie la nemesi del contemporaneo.

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    Spiaggia dell’Arco magno a San Nicola Arcella

    La torre assediata: ville, discoteche e movida

    La torre è ormai assediata dai vicini disco-bar, dai club e dai quartierini di villette estive affastellate in ogni angolo sulla marina di San Nicola Arcella. Tutto intorno il paesaggio sottosopra dei villaggi turistici e delle seconde e terze case per il mare. Compresi i famosi villoni esagerati con annessa caletta privata dei politici calabresi che qui tengono banco nella stagione estiva, e vicino alla torre di Crawford le discoteche pompano a tutto volume le notti della movida locale. Sullo sperone di San Nicola oggi c’è un belvedere ridotto in condizioni di degrado tristissime.

    Le piante della macchia mediterranea sono secche o bruciate. Al loro posto un mucchio di spazzature e bottiglie di plastica, cartacce e rifiuti di ogni genere. La superstrada tirrenica, la SS 18, giorno e notte scarica sulle marine affollate tra Praia a Mare e Diamante, il caos di un turismo mordi e fuggi, immemore e fracassone. Altri vampiri, sfuggiti dalle trame dei suoi esorcismi letterari, qui hanno fatto scempio di quello che fu il paradiso di Crawford.

  • IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    Che Calabria è e che città è quella che si chiama Vibo Valentia?
    Vibo è un altro di quei luoghi che mi interroga ogni volta che ci rimetto piede. Specie da quando è diventata capoluogo della sua omonima, e sparutissima, provincia. Un territorio che fa in tutto 150.000 abitanti sparpagliati in 50 Comuni e comunelli disseminati tra le Serre e le marine del Tirreno.
    Lo stesso capoluogo è poco più di un paesone, con una sua certa araldica, se rievochiamo i suoi tanti nomi (Hipponion, Valentia, Monteleone) e il passato. Ma oggi?

    Il crollo demografico

    Oggi conta un po’ più di 30.000 abitanti ed è in drastico calo demografico come il resto della regione, nonostante quasi 1.700 stranieri residenti. Però Vibo Valentia è “il comune più popoloso della cosiddetta Costa degli Dei”. Il maggiore distretto turistico calabrese, dove la ’ndrangheta è monopolista. E fa affari d’oro tra alberghi a 5 stelle, ristoranti e resort di lusso da Nicotera a Tropea, fino a Pizzo Calabro.

    La Costa degli Dei

    In Calabria – vuoi mettere? – ci si consola con i nomi aulici e si convocano gli Dei a ogni piè sospinto. Specie se il presente lascia invece poche speranze all’immaginazione. E rende opaca la sorte di intere comunità per il futuro prossimo e quello venturo.

    Il disastro urbanistico

    Capisci il senso dei luoghi già dalle strade malmesse che – dal tronco della Statale 18, alla provinciale che sale da Porto Salvo e Triparni all’ingresso di Vibo Sud – sono cosparse ai lati da mucchi di rottami sparpagliati ovunque. A tacere del trionfante disordine urbanistico che precede il centro città, lungo Viale Affaccio.
    Un posto certamente ricco di passato Vibo. Ma un passato remoto saccheggiato, svisto, trascurato con stizza e con disprezzo dagli abitatori moderni.
    Che qui tutto cancellano nella fretta smemorata e oltraggiosa dell’oggi.

    Gli dei non abitano più qui

    Arrivato in cima alla vecchia Vibo, mi guardo intorno dal piazzale antistante alla tetra muraglia del Castello normanno-svevo, sede del Museo Archeologico Statale intitolato a Vito Capialbi, che conserva cose bellissime in sale drammaticamente deserte. E guardandomi intorno a giro d’orizzonte dal posto dove fu costruita probabilmente l’Acropoli dell’antica Hipponion dei greci mi sono chiesto: «Ma gli Dei da queste parti da quanto tempo non ci mettono più piede?».

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    Un antico mosaico a Vibo

    Di sicuro non si vedono da qualche millennio. Dai tempi della polis fondata dai locresi tra il VI e l’inizio del V sec. a.C. che guidò una guerra contro Crotone, come ricorda Tucidide.
    Oggi tutto quel che resta delle monumentali mura greche di Hipponion è seppellito sotto intrichi di rovi ed erbacce. Altri pezzi stanno al riparo di una tettoia di lamiera. Quasi misconosciuti ai più, soprattutto agli ingrati abitanti del luogo. Un’assurdità. Un avanzo di storia millenaria sperso in mezzo alla campagna aggredita dai palazzoni della periferia.

    Brutture postmoderne

    Cubi di calcestruzzo dalle forme più bizzarre e pretenziose tirati su alla buona dalla speculazione degli anni d’oro del mattone, età che qui non sembra conoscere tramonto. Le divinità del mattone e del cemento pressofuso regnano da queste parti. La dea Speculazione spadroneggia indisturbata.

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    Un parco pubblico nel degrado

    Tutto sottosopra. Il passato classico e le memorie monumentali, greche e romane, oberate da un presente di cemento armato e casermoni a spaglio, villette sgraziate, cooperative di abusivi condonati e in attesa di condono.
    In quartieri che si chiamano “Moderata Durant”, “Cancello Rosso”, “Feudotto”. Terre di nessuno abbandonate al proprio destino. Esempi sommi di urbanistica disperata e arraffona, dove nel 2022 ancora manca l’acqua. Ma non è il presente che qui sembra fare più scandalo. Il passato da queste parti è considerato invece una maledizione da cui non ci si libera in fretta. Preferibilmente a colpi di ruspa, come si suole fare per non intralciare affari e speculazioni a buon mercato.

    Guai agli onesti

    Chi sta con lo Stato e la cultura e si oppone allo scempio non se la passa bene a Vibo. Ne sa qualcosa Maria Teresa Iannelli, archeologa e solerte funzionaria del Mibact.
    Iannelli ha subito minacce e soprusi per sottrarre i resti antica Hipponion dalla furia degli speculatori alla Cetto la Qualunque che qui spadroneggiano.
    Non è una piazza decisamente sensibile anche ad altre sfumature della cultura la città che fu dell’euruditissimo barone-archeologo Vito Capialbi.

    Christian De Sica da giovane

    Né conserva un bel ricordo di Vibo Valentia Christian de Sica. In una recente intervista, l’attore ha richiamato un suo souvenir “teatrale” del capoluogo: «Avevo 21 anni e conducevo una serata a Vibo Valentia, con giacca rosa e capelli lunghi. Cantavo una canzone francese, Chaînes, cioè “Catene”, mentre la gente dalla platea mi urlava “Ricchione”. Da allora a Vibo non c’ho più rimesso piede».

    Si muore male e si vive peggio

    C’è poco da stare allegri in quanto a sensibilità civili. L’aria che si respira in città sembra ovattata dalle abitudini, da una acquiescenza al peggio diventata folclore e stile di vita.
    A guardarla da fuori, dalla poco lusinghiera classifica stilata da Italia Oggi sino ai più recenti reportage delle grandi testate, Vibo sembra un’emergenza più nazionale che regionale. È la provincia d’Italia in cui si registrano più omicidi. E, neanche a dirlo, anche quella messa peggio per qualità della vita.
    Nicola Gratteri l’ha definito il territorio a più alta densità mafiosa del Paese. E, con recenti conferme dalle inchieste, è anche una le città più massoniche d’Italia.

    Terra di grembiuli e ’ndrine 

    Ci sono ben dodici logge su una popolazione risicata. Sono invece ben sedici le ’ndrine censite dalla Dia in un rapporto semestrale del 2018.
    Altri dati certificano un quadro a dir poco fosco. Il 30% delle aziende della provincia è stato confiscato dalle autorità negli ultimi 10 anni per infiltrazioni e contiguità con le ’ndrine.
    Vibo ha celebrato con gran pompa la proclamazione a Città del Libro 2021. Ma risulta che più di due ragazzi su dieci lasciano la scuola entro i 15 anni.

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    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    L’ospedale Jazzolino, tristemente famoso per episodi di malasanità tragicamente frequenti e per corruzione amministrativa, cade a pezzi e se ne reclama uno nuovo.
    Per giunta, anche il tribunale, simbolo dei poteri legali che qui da sempre faticano ad attecchire, versa in una situazione altrettanto critica. E lo Stato ha collocato stabilmente una caserma di “Cacciatori”, il corpo dei carabinieri a elevatissima specializzazione anticrimine, che stana ‘ndranghetisti e mafiosi latitanti.

    Abusi e caos

    Invece prosperano in ogni angolo di Vibo gli abusi urbanistici, le discariche, le strade che si perdono nel caos, i cartelli stradali completamente cancellati e ricoperti dalla vegetazione.
    L’occhio basta a cogliere molti aspetti del degrado. Ancor prima di registrare i pochi, timorosi, commenti raccolti dei cittadini perbene che ancora sopravvivono a fatica in questa città. Dichiarazioni da stato di assedio. In quasi tutti prevale il risentimento o la rassegnazione: «Senza sanità, trasporti, lavoro. Qui stiamo peggio degli africani che sbarcano alla marina».

    Rifiuti per strada alla Marina di Vibo

    Oppure qualcuno più preoccupato delle sorti civiche: «Qui ormai la delinquenza sta vincendo su tutto, e i politici sono pure peggio dei mafiosi, non ci sono speranze».

    Troppe banche per tanti poveri

    Percorrendo le strade del centro sono molte le saracinesche abbassate e le insegne di negozi chiusi. Mentre proliferano, apertissime e animate da giovani vocianti, le numerose sale per slot e i centri per scommesse sul corso principale e nelle adiacenze.
    E c’è una quantità sospetta di sportelli bancari. Troppi per una città in cui il reddito medio (dichiarato) è spesso molto al sotto la soglia di povertà. «Questa città non ha futuro», commenta sconsolato un piccolo imprenditore, «e ai miei figli ho chiesto io di allontanarsi da qui finché sono in tempo».

    I ricordi di Prestia

    Così prosegue il lento, inarrestabile declino di una città che un tempo era un «belvedere, un giardino fiorito su un mare di storia e di bellezze».
    Me lo racconta Mario Prestia, ingegnere idraulico, perito nelle inchieste per le alluvioni che negli anni scorsi hanno fatto danni e morti nella zona marina di Vibo, a causa degli abusi sfrenati e del saccheggio sistematico di un territorio bello quanto fragile.
    Prestia è anche figlio di uno scultore notevolissimo: Gregorio Prestia, che a Vibo pare non aver lasciato tracce ed eredità culturali. Né e andata meglio al più noto e famoso pittore Enotrio Pugliese,

    A destra nella foto, il pittore Enotrio Pugliese

    È doloroso ammettere che oggi Vibo Valentia registra una serie incredibile di tristi primati.
    È una realtà decisamente ostile ai cambiamenti, in netta controtendenza rispetto anche agli alfieri della “restanza”, la testimonianza di una fedeltà alle radici a tutti i costi che sa di lezione ex cathedra. Quando a restare sono, invece, troppo spesso, i peggiori.

    Il teatro dell’assurdo

    Negli ultimi 15 anni oltre 180.000 calabresi sotto i 35 anni hanno abbandonato le proprie residenze. E il Vibonese è stabilmente in testa all’esodo.
    Molte migliaia di ragazzi e ragazze, con un titolo di studio superiore o universitario, hanno abbandonato la città per cercare altrove un futuro migliore.
    A Vibo Valentia restano gli inossidabili simulacri di socialità rappresentati da Rotary e Lions, con le loro azzimate riunioni periodiche, i riti associativi che tra inni e gagliardetti raccolgono il pubblico-bene, sempre in grande spolvero nei saloni dello storico Hotel 501.
    Chi non si rassegna continua invece a organizzare cultura dal basso nell’isolamento. Una specie di deserto dell’ascolto e dell’attenzione, come nel teatro dell’assurdo alla Ionesco. Le iniziative tese a risvegliare la città dal torpore cadono nel vuoto spessissimo. O, peggio, nell’irrisione, che parla sempre in dialetto forte e fangoso, e usa spesso toni offensivi.

    Gli sforzi delle associazioni

    «Dobbiamo essere bravi – mi dice un operatore culturale impegnato nell’associazionismo cattolico cittadino – a far capire che l’omertà e un certo modo di vivere i rapporti col prossimo genera mostri. Bisogna combattere le minacce, e soprattutto il codice mafioso del silenzio che qui è la regola».
    Queste parole contraddicono le dichiarazioni rassicuranti rese tempo fa dall’ex sindaco Elio Costa, ex magistrato.

    L’ex sindaco Elio Costa

    Interpellato in un’intervista sul peso imbarazzante dei poteri criminali nella vita di Vibo Valentia, Costa rispondeva mostrando con ammirazione il mare e lo Stromboli all’orizzonte. E alla replica, «Bello, sì, però la ‘ndrangheta?», rispondeva: «C’è, però la maggior parte degli affari li fa altrove…».

    Un brutto ricordo

    Ho un ricordo particolarmente sconfortante di una delle ultime volte che passai da Vibo per trovare degli amici. Nei pressi di un incrocio del centro, fui tamponato, del tutto incolpevolmente, da un guidatore distratto dal telefonino che rispettò lo stop.
    I danni al mezzo erano mei, alla sua auto neanche un graffio. Ma questi non si scompose.
    Chiamai i vigili per un accertamento del sinistro. Il vigile arrivò, mi squadrò e diede un’occhiata d’intesa all’investitore. Per tutto il tempo si parlarono in un dialetto strettissimo. Protestai. Ma il suo intento era però chiarissimo. Giocavo fuori casa, e quel tizio doveva essere uno conosciuto: alla fine mi trovai dalla parte del torto. Come Vibo.

  • Lombardi Satriani: l’antropologo che riscoprì il Sud magico e vivo

    Lombardi Satriani: l’antropologo che riscoprì il Sud magico e vivo

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    Volevi sapere cos’era l’antropologia culturale e a cosa serviva l’etnologia? Volevi studiare le scienze umane più rivoluzionarie del ’900?
    Infine, volevi conoscere “sul campo” le ricerche e le contraddizioni che queste discipline fecero esplodere nella “rivolta politica” sessantottina anche le aule polverose delle nostre Università?
    Se stavi più giù di Roma – dove insegnavano Cirese, Lanternari, Tentori, o Tullio Altan – negli anni ’80 poteva capitarti di studiare Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università della Calabria.
    Con il professor Luigi Maria Lombardi Satriani.

    Lombardi Satriani: il papà dell’Etnologia calabrese

    Lombardi Satriani arrivò all’Unical intorno al 1980. Era un docente giovane, ma già affermato presso le Università di Napoli, Austin (Texas) e San Paolo del Brasile. Grazie a lui, in Calabria la storia delle tradizioni popolari e il folklore – che ristagnavano nella filologia e nell’erudizione ottocentesca – si rinnovarono e diventarono Etnologia.
    Ovvero diventarono un insieme di soggetti culturali, politici e sociali da indagare per il valore “contrastivo” della cultura popolare, “la cultura degli esclusi”.

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    Un’immagine recente di Luigi Maria Lombardi Satriani

    Questa disciplina, da cenerentola degli studi si trasformò in «analisi delle culture subalterne, folklore inteso come cultura di contestazione, dislivello interno alla società, in contraddizione con la cultura e l’ideologia borghese dominante».
    E perciò da assumere come «soggetto etnografico e politico degno di sguardo antropologico».
    Quella di Lombardi Satriani fu una rivoluzione epistemologica e politica che sovvertì gli studi tradizionali (Antropologia Culturale e analisi della cultura subalterna, Rizzoli, 1980), ed ebbe il merito di riportare il Sud e le sue culture popolari al centro di una nuova questione meridionale nell’era della modernizzazione.

    Il mio incontro con Lombardi Satriani

    Io ero tra i giovani che ascoltarono quel richiamo. Per me fu un’avventura esaltante, poiché buona parte di questo percorso di ricerca si compiva in quegli anni tra le aule del Polifunzionale dell’Unical, dov’ero studente di Filosofia.

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    Il Polifunzionale dell’Unical

    Infatti, Lombardi Satriani fu prima docente e poi per qualche anno preside di Lettere e Filosofia ad Arcavacata.
    Poi tornò a Roma, per rivestire la prestigiosa cattedra di Etnologia alla Sapienza, di cui è stato professore emerito sino alla morte, avvenuta a 86 anni qualche giorno fa.
    Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli antropologi più prestigiosi e innovativi del nostro paese.

    Il ricordo di un maestro

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    La copertina di “Antropologia Culturale”, un classico di Lombardi Satriani

    Ma il professor Lombardi Satriani, è stato per me qualcosa di più; il mio primo maestro. Fui suo studente all’Unical e uno dei suoi primi laureati.
    Purtroppo non sono ancora riuscito a ritrovare la foto del giorno della mia laurea, quando Luigi mi proclamò dottore e assegnò la lode e la dignità di stampa alla mia tesi. Poi mi volle poi tra i suoi allievi e fu il mio direttore al Dottorato in Etno-Antropologia. Fu successivamente presidente dell’Associazione Italiana per le Scienze etno-antropologiche (Aisea). E io fui suo sodale per anni nella Sezione di antropologia e letteratura.
    A quest’esperienza sono seguiti anni di incontri e ricerche comuni, convegni e confronti, in cui fu sempre sollecito di consigli e generoso in riconoscimenti, incoraggiamenti e critiche al mio lavoro.
    Devo a lui, alle sue lezioni, ai suoi libri, l’essere diventato a mia volta antropologo, studioso e docente di Antropologia culturale ed Etnologia.

    Un calabrese di mondo

    Il mio debito verso il professore non è dovuto solo al suo immenso lascito di studioso e intellettuale, spinto a indagare «il legame nascosto fra l’arcaico e il postmoderno».
    Ma gli resterò per sempre affettuosamente legato anche per quel che accadeva fuori dall’ambiente accademico.
    Era un uomo di parola, un calabrese di mondo. Una persona affabile, curiosa e gioviale. Un conversatore brillante, una compagnia confidenziale e divertente. È stato uno dei pochi a cui ho aperto le porte di casa.
    Per decine di volte, in anni di frequentazioni, finché ha potuto, è stato mio ospite con reciproco godimento di amicizia, stima e affetto.
    Le cene d’estate con le lunghe chiacchierate sul terrazzo di casa mia a Paola, assieme a mia moglie e mio suocero (entrambi suoi lettori appassionati) e ai miei figli, sono rimaste memorabili. Ogni volta che ci incontravamo rievocavamo quei momenti spensierati e felici.

    Rigore scientifico e meridionalismo

    La vivacità della riflessione di Lombardi Satriani stava nella sua originalissima ampiezza e complessità di pensiero.
    Fu capace come pochi di coniugare il rigore filosofico e scientifico di ispirazione demartiniana nella sua ricerca sul campo, specie quella di ambito meridionalistico.
    L’evocazione letteraria, persino narrativa, che praticò in anticipo sui tempi, resta il tratto tipico della sua scrittura di antropologo.
    Una ricerca, la sua, sempre ricca di sfumature e rimandi letterari. Soprattutto, sempre attenta ad esplorare con rigore i mondi di confine della cultura e della ragione.

    Ernesto De Martino

    La sua introduzione all’edizione Feltrinelli (1980) di Furore Simbolo Valore di Ernesto De Martino, resta un esempio insuperato di efficacia interpretativa e di sintesi tra scrittura saggistica e letteraria.
    Uno sguardo prismatico che lui considerava indispensabile per non trasformare la missione di «partecipazione, umanizzazione e appaesamento» svolta dalle nuove scienze etno-antropologiche, in una sequenza arida di dati e statistiche da compilare in saggio accademico, o in dimostrazione fine a se stessa.
    La temperatura dei suoi scritti era sempre calda e vibrante, colta e appassionata, umanamente partecipe. Mai finalizzata alla dimostrazione per i soli addetti ai lavori.

    Marxista coerente e meridionalista “contro”

    Lombardi Satriani fu nemico allo stesso modo del «passatismo nostalgico» e del «progressismo di maniera».
    Fu inoltre distante sia da un limitante «abbarbicamento all’orizzonte paesano» sia da «fughe in avanti e furori ideologici» che prescindono dalla realtà, «dalla vita concreta e attuale degli uomini e delle donne».
    Mise al centro la vita e la cultura delle classi subalterne e ridiede forza alla critica gramsciana quando in Italia già andavano di moda revisionismo storico e riflusso nelle culture di massa.

    Antonio Gramsci

    Rimase saldamente storicista e marxista critico mentre nel mondo accademico nostrano andavano di moda i “cultural studies” anglosassoni di seconda mano e in molti ambienti si affermava la vulgata strutturalista dell’Antropologia culturale.
    Infine, non ha mai cessato di stigmatizzare la lamentosità e i sofismi di certo meridionalismo paludato e distante, gli eccessi di verbosità di un certo intellettualismo antropologico, oggi riproposto in versione modaiola. Pagine morte che “senza mai spostare in avanti l’orizzonte e lo sguardo problematico, ripropongono senza vie d’uscita concrete, vecchi stereotipi”, e non fanno altro, parole sue, che “attardarsi inutilmente in atavici attardamenti”.

    Nessun erede all’altezza

    «In realtà Luigi Maria Lombardi Satriani», ha scritto in un suo bel ricordo su Repubblica Marino Niola «è sempre stato in presa diretta su ciò che rende umani gli uomini».
    L’unico conforto quando si perde un maestro come lui è pensare che ha messo al primo posto l’impegno di testimoniare con la ricerca. E ha consegnato il suo magistero ai successori come un dono da preservare e arricchire. Ma cosa resta di questo alto magistero nel mondo accademico e nell’Università calabrese in cui ha insegnato per anni?
    Purtroppo molto poco. Nessuno è stato alla sua altezza. Chi si è intestato la sua eredità culturale è accademica ha compiuto una mediocre parabola personalistica e di potere. Ciò ha impedito la crescita di un settore di studi che resta fondamentale per la comprensione critica della Calabria, del Meridione e del Paese.
    Un restringimento localistico che nulla ha a che vedere con la lezione di probità scientifica e di libera ricerca intellettuale che in Luigi Maria Lombardi Satriani hanno sempre avuto un difensore e un simbolo di autonomia e coraggio.
    Anche per questo la sua lezione resterà con me per sempre, e a mio modo la terrò viva onorando il suo magistero e la sua memoria come si conviene per un mastro, vero.

  • Calabria di vino… fatto in casa: il viaggio di Soldati contro guide e influencer

    Calabria di vino… fatto in casa: il viaggio di Soldati contro guide e influencer

    In primavera si è conclusa a Rende, sotto i capannoni di un’anonima area fieristica, una grande kermesse mondiale del vino, il Concours Mondial de Bruxelles. Erano 310 sommelier professionisti provenienti da 45 nazioni, suddivisi in commissioni, hanno valutato i 7.376 vini internazionali in concorso, di cui 5.083 Rossi e 2.293 Bianchi, provenienti da circa 40 Paesi.

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    Erano 310 i sommelier impegnati nel Concours Mondial de Bruxelles

    Vino di Calabria: la pattuglia al Concours

    L’Italia con 1.396 iscritti, dopo la Francia (1.645) e prima della Spagna (1.368). E tra i tanti vini italiani in competizione insieme a regioni habitué del Concorso come Sicilia (202 etichette in gara), Toscana (186), Puglia (185) e Veneto (105), spicca quest’anno la partecipazione della Calabria, terra enoica sin dalle origini ma sinora piuttosto disdetta dai grandi recensori del vino e dai sommelier mondiali, con ben 143 etichette.

    Vino di Calabria: il viaggio di Mario Soldati antidoto a guide e influencer
    Istantanee dal Concours Mondial de Bruxelles a Rende

    I “produttori” calabresi hanno risposto con grande entusiasmo portando in concorso 11 DOP e IGP tra cui Calabria IGT (82), Terre di Cosenza DOC (24) e Cirò DOC (18). Il Concorso «consente di offrire un’esperienza concreta e autentica di promozione per il nostro settore vitivinicolo, che vanta certamente un primato, quello di essere la terra delle origini del vino, grazie all’arrivo della vite dall’oriente, 2500 anni fa». Dichiarazioni impegnative dell’assessore all’agricoltura Gallo, tra i promotori insieme alla Regione di questa vetrina del vino mondiale.

    Gli influencer e il vino di Occhiuto

    I vini calabresi negli ultimi decenni sono davvero cresciuti molto di qualità e di prestigio, soprattutto per merito di enologi e vignaioli di territorio, e intorno ai filari e alle vigne cresce anche la solita retorica sviluppista di politici e influencer del vino. Era inevitabile.

    Anche in questa occasione si è parlato molto di “grande occasione di visibilità per la Regione”, di “marketing territoriale”, di “settore strategico”, di “vere e proprie eccellenze calabresi”. Il presidente Occhiuto, pure lui produttore di vino, ha dichiarato che «dopo il successo ottenuto al Vinitaly, dimostreremo anche in questa occasione che abbiamo realtà che non hanno nulla da invidiare al resto del Paese e al resto del mondo. E benvenuti in Calabria, terra accogliente, passionale, autentica».

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    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto

    Resta il vino di Calabria dopo la sbornia del Concours

    Ora, passata la sbornia retorica dei Concours e delle kermesse enologiche, resta il vino. È utile ricordare che c’è, o almeno c’è stata, un’altra dimensione del vino e della Calabria enoica che fa da contrappeso a una certa vanagloria alla moda dei sommelier e della standardizzazione del gusto in tema di vino. Un mondo sempre più ribaltato sugli interessi dei comunicatori professionali, degli allestitori di fiere, dei compilatori di guide stellate. Apparati economici che, come accade col turismo, fanno business e appaiono sempre più lontani dalla realtà viva della terra, dagli umori di una tradizione, dalla storia e della vicenda concreta di chi vive le vigne.
    Troppi ormai gli elementi astratti da un’attenzione antropologica e culturale che incontrava quelli che una volta il vino lo facevano davvero per berlo. I paragoni con l’attualità non reggono.

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    “Vino al vino”, libro di Mario Soldati

    Mario Soldati: la bibbia del buon bere 

    Chi si ricorda, per esempio, di Mario Soldati? Il suo Vino al vino è una summa, un’opera omnia, documento di una sensibilità e di una intelligenza senza eguali. Soldati ci lascia tre volumi, ciascuno dedicato a un itinerario, usciti il primo nel 1969, il secondo nel 1971 e il terzo nel 1975. Per chiunque scriva di vino e di cibi, di luoghi e di incontri, questo di Soldati resta un sacro testo, una sorta di bibbia laica del mangiare e bere bene andando in giro per l’Italia di provincia. Un modello, ancora oggi, per orientare e correggere non solo stile e scrittura, ma anche l’etica e l’estetica del modus operandi e narrandi di certa gastronomia televisiva alla moda che oggi fa audience.

    Il pellegrinaggio alcolico di Soldati

    Soldati nelle sue divagazioni ci rimette sulle tracce di ambienti inediti e spesso oramai cancellati dalla geografia contemporanea della nostra regione, un tempo ricca di umori provinciali. Così è la sua Calabria del vino, che fu re-visionata da Soldati negli anni settanta, per misurarne lo stacco dei tempi nuovi dopo il tramonto della stagione esotica degli scrittori stranieri del Grand Tour. Soldati se la gustò con i sensi e lo sguardo di un narratore di dettagli, un sapido poeta del quotidiano e delle piccole cose. Un pellegrinaggio fatto in nome della cultura materiale e per il gusto di compiacere la propria vitale golosità, piuttosto che per un’esigenza di marketing turistico.

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    Lo scrittore Mario Soldati

    Soldati di sé diceva che viaggiava soprattutto per andare da un vino. Amava doppiamente il vino. Come alimento e sostanza dal corpo vitale, come essenza aleatoria e spirituale. Il vino come la vita «è fatto per dare piacere consumandosi». A dispetto della angusta gamma descrittiva di qualità organolettiche e compilazioni tecniche ostentata invece dai degustatori professionali di vini oggi tanto venerati dai media. «Non sono un tastevin, non sono un professionista dell’assaggio».

    Sputare sentenze e sputare vino

    Chi fa l’assaggiatore di mestiere, chi assaggia vino, sputa sentenze con la stessa facilità con cui sputa il vino (e lo deve sputare se non vuole rapidamente ammalarsi). Ma un dilettante come me non può e non è giusto che possa, e deve dunque affrontare impavidamente il rischio di una malattia». Per Soldati, il vino è individuo. Esattamente come gli uomini, il vino per Soldati è «immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un’infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso». Altro che disciplinari e bilancini per le Docg.

    Perciò, anzitempo, non sopporta la globalizzazione, la sofisticazione, la genericità del gusto medio, le descrizioni standard. Il vino è da capire e bere, dunque, solo se si va a farselo amico direttamente sul posto. Altro che accontentarsi dei ridicoli referti televisivi da rubrica enologica dei sommelier alla moda: «Come si può descrivere il sapore del vino? Le parole non bastano mai, si articolano al massimo su una ventina di aggettivi, sempre la stessa musica».

    Cos’è il vino di Calabria? Le persone che lo fanno

    Insomma banalizzarne il carattere è prima che un imbroglio mediatico, un delitto estetico, materiale e morale. E proprio in Calabria, alle prese con la difficoltà a raffigurare a parole la complessità di sensazioni accese dal «gusto concreto del Britto», con la scoperta di un «nuovo» vino Soldati saprà aggiungere una pagina memorabile alla sua fede filosofica e antropologica nel vino. Descrizione e degustazione contano davvero molto poco. Il vino è per sua essenza singolare, un prodotto dell’umanità affabile e fuori mercato. Un dono. Il gusto di un vino per Soldati «significa qualcosa solo in rapporto alla persona che lo beve», e aggiunge che il gusto di ogni vino è imprendibile. Il vino, come gli uomini, «ha sempre qualcosa di astratto».

    Cos’è il vino per lo scrittore Mario Soldati? Le persone che lo fanno

    A Soldati del vino interessano perciò le persone che lo fanno e, allo stesso modo, pure dei cibi coloro che li cucinano. Con inarrivabile curiosità, arguzia e ironia, una straordinaria capacità descrittiva di uomini e situazioni, Soldati nel 1975 ci raccontava anche nei suoi passi calabresi una tradizione della cucina e dei vini in un Sud del lavoro contadino ancora vivacissimo. Oggi lontanissimo, anzi irrimediabilmente perduto, perché quei paesaggi e personaggi, quelle cucine e quei prodotti non esistono più.

    Ruffiane guide enogastronomiche

    Oggi quella tradizione locale del buon gusto, ingenua per certi versi, ma profondamente vera e sana, popolata da campagnoli e galantuomini per i quali produrre vino genuino era innanzitutto un imperativo morale, è stata sostituita anche da noi da un mondo variopinto e fatuo, popolato da scaffali pieni di etichette, da cloni locali degli enologi e dei gourmet televisivi, sedicenti esperti, winemakers e redattori di patinatissime e ruffiane guide enogastronomiche. Libertà anarchica dalle mode e autonomia dal mercato. Questo predicava già allora Soldati, scrittore del desiderio, ghiottone e bevitore omerico.

    Soldati che ama poeticamente «violenza e resistenza» di una Calabria ancora «isolata e anarchica», «scontrosa e ribelle», percorre per intero la regione evitando cantine di produttori industriali ed etichette griffate, schiva ogni pubblicità e predilige la scoperta e la varietà, l’unicità della specialità domestica da apprezzare affidandosi all’ospitalità «nella religiosa compagnia di pochi amici» calabresi che lo accompagnano in una memorabile serie di tappe locali del suo viaggio che divaga alla ricerca della tradizione enologica e degli umori più genuini della Calabria rurale di allora. La sua ricerca fa appena in tempo a cogliere anche da noi gli ultimi veri sapori autarchici.

    La bottiglia di Savuto regalata da Mancini a Soldati

    Come per la piccante – e ancora minoritaria – «Sardella di Crucoli», da Soldati mangiata a cucchiaiate «usando una sfoglia di cipolla dietro l’altra». C’è la scoperta della valle del Savuto, con la sua antica tradizione enologica. Istradato al Savuto da una memorabile bottiglia regalatagli dall’amico Giacomo Mancini, Soldati fu a Rogliano alla ricerca degli umori più genuini e meglio custoditi della vecchia Calabria rurale. La valle più alta del fiume Savuto tra le colline di Marzi e Rogliano, non ancora attraversata dalle autostrade, era zona di produzione tipica del Savuto, il vino che «sta a Cosenza come il Barolo sta a Cuneo».

    Giacomo Mancini regalò una bottiglia di Savuto allo scrittore Mario Soldati

    Il vino del prete di Rogliano

    Qui lo scrittore ha la ventura di assaporare questo vino locale in una particolarità mitica, il «Succo di pietra» dei Piro. Un nettare di Savuto purissimo prodotto dalla famiglia di Francesco Piro e dalle sue «cechoviane sorelle» di cui, a Rogliano, Soldati fu ospite. Poi è la volta di un’altra grandiosa rivelazione enologica. Mentore Don Alberto Monti, «l’immagine nera e allungata del parroco di Rogliano». Il prete che in un’apparizione quasi mefistofelica, in un buio da cripta gli si fa incontro per proporgli un indimenticabile assaggio. Ecco allora che dalla sua «tonaca miracolosa» spuntano due magiche bottiglie senza etichetta: «Savuto è solo il Britto», sentenzia solennemente il prete di Rogliano. E il «Britto», che in dialetto locale «vuol dire bruciato», è l’alchimia suprema del Savuto, con l’incanto superbo di un colore «rosso rame».

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    Il prete del Britto, don Alberto Monti

    Un vino sublimato dal «gusto concreto», che il buon Soldati dichiara «diverso» da tutti gli altri, misterioso e ineffabile, un elisir di lunga vita insieme «giovane e maturo». Il Britto è davvero la varietà di Savuto più fine, ottenuto da un mélange misterioso e ben calibrato di ben sette, anzi, forse, nove-dieci vitigni autoctoni di antichissima origine.
    Soldati lo acclama estasiato dalle sue «liquide trasparenze», quasi fosse «il fondo oro-rame di un’icona infernale» che racchiude nel suo mistero etereo il fascino più autentico di una tradizione millenaria, simbolo sopravvivente di un territorio aspro e ricco di storia.

    L’umile vino Donnici di Piane Crati

    Anche se a ben vedere l’emblema enologico e antropologico di quella Calabria del vino ancora orgogliosamente domestica e antituristica, autarchica e retrò, festeggiata con entusiasmo sovversivo da Soldati, si esprime piuttosto in una bottiglia dell’umile Donnici di Piane Crati «che l’indipendente stradino Eugenio Bonelli pigiò l’anno scorso nella modesta ma onesta cantina dove noi adesso lo beviamo». Con lo stesso spirito Soldati torna anche miticamente a rivisitare altri vini-emblema della Calabria enologica, come il Greco, il «succulento Mantonico», il Pellaro, e infine, giunto nell’enoica e magnogreca terra crotonese, passa in esame il celebre Cirò dal «guizzo vivo e pungente».

    Il Cirò Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia

    A Cirò Soldati fa ragionamenti preveggenti sul futuro del vino nelle società tecnologiche. Di fronte ad un Gaglioppo o Magliocco delle vigne del leggendario marchese cirotano Susanna è spinto a fantasticare pensando che il «sapore che un certo vino ha oggi mentre è giovane sarà vanificato: il mistero del vino di un tempo sarà svelato soltanto il giorno in cui qualcuno inventerà il computer organolettico, capace non di archiviare i componenti chimici del vino, ma di descrivere il suo gusto e il suo profumo, e, soprattutto, di riprodurlo fornendone campioni anche a distanza di secoli. Allora, forse, tutto sarà senza inganni, come nell’Età dell’Oro». Si parla di vino, ma con uno stile che fa già contenuto. «L’assoluta leggerezza della scrittura di Soldati – sono parole di Pier Paolo Pasolini – significa fraternità».

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    L’apocalisse modernista dopo il Boom

    Ma anche sul paesaggio Soldati, progressista-conservatore, ha le idee chiare e ragiona da esteta. Della foga edilizia dell’Italietta immemore e caotica che fa spazio all’eclettismo nella bengodi del Boom, scrive: «Ci pare di veder sorgere, sull’immemoriale ragnatela di questi vicoli, la peggiore delle profanazioni, l’abominio di case nuove costruite arieggiando all’antico: con falsi mattoni, false terracotte, false ceramiche falsi ferri battuti: polite hostarie, palazzotti residenziali per i ricchi, e magari nights gotici o rinascimentali. L’unica soluzione, forse sarebbe quella, semplice e poetica, ove l’area del bombardamento, ripulita dalle macerie più trite, e coltivata in un disordine naturale ma non eccessivo di fiori, cespugli ed erbe, circonda i ruderi del del campanile, che si levano così, con la loro grazia, magra e schietta: un’oasi di contemplazione, un monumento di doppia memoria per i cittadini del presente e dell’avvenire, facilmente e pericolosamente dimentichi di tutto il passato».

    A Soldati il tempo ha regalato almeno la fortuna di non vedere realizzata ovunque, in Calabria e in Italia, «la peggiore delle profanazioni» che paventava: la perdita della memoria, il gusto che si smorza e si abbassa al falso per assaggiare piacevolmente il peggio. In vino veritas.