Autore: Mauro Francesco Minervino

  • El Pantanillo: un Sabato argentino al Laghicello di San Benedetto Ullano

    El Pantanillo: un Sabato argentino al Laghicello di San Benedetto Ullano

    Ernesto Sábato (1911-2011) è stato uno dei più noti, importanti, originali –e controversi- scrittori argentini della generazione cresciuta intorno al gruppo di giovani intellettuali che intorno agli anni ’30 del Novecento si riuniva intorno alla rivista di letteratura Sur, oltre che per decenni una personalità centrale nella vita culturale e politica del suo paese, l’Argentina. Di origine italiana, anzi calabrese. Per via di queste ascendenze familiari, nel 1999 aveva riacquisito «con enorme desiderio e soddisfazione» la cittadinanza italiana, oltre a quella argentina di nascita.

    La militanza, il peronismo, la dittatura

    Gli studi di fisica, la militanza comunista, il peronismo, i rapporti strategici e sfuggenti con la Giunta capeggiata da Videla ne fanno un personaggio controverso come tanti intellettuali d’argentina. In realtà poi nessuno può negare il suo impegno in prima persona quando svolgerà un ruolo importante soprattutto in mezzo ai difficilissimi anni Ottanta, presiedendo in prima persona la Conadep (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas). Fu infatti Sabato a presiedere la commissione sugli scomparsi (Desaparecidos) dal 1973 al 1986, passata alla storia come il Nunca más. Più di 30 mila vittime accertate negli anni della tirannide militare argentina, a cui si pose fine, grazie anche all’azione civile e diplomatica promossa dalla commissione presieduta da Sabato, che consentì senza altri spargimenti di sangue il passaggio alla democrazia con il governo di Raul Alfonsin.
    Ma quella di Sabato fu considerata una posizione definita compromissoria e attendista, che non teneva conto di quanti, tra gli scrittori, gli intellettuali o i militanti democratici, che non avevano commesso reati e tantomeno erano implicati nella lotta armata, fossero già stati comunque sequestrati e assassinati dal regime.

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    Ernesto Sabato e Jorge Luis Borges

    Ernesto Sabato, outsider di lusso

    Lo scrittore argentino Ernesto Sabato è stato un outsider di lusso che imprime il suo sigillo narrativo in territorio un di confine, che nel suo caso possiamo cifrare tra autori più densamente morali, come Dickens, Hugo, Tolstoj o Dostoevskij. Il suo romanzo capitale, Sopra eroi e tombe, è proprio una incandescente scheggia novecentesca di quel vecchio genere emotivo ed eticamente tormentato, fatto di chiaroscuri contrastati e di flussi di tormentate ricostruzioni filosofiche e morali che Sabato ha rifuso a modo suo, in materiali narrativi che spesso cozzano tra loro ma che nell’insieme formano un blocco di storie di poderosa grandezza epica: uno di quei libri in grado stralunare e tramortire il lettore. E in fondo oggi Sabato lo si legge poco proprio in virtù di questi aspetti epicamente esasperanti ed eticamente contrastanti, che sempre sfiorano l’assurdo.

    Ma forse anche per questa sua drammatica frequentazione del margine, che la sua narrativa piacque tanto, invece, all’inquieta genialità meridiana di Albert Camus. Sabato ha goduto l’ammirazione del Nobel francese (anche lui un immigrato senza patria), al punto che questi si impegnò per farlo tradurre dal suo stesso editore, Gallimard che pubblicò in Francia nel 1956 il suo primo romanzo, Il Tunnel, scritto nel 1948.
    Questo grande romanziere argentino morto alla soglia venerabile del secolo di vita, che ha vissuto «l’infanzia di un ragazzino solitario e spaventato di un villaggio della Pampa», avrebbe potuto essere benissimo, insieme alla sua famiglia di emigrati espatriati per l’avventura del sogno della grande Argentina, un ragazzino spaventato abitante di un qualsiasi villaggio della Calabria dei primi del ‘900.

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    Il Laghicello di San Benedetto Ullano (foto Piesse da sito Fondoambiente.it)

    Sabato e il Laghicello di San Benedetto

    Del distinto richiamo dei luoghi ancestrali e del fervore epico del suo antico sangue calabrese Sabato ha liricamente chiosato nel suo libro di commiato, Prima della fine: «I mei due genitori calabresi abbandonarono i loro luoghi d’origine, ma non li dimenticarono mai; avevano lasciato lì tutto, partirono con le loro poche cose e non tornarono più indietro».
    E sempre pensando ai suoi genitori, che arrivarono in Argentina a fine ‘800 da due minuscoli paesi viciniori come Fuscaldo (Francesco, il padre) e San Martino di Finita (la madre Giovanna Maria Ferrari) posti sulla catena costiera in provincia di Cosenza, scriveva ancora nella vividezza dei suoi ricordi d’infanzia: «Quanti italiani avrebbero continuato a vedere le loro montagne e i loro fiumi, separati dal dolore e dagli anni, nelle strade labirintiche e disperse di Buenos Aires, in questa metropoli costruita su un porto e trasformata in un deserto di ammucchiate solitudini».

    Sabato, gli antenati calabresi e il Laghicello

    Quando rivolgeva lo sguardo ai ritratti ingialliti dei suoi antenati calabresi Sabato lo faceva con profondi accenti di commozione e di rimpianto. Sentimenti che neanche i riconoscimenti, la fama, i suoi successi personali nel paese del nuovo mondo avevano risarcito.
    Sabato avrebbe desiderato ritornare a ritroso sino alle origini, indietro nel tempo, e nello spazio, dove? Fin dove, ci si chiede? E cos’hanno a che vedere con la sua vicenda spesso finita al centro delle cronache mondiali per la sua letteratura e il suo impegno a difesa dei diritti umani, con i richiami di memoria, con le strofe delle vecchie canzoni popolari calabresi della terra di suo padre: «Ricordo che certe volte la sera mio padre mi teneva sulle ginocchia e mi cantava le canzoni antiche della sua terra, melodie malinconiche e delicate.

    Era una grande emozione», o il Mediterraneo «la cui luce azzurra quando la vidi per la prima volta, era così intensa che mi offuscò lo sguardo», o ancora quella volta che andò in Calabria a conoscere il piccolo luogo montano dove un giorno il padre s’innamorò di sua madre? Laghicello e Pantanillo, un luogo che si fa specchio dell’altro; il tempo oltre lo spazio, lo spazio che annulla il tempo, come in uno dei suoi vertiginosi sofismi letterari.

    Il Pantanillo di Ernesto Sabato è anche un bel libro di Pedro Jorge Solans, pubblicato in Italia da Luigi Pellegrini Editore. Ho curato personalmente la nota al testo, mentre la traduzione dallo spagnolo è dello scrittore Marino Magliani.

    Il Pantanillo di Ernesto Sabato (Luigi Pellegrini Editore)

    Le radici e il ricordo dell’Unical

    Dopo la morte dello scrittore l’Università della Calabria di Arcavacata di Rende (Cosenza), decise di conferire al letterato, ma anche al fisico, Ernesto Sabato la Laurea ad honorem dell’Ateneo. Morì prima di poter ritirare la pergamena nel 2011; venne sua nipote diretta, Isabelita Sabato, che in quell’occasione ricordava: «La sofferenza e il ricordo dell’emigrazione meridionale dei suoi genitori calabresi in Argentina e l’importanza della pace nel mondo, sono stati concetti su cui Ernesto Sabato ha insistito fino alla fine. E fino alla fine mio zio voleva sapere tutto della Calabria, e ricordo che anche nel suo ultimo anno di vita, pochi mesi prima di lasciarci, quasi con le lacrime agli occhi e con enorme rimpianto, mi disse: ‘prima di morire tornerò nella terra di mio padre».

    Il buen retiro

    Gran parte della sua opera e del suo lavoro di scrittore Sabato lo ha svolto in un luogo lontano e appartato, distante quasi 900 chilometri dal caos della metropoli bairense, dove si era ritirato sin dal 1948. Un buen retiro che in realtà era una sorta di eremo francescano, un piccolo rancho di poche stanze, quasi invisibile, senza acqua corrente, né luce elettrica o strade.

    Il luogo vissuto in povertà da Sabato con i suoi familiari e la compagnia di alcune mitiche figure di rurales del posto e le visite sporadiche pochi intimi amici e letterati, racconta tutto il mondo di Sabato e la sua solitudine, la sua ferrea disciplina di asceta della letteratura. Fu questo il suo unico rifugio mentre l’Argentina post-peronista attraversava gli anni più bui e luttuosi della dittatura militare, mentre imperversava il dramma dei giovani desapericidos, gli oppositori politici fatti sparire a migliaia dalla repressione dei generali delle giunte militari argentini al potere.

    Sabato al Pantanillo come al Laghicello 

    La Casa di Ernesto Sabato, il suo luogo memoriale al Pantanillo (nella regione di Cordoba, a 900 km da Baires), è rimasta una dimora incredibilmente povera e spoglia.
    Al Pantanillo, in questa umile casa di campagna, non lontano da un piccolo specchio d’acqua lacustre che tanto somiglia al Laghicello, la località montana vicina a Fuscaldo ma che ricade nel Comune di San Benedetto Ullano, luogo prediletto dai suoi genitori calabresi, si può visitare il piccolo patio o contemplare il semplice lettino in cui dormiva lo scrittore, intorno solo poche stanze quasi anguste in cui sono raccolti oggetti e suppellettili domestiche, poche cose essenziali: un lume per la notte, dei libri raggruppati in piccoli scaffali, una macchina per scrivere su un tavolino accanto alla finestra.

    Non ci sono tracce di lussi o di cimeli della fama e dei riconoscimenti dei successi ottenuti in vita da Sabato negli spazi angusti e corruschi di questa piccola casa rurale al Pantanillo, che potrebbe essere benissimo un umile casalino rurale in un angolo disperso dell’appennino calabro, risorto per magia di desiderio e di ricordo in un lembo della grande terra d’oltreoceano. Le stesse stanze povere ed essenziali che fino alla fine sono servite a Sabato, scrittore e uomo tormentato dal dubbio, solo per radunarvi  il necessario per vivere, in cui le crepe nell’intonaco corrono serpeggiando sui muri come il tempo scosso dal peso di giorni che nessuno più si preoccupa di fermare sui fogli di un calendario.

    Mauro Francesco Minervino

     

     

  • IN FONDO A SUD | L’Oliver Twist di Gianni Amelio a Catanzaro

    IN FONDO A SUD | L’Oliver Twist di Gianni Amelio a Catanzaro

    Una delle scene più belle del primo film del regista Gianni Amelio, La fine del gioco, girato 55 anni fa a Catanzaro, rimane sorprendentemente impressa dopo averlo visto. È quella che ritrae un gruppo di ragazzini. Prima seguiti dall’alto e poi a livello della strada. L’occhio del regista che li segue, mentre a ritmo lento e dolente, sfilano in corteo.

    Una marcia a testa bassa, in silenzio e braccia conserte dietro la schiena, come fossero in ceppi. Il gruppo di adolescenti messi in fila come un plotone sono seguiti lentamente da un’auto, che li tiene d’occhio e li scorta infine dietro un cancello e oltre le mura di un recinto. In quel passaggio sorvegliato tra strade cittadine di una Catanzaro illividita dai toni del bianco e nero, in una controra quasi spettrale, c’è tutta la condizione di privazione di libertà dei giovani che erano detenuti all’interno del carcere minorile di Catanzaro. Il luogo dove il film si ambienta dopo quelle prime scene.

    Il regista Gianni Amelio durante un intervento alla Stampa estera

    Gianni Amelio a Catanzaro

    A lato di quel primo scorcio rivelativo, a quel piccolo gruppo di ragazzi sorvegliati, si contrappone l’allegra e libera frenesia che anima il gioco di un altro gruppetto di figuranti. Un gruppo dei bambini che si svagano sparpagliati e vocianti oltre la transenna di una grande piazza. Loro, uno sciame di liberi, e i separati, gli estranei, già lontani, chiusi da quei confini, in quelle stanze, le camerate del correttorio già così simili a celle. Sembra il distillato del set iperrealista di uno dei film di Amelio più belli, Il ladro di bambini. Catanzaro del dopoguerra, e questi ragazzi che guardano sempre per terra e non si voltano indietro, e in alto non guardano mai.

    L’infanzia difficile, il rapporto tra i bambini, i giovani e gli inganni degli adulti, il sentimento del tempo e la nostalgia, gli sfregi alla bellezza e al paesaggio, le rivelazioni che balenano nel movimento che coglie lo spazio e la luce, il senso profondo della storia. In questo piccolo film di 60 minuti, c’è, riassunto in un’epitome tutto il cinema che sarà di Amelio, da quei primi spezzoni di pellicola sperimentale sino ad oggi.

    La proiezione organizzata da Fondazione Trame

    È merito della Fondazione Trame, guidata da Nuccio Iovene, che da 13 anni organizza il Festival dei libri sulle mafie a Lamezia Terme, e di “Trame a Sud”, lo spin-off affidato al giornalista e scrittore Vinicio Leonetti per promuove iniziative di riflessione artistica e cinematografica legate alla Calabria e al Mezzogiorno, a cui va il merito di aver allestito e organizzato questo primo appuntamento, se a Catanzaro nei giorni scorsi il cinema fuori dalle sale è tornato in luogo della città così significativo, vicinissimo e lontano, il Minorile di Catanzaro, che oggi si chiama Istituto Penale per Minorenni con Sezione per Semilibertà. “Trame a Sud” comincia da questo luogo e da questo autentico, e presto dimenticato, capolavoro riscoperto.

    Gianni Amelio gira nel carcere minorile di Catanzaro

    La fine del gioco è il primo mediometraggio filmato realizzato e prodotto per la Rai dal regista Gianni Amelio nel 1970. Un film in cui un regista della televisione nazionale, decide di intervistare un bambino molto particolare. Leonardo è un piccolo orfano che senza colpe che non siano la sua condizione di orfano e piccolo lazzaro, si trova chiuso in una casa di correzione. Il regista lo sceglie per farne il protagonista di un film-documentario per la televisione.

    E’ sta la straordinarietà del cinema, che diventa il cinema girato proprio lì, con il racconto di una storia che si svolgeva nel recinto del Carcere Minorile di via Paglia, diventato set, con un protagonista che, come quei ragazzi, era uno di loro. Amelio girò La fine del gioco in bianco e nero a soli venticinque anni, scrivendolo insieme ad un altro importante catanzarese del cinema italiano, Mimmo Rafele, che di questa pellicola di Amelio fu aiuto regista e sceneggiatore.

    Con gli studenti del Galluppi, il liceo di Amelio

    La visione del film, a distanza di più di mezzo secolo dalla sua realizzazione, è stata condivisa adesso dagli studenti del Liceo Classico Galluppi (che fu il Liceo di Amelio), insieme ai ragazzi che entro le mura del Minorile di Via Paglia, sono ancora oggi come allora ristretti. Difficile, se non irrealizzabile per la ritrosia sentimentale e umana che contraddistingue il suo autore, far tornare Amelio, che ha da poco compiuto 80 anni ed è al cinema con il suo ultimo film Campo di Battaglia, nella città del suo debutto di regista per celebrare questa bella e simbolica ricorrenza.

    Era presente invece Domenico Rafele, felice di ritornare dopo 55 anni nella sua città e sui luoghi che furono set di quel film. Rafele è uno dei più noti e affermati sceneggiatori italiani. Oltre che con Amelio, ha poi collaborato tra gli altri con registi come Bernardo e Giuseppe Bertolucci. Tra i suoi film come regista e sceneggiatore si ricordano Domani (1974) Ammazzare il tempo (1979), La piovra, Il giovane Mussolini, Vite a termine, Codice Aurora. Oggi Rafele vive a Roma, dove continua a dirigere film e a scrivere (anche libri; suo il romanzo La forma della paura, scritto con Giancarlo De Cataldo) come sceneggiature per il cinema e la televisione.

    Leonardo, il piccolo protagonista di allora

    Alla proiezione de La fine del gioco, tra gli ospiti radunati da Leonetti per la proiezione nel piccolo cinema del Minorile, non c’era il regista, ma c’era invece, il suo protagonista di allora, Leonardo. Gino Valentino, che a 12 anni fu preso dalla strada e scelto proprio da Amelio per interpretare il piccolo protagonista del racconto, che nel film si chiama appunto Leonardo. Gino/Leonardo è oggi un simpatico, sorridente, e affabile signore di una certa età. Una vita ordinaria di lavoro e di affetti.

    Un tranquillo pensionato quasi settantenne che vive nel quartiere popolare di Fortuna, tra la città e il lido di Catanzaro. Ma quella del film fu per lui un’esperienza indimenticabile, che ha raccontato ai ragazzi e al pubblico con l’incanto intatto di quando era bambino, con ingenuità e fervore, esattamente come allora. «Gianni e Mimmo mi sono stati molto vicino allora, io non avevo mai visto il cinema; mi hanno guidato loro in tutto, ma se feci bene l’attore per quella parte fu perché mi sentivo davvero com’ero nel film».

    Un ragazzino di una periferia del Sud, cresciuto in quegli anni faticosi, ingenuo testardo, diffidente e incantato da tutto. Rivisto, nella parte di Leonardo, lui è davvero un magnifico. Anche il giorno della proiezione i ragazzi ristretti del Minorile lo avevano scambiato per uno di loro. Invece Gino allora era solo il ragazzino di un suburbio di case popolari, l’abitante di un quartiere di provincia, cresciuto per le strade polverose di una Calabria fine anni ‘50 povera e piena di speranze, non ancora smagata dalle illusioni del boom. Il Minorile lui, Gino, lo chiama ancora “riformatorio”.

    E confessa che ancora oggi tra i suoi conoscenti c’è chi fatica a credere che lui non fosse uno degli adolescenti reclusi lì dentro. Ci tiene a raccontare di non avere mai avuto problemi con la giustizia, né prima né dopo il film. Ma forse fu, dice, solo per caso, per fortuna, aggiunge, se lui fece “le scuole”, ebbe genitori buoni e con loro un destino che lo portò lontano dalle mura del riformatorio di Via Paglia. Racconta come fu che arrivò a fare quella parte.

    La troupe si presenta nella sua scuola di Catanzaro. Alla selezione si affollano in tanti, tutti ragazzini delle medie cittadine. Lui ad un certo punto, irrequieto com’era stava per scappare via per tornarsene a casa, quando Amelio lo fermò, interpellandolo in dialetto catanzarese: “Duva fuji tu!, veni accà!”. Era lui quello che cercava per il suo Lorenzo. Gino aveva la faccia giusta, il gesto, i tratti, la voce, la postura che cercava Amelio. Da quel giorno Gino fu per sempre il Lorenzo del film. Lavorò per alcuni mesi fianco a fianco con Amelio e Rafele, ogni giorno sul set, girando diligentemente e con una bravura stupefacente buona parte delle scene tra gli spazi interni al carcere minorile, che ancora oggi è accanto allo Stadio dove gioca il Catanzaro.

    Il set per gli esterni fu poi portato anche tra gli scompartimenti deserti di un treno del Sud. Gino recita le sue scene in compagnia del solo grande Ugo Gregoretti, che nel film interpreta il giornalista della Rai che vuole intervistare Leonardo. Gregoretti è l’adulto che lo scruta e lo indaga, lo straniero viene da una città lontana, l’altro che lo avvicina tentando di offrire con il passaggio dallo schermo uno spiraglio redenzione piccolo borghese al piccolo carcerato ribelle. Devono ad un certo punto fare insieme un viaggio, uno spostamento altrove, trasognato, teso, solitario.

    Un vagone di un Treno Espresso fu per questo preso in affitto dalle Ferrovie dello Stato. Si girò, ricorda Mimmo Rafele, su un convoglio in movimento che faceva realmente la spola sulla tratta tra Roma e Lamezia.
    Colpiscono anche quelle scene prese dal vero e registrate in diretta da Amelio e Rafele. Con i sobbalzi e lo sporco di fondo, mentre dai finestrini del treno scorre un paesaggio del Sud già rotto e privo di bellurie, con voci e rumori che si sovrappongono, con piani sequenza e lunghi silenzi, poche parole spezzate e gli sguardi persi e poeticamente intensi di Leonardo. Furono girate così le scene del viaggio con cui il film nel racconto del piccolo Lorenzo si conclude.

    L’Oliver Twist di Amelio

    Il piccolo orfano ribelle prima si nasconde, poi scende dal treno a una delle fermate, da solo, scalzo. Fugge. Va via. La vita e la rinascita prospettata per lui restano incerte, ma la strada che sceglie sarà quella che farà, a modo suo. Allo stesso modo Amelio cominciava in sordina ma in forma luminosa e poetica il suo cinema a Catanzaro con questo piccolo film. Lo fece raccontando in pellicola la parabola malinconica del piccolo Leonardo, un lazzaro fantasioso e ribelle – un orfano povero, che parte senza mezzi verso l’età adulta e per compiere la sua avventura dal profondo della provincia fugge via, come fu del resto per lo stesso Amelio.

    Come Dickens circoscrisse in letteratura le scabrosità e le esclusioni brutali della società vittoriana dipingendo di speranze e di fidente genuinità il volto del suo Oliver Twist, Amelio lo fa nel suo film riuscendo a dare un volto e un sembiante poetico al suo piccolo Leonardo, dipingendo speranze e ribellione sul volto innocente e riottoso di Gino, aggiungendo scetticismo e malinconia alle gesta minime del suo piccolo protagonista. Non a caso, quindi, da questo luogo di “correzione” e da questo particolare racconto cinematografico era partita l’originale avventura cinematografica di Amelio.

    Dal carcere ai vagoni del treno

    Il film implicitamente e per contrasto ci appare oggi anche come un discorso figurato sull’immaginario e sull’iconografia culturale catanzarese degli ultimi decenni. Merito anche questo di Amelio, intellettuale e regista transfuga dalle circonvenzioni cittadine. Allievo, come Alvaro, del famoso Liceo Galluppi, dopo una parentesi universitaria messinese, Amelio evade da Catanzaro per rinascere cinematograficamente a Roma. La fine del gioco è anche per questo un film già precocissimo e completo. Compendia il tema del ritorno, sia nel soggetto del film – la storia del ragazzino che appena dodicenne si trova rinchiuso senza colpe in un riformatorio calabrese, da cui cerca faticosamente di fuggire per trovare fuori la sua strada –, sia nella suggestiva e minimalistica ambientazione dei paesaggi, con gli esterni girati a Catanzaro. Mentre nel carcere minorile della città si girarono tutti gli interni, solo le scene della seconda parte in viaggio, furono spostate dentro i vagoni di un treno.

    Nella pellicola tutti i temi di Gianni Amelio

    Questo primo film catanzarese contiene in cifra, dicevamo, tutti gli ingredienti della filmografia maggiore sviluppata successivamente da Amelio: i temi del contemporaneo, il cinema sul cinema, il rapporto fra padri e figli, quello difficile e irrisolto del richiamo dei luoghi delle origini, con la lotta fra gli integrati e i fragili, i marginali, i fuoriposto, opposti alla logica conformista e feroce della società contemporanea. Centrale, come in tutto il cinema di Amelio, è anche il tema dello spaesamento e del viaggio, narrati come archetipi culturali e umani di un Sud inaridito, slogato e fuori posto. Forse proprio il conflitto intimo e mai risolto di Amelio con la sua Catanzaro resta intatto e ancora aperto come sottotesto implicito del film.

    La città per lui «ferma» e «malferma», il suo ricordo di una piccola società di provincia, burocratica, conservatrice e chiusa nei suoi privilegi, a cui si oppone oggi l’immagine contemporanea di luogo di incroci politici e di potere prepotenti e corrivi, riflessi nello specchio rovesciato di paesaggi urbanistici caotici e sconvolti. Un catalogo di contrasti irrisolti che restano ancora oggi il tratto distintivo e perturbante di questa capitale ideale della Calabria di adesso.

    Un luogo che oggi scorre ineffabile, immobile e chiazzato di enormi palazzoni e costruzioni fuori scala, lontano dai finestrini delle auto in corsa sui grandi snodi stradali, nel traffico impazzito delle circovallazioni, oltre i ponti vertiginosi gettati su calanchi e burroni di questa Calabria post-tutto. Un paesaggio che sembra un compimento di quel primo set di Amelio, l’apoteosi di quelle cupe location del non-finito sudista di un tempo. Set ideale, magari, per girarci un nuovo film di Gianni Amelio, un’altra fine del gioco.

    Il dibattito e la proizione nel carcere minorile

    Alla fine del dibattito e della proiezione, la sala-cinema del Minorile era strapiena: studenti, docenti, ma soprattutto tanti giovani in vinculis, i ragazzi in custodia presso il Minorile che hanno visto il film. Tutti bravi, tutti in parte. I dirigenti della struttura di oggi, l’aiuto regista di allora, il protagonista del film, Vinicio Leonetti e i dirigenti di Trame festival, la giornalista e scrittrice Annarosa Macrì, autrice -con Giosi Mancini- di una bella e dettagliatissima intervista ad Amelio per i suoi ottant’anni uscita nei gironi scorsi su Il Quotidiano del Sud. Con la sorveglianza delle guardie carcerarie, che lì per servizio, hanno apprezzato molto anche loro.

    Tutti insieme a vedere e compitare le scene di questo bellissimo film, un apologo sull’adolescenza e il senso della vita che dopo più di mezzo secolo da quando fu girato, non smette di interrogarci e farci riflettere. Applausi per tutti. Quindi. A cominciare da quelli che nel lontano 1970 hanno immaginato, realizzato, interpretato questo piccolo prezioso capolavoro nascosto del cinema italiano – che va riportato all’attenzione del pubblico e restaurato prima che sia troppo tardi. Se ai giovani spettatori radunati a vederlo è rimasto attaccato qualcosa della poesia e della luce di questo primo scarno e potentissimo film di Amelio, di questa storia povera e pensosa, in cui un piccolo orfano ribelle, povero e malvissuto, si stacca dagli adulti e prende la sua vita in mano, anticipando “la fine del gioco”, sarà questo di nuovo e soprattutto il suo vero successo.

  • Quel gran genio di Vincenzo Talarico

    Quel gran genio di Vincenzo Talarico

    Vincenzo Talarico, “chi era costui”? Nato ad Acri (Cs) nel 1909 e morto a Roma nel 1972, Vincenzo Talarico, in un’epoca di grandi passioni e di scarsi mezzi, ha rappresentato l’icona del giovane provinciale calabrese che tenta la fortuna e “il successo delle arti” nella grande città capitale, rivestendo in concreto i panni di una sorta di eterno idealtipus del calabrese in commedia. E certo, ai suoi tempi, che furono quelli che per la storia della nazione intercorrono tra il fascismo, il neorealismo, la ricostruzione e gli anni del boom economico non fu esattamente un Carneade.

    Calabresi della diaspora

    Talarico è stato infatti molte cose assieme: giornalista, critico teatrale, scrittore, sceneggiatore e attore. Un acrobata della parola scritta e dell’eloquio letterario, un uomo colto, divertente, dalla vita eccentrica e fantasiosa. Un personaggio che merita un posto tra gli indimenticabili, anche se oggi se lo ricordano in pochi. Talarico è infatti un altro di quei folli, geniali ed eccentrici calabresi della diaspora che assieme a grandi artisti, scrittori e comprimari come Mimmo Rotella, Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Giuseppe Selvaggi e Raul Maria de Angelis, tutti vissuti Roma a cavallo tra le due guerre fino agli anni del boom, poterono diventare qualcosa e qualcuno solo fuori dall’asfissia provinciale dei paesi d’origine e dalle piccola società delle città provinciali della vecchia Calabria.

    Con Leopoldo Trieste, Talarico fu uno di quei “calabresi in commedia” del cinema italiano del dopoguerra; entrambi picari ingegnosissimi e stralunati, che hanno attraversato il secolo passato lasciando tracce di sé talvolta luminose e degne di ricordo non solo nel cinema popolare ma anche nella vita culturale del Paese, restando spesso ignoti tra le strade di casa, proprio laddove la loro avventura aveva preso l’avvio.

    Leopoldo Trieste

    A dispetto della biografia ricca di incostanti lampi di genialità e di smaglianti espedienti letterari, Talarico non era affatto un personaggio culturalmente effimero e valetudinario. Prima di tentare l’avventura rocambolesca del cinema, la sua penna di notista accreditato nei palazzi del potere era temuta per l’umore sarcastico e l’acuminata ferocia con cui sceglieva i suoi bersagli. Ai tempi del pieno consenso al fascismo i suoi strali non risparmiarono il Duce, che lo apostrofò come “ignobile libellista”.

    Il giornalista che amava la dolce vita

    A lungo giornalista e critico cinematografico per La Stampa, L’Europeo e L’Espresso, Talarico faceva parte di quel memorabile gruppo di intellettuali liberali che ruotavano attorno a Leo Longanesi, come Ercole Patti, Sandro De Feo e Mario Pannunzio, di cui Talarico divenne stretto divenne collaboratore per le pagine de Il Mondo.
    Talarico, come Leopoldo Trieste, amava il cinema e le belle donne; due buoni motivi per stare a Roma e attraversarla in lungo e in largo in quegli anni formidabili. Talarico visse la sua stagione di notorietà mentre a Roma la fabbrica dei sogni esplodeva nella pienezza cinica e gaudente degli anni della “dolce vita” e di via Veneto. Lo si ritrova assiduo frequentatore di tutti i santuari di strada della cultura del tempo. Trascorreva le sue giornate di “flanellista” tra il Caffè Aragno o in mezzo ai crocchi riuniti ai tavolini di Rosati o Canova.

    Qui lo si ritrovava a chiacchierare e far notte con gente come Emilio Cecchi, Roberto Rossellini e in confidenza con scrittori e artisti di primo piano della scena culturale romana di quegli anni come Palazzeschi, Cardarelli, Moravia, Ungaretti, Guttuso, Flaiano, Repaci, Brancati o Alvaro. Già giornalista satirico e critico teatrale, prima di diventare anche sceneggiatore di successo (vinse un Nastro d’argento per il soggetto e la sceneggiatura di Anni facili), Talarico, giovane avvocato mancato, fuggito presto dal tedio e dalle ristrettezze del suo paese calabro, aveva – soprattutto – una autentica fissazione per il cinema, e così fece di tutto anche per indossare al cinema anche i panni dell’attore. Ne vennero o fuori parti da caratterista formidabili e iconiche.

    Vincenzo Talarico. avvocato in “Un giorno in pretura”

    Nel cast di Un giorno in pretura

    È lui, infatti, avvocato davvero ma senza aver mai esercitato per un giorno neanche alla pretura del paese, che spesso indossa toga e tocco in camei indimenticabili ed esilaranti. Lo ritroviamo così nelle vesti di avvocato in numerosi film e commedie di grande successo popolare, come in Un giorno in pretura. In quella commedia del 1953, diretta da Steno, è lui l’avvocato magniloquente e sgarrupato che difende la causa davanti alla corte e ai giurati, ricorrendo ad effetti da leguleio di paese e a stralunate formule da azzeccagarbugli.

    Il suo assistito è il grande Alberto Sordi, che nel film è Nando Moriconi, il giovane tontolone di borgata detto l’americano, arrestato perché sorpreso nudo per strada. Talarico sul set cingeva la toga con così tanta maestria che a lui toccò quasi per antonomasia la parte dell’avvocato difensore che portava inevitabilmente alla condanna del povero imputato, come di seguito in altre commedie memorabili, Il bigamo o Il vigile.

    Totò gli stacca un orecchio a morsi

    Dotato di una notevole presenza scenica e di un aspetto da notabile borbonico, oltre che di una maschera teatrale naturale, caratterizzata da un difetto di vista che ne rendeva il volto e la mimica involontariamente comiche – aveva l’occhio sinistro fortemente strabico, negli anni cinquanta Talarico apparve come caratterista di lusso in numerose commedie per il cinema, alcune delle quali da lui scritte portavano la sua firma anche tra gli sceneggiatori. Per il pubblico popolare divenne subito un personaggio noto e perfettamente riconoscibile. E in carriera partecipò a decine di film.

    Con il suo eloquio prolisso, rotondo e polveroso “Don Vincenzino” fu anche l’emblema dei funzionari ministeriali vacui e ipocriti e dei notabili democristiani in ascesa, a cui diede numerose volte voce e volto. Lo si ricorda come comprimario di rilevo e caratterista enfatico anche in Dov’è la libertà?, un film commedia dal sapore malinconico e amarognolo, diretto nel 1954 da Roberto Rossellini da una sceneggiatura teatrale di Leopoldo Trieste (di cui Talarico fu al lungo amico), quando Totò, al culmine di una scenetta memorabile, gli stacca un orecchio a morsi.
    Fu poi l’onorevole Borgiani di un film culto di quella stagione come Un americano a Roma, in una scena dove Sordi fa polpette della sua rispettabilità; e ancora, il nuovo tipo del “funzionario Rai” che formula un giudizio avverso stigmatizzando il difetto del candidato Sordi che si presenta ai commissari sfoderando la sua sorridente dentatura equina in Dentone, episodio gustosissimo del film I mostri.

    VIncenzo Talarico in una scena di “Un americano a Roma!

    Una faccia da cinema

    Questi suoi piccoli ruoli da caratterista e i brillanti numerosi cameo impersonati col tempo fecero di Talarico un attore niente affatto improvvisato. Prova ne è che la sua voce stentorea e il suo volto stralunato compaiono in una lunga sequela di film e di commedie famosissime. I ruoli in cui Talarico eccelleva sono quelli del burocrate tronfio e intrigante o del retore che sfoggia la sua dotta scilinguagnola da notabile di paese, o quando impersona con le sue sghembe espressioni facciali da teatro greco, il vecchio satiro che punta la sua preda femminile con lo sguardo liquido di un rettile. Queste personalità multiple indossate con disinvoltura e divertimento per il cinema popolare in veste di caratterista, sono anche altrettante prove di una consapevolezza autoironica e di un sarcasmo intellettuale che non si dimenticano, e che in Talarico furono anche caratteristiche spiccate dell’uomo e dell’artista.

    In seguito Talarico si confermò soprattutto come sceneggiatore per il cinema, versatile tanto sul registro della commedia popolare (Pane, amore e gelosia, Il bigamo), sia per il suo impegno su pellicole che affrontavano temi meno facili, e in alcune prove d’autore dal piglio certo più polemico e aggressivo (Anni facili, Il moralista, Anni ruggenti). Dimostrandosi capace com’era anche con la scrittura di analizzare con asprezza e profondo acume critico lo spirito di qui tempi.

    L’ultima notte dei “casini”

    Amico di Vitaliano Brancati – scrivono insieme per il teatro La giornata del poeta -, Vincenzo Talarico nel 1953 firmò con proprio con Brancati la sceneggiatura di Anni facili, insieme a Luigi Zampa, a Sergio Amidei. E sempre in compagnia di Luigi Zampa e Sergio Amidei, Talarico, collaborò poi alla sceneggiatura di Anni ruggenti.
    Talarico era però essenzialmente un finissimo e colto uomo di lettere e un assiduo frequentare di ambienti letterari. Nella Roma che attraversa le guerre è amico di vecchia data di Cardarelli, di Ennio Flaiano e di Mario Soldati. Indimenticabile è un suo articolo in cui ricorda l’ultimo giorno di apertura dei casini, chiusi nel 1959 dalla legge Merlin, trascorso a fare un nostalgico giro per il passo d’addio alle “signorine” delle migliori case chiuse di Roma in compagnia di un ineffabile Mario Soldati. Ma in altri momenti Talarico partecipa con Maria Bellonci e Guido Alberti alla fondazione del Premio Strega, di cui è tra i primi prestigiosi promotori.

    Nomignoli per tutti

    E sarà sempre considerato da allora tra i giurati più valorosi e influenti. Figura critica sempre autorevole e presente alle carambole e alle scaramucce che vivacizzavano il mondo degli scrittori e dei giornalisti che contavano in quel rarefatto e stravagante mondo letterario romano. Oltre agli articoli e ai libri della penna di Talarico restano infatti memorabili proprio per certi suoi blasoni impietosamente affibbiati ai suoi sodali letterati.

    Faceva a gara in questo con un altro amico buontempone della sua cerchia, lo scultore emiliano Marino Mazzacurati. Nomignoli cinici e spassosi che scivolati dalla sua penna acuminata, restavano poi impressi per sempre sui personaggi che entrambi prendevano di mira. Come “Supercortomaggiore” (Leo Longanesi); “Cecchi dice sì, Cecchi dice no” (Emilio Cecchi); “Il più grande Poeta Morente” (Vincenzo Cardarelli); “L’Amaro Gambarotta” (Alberto Moravia); “Il brutto addormentato nel basco” (Alberto Savinio); L’incantatore di sergenti” (Filippo De Pisis); “La salma” (Ercole Patti); La picassata alla siciliana” (Renato Guttuso); “Il Cavaliere del Lavoro altrui” (Sandro De Feo).

    Vincenzo Talarico “il lepre”

    Non sfuggiva alla regola del soprannome neanche lui, Vincenzo Talarico. Per la sua cerchia di letterati, artisti e amici del cinema, “don Vincenzino” era “Il lepre”, nomignolo appiccicatogli per la sua stramba fisionomia: occhi fortemente strabici, nasone, faccia un po’ storta e sgrugnata, labbro superiore sporgente, ma il soprannome pare gli fosse stato appioppato anche per la rapidità con cui, alto e ben piantato, attraversava a grandi lunate piazza del Popolo spostandosi dal gruppo che sedeva davanti a Rosati a quello che si trovava da Canova, per puntare la nuova soubrettina che voleva comicamente concupire.

    Talarico ha vissuto quegli anni indimenticabili come un altro grande outsider intellettuale con cui condivise a Roma fama e avventure da picari di provincia, il grande Giancarlo Fusco. Come Fusco, Talarico ruppe fragorosamente l’argine di conformismo della società letteraria romana, passando allegramente da un campo all’altro di arti e mestieri con grande divertimento e talento; dal giornalismo alle sceneggiature, dalla narrativa alla critica fino ai soggetti per film, non disdegnando di rappresentare ironicamente se stesso in film comici che lo resero noto al grande pubblico.
    Ma la sua specialità era di fare della propria vita materia d’arte. Ancora oggi restano poco note e sottovalutate le sue doti di scrittore, la sua finezza culturale allegramente dissipata in mille imprese e dispendiosi rivoli vitali.

    Uno scrittore originale

    Qualità di scrittura e di calibro intellettuale che, in una rivista intitolata Confronto, gli viene riconosciuta invece già in quegli anni della dolce vita da una scrittrice criticamente seria ed esigente come Elena Croce, che riferendosi a Talarico ne scriveva così: «La figura di Talarico, così rappresentativa della Calabria come di una certa Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, chiede di essere molto approfondita. Come tutti i grandi umoristi, Vincenzo Talarico, aveva una personalità molto riservata, quasi ermetica: non però al punto da non lasciare penetrare l’essenziale. E cioè la sua grande larghezza d’idee e il suo animo generoso, la sua gentilezza profonda, l’eleganza con cui non faceva mai pesare la sua grandissima cultura; e la mancanza di vanità per cui non pretese mai di essere riconosciuto per ciò che egli era: un prosatore squisito».

    Di lui oltre a un profluvio di critiche teatrali e cinematografiche e prose giornalistiche, restano anche alcuni notevoli e trascurati romanzi. Raccontò la sua fuga da Roma occupata nel 1943, assieme a Mario Soldati e Leo Longanesi, in un delizioso libro intitolato Otto settembre. Letterati in fuga (con disegni di Mino Maccari). Altri suoi libri sulla Roma degli anni Quaranta e Cinquanta, oggi sono quasi impossibili a trovarsi, come Mussolini in Pantofole, Pasquino insanguinato e I passi perduti. Meriterebbero tutti di essere ripubblicati.
    Chi legge questi libri oggi si rende conto di come Talarico fosse molto di più di un cronista e di un brillante perdigiorno mondano. Era uno scrittore originale che sapeva cogliere gli aspetti inquietanti e incongrui della realtà per alleggerirli con grazia e umorismo.

     

  • IN FONDO A SUD | Il taccuino dei Berenson

    IN FONDO A SUD | Il taccuino dei Berenson

    Nel 1907 in Italia circolavano in tutto circa 4mila automobili. A Torino era da poco nata la Fiat, che aveva costruito la sua prima auto solo otto anni prima, nel 1899. In quello stesso anno la prima macchina stradale che toccò la mirabolante velocità di 100 chilometri l’ora sfrecciava invece su una strada della campagna francese.

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    Una Fiat 3½ HP

    Otto macchine sulle strade calabresi

    Sulle strade calabresi all’alba di quel secolo cruciale, il secolo della mobilità e delle strade, di “automobili e velociferi” se ne dovevano vedere in giro davvero pochi, pochissimi esemplari. Mosche bianche, arnesi favolosi e infernali. Roba da signoroni. In effetti i calabresi proprietari di un’automobile circolante erano pochissimi. Solo otto i veicoli a motore immatricolati e censiti dal Touring Club per quell’anno 1907.

    Una, fieramente esibita in occasioni ufficiali e raduni mondani, era quella che apparteneva ad un vecchio colonnello garibaldino, il nobile catanzarese Achille Fàzzari. Figura tra l’eroe e l’avventuriero, dopo le imprese garibaldine, passato alla politica ed eletto deputato, titolare di fortune leggendarie, Fazzari si era fatto costruire sul modello delle ricche magioni rinascimentali delle famiglie fiorentine, un palazzo di lusso sul corso principale della sua città, Catanzaro. Non era la sua unica eccentricità. Occupato il nuovo domicilio, invece della solita carrozza a cavalli, il barone Fazzari, eliminata la stalla, nel palazzetto alla moda mise un’auto in garage. Una stravaganza passata alla storia.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Calabrie per stranieri e viaggiatori

    Per il resto ancora in quegli anni di Belle Époque in giro sulle strade carrozzabili della Calabria, allora rare quanto le auto, spesso inservibili, sgangherate e polverose, andavano ancora le diligenze postali, carrozze di nobili e reparti militari, cavalcature di medici, carri agricoli e traini di asini, buoi e muli. La strada ferrata correva solo sul Tirreno, unendo col filo sottile delle sue lame di coltello Napoli a Reggio Calabria. Anche quello un viaggio incredibile. Undici ore filate di treno, dalle remote Calabrie alla bella Napoli, come quelle che impiegò lo scrittore vittoriano George Gissing nel 1897.

    Sulle marine solo minuscole stazioncine isolate come oasi nel deserto, spiagge ventose, paesaggi mozzafiato e plaghe malariche e disabitate, intorno solo mare e montagne a perdita d’occhio. I paesini stinti e dai colori giallastri restavano arretrati, in alto, con la gente stretta intorno a chiese e castelli e alle case fitte come presepi, a debita distanza dal mare. La vita si rifugiava lontano dall’incertezza delle poche strade, dalle rare automobili e dalla novità della ferrovia.

    Un altro mondo, lillipuziano, capovolto nel giro di un secolo. Tutte cose accadute sugli stessi luoghi slabbrati di adesso, impensabili con gli occhi di adesso. In quegli anni la gente minuta si muoveva poco, ancora prevalentemente a piedi, anche per viaggi molto lunghi e faticosi. A quel tempo nessuno in Calabria si doveva preoccupare delle auto, delle strade e del traffico, e nemmeno di cose come lo scempio delle coste, l’abusivismo, l’inquinamento, allora. Altri guai, ma non questi.

    Addio Grand Tour

    Il paesaggio era lì, quasi intoccato, lì come sempre. C’era e basta. Il paesaggio casomai esisteva solo per gli stranieri. Venivano apposta da lontano. Loro sì se ne accorgevano, ne parlavano, ne scrivevano, lo dipingevano con meraviglia a parole e a colori il paesaggio delle vecchie Calabrie. E la sua visione potente e aspra suscitava sempre una certa estenuata incredulità, una svenevolezza. Svenevolezza da cui sono affetti quasi tutti i racconti dei viaggiatori stranieri del Grand Tour, sempre alle prese con le sensazioni esotiche e primitive che avvincono certe loro visioni naturali e umane della selvatica natura calabra. Sarà l’avvento dell’automobile a mettere fine anche all’epopea del Grand Tour attraverso i rischiosi confini delle Calabrie, a quegli sguardi un po’ troppo estenuati e sdolcinati, carichi di uno stupore sempre misto a degnazione.

    Ma c’è ancora qualche eccezione significativa, qualche pezzo buono, anche nel finale inglorioso di questa epopea letteraria sterminata per mano della tecnica, prima dell’avvento del turismo di massa, prima che arrivino le file di automobili di vacanzieri e pendolari a incasinare una statale rovente, così come adesso, in mezzo a un paesaggio calabrese scolorito e rotto al disincanto del turismo di massa.

    La Guida Touring del 1940

     

    Granturismo Calabrie

    Accade proprio in quegli anni, su quelle stesse strade di Calabria ancora incerte e polverose. Immagini pur sempre sorprendenti, anche dal bordo di una delle prime automobili, nel corso di un viaggio al Sud effettuato nella primavera del 1908. Il diario di bordo è tenuto da due stranieri in viaggio per le strade della, ancora per poco, “vecchia Calabria”. I nuovi granturisti macchinizzati sono una curiosa coppia di ricchi ed eccentrici signori anglo-americani.

    Assieme all’americana Mary Smith, una signora elegante e piuttosto avvenente, a bordo di una grossa berlina che arranca sballottata per le rare carrabili a macadam, sconnessi e spesso interrotti, tra curve e saliscendi polverosi, viaggia un uomo. Il suo già famoso e autorevole sposo è un uomo piccolo, con gli occhi vispi e la barbetta a punta. È il critico e collezionista d’arte più famoso al mondo, Bernard Berenson. Entrambi vengono giù da Firenze, dove hanno una magnifica villa sulle colline di Fiesole, “I Tatti”. Intorno a loro abita l’arte italiana del Rinascinamento. La loro è una vita raffinata e discretamente peccaminosa, che si svolge tra gli studi di storia dell’arte, i viaggi esotici e la frequentazione il bel mondo internazionale. Chissà perché la Calabria.

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    Bernard Berenson a “I Tatti” sulle colline fiorentine

     

    Calabria, Berenson e il diario

    Un viaggio faticoso, pieno d’imprevisti e in fondo senza grandi attrattive, interessa ancora a gente così ricca e bennata? Forse sì, a dispetto delle apparenze. Un certo gusto per l’esotico, il primitivo. Durante il viaggio in macchina sta di fatto che scrivono e annotano entrambi. La Calabria è stupore allo stato puro, anche per loro più abituati alla perfezione rarefatta delle forme e all’ingegno dell’arte che non alle visioni all’aperto, agli incontri rustici e inconsueti.

    Infatti. Bellissimo paesaggio e quasi, nulla “nulla come Arte”, è la formula che il più volte chiude le loro note di viaggio. La natura indomita, per ora -fino ad allora-, l’ha avuta vinta sulla storia, sulla meravigliosa fragilità umana dell’arte, e anche sulla tecnica e sugli artifici umani, che con i ripetuti terremoti e catastrofi che da queste parti riportano di continuo e bruscamente indietro l’orologio del tempo. Per una singolare circostanza il viaggio dei Berenson accadeva pochi mesi prima del terremoto del 28 dicembre 1908, il cataclisma che rase al suolo Messina e Reggio, distruggendo anche alcune delle località e dei rari monumenti appena visitati dai Berenson in Calabria e nella città siciliana.

    Sei giorni da Lagonegro a Reggio Calabria

    Compiono un lungo itinerario stradale, che inizia in Sicilia, a Messina (nella cui università insegnava allora Gaetano Salvemini, amico dei Berenson) termina poi a Napoli alla metà di giugno, col favore della bella stagione. Poi per i coniugi Berenson è poi la volta dell’aspra Calabria. Sarà un’impresa. L’attraversamento automobilistico della regione segue la traccia delle poche strade carrozzabili a disposizione. L’unica strada da e per la Calabria è sempre la vecchia Nazionale delle Calabrie, tortuosa come un filo imbrogliato, non ancora afsfaltata. Un solco stradale solitario e spesso impervio che anche rimontato a bordo di una grossa auto resta un’avventura molto molto faticosa. Sei giorni, da Reggio Calabria a Lagonegro.

    Piazza Parrasio nel centro storico di Cosenza in una foto d’epoca

    I Berenson in cerca d’arte e di vestigia, in Calabria, a parte qualche eccezione di rilievo, dicevamo, ne vedranno ben poche. Anche se passano per località segnate dalla storia e dall’arte come Gerace, Monteleone (Vibo Valentia), Serra San Bruno, Stilo, Squillace, Santa Severina, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Sibari. Il viaggio dei Berenson si chiude in gloria solo al loro ritorno a Napoli, con lo sbarco mondano a Capri, hotel “La Floridiana”. L’intero viaggio per le strade della Calabria si era svolto a bordo di una grossa automobile, una pesante berlina, che i Berenson non guidano e che pur servendosene, amabilmente detestano. La loro è ancora la condizione elegante ed elitaria del viaggiatore colto, non del semplice turista, a cui si rende “intollerabile l’esibizione personale” e gli strepiti del “mondo meccanico”.

    L’amico di Marcel Proust

    Li accompagna per un tratto un amico fiorentino molto intimo di entrambi i Berenson, personaggio bislacco, prefuturista fanatico dell’automobile, il giornalista Carlo Placci. Sempre spazientito da curiosi e abitanti che si fanno intorno nei paesi e nelle contrade più isolate per osservare con meraviglia il nuovo prodigio meccanico: l’automobile. Questo Placci ogni volta sbotta altezzosamente: «È un martirio arrivare in quei posti ed essere alla lettera aggrediti dalla folla. Non se ne può più». Dell’equipaggio dei Berenson fa parte anche il giovane nipote francese di Placci. Lucien Henraux, giovane amico di Marcel Proust, che guida anche lui l’automobile – di cui è di fatto il propietario – è giunto appositamente da Parigi per l’impresa. Insomma uno strano quartetto di eccentrici perdigiorno percorreva la Calabria del 1907.

    Il diario tenuto da Mary Berenson è assai scarno: spicca per l’attenzione alle atmosfere dei luoghi. C’è il fascino dei paesaggi mutevoli, ci sono i silenzi degli attraversamenti in mezzo al magico e tormentato paesaggio calabrese, sensazioni da angina pectoris. Poi un’interesse divertito più per i pigri e difficoltosi collegamenti stradali che per il valore artistico e culturale delle mete locali così faticosamente raggiunte. L’automobile viene usata dai Berenson senza frenesia, come nei lenti viaggi a piedi o in carrozza passati alla storia della tradizione classica del Grand Tour. È così che Mary e Bernard attraversando lentamente le strade delle regione possono assaporare quello che appare loro ancora «l’aspetto più incantevole del viaggio in auto, le lunghe ore di sogno in un panorama di meravigliosi scenari incontaminati».

    Old Calabria

    Un viaggio indisturbato, unico, dato che dove passa la loro auto ancora non passa nient’altro. Per i Berenson l’automobile con cui attraversano nel 1907 le contrade più impervie e spettacolari della vecchia Calabria, è ancora un mezzo elettivo, una specie di cocchio di gala. Ed è così che la usano, come una carrozza di lusso. L’automobile posseduta da pochi eletti consente ancora in quegli anni di ritrovare la libertà del viaggiare da soli sulla strada e in luoghi sconosciuti. Un nuovo privilegio meccanico che già appariva perduto, compromesso dalle ferrovie e dalla nascita dei viaggi organizzati. Una libertà effimera e in fondo illusoria, che per un breve intervallo motorizzato fa ritrovare ai viaggiatori più eccentrici il gusto esotico del Grand Tour.

    Sono gli ultimi spiccioli del viaggio di formazione che in Calabria i Berenson affidano ad un’estetica delle suggestioni sensuali e alla sensazioni energetiche del paesaggio, più che alle sparute e non molto sensibili prove dell’arte. Non immaginano che, immersi come sono in un miracoloso intervallo di tempo e di luogo, faranno appena in tempo a godersi dai sedili di pelle capitonné della loro scoppiettante e voluminosa berlina a motore quegli stessi panorami intoccati della Calabria dei primi del ‘900, presto colmati anche qui proprio dalla diffusione di massa dell’automobile fordista e dai guasti raccapriccianti del cemento, continuata sino ad oggi nell’apocalisse dagli stupri infiniti del contemporaneo.

    Le bandiere blu ante litteram

    Da buona americana Mary Berenson, attribuisce un punteggio a ogni cosa che vede dalla macchina. A ogni paesaggio assegna un punteggio. Il gradimento per i luoghi attraversati nel suo tour automobilistico calabrese è espresso con gli asterischi. La signora Berenson in fondo mette asterischi come si farà più tardi con alberghi e ristoranti consigliati da guide e gourmet, come noi oggi mettiamo bandierine blu e verdi che pretendono di assegnare meriti ecologici e di indicare le mete del turismo sostenibile consigliato ai vacanzieri più responsabili. La differenza sta nel fatto che all’illusione di pulizia e di bellezza a un tanto al metro di adesso, corrispondeva l’oggettiva visione del bello segnata allora da una signora americana di buon gusto.

    I Berenson da giovani

    Comunque risultava vincitrice di questa hit list dei paesaggi calabresi del 1907, con tre asterischi, «la vista sulla piana di Sibari, bagnata dal Coscile e dal Crati”, ammirata dalle colline di Terranova. Una visione panoramica vasta e nobile, “degna dell’in¬tero viaggio”, dice Mary. E c’è sicuramente da crederle.

    Se la signora Berenson li rivedesse adesso questi posti di magia ridotti a voragine autostradale, magari da un bordo trafficato della 106 gremita dai mostruosi villaggi-vacanze che grandi come caserme ingombrano la piana vicino ai laghi di Sibari, o dalle parti del bivio di Cantinella di Corigliano, con i supermercati, i ristoranti per banchetti e le case abusive piantate tra le rovine del parco archeologico di Sibari, con le puttane nigeriane e i braccianti rumeni sfruttati che vivono alla macchia negli aranceti e tra le casupole di lamiera delle piantagioni di clementine, chissà che orrore, che offesa per il senso del bello della povera signora Berenson. Noi invece ci stiamo facendo l’abitudine. Vivere nel brutto, dentro case brutte, sulle strade del brutto, senza accorgersi del brutto, è possibile, eccome.

    Il reportage di Berenson sulla Calabria

    Il vecchio Berenson allo scrittore Guido Piovene, altro venerabile custode dellle memorie belle del fu paesaggio italiano, appariva come un nume, a cui «si direbbe che l’età, consumando tutto l’inutile, abbia portato in lui l’estremo della perfezione. È uno dei pochissimi uomini nei quali la lucidità della mente anziché corrompersi si definisce, e ritorna a una specie d’intatto carattere verginale». Forse ancora con quegli stessi occhi e con lo stesso acume, molti anni dopo, nel 1955, ormai novantenne, il celebre storico dell’arte -sorprendentemente- a sorpresa decide di affrontare un nuovo un viaggio in Calabria.

    Berenson è così davvero l’ultimo dei grandi viaggiatori ad aver visto la Calabria. L’intero reportage esce sulle pagine del Corriere della Sera, proposto dal giornale in tre puntate. Siamo alle soglie dell’Italia del Boom, il miracolo economico è alle porte e anche la mutazione antropologica e fisica del paese sta per compiersi, finanche in Calabria. Quando ho riletto le brevi e veloci note dei diari di viaggio per il Sud dei Berenson, davvero mi sono chiesto cosa potesse spingere un uomo originale, ricco e appagato come il vecchio e aristocratico Berenson, già vecchissimo e infragilito, ad affrontare nel 1955, per giunta da solo, nuovamente un viaggio in Calabria.

    La Calabria che non c’è più

    Ad eccezione di una breve visita a Reggio negli anni ‘30, Berenson non era infatti mai più tornato a mettere piede nella regione. Forse una certa magia dei luoghi e delle atmosfere che durava, e doveva aver funzionato intatta a distanza di quasi mezzo secolo sulla sensibilità del vecchio esteta, come una calamita. Alla fine della vita, alla vigilia del suo secondo viaggio per la Calabria, si chiede, alla stregua di un mistico: «Mi ritroverei forse a sopportare fatiche, scomodità, e talvolta a soffrire di tedio, se non fossi incalzato dalla spinta di compiere, a mio modo, un pellegrinaggio?».

    Fascino esotico e misticismo ben ricompensato, se è vero che Berenson ha avuto la fortuna, come pochi altri grandi viaggiatori del passato di vedere in tempo la Calabria che davvero non c’è più. Le ultime bellezze, ormai quasi cancellate. Restava vivo il ricordo dei panorami vasti e ammalianti, e di strade incerte e polverose. Ma per il ricorso alle taverne «neolitiche» dall’ospitalità grossolana ben sopportata nel 1908, teme invece di aver progettato il viaggio «durante un accesso di ottimismo».

    L’esteta edoardiano troverà la regione rivisitata dopo il tour di mezzo secolo prima, profondamente cambiata nel paesaggio, modellato proprio dall’avvento della mobilità e dal tracciato di nuove strade. Resterà sorpreso dall’opera incipiente di una modernizzazione già molto spinta, persino efficiente. Ci sono «belle strade asfaltate», costruite e finanziate della Cassa per il Mezzogiorno, istituita cinque anni prima. Strade vere al posto dei tratturi sconnessi del suo primo giro in macchina per la Calabria, fatto nel 1908 assieme alla moglie Mary.

    Tempi di mezzo

    Sono ancora tempi di mezzo ma la strada e già protagonista di quella modernizzazione post-bellica. Dopo quasi mezzo secolo, due guerre mondiali, il fascismo e la prima la veloce e disordinata ricostruzione del dopoguerra, la Calabria è già un’altra cosa. La Calabria già scende dal lungo medioevo dei vecchi paesi-presepio e si raduna sulla strada. E la strada, il nastro d’asfalto, che raccoglie e incammina già un popolo eterogeneo e sciamante, «gente venuta da più parti: i vecchi cavalcando gli asinelli, gli altri inforcando biciclette, motociclette, vespe e lambrette».

    Accanto alle strade nuove, spuntano le prime marine per i turisti, gli alberghi nuovi, i primi casermoni appena costruiti, che pure gli apparvero «alti e portentosi, in quella campagna senza abitanti». Il vecchio studioso è sorpreso dalle nuove comodità conquistate, si compiace dei nuovi alberghi. Erano gli anni dei Jolly Hotel, la prima catena a basso costo di hotel per il turismo e il commercio che l’industriale veneto Gaetano Marzotto aveva sparso nei principali capoluoghi di provincia del Sud e nei maggiori centri di snodo, anche in Calabria.

    Di fronte ai mutamenti in atto negli anni ’50 Berenson in Calabria è convinto di avere sotto gli occhi «un esempio di come la spola vada avanti e indietro sul telaio del tempo». Se povertà, emigrazione e disagi avevano respinto per secoli le popolazioni lontano dalle coste, ora la ferrovia, le strade e il turismo richiamavano di nuovo gli uomini in riva al mare, il mare della storia mediterranea.

    Prima della cementificazione

    E tuttavia, allo stesso tempo, Berenson resta compiaciuto da un paesaggio che negli anni ’50, a lui che è un esteta raffinato, sembrava – tutto sommato- ancora integro, lontano dalle compromissioni e dalle brutture insanabili di adesso. La poesia e la forza suggestiva della Calabria, per lui, risiede ancora nel paesaggio, la cui forza magnetica restava sostanzialmente intatta, pur dal veloce sguardo del suo nuovo attraversamento automobilistico. Percorrendo infatti verso Nord «la strada che da Reggio volge a settentrione», la medesima strada che oggi si accompagna allo spettacolo del caos affastellato lungo la statale 18, Berenson si trova ancora ad ammirare «una riviera bella quanto quella la ligure o la francese».

    Una sensazione che dura con certi tratti più belli riparati della riva tirrenica calabrese, che sembrano anticipare ai suoi occhi la più famosa costiera che va da Amalfi a Ravello fino a Sorrento. Berenson osserverà, persino compiaciuto, che buona parte del territorio costiero tirrenico era all’epoca ancora miracolosamente indenne, lontano dalle aggressioni e dagli abusi rovinosi della modernità: sarà l’ultimo a poterlo affermare. «La Calabria sfugge, per ora, ai guasti di un’edilizia con caratteri suburbani, non soffre la contaminazione delle cartacce e degli involucri da sigarette buttati per ogni dove, né subisce l’onta di affissi pubblicitari contro l’azzurro del cielo e del mare, come avviene in molti tratti della strada litoranea da Marsiglia a Livorno».

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    Una parte della spiaggia nel territorio di Praia a Mare

    Praia a Mare: fine del viaggio

    L’ultimo tratto è il percorso che dal Pollino scende a Mormanno, e poi verso la costa tirrenica che appare luminosa «attraverso una stretta gola di montagne». Sulla costa tirrenica, a Scalea, la strada apre ancora a «un teatro di bellezze magnifiche», paesaggi e sensazioni degne del viatico di un esteta appassionato al suo ultimo viaggio. L’addio alla Calabria viene dato dal vecchio Berenson, in una giornata di completo riposo, dalle sponde di Praia a Mare. Praia a Mare degli anni ’50, in una cartolina che – oggi – sembra incredibile e nostalgicamente evocativa: «Un prospero luogo di villeggiatura, con un’isola omerica di fronte e l’incantevole veduta dei monti che cingono il golfo di Policastro». La strada SS 18 ha stravolto e ridisegnato quei luoghi della costa tirrenica sino alla nemesi, rendendo irriconoscibili le tracce “omeriche” di quel paesaggio, che Berenson contemplò, seduto «all’ombra di rocce favolosamente romantiche».

    Un’oretta di un giorno qualsiasi sulla statale 18 di adesso, in mezzo al traffico, tra le casette tirate su alla brava ai lati della strada, in mezzo al caravanserraglio degli alberghi vuoti e delle pensioni di mare, e il vecchio e sofisticato allievo di Walter Pater si sentirebbe catapultato in un girone dell’inferno dantesco. Una catastrofe del paesaggio che a lui, esteta incantato dalla poesia di una Calabria ruvida e frugale, il tempo a venire risparmierà di vedere. Quella inevitabile e corriva che invece resta a noi, sulla nostra strada.

  • Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Era il 2006. In quell’anno recensivo su Diario della settimana il primo romanzo scritto da Marc Augé. L’antropologo e pensatore francese era già noto in tutto il mondo per il successo del suo libro più famoso, quello sui non luoghi. Non un saggio dei suoi più fondamentali quindi, ma un’opera di narrativa, apparentemente eccentrica. Una storia anarchica e antiretorica, lieve e profonda, intessuta d’ombre, gentile e libertaria, come era lui. Il libro fu tradotto e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri (2005). Si intitolava La madre di Arthur. Era un romanzo teso come un noir che in realtà era un apologo sulla libertà e l’immaginazione, temi molto cari e sfondo ideale di tutto il pensiero di Augé.

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    Un giovane Arthur Rimbaud

    L’amico (non) ritrovato

    Vi si raccontava di un antropologo parigino scapolo impenitente e in crisi col proprio lavoro, con i viaggi, le relazioni, la vita quotidiana – Jean, lo stesso Augé – che cerca ad un certo punto di risalire alle ragioni dell’intricata sparizione di Nicholas. Nicholas è suo amico dall’infanzia ed è scomparso. Docente universitario come lui, alter-ego e compagno di lotte politiche giovanili, Nicholas fa perdere le sue tracce in una fuga improvvisa e misteriosa come quella di Rimbaud in Africa. Jean si mette allora sulle poche impronte lasciate in giro dall’amico, convinto che il suo «complice di sempre» gli abbia intenzionalmente consegnato degli indizi da decifrare.

    Marc Augé, il cui talento letterario e narrativo era già godibile nei suoi testi più noti, assumeva in quel libro forme più originali e persuasive, fuori dal classico armamentario di servizio del lessico oggettivo proprio della scrittura argomentativa da studioso sul campo. Dal saggio al romanzo, dall’analisi al plot, è il salto di genere che Augè compie con gustoso e partecipato divertimento. L’amico Nicholas, acuto studioso di Rimbaud e autore di un’eterodossa quanto misconosciuta biografia del poeta, decide improvvisamente e senza apparenti ragioni di non dare più notizie di sé alla moglie Isabelle e alla signora Duprez, la tirannica madre di lui. La moglie allarmata si rivolge a Jean, ex sessantottino, libertino, ex docente universitario di etnografia, amico e complice del marito, perché la aiuti a ritrovare Nicholas.

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    Gli aeroporti sono tra i non-luoghi descritti da Marc Augé

    Un’odissea minore tra aeroporti e metropolitane

    La madre di Nicholas indispettita dalla fuga del figlio fornisce a Jean la traccia di pochi indizi criptici che orientano le ricerche lontano da Parigi, verso l’amore per un’altra donna e una seconda vita in un eden caraibico. Inizia così una sorta di Chi l’ha visto? la cui trama gialla si aggrappa agli specchi simbolici di una realtà diffratta, tra chiose autobiografiche e bizzarrie che intrecciano le ipotesi sulla fuga di Jean a un ricalco della spericolata biografia di Rimbaud.

    Ruminata nel ventre surmoderno di una Parigi che appare agli occhi dei suoi protagonisti una metropoli ormai troppo ovvia per essere vera, e che invece Augè sa raccontare ancora con crudele e svagato acume antropologico, la fuga dell’amico apre sulla realtà uno sguardo a giro d’orizzonte. Jean si sposta avanti e a ritroso. È l’occasione per ricapitolare le proprie vite, mescolate alla quotidianità etnografica di un’odissea minore che si compie tra aeroporti e metropolitane, facce e incontri interrogativi, in mezzo a periferie e location turistiche colte nella banale e smagata visione di un contemporaneo anodino e dislocato.

    In fuga con Rimbaud

    La storia ordita da Augè resta leggera e narrata con stile e abilità. Mantiene nel suo sviluppo un profilo volutamente basso e antiretorico attraversato da un’ironia lieve e da uno spleen amarognolo, senza però rinunciare a colpi di scena e capovolgimenti di prospettiva piacevoli e imprevedibilmente letterari. La storia ancora una volta si chiarifica altrove, in un viaggio, esperienza chiave della scoperta di sé, ultima frontiera intima della lucida teoresi di un Augé che si immerge nella solitudine affollata del mondo globalizzato. La verità sulla sorte dell’amico cercato da Jean ritorna in luce rivelando una condizione sgradevole e spiazzante: «Rimbaud non ha mai smesso di fuggire, di scappare».

    Perché scappava Rimbaud? E perché scappa Nicolas?, l’amico-ombra di Jean, alter ego vicario dell’Augé narratore che ne segue le mosse? La domanda vale per tutti e la risposta e di quelle che oggi ci fanno problema: per evadere dalla “mediocrità soddisfatta” e dall’ipocrisia di un “eterno presente” senza più bellezza, senza speranze e senza miti. È già qui il succo anarcoide e sulfureo dell’etnografia del sé di cui parlava l’Augé di questi sui ultimi tempi di eclissi. Fine della società post-moderna, avvento del relativismo e della società “senza finalità”. Non resta che tagliare la corda come ha fatto Nicholas, sottrarsi, scompaginare i piani, sfuggire al conformismo, come in un verso araldico di Rimbaud: “Ho avuto ragione in tutti i miei sdegni, poiché io evado! Evado!”.

    Marc Augé

    Marc Augé contro ogni conformismo

    Con questo apologo Augé sembra dirci che brancoliamo ormai nella confusione, nel caos e nel pericolo del post-tutto. Neanche gli antropologi sanno più che pesci pigliare. Il diritto alla diserzione amorosa, l’altrove (persino l’esotico volgare dei turismi di massa post-tsunami) sono forse l’ultima frontiera che resta per immaginarci diversi da un mondo oscuro e «de-realizzato», avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    Il rimedio è uno solo, etico: «Strappati al collante della storia, che ti coinvolge in azioni cretine o cruente, menzogne, apparenze, sproloqui». Anche se in fondo «non è possibile sfuggire alle proprie origini e tutto sommato è più facile allontanarsi fisicamente che col pensiero». Ma resta sempre la libertà, la scelta estrema: «Una volta messa la propria vita a distanza… ritirarsi, assentarsi». Contro ogni conformismo: «Si doveva, si deve essere screanzati. Senza delicatezza. E scappare. Scappare via, sparire, rimanere lì forse, non tanto distante, ma invisibile, testimone sarcastico e stupito della propria scomparsa».

    Etnofiction

    In questo libro divertente e pensoso l’antropologo si trasforma in un autore narrativamente e umanamente atipico. Augé infatti smesso armamentario di servizio dello studioso sul campo e il lessico depurato dei taccuini di ricerca, con questo libro, aggiungendo più gusto di verità e il suo amore per il paradosso, ha saputo testimoniare in altro modo la perdita di predittività delle scienze umane e smonta dal di dentro le argomentazioni presuntamente oggettive e non falsificabili dell’antropologia classica. Augé ha coniato per questo suo modo di raccontare il termine di etnofiction, per definire le narrazioni ibride come quelle apparse successivamente in Diario di un senza fissa dimora e La Guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction.

    “Diario di un senza fissa dimora”, un libro di Marc Augé

    Il reale senza reality

    Augè insieme a pochissimi altri grandi francesi, pensatori e scrittori eretici, come Victor Segalen, Michel Leiris e lo stesso Levi Strauss di Tristi Tropici, ha saputo a suo modo rinnovare la cifra di un genere ibridando sapientemente antropologia e letteratura. Ci lascia un narrare con metodo etnografico che affascina per intelligenza e sapore di verità, distante anni luce dal compiaciuto e ruffiano egotismo bellettrista di certi pensatori nostrani.
    Non resta dunque che raccontare. Ciò ci rende felici, come spesso accade, o infelici, succede sempre anche questo; ma raccontare è rifare la traccia umana di qualcosa che resiste e che regge come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione. Come un reale che non ha voglia di svaporare in reality. «Oggi è grazie alla mescolanza dei generi che passa il consenso alla schiavitù».

    Ma questa non è più certamente un’etnofiction. Come profetiche e umanissime restano altre parole che Augé consegnava a questo suo libro confessione: «Anch’io ho paura… Capita che un nonnulla – una parola, un gesto – scateni uno stato di allerta, un’attesa tanto più angosciante quanto più è apparentemente priva d’oggetto».

    L’intera parabola percorsa da Marc Augé è stata illuminata da questa sua “disubbidienza” intellettuale trasformatasi via via anche in lezione civile. Per indicare infine l’antidoto non nel primato di una qualche scienza, ma in una sensibilità culturale neo-illuminista, che riarma il pensiero libertario, l’arte e la poesia contro il primato delle cosmotecnologie, contro una condizione che vede l’individuo e la sua libertà sottomesse e soccombenti in una società caratterizzata dall’eccesso, dal caos, dal pericolo, in un mondo ormai quasi del tutto «de-realizzato». Avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    In Calabria con Marc Augé

    Per me che ho avuto l’onore di conoscerlo e di ottenere col mio lavoro le sue attenzioni di studioso e di amico, Marc Augé è stato un maestro insuperato. Non solo come etnografo e antropologo, come narratore anarcoide e controcorrente di storie umane lievi e profonde. Ma anche, e non certo secondariamente, come persona. Un uomo indimenticabile, sempre discreto, generoso, ironico, curioso e gentile. Scrisse per un mio libro una prefazione, un contributo al mio lavoro di studioso che per me fu e resta un riconoscimento sbalorditivo per generosità e acume critico. Fui due volte sua guida per altrettanti memorabili viaggi per convegni e scorribande etnografiche, immersioni divertentissime e profonde che facemmo insieme, in auto, sulle strade e sui luoghi della Calabria.

    Ora che è mancato, a distanza di anni, considerata la fuffa parascientifica e paraletteraria che circola oggi da queste parti, consiglio a maggior ragione una attenta rilettura di ogni suo libro e contributo intellettuale. Tutto il suo immenso lascito culturale, filosofico e scientifico è una miniera di intelligenza e originalità di pensiero, un patrimonio da compitare scrupolosamente. Ogni suo scritto è effetto e conseguenza di una caratura intellettuale assoluta, fuori dell’ordinario, che è caratteristica tipica della genialità unita alla più autentica disposizione umana. La stessa che illumina quel suo primo eretico romanzo, così penetrante e appassionato di umanità. Solo i grandi come lui hanno avuto l’umiltà di scrivere senza citarsi e la grandezza di saper rimanere dietro le parole.

  • Ragazzi di Paola

    Ragazzi di Paola

    Appartengo a una generazione di sognatori donchisciotteschi che desiderava un altro mondo e ha visto peggiorare e incancrenire solo quello che aveva davanti. Ognuno di noi ha diritto alla propria nostalgia. Io la vivo però ancora come una lotta, come un duello, una sfida ostinata al presente, alla sua dittatura. Perciò qualche volta preferisco voltarmi indietro. Ma ci sto attento. Non amo impantanarmi nei rimpianti e non mi va proprio di cadere nella trappola nostalgica che ti allontana dalla verità e ti fa disattendere la prova più dura, quella che ti prepara la realtà che ti cade addosso, unica e finale, un giorno dopo l’altro.

    Don Chisciotte e Sancho Panza

    Troppo spesso in questi ultimi anni vissuti in Calabria, tra andate e ritorni, ho visto levarsi solo un deserto arido e informe, senza più paese, senza più memoria. Quando sto per qualche tempo fermo a rimuginare, è il luogo che prende il sopravvento. Ma il luogo di oggi, quello in cui vivo, che per me non è più Paola. Quasi non ci torno più a Paola. Ormai quello che era il mio paese, è un ibrido dei nostri tempi, decomposto e senza bellezza, retorico e scarso di relazioni, dove si vive la «collettività senza festa» e si soffre la «solitudine senza l’isolamento». Questo è il mondo che ci rimastica la vita, questa è la consegna di futuro che abbiamo preparato per i figli. Ora ci sono altri ragazzi di Paola. Qualche volta li osservo. Mi ci rivedo, anche se sono così strani e così lontani, così induriti e definitivi rispetto a quello che ero io nei miei tempi di esitanti incertezze e metamorfosi. Ma mi sento, e forse sono ancora, come i ragazzi di Paola; quelli di adesso però. Anch’io vivo sull’orlo di una terra di nessuno dove è sempre più facile perdersi, liquefare il proprio essere, scoppiare continuamente in singhiozzi, fare e farsi del male, persino morire di noia. Finché non si resta nuovamente soli. Come “I ragazzi di Paola”.

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    Enzo Siciliano

    Questo racconto nasceva nel 2003 da un progetto narrativo di Enzo Siciliano. Siciliano, allora direttore di Nuovi Argomenti, aveva voluto un mio racconto, che fu intitolato «I ragazzi di Paola», per Italville, l’antologia di «nuovi italiani narratori sul Paese che cambia», pubblicata in un numero monografico della rivista Nuovi Argomenti e uscita per Mondadori nel corso dello stesso anno 2004. Era una silloge, con uno scrittore e un racconto per ogni regione del Paese (un giro d’Italia nella quale erano presenti giovani scrittori allora agli esordi come R. Saviano, M. Desiati, D. Bregola, A. Piperno, V. Parrella, M. Signorini , F. Pacifico, e altri) che Enzo Siciliano volle e ispirò come piloti per un viaggio dal vero, una specie di rotazione infernale attraverso i luoghi della provincia profonda nelle regioni dell’Italia di adesso. La scelta di Siciliano per la Calabria cadde su di me. Credo sia accaduto anche perché ero calabrese e perché scrivevo già cose da “eretico”, come Rocco Carbone (anche lui a quel tempo a Nuovi Argomenti), e storie di una Calabria obliqua, come piaceva a lui, a Siciliano. Un giovane (allora) antropologo calabrese, orgoglioso e ruvido, temprato a resistere agli antipodi, con la follia di un certo stile. «Ma tu come fai a restare, a resistere?», Enzo me lo chiedeva sempre alla fine delle nostre lunghe chiacchierate. Ma la risposta la sapeva, era la stessa che forse avrebbe dato lui al posto mio. Come me e diversamente da me, Enzo era innamorato di un Sud e di una Calabria irrisolta e proteiforme, sordida e bella a dispetto di ogni retorica meridionalistica. Chiedeva sempre: di questa Calabria sconnessa, sbranata dal suo vitalismo scellerato, di questo mondo di provincia eccentrico e disperato in cui si rappresentano l’incoscienza del presente e forse una voglia maligna di offendere, distruggere e negare tutto ciò che è stato e non si comprende più. Il grado zero di una modernità in cui tutto è contemporaneo, colorato, imputtanito, adulterato, travestito, violento, contaminato, feroce e sottosopra. Un crogiolo di fatti, cose e persone ineffabilmente complesso, e pure sorprendentemente nuovo e vitale; un anticipo di non si sa quali destini planetari futuri, dovrei dire col gergo debolmente profetico del mio mestiere di antropologo. Per lui, Siciliano, la Calabria era sua prima frontiera, un punto di origine, un confine lontano e ormai sorpassato. Per me a distanza di anni invece è ancora resta quello stesso geroglifico, un senso che sfugge e accompagna la strada dei miei giorni. È rimasta lì la mia linea d’ombra.

    ***

    Non si ritrovano davanti alla piazza più grande. Quella antica con la fontana monumentale, dietro il fòrnice della bella porta barocca. Appena oltre il grande arco di tufo col baldacchino e la statua seicentesca di San Francesco di Paola. L’angolo di centro storico più bello e risparmiato, frequentato di tradizione da tutti gli altri ragazzi del paese. Il posto da sempre di quelli un po’ più giusti e garantiti, dei figli di gente bennata, i professionisti e la classe media del posto. Loro no. Non appartengono a quello spazio. E quello spazio non appartiene a loro. Oltre la porta non mettono mai piede. Il loro spazio è dalla parte opposta, sull’altro margine. Un posto di riflusso sul bordo del paese. Gli altri ragazzi di Paola sembrano piuttosto provenire da un punto remoto e senza origine. Come le loro facce. Facce indurite come da una vernice scialba. Facce di adolescenti con alle spalle vite ordinarie e appena decenti. Figli di gente comune. Diverse però dalle facce dei padri e delle madri somiglianti con una pienezza plastica e persino scontata a quelle dei nonni, replicate nella catena del sangue e dei gesti, delle abitudini e del dialetto di casa. Facce di appartenenza a una famiglia, a una casa, al quartiere e al paese, a uno scopo che ne dichiara la vita. Eppure, sono volti di adolescenti che si attirano l’un l’altro con innumerevoli sosia.

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    L’Arco di San Francesco di Paola (foto Wikipedia)

    Mi torna in mente che ragazzi e ragazze con sembianze e facce così ne ho già visti in tanti posti, in giro per il mondo, lontano da Paola. A Brixton, nei quartieri sudici per immigrati indiani e di colore, oppure nei recessi umidi e piatti dei quartieri senza nome della sterminata banlieue parigina. Facce simili per l’immatura durezza, solo un po’ più pallide e slavate di biondo, ne ho viste di recente anche a Budapest e a Praga, nei branchi di adolescenti sottoproletari radunati vicino a una caffetteria della catena Monoprix, vicino ai tetri quartieri di edilizia popolare, (i vecchi Block dell’era sovietica, che andando verso la periferia di Mozartova circondano l’immenso cubo di cristallo dell’Hotel Movempick). E anche a Genova tra i vicoli e le piazzette del quartiere del porto vecchio affollate dai ragazzi di famiglie meticce e dalle giovani prostitute colombiane, con i nuovi arrivati dall’altra sponda del Mediterraneo, sguardi più lesti e rappresi in una smorfia di pericolo, diventati in poco tempo i padroni abusivi dei vecchi quartieri-medina intorno alla Lanterna, pieni del loro caos malfidato e furfantesco.

    Paola è sempre stata un po’ anche la città delle Vespe

    La sera i ragazzi di Paola si ammucchiano tutti nello stesso posto, radunati dalla scia di casino e di fumi di scarico lasciati dietro sulle strade vuote del paese assieme con il latrato metallico dei loro motorini smarmittati. Le ragazze appiedate smanettano sui loro telefonini e bestemmiano feroci in attese nervose andando su e giù dai marciapiedi del Corso. Poco dopo essere stati richiamati coi telefonini qualcuno dei ragazzi con cui hanno in quel momento la storia arriva sparato con lo scooter, e sempre ringhiando e strappando brusco coi freni passa a caricarle in sella per il giro che apre la serata. Si ritrovano e non si contano, le compagnie cambiano sempre. Certi, a dispetto delle facce scipite di adolescenti, con i capelli rasati fino alla cotenna o le zazzere irsute schizzate di gel, le sigarette sempre accese, fanno sguardi minuscoli e malvagi. Poi passano la notte tirando tardi con le birre. Si spaccia e ci scambia un po’ di roba, si litiga per accaparrarsi le ragazze più facili con cui andare a ficcare nelle macchine sulle scarpate tra il lungomare e la ferrovia.

    E poi viene il bello. Ci si sfida. C’è sempre qualcuno pronto a fare la gara con il macchinario nuovo, col seconda-mano rifatto o col motorino truccato. La gara parte sempre da dietro una curva che imbocca la parte più alta del corso, poi si tira il gas al massimo, venendo giù per quasi un mezzo chilometro di rettifilo in discesa, fino a 100-120, con il motore a pieni giri fino al curvone della villa comunale. Solo allora si tirano i freni. Qualcuno ritarda, sbaglia la frenata e arriva lungo, sfasciandosi sul muretto del recinto. Qualche volta ci scappa anche il morto. La mattina si vedono per terra i cocci delle plastiche e i frammenti scoppiati dei fari. C’è un nuovo segno, una tacca sul muro.
    Chi resta ai tavoli al bar commenta le corse con animazione selvaggia e piglia parte alle gare. Ammirazione, emulazione, urla, fischi, spintoni e tifo da stadio. Non ci vuole molto a diventare eroi. Esultanza e grida per i motori spinti al massimo al passaggio dei bolidi truccati davanti al rettifilo del bar. Poi il corteo strombazzante del vincitore che rientra alla base. Qualche volta arrivano i carabinieri e sequestrano i mezzi, controllano i documenti a qualcuno.
    Tra di loro c’è anche chi sa già come maneggiare una pistola. Forse fa già il soldato in una delle cosche che controllano il paese e ha già sparato a qualcuno in un’imboscata. Dopo pochi giorni di tregua è tutto di nuovo punto e daccapo. Dopo la gara di solito la serata, una volta consumato e smaltito l’orgasmo motoristico, torna alla sua monotonia cupa e fredda.

    Vecchie cabine telefoniche

    I ragazzi sembrano improvvisamente ammansiti, spenti. Ogni sera si trovano lì, sempre, estate e inverno, una calamita, davanti al bar alla fine del corso. Sono 50, tra ragazzi e ragazze, 13, 14 anni fino a 22, 23 al massimo. Mai di meno. Mai più grandi. Dentro il locale disadorno e illuminato a giorno dai tubi, ci sono solo le tre cabine chiuse del vecchio posto pubblico della Telecom frequentato dagli extracomunitari arabi e dalle grasse badanti polacche o ucraine per telefonare a casa. In mezzo troneggia il frigorifero dei gelati industriali, a fianco il banco della mescita con le bottiglie semivuote degli alcolici. Fuori si riflette nel buio l’effetto della grande insegna screziata dai neon colorati di rosso, nero e giallo, che d’inverno, le saracinesche spalancate sotto la pioggia, si riverberano con un fatuo luccichio da discoteca sull’asfalto pieno di pozzanghere, mentre dentro i tubi fluorescenti si diffondono con un effetto lattiginoso sulla plastica dei tavolini vuoti.

    Il bar è là, dove lo stradone finisce in uno slargo polveroso, tra i palazzoni che spuntano davanti all’incrocio che sbocca sulla nazionale: il margine frastagliato del paese che dà verso la stazione e la marina trafficata. Un parcheggio per macchine e motorini piuttosto che una piazza. Una specie di frontiera labile e minacciata. Qui intorno tutto è anonimo, pieno di cascami, disadorno. Brutto, come tutto quello che si affaccia a giro di orizzonte intorno al covo di questi ragazzi. Le vecchie case basse e squadrate dei pensionati del quartiere ferroviario portati a spasso dalle tate ucraine, il tetro sarcofago di cemento armato del Tribunale Nuovo, e più in là i casermoni della marina e dei quartieri che si allungano disordinatamente sulla litoranea. Tutto senza un disegno, come sparso a casaccio, in un reticolo di antenne e parabole, tra case scorticate e mucchi di detriti, strade sterrate che si perdono in cantieri abusivi, cani randagi e lampioni rotti. Il morso del suburbio. Una periferia, si direbbe. Si, ma di cosa? Paola fa appena 17.216 abitanti. E Cosenza è nascosta dietro la costiera, a 30 km di superstrada. Non è mica una metropoli, Paola. Cittadina, si dice, con un vezzo amministrativo da anni Sessanta.

    Treno in partenza dalla stazione di Paola

    Qualcuno pretenderebbe di farne la sesta provincia della Calabria. Ridicolo. Sono povere illusioni agitate dalla malafede opportunista di qualche politicante scoppiato. Paola oggi è solo un vecchio paese afflitto e stanco, rassegnato da una storia oscura e stentata, sopraffatta da promesse tradite e da sconfitte secolari. Qui la gente sopravvive nella frangia opaca di un presente che non apre più al futuro. Lo scalo ferroviario ridimensionato movimenta ormai pochi treni, poche merci, e non c’è altro lavoro che non sia terziario rigonfiato e assistito: Asl, Ospedale, Comune, Tribunale, Comunità Montana, ferrovia, uffici. Vita sociale sempre più immiserita e degradata, amministrazioni che si susseguono sempre più mediocri e pretenziose. I politici sono professionisti pronti a tutto. I nuovi, peggio dei vecchi. I negozi chiudono a ripetizione. Affogati dai debiti e dal pizzo, rinunciano anche quelli che hanno aperto da poco, con le saracinesche che restano sbarrate e vuote sulle vetrine appena rimesse a nuovo. Il corso sta diventando un deserto. D’inverno alle 8 di sera non vi circola anima viva. Non c’è più un albergo in paese, neanche quello vicino alla stazione, trasformato da qualche anno in caserma di Polizia. Il turismo, la grande risorsa, si risolve nel rientro stagionale di qualche famiglia di emigrati e nel casino di una ventina di giorni tra luglio e agosto. Il grande cinema-teatro Odeon, altro dono della recente civilizzazione, sorto come risarcimento per la speculazione, ricavato sotto un enorme casamento di condomini e appartamenti anni ‘70, resta da anni inconsolabilmente vuoto e inutilizzato per gli spettacoli. Tra un po’ ne faranno un garage o un supermercato.

    E poi c’è la mafia. Il pizzo sui negozi, gli appalti, la droga. Si lavora alla luce del sole. Di notte si bruciano macchine per avvertimento. Ci si ammazza, di tanto in tanto, per strada. I regolamenti di conti avvengono appena fuori, sul nastro della Statale 18, davanti ai ristoranti a un solo piano con i finestroni di allumino anodizzato. Gli accoppamenti si succedono con regolarità liturgica all’uscita dalle grandi sale per banchetti nuziali che occhieggiano sulla strada, sporgendo improvvisamente dal buio con le insegne spropositate dei neon multicolori. La nuova moda araldica delle insegne si è imposta anche nei negozi e in paese. Qualcuno si è già fidato di intitolare la propria macelleria rimessa a nuovo, Pork House. Mentre un altro meno esterofilo non ha esitato a chiamare il proprio negozio di tappezzerie e tendaggi Tendazioni, giocando forse inconsapevolmente sull’inflessione marcata che deforma le parole italiane nel dialetto di casa. Questo spazio immemore e caotico cresciuto ai margini sfrangiati del paese, è diventato però la scena ideale per fissare in tragedia i passaggi fatali dei malavitosi in questa terra di nessuno dei quartieri nuovi sulla marina. È la frontiere mobile dove tutto accade.

    E il paese e lì, muto e impietrito. Le vecchie case di tufo a grappolo e le fitte palazzate del settecento corrusche, con balconi dalle imposte accecate da decenni di muffe, i terrazzi con le balaustre spezzate di tufo scolpito, i tetti di coppi e le facciate scorticate, le cupole delle sue chiese barocche con le squame colorate dei mattoni di Vietri incipriate dal sole del tramonto occidentale che si spalanca sul Tirreno. Paola sta lì in alto, una presenza incombente e ignorata. Come un resto. Un ammasso di vecchie pietre e muri pericolanti, che sopravvive appena sopra la testa di questi ragazzi dalle facce dure e inebetite che ogni sera vengono in processione col motorino dalle loro case dei quartieri nuovi dispersi sul bordo della marina. Migrano dagli alveari di case popolari costruite nella campagna abbandonata alla fretta edificatoria dell’INA Casa, ai geometri e agli speculatori di paese, alla buona volontà ignorante delle cooperative di ferrovieri, postali, telefonici e allo scempio ordinario delle case popolari dello IACP.
    Questi ragazzi del bar guardano sempre per terra e non si voltano indietro. E dietro e in alto c’è Paola. Il loro passato. Il paese. C’è solo il bar, la birra dei nuovi pub. La noia di ogni sera.

  • Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    C’è quella epopea culturale che conosciamo con il nome aulico di Grand Tour. Una cosa che sta tutta nei libri, più che nelle sale dei musei, nelle collezioni archeologiche. Mi ero ormai fatto convinto che fuori non fosse durato niente. Neanche uno di quei vecchi cimeli e memorabilia. E con questi, nessun luogo privato o pubblico, custodito a futura memoria. Mi sbagliavo. Qualcosa di quel passato è rimasto. Sorprendentemente vivo e godibile, per chi ne ha voglia, beninteso, ancora oggi. Questo luogo è a Crotone. Nella Crotone un tempo Magna Grecia delle migliori annate, poi scivolata ai nostri tempi nel limbo avvelenato e rugginoso della ex Stalingrado del Sud. E non in museo. Per strada. Nel cuore della Crotone di oggi.

    Se arrivate in piazza Pitagora, appena a ridosso dei popolari quartieri del centro storico, oggi colorato di presenze multietniche e negozi da suk, appena sotto i bastioni del grande castello di Carlo V, vi imbatterete in uno straordinario cimelio vivente della stagione del Grand Tour. Voltato l’angolo, a pochi passi dal Duomo che custodisce l’icona della venerata Madonna di Capo Colonna, e dalla storica Libreria Cerrelli, una nobile libreria indipendente, la più antica della Calabria, frequentata anche da Corrado Alvaro, c’è ancora un vecchio albergo, che fu anche il primo costruito in città.

    Il Concordia a Crotone: da Lenormant a Gissing

    Al civico 12 di piazza Vittoria, con ancora l’ingresso sotto i portici pitagorici che, unici in Calabria, fanno tanto Bologna, troverete oggi, come dal 1880, anno della sua probabile fondazione, al primo piano (il piano originario dello stabile costruito sopra i portici), le circa venti stanze che formavano il corpo del vecchio albergo Concordia. Che a quel tempo, nuovo di zecca, sfoggiava sulla balconata un’elegante insegna trascritta con vezzo francese, Hotel et Restaurant Concordia. Il Concordia in realtà era un albergo «semplice ma comodissimo, senza le finezze dei grandi alberghi, ma con delle camere sufficientemente pulite e discreta cucina». Ad uno straniero di passaggio poteva bastare. Lo descriveva così il suo primo illustre ospite straniero, l’archeologo francese François Lenormant che nel 1881 lo immortala nella sua descrizione di “Crotone moderna”, confluita poi nei tre grossi volumi de La Magna Grecia.

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    Norman Douglas soggiornò al Concordia di Crotone seguendo l’esempio di Gissing

    Paesaggi e storie. Il Concordia sarà poi lo stesso albergo cittadino puntualmente segnalato per la rara clientela internazionale sulle puntigliose pagine del Murray’s Handbooks for Travellers e sulla celebre guida Baedeker per l’Italia Meridionale. Qualche decennio ancora e il Concordia accoglierà altri ospiti di riguardo tra le sue stanze. Non mancarono l’appuntamento con il Concordia firme come il francese Paul Bourget (1890), l’americano James Forman (1927), i britannici Edward Hutton (1915) ed Henry V. Morton (1969). Ma l’epopea del Concordia la fanno soprattutto due nomi di grandi personalità letterarie – il secondo richiamato qui dal primo. Vi sostarono, a cavallo di Otto e Novecento, due scrittori del calibro dei britannici George Gissing e Norman Douglas. Entrambi giunti a Crotone avventurosamente. Sebbene in condizioni economiche, di salute e con stati d’animo persino opposti.

    La rinascita dopo l’abbandono

    Una targa celebrativa apposta dal Rotary nel 2002 celebra con discrezione gli ospiti illustri passati dall’albergo. Accanto alla targa commemorativa, l’insegna del Concordia (nome celebrativo risorgimentale e post-unitario), coevo alla prima ben proporzionata addizione urbanistica in cui si collocava il nuovo albergo, costituita dalle “due belle strade porticate che tagliano in croce la parte inferiore della città”, è da poco tornata a campeggiare su un angolo della storica piazza Pitagora. Il Concordia è rinato infatti da poco dopo qualche decennio di abbandono e di oblio. Merito della famiglia Pezziniti che ne regge le sorti dalla metà del secolo scorso. Assieme, fa piacere ricordarlo, al più antico caffè-pasticceria di Crotone, il Moka. Anche quest’ultimo ha già di suo più di un secolo di storia cittadina alle spalle.

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    La targa del Rotary

    Al Concordia non aspettatevi riverniciature alla moda, sofisticazioni e arredi di design. L’albergo, dopo qualche lavoro sulle vecchie e solide mura, con le volte riportate a vista, è rimasto praticamente quello di allora. In accordo con la sua atmosfera riposante, accogliente e demodé. Senza pretese, ma un porto sicuro per chi viaggiava, e viaggia, da queste parti. Lo snob aristocratico Norman Douglas, che passò dal Concordia due volte nel corso dei suoi viaggi al Sud, in Old Calabria, nel 1911 ne scriveva con soddisfatta degnazione: «Resto fedele al Concordia, l’edificio è migliorato, il cibo è buono e variato, i prezzi modici; il luogo è di una pulizia perfetta. Vorrei solo augurarmi che certi alberghi di provincia inglesi possano essere all’altezza del Concordia».

    Gissing e il Concordia di Crotone

    All’opposto, non un effimero souvenir di viaggio, ma luogo rivelativo di una più profonda esperienza umana, diventerà il Concordia per un vittoriano solitario, George Gissing, che a Crotone approda nel novembre 1897.
    Gissing fu l’ultimo degli inglesi e dei grandi viaggiatori a visitare, le regioni dell’estremo Sud della Penisola al tramonto di un secolo che, sotto l’incalzare del moderno, stava definitivamente cancellando anche nelle regioni del Sud più ‘archeologico’, problematicamente unificate al resto della nazione, l’ultimo riflesso dell’antica Land of Romance. «Cosa ne è stato delle rovine della Croton magnogreca? In questa piccola città di provincia, dalla fisionomia spoglia e malinconica, oggi nulla è rimasto visibile della sua gloriosa e trapassata antichità».

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    L’insegna del Concordia, oltre un secolo dopo il pernottamento dello scrittore inglese

    Squattrinato e malfermo di salute, Gissing dedica a Crotone quasi metà del suo libro di viaggio. Restò nelle stanze del Concordia una quindicina di giorni. Giorni, e notti, cruciali. Fermato a Crotone da un improvviso attacco di febbre polmonare, conseguenza della tubercolosi che lo affliggeva sin da giovane, la malattia di cui morì a soli 46 anni in Francia, in uno sperduto sanatorio ai piedi dei Pirenei.

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    Riccardo Sculco

    Qui fu salvato dall’intervento provvidenziale di un bravo medico, il dottor Riccardo Sculco che se ne prese cura – «il mio amico dottore» – (Sculco fu poi a più riprese anche sindaco progressista della città), e da poche «gentili e affettuose persone». Che altre non erano se non le cameriere, le povere serve di locanda e le grisettes impiegate al Concordia. «La gente dell’albergo Concordia, nonostante la terribile povertà e rozzezza, si dimostra molto gentile e premurosa nei miei riguardi. Due o tre di queste si presentano di continuo nella mia stanza per vedere come sto e per poter solidarizzare, simpatizzando con me».

    La Calabria più vera dalla bolla dell’albergo

    Il Concordia e la febbre polmonare divennero così il suo punto di osservazione sulla città. Il ritratto che fa della popolazione cittadina e della gente che in albergo si occupava di lui e dei clienti, è il cuore stesso di Verso il mar Ionio, la sua più autentica e inaspettata iniziazione al Sud povero. Una Calabria dal vero in cui egli si aggirerà spaesato, fra le quinte di un paesaggio naturale e umano reso ancora più surreale dalla malattia, inasprito dalla storia e dalle circostanze personali.

    Sarà tuttavia questo per lui l’esame di realtà più perspicace, l’esperienza dell’altrove più fertile e umanamente partecipe, l’impressione vitale meno libresca e astratta. Precipitato in una condizione di estremo pericolo, solo, debole e malato, si rimette a ciò che fatalmente può accadergli lì, tra quella mura, in mezzo a gente estranea. Questione di vita o di morte: «Avevo la febbre. Quella febbre. La situazione si faceva grave, più grave che mai, e mentre la febbre continuava a salire, ebbi un solo pensiero: piansi amaramente la circostanza beffarda che quella ricaduta della mia malattia fosse sopraggiunta tra capo e collo proprio lì dove mi trovavo adesso. Poteva accadere ovunque: ovunque ma non a Cotrone». Eppure…

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    Una cartolina di Crotone con un panorama d’epoca

    Ciò che Gissing ricorda e scrive in quelle circostanze estreme, nonostante lo spettro incipiente della morte, suona sempre affettuoso, ironico e disincantato, intriso di un’umanità curiosa e bonaria. Eppure la realtà da cui veniva sopraffatto poteva apparirgli persino crudele.
    Sul Concordia, poi, salta fuori ben altro. «A giudicare dalla monotonia e dalle ristrettezze del menù servito ai tavoli del ristorante, il tenore di vita medio in città doveva essere ben misero e stentato. Le pietanze da portata e i pochi piatti che erano in lista componevano un menù meschino, poverissimo e ripetitivo. E peggio ancora, era tutto cucinato in un modo infame. Il vino del posto, un vinaccio locale, non aveva nulla di raccomandabile. Era molto forte, impossibile da reggere, e sentiva più di narcotico che di succo d’uva».

    Dieci giorni d’angoscia e scoperte

    Seguono dieci fatali giorni di infermità al Concordia, in compagnia dell’angoscia. «Mi sembrava una beffa davvero miserabile ritrovarmi qui e giacere ora immobile e ammalato di tisi sulle rive del Mar Ionio. Una vera sfortuna. Non poter uscire di nuovo a veder brillare il sole caldo in un cielo tanto più bello e migliore di quello del lontano Nord». Ma con la malattia si apre anche la porta di una diversa percezione dell’umanità circostante:

    «La gente della casa, l’intero personale, dagli sguatteri di cucina alla padrona dell’albergo, sarebbero apparsi, ne sono certo, poco più che dei selvaggi. Sporchi nella persona e sotto ogni riguardo, di abitudini maleducate, assolutamente rozzi nel loro contegno, sempre a litigare e a inveire l’uno contro l’altro, e peggio sommamente privi di ogni necessaria qualificazione o attitudine per i compiti che in quel pubblico esercizio sostenevano di svolgere. In Inghilterra basterebbe l’aspetto sciatto con cui si presentano a far rivoltare di disgusto un pubblico di inflessibili moralisti e benpensanti. Tuttavia, facendo appello alla mia migliore buona volontà e conoscendoli meglio, un po’ alla volta la mia disposizione d’animo verso di loro mutò decisamente.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Superando la distanza con cui potevo giudicarne la miseria e le azioni per me incomprensibili, ho poi scavalcato anche la prima fase di insofferenza per quella gente così diversa da me. Ho visto il loro lato buono e ho imparato a perdonarne i difetti, conseguenza naturale di uno stato di autentica arretratezza e di primordiale miseria. Ci vollero due o tre giorni buoni e molta pazienza prima che il loro comportamento rozzo e sbrigativo, le maniere brusche e indelicate, si ammorbidissero verso di me in cordialità: una cordialità veramente umana, priva di formalismi ma autenticamente disinteressata.

    Fu proprio quello che avvenne. Quando si seppe che non avrei dato loro soverchie seccature, che avevo bisogno solo di un po’ di attenzione in più per la mia salute precaria, e in materia di cibo e cure, la buona volontà e la simpatia umana di quella buona gente ebbero la meglio per aiutare scarsità irrimediabili e l’inettitudine senza speranze».

    Meglio morire in Calabria che a Londra

    Gissing sembra così divenire via via più consapevole nella bolla del Concordia del legame indivisibile che intercorre nelle relazioni umane tra persone e luoghi. Un sentimento dell’altrove persino più significativo di quello determinato dalla conoscenza delle vicende storiche o da percezioni di ordine squisitamente estetico. Solo l’esperienza del “luogo”, in forza del suo carattere determinato, permette di conoscere più a fondo l’individuo in rapporto con l’ambiente. Solo attraverso essa si coglie tutta la potenza di questi condizionamenti. Gissing è un uomo di educazione classica, tollerante, di mentalità aperta, persino ironico e lungimirante. L’immersione nel paesaggio umano di cui è ospite al Concordia in questi frangenti del suo viaggio al Sud, ne faranno davvero un uomo diverso.

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    Londra, 1868: una strada del quartiere Shoreditch

    A distanza di anni, ricordando l’angoscia della malattia patita a Crotone, rifletteva così: «Ammetto, tuttavia, che allora quel pensiero di morte mi fece soffrire molto più di adesso che ci penso. Dopotutto, resto convinto che un povero di Cotrone ha comunque dei vantaggi rispetto al proletario che abita in una catapecchia dei sobborghi di Londra. E pensai comunque che per me, dopotutto, sarebbe stata comunque cosa più grata morire lì in un tugurio sul Mar Ionio che in uno di quei luridi scantinati di Shoreditch in cui non ebbi mai pace».

    Lo straniero

    Lirico e malinconico, il capolavoro di scrittura di viaggio di Gissing così alterna luce e oscurità, vita e morte, paganesimo e cristianesimo. Ma egli resta soprattutto un ritrattista formidabile degli incontri umani, dei luoghi e delle persone, che popolarono il suo viaggio. Come quella povera serva del Concordia – «un essere umano che a fatica potrei chiamare donna», che ad un certo punto, “al capezzale del mio letto da infermo, cominciò a rivolgersi a me in modo incomprensibile, con rabbia, urlando nel suo dialetto oscuro e fangoso. Passò un minuto o due di terrore, prima che riuscissi a cogliere il senso di quel suo sfogo furibondo, incomprensibile e addolorato. Mi chiedeva, agitata e piangente, se era giusto che una “povera cristiana” venisse maltrattata così, dopo aver “tanto, tanto lavorato!”.

    Quello sfogo piangente e belluino era il suo modo di fare appello alla mia simpatia, di muovermi a compassione umana per la sua povera storia, per quella vita miserabile: non era venuta di sicuro a maltrattarmi. No. Voleva solo che il signore malato, lo straniero, l’ascoltasse. Che qualcuno come me le desse per una volta ragione della sua condotta, di tutta quella sofferenza ingiustamente patita. Dopo pochi istanti il peso esorbitante di quel suo dolente resoconto si impadronì di me. Era come se una povera bestia da soma schiacciata dalla fatica, sotto un carico insopportabilmente pesante e vessatorio, avesse improvvisamente trovato la strada per tradurre in un rudimentale linguaggio, inarticolato e ancora subumano, la sua ribellione sbraitata contro il destino infelice a cui era stata condannata dalla sua condizione di oppressa.

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    Una stanza del Concordia oggi. Sulla parete, il ritratto di uno dei suoi primi ospiti illustri: François Lenormant

    La ascoltai a lungo. Si calmò, infine. Scrutai tra le pieghe di quel viso affranto, tra i segni di quel volto corrugato e malinconico, scavato dalla fatica e dallo sconforto. In qualche misura i miei sforzi di rendermi partecipe del suo disagio, quel mio dare ascolto alle sue sofferenze senza infingimenti, di parlarle con calma rispondendole gentilmente, riuscirono. Alla fine del nostro colloquio, la donna si voltò per andarsene via, mi guardò e mi disse ancora per una volta sospirando, “Ah, Cristo!”. Quell’ultima esclamazione fu pronunciata con un accento più dolce, con un po’ di sollievo. E non risuonò, mi parve, del tutto priva di gratitudine».

    Il posto più vicino al paradiso

    Sorprendentemente, nonostante quel che gli accadde, per Gissing proprio la Calabria povera e malvissuta del 1897, da poco unificata al resto dell’Italia, si rivelerà «dopotutto, il posto più vicino al paradiso dove avessi mai sperato di giungere». Non a caso proprio tra le stanze e dopo l’incontro con la gente del Concordia Gissing conclude le sue riflessioni sulla verità del suo viaggio e dei suoi incontri con l’umanità dimessa e povera che popola anche i recessi più irrilevanti e svisti dell’estremo Sud di cui farà dopotutto una paradossalmente lieta e assillante esperienza umana, con un rimprovero, infine. Ma rivolto a se stesso: «Perché ero venuto qui, se non perché amavo questa terra e la sua gente? E non avevo io già ottenuto la ricompensa, tanto più riccamente corrisposta, quanto immeritatamente ricevuta in dono da loro per questo mio amore?».

    Un parco culturale per Gissing nel Concordia di Crotone

    Fanno bene gli attivisti di Italia Nostra di Crotone a chiedere di estendere il vincolo di Bene culturale a difesa della memoria vivente del Concordia. E a progettare, a partire da quelle stanze fatidiche, insieme al Comune di Crotone, un Parco Culturale da dedicare a George Gissing e ai suoi compagni di viaggio e ospiti crotonesi del Concordia. Basta per capirne il fascino dormirci dentro una notte, in compagnia dello spirito benigno del vittoriano solitario.
    È proprio vero come scriveva già Norman Douglas, che tra le mura del Concordia è rimasto per sempre qualcosa di speciale: «L’ombra di George Gissing aleggia ancora in quelle stanze e in quei corridoi». Provate a passare dal Concordia, la sentirete anche voi.

  • IN FONDO A SUD| Vattienti a Nocera Terinese: se l’ossessione per la sicurezza cancella la storia

    IN FONDO A SUD| Vattienti a Nocera Terinese: se l’ossessione per la sicurezza cancella la storia

    Non mi dilungo su origini e significato del rito dei Vattienti di Nocera Terinese. Faccio l’antropologo di mestiere, la vicenda è nota, ed è già stata accuratamente studiata. Io stesso ho dato nel corso del mio insegnamento di antropologia culturale numerose tesi sull’argomento. C’è di mezzo la «vituperata e primitiva religione dei poveri». E i vattienti altro non sono che «una delle mille forme della religione popolare dei poveri» che caratterizzò – parole di Michel Vovelle – l’Europa di prima della rivoluzione industriale.

    I Vattienti di Nocera come la tribù Chimbu

    Dunque una significativa sopravvivenza. Che già ritroviamo trattata alla stregua di una stranezza pruriginosa, retaggio dei “primitivi di casa nostra”, nel film Mondo Cane, pellicola del 1969 del regista Gualtiero Jacopetti, che impaginava i vattienti di Nocera Terinese in un documentario di carattere senzazionalistico. Il film accoglieva i vattienti come esempio limite delle “superstizioni in Europa”, in mezzo a una sorta di catalogo di immagini forti di riti cruenti e di scene di violenza e sesso riprodotte “dal vero”, arditamente estrapolate da “culture selvagge” che andavano dalla Guinea al Borneo, dalla Malesia al Giappone, fino alle bizzarrie del matriarcato nelle Isole Bismark alle feste della tribù Chimbu, per tornare appunto in Calabria, col rito dei flagellanti di Nocera, documentando così in modo eccentrico tradizioni diffuse “tra i civili e i primitivi”, con scene salienti proposte per soddisfare il guardonismo e le curiosità morbose del pubblico dei cinema popolari.

    Il rito dei vattienti di Nocera Terienese negli ultimi decenni è andato poi soggetto di una forte esposizione mediatica, costretto anche a qualche forzatura, e soffre della tentazione di una sua facile e superficiale spettacolarizzazione, persino a scopi turistici.
    Si è anche trasformato al suo interno, vi partecipano non solo devoti. È una tradizione che si è estesa a giovani, emigrati, persone in difficoltà per ragioni di lavoro, di salute o di dipendenze. Cambiano le figure dei vattienti, ma i riflessi umani del rito fanno sempre capo a un disagio, a sofferenze intime o manifeste. Invariata ne resta la funzione: in una condizione di vita subalterna tipica di popolazioni marginali e della religione dei poveri, il corpo di chi si “batte” viene messo a disposizione di un sacrificio, il sangue offerto ad una richiesta di reintegrazione.

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    Papua Nuova Guinea, gli scheletri danzanti della tribù Chimbu

    Un paese risacralizzato

    È questo che consente ancora di situare nell’ordine del sacro un rito considerato oggi vieppiù un residuo di arretratezza meridionale che fa storcere il naso a molti benpensanti, anche in ambito ecclesiale. Nella realtà della sua celebrazione è tutto il corpo mistico del paese, ogni suo spazio e anfratto, che viene coinvolto e ripercorso, letteralmente ri-sacralizzato in ogni sua estensione materiale e simbolica dal percorso che la processione e il rito dei vattienti conferma e ripete ogni anno.
    I vattienti in giro per il paese nella processione del Venerdì santo sono il pennino rosso che ridà vita a stradine e vicoli deserti, case svuotate dall’emigrazione, luoghi e memorie ormai disabilitate dalla vita contemporanea. Ci si batte davanti alle chiese, alle edicole dei santi, dinanzi alle proprie abitazioni. E ci si prostra dinanzi alla statua della Madonna Addolorata in segno di devozione, ma soprattutto si versa sangue, come nel sacrificio del Cristo flagellato.

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    La Madonna Addolorata di Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Così il rito dei vattienti di Nocera Terinese commemora un legame con il sacro, e insieme, la comunione necessaria tra luoghi e persone, l’essere cioè iscritti come presenze entro uno stesso circolo vitale, presenti e agenti nello stesso spazio del paese, soggetto come tanti altri alla crisi di una presenza storica e simbolica.
    Come accade alla figura del Cristo, attraverso il sacrificio del sangue versato e asperso, la presentificazione della morte viene sconfitta e riemerge la vita. I vattienti imitando il sacrificio del Cristo, attraversano la morte senza morire, ridando vita così anche allo spazio del paese e alla sua intera comunità. Dunque un passaggio di rilevante importante fondativa, tramandato dal rito che si rinnova nell’orizzonte storico delle pratiche identificative della comunità locale.

    Sicurezza innanzitutto: niente più vattienti a Nocera

    Accade adesso che la Commissione Straordinaria di nomina prefettizia (il comune di Nocera Terinese da un po’ di tempo è privo di un sindaco) abbia deciso di vietare con un provvedimento “di tutela sanitaria” la tradizionale processione e riti del venerdì santo con la presenza dei vattienti, definito sbrigativamente «evento tipico di epoche lontane». Le autorità supplenti non solo hanno vietato il rito con la prevista aspersione del sangue dei vattienti a causa di presunte pericolosità “valutate, nel contesto attuale, dal punto di vista igienico sanitario”, impedendo così il marcamento di impronte su porte e muri oggetto della tradizionale sacralizzazione dello spazio e dei luoghi simbolici del paese, ma hanno persino mutilato la tradizionale celebrazione religiosa, abbreviandone il percorso liturgico.

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    La Madonna portata in processione a Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Le autorità «hanno accorciato pure il percorso della processione del Sabato Santo. La via della Madonna, in centro storico, non si può più percorrere, sempre per motivi di sicurezza», osserva dal canto suo Angela Sposato, giornalista e scrittrice originaria di Nocera Terinese. Il totem dei tempi nuovi è dunque la Sicurezza, un apriti sesamo della modernità e dell’autorità dello stato, che impone le pratiche securitarie in sostituzione di quelle tramandate dalla comunità e dalla sua secolare cultura storica e identitaria. Le “superiori ragioni” della sicurezza, sempre più invocata e imposta quando più incerto diventa l’orizzonte dei valori, la stabilità economica e sociale, più vacillante l’antidoto di una cultura locale che segna la linea del tramonto dei riferimenti etici e di costume tradizionali.

    Il passato rimosso

    Argomenti molto delicati, ma neppure la autorità ecclesiastiche ufficiali – spesso apertamente ostili a questo tipo di manifestazioni della fede popolare – erano riuscite a fermare la celebrazione di un rito secolare, che nel piccolo centro appenninico affacciato sul Tirreno si celebra almeno da quattro secoli a questa parte. «Neanche la chiesa ufficiale non può essere contraria ad una devozione che viene regolata dalla diocesi», si ricorda adesso da più parti. In casi simili sarebbe certo più rispettoso ascoltare le voci della comunità, le ragioni delle persone che eseguono il rito e che per mezzo del loro corpo, ferendosi, rendono partecipe di questo sacrificio la comunità intera che lo vive per il loro tramite.

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    Un panorama di Nocera Terinese

    Si può discutere all’infinito sul senso di questi riti “ancestrali” che sono sopravvissuti e giunti oggi sino a noi alla stregua di sopravvivenze di un passato rimosso che sempre più difficilmente trova posto in un mondo secolarizzato e dissacrato come il nostro. La realtà del nostro tempo è sempre più attratta dal primato della tecnica, la società oramai è sovradeterminata da un laicismo di facciata che asseconda le nuove superstizioni del denaro e del potere economico che governano tutte le nostre relazioni. Un’ideologia dell’economico che tutto cancella imponendo il primato dell’utile anche nelle scelte simboliche e nella qualità etica delle nostre esistenze individuali e collettive.

    Un sopruso culturale contro la religione dei poveri

    La «religione di poveri» col suo residuo di sacralità e di ritualità «irregolari», un esempio delle innumerevoli «metamorfosi della festa» di cui ci parlava lo storico dell’ideologia francese di ispirazione marxista Michel Vovelle in un suo saggio dallo stesso titolo, in questo panorama pervasivamente sovragovernato dalle istituzioni dello Stato, dalle leggi di un’economia sempre più inflessibile, dalla prepotenza della tecnica e da istanze di regolarizzazione di tipo securitario, ha e avrà sempre meno chance. A questi rituali resta una fragile ragion d’essere nella loro stessa vigenza, in una sopravvivenza che si prolunga nonostante tutto. Finché una comunità è e sarà in grado di decidere autonomamente di riassumerli e di mantenerli in vita, la loro funzione culturale e simbolica sarà giustificata e garantita.

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    Michel Vovelle

    Mettere fine d’autorità e per decreto a questi “atti di autoflagellazione e conseguente spargimento di sangue” tipici della fede popolare, col pretesto che il rito tradizionale, com’è ovvio, “non trova alcun riscontro nelle vigente normativa pubblica in materia sanitaria”, in questo caso, a mio avviso, rappresenta, in termini culturali prima ancora che di diritto, un atto di arbitrio e di sopruso.

    Con l’ordinanza di divieto il potere costituito produce un dispositivo legale il cui scopo – nemmeno tanto recondito – è quello di ricondurre i vattienti a una disciplina dei corpi di tipo sanitario e securitario. Impedendo loro di manifestare e ripetere col rito la libertà scandalosa di disporsi temporaneamente fuori dalle regole, ricreando uno spazio materiale e simbolico locale, alternativo e fondativo di un “altrove” ritualizzato dal sacro per mezzo di un diverso sapere del corpo, l’autorità intende sorvegliare e punire, normalizzando foucaultianamente l’eccezione e lo scandalo del suo retaggio tradizionale, per cancellarne infine il gesto e la memoria tramandata.

    Cultura, salute, autodeterminazione

    Una spia accesa, dunque, sulla temperatura inospitale dei nostri tempi privi di finalità e di autentici scopi di umanizzazione della realtà. Oltre che una prova dello spazio reale sempre più ristretto e residuale riservato alla libertà culturale e di autodeterminazione delle comunità locali, dato che «la violazione dell’ordinanza è punita ai sensi dell’art. 650 del Codice Penale, nonché delle ulteriori sanzioni di legge», con il compito di far rispettare la norma assegnato a Carabinieri, Polizia e Polizia Locale, come ricordato in calce dal documento prefettizio.

    Le autorità prefettizie non a caso ribadiscono a giustificazione del divieto della celebrazione del rito «le primarie esigenze di tutela della salute pubblica e dell’ambiente»; quindi un’offesa all’igiene e pericoli per la salute, troppo sangue per strada, troppo sangue asperso; o non si tratta forse di impedire uno spettacolo considerato ormai troppo osceno e incomprensibile per le sensibilità correnti nei nostri tempi sanificati dalle fobie di contagio e turbate dalla lunga degenza del Covid?

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    Un carabiniere nella processione degli anni scorsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Ma che cos’è cultura?

    Un’obiezione si leva ancora per voce della scrittrice Angela Sposato: «La grave censura contro i riti della Settimana Santa a Nocera Terinese da parte delle istituzioni, svela tutto il disastro culturale della nostra contemporaneità, l’ignoranza assoluta in ambiti complessi come il senso della nostra “Festa”: un convito intimo di amici (paesani) che riconnettono l’identità in una fraterna agàpe (ἀγάπη), l’amore più disinteressato; svela pure il neo-oscurantismo culturale in cui è cultura oggi solo ciò che rimanda al politicamente corretto, mondato da “cattive” prassi e affidato alla mediazione di qualunquisti e retori umanisti ciarlieri scelti dal sistema che ci vuole assoggettati alle regole della burocrazia. I magistrati del gusto e del giusto, non sono e non saranno mai cultura, né progresso. Il rito per noi noceresi è elemento vitale, è incontro col Sacro. Sacro, ancor prima che Santo».

    I Vattienti a Nocera nel passato

    Dal canto suo anche lo studioso locale Franco Ferlaino, difendendo la pratica secolare di questo rito della fede popolare, ribadisce come «a memoria d’uomo, la Settimana Santa nocerese non ha mai creato problemi di ordine pubblico (semmai li hanno creati alcuni vescovi del secolo scorso), né di ordine sanitario, né di ordine giuridico (e abbiamo testimonianze demologiche fin dalla seconda metà del secolo XIX). Ogni altra supposizione è arbitraria e infondata». Riguardo ai protagonisti del rito, i vattienti poi: «nessun “fratello” si mai è fatto male. Nessuno li ha mai obbligati; anzi lo hanno sempre fatto con trasporto e sentimento… la gente di paese non ha un solo punto di vista su queste cose… è molto più aperta, democratica e tollerante, anche se in genere la si descrive addebitandole un oscurantismo d’altri tempi. Credetemi, si tratta solo di sapersi porre nella condizione di intenderlo il nostro rito».

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    Gli strumenti utilizzati dai Vattienti a Nocera per flagellarsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Priorità

    Che dire infine, da un punto di vista etico, se appena allarghiamo lo sguardo oltre il contesto? Ogni giorno respingiamo brutalmente il salvataggio in mare di vite umane di gente inerme, che fugge dalla guerra e cerca di sopravvivere a fame e conflitti. Viviamo sotto la minaccia costante di violenze, caos e pericoli di ogni sorta. Avveleniamo la natura. Produciamo armi e le vendiamo senza troppi scrupoli. Inviamo con autorizzazione parlamentare ordigni letali e armamenti pesanti che serviranno ad alimentare la distruzione sistematica di vite umane, pur sapendo di procurare – altrove – morte a domicilio in un conflitto sanguinosissimo che si svolge alle porte dell’Europa.

    E però diventa un problema di sicurezza se in un paesino della Calabria, mezzo spopolato e in crisi di identità e di futuro, un gruppetto di paesani e di emigrati di ritorno devoti al Cristo flagellato e alla Madonna Addolorata, per ripeterne simbolicamente il sacrificio e la parabola di morte e rinascita, si procura, volontariamente, per scopi religiosi e rituali e senza causare violenza alcuna, la fuoruscita di sangue da ferite superficiali che si rimargineranno dopo una settimana.

    I vattienti di Nocera e il corpo come feticcio

    Viviamo decisamente in tempi post-umani in cui il corpo di esseri umani di ogni età e genere viene ovunque esibito e dissacrato, offerto sull’altare della più volgare banalizzazione pornografica della sua integrità e dignità, e quindi venduto, scoperto, indagato, spiato, alterato a piacimento, e come oggetto smembrato, narcotizzato, proposto come quotidiano pasto nudo da consumare, imposto come prodotto da pubblicità e media che lo espongono sugli scaffali reali e immaginari dei nostri empori commerciali. Insomma il corpo umano è, sotto i nostri occhi e senza disagio alcuno per le nostre coscienze stordite, sempre più ridotto a dominio e feticcio di ogni potere, soggetto ad ogni prepotenza e commercio che lo scambia come merce tra le merci.

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    Mario, uno dei vattienti di Nocera Terinese, in processione (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Dissanguati sì, ma da povertà ed emigrazione

    E davvero farebbe scandalo e pericolo il sangue asperso al mattino del Venerdì Santo, offerto silenziosamente come voto e in preghiera dagli ultimi vattienti di Nocera Terinese? Sono questi testimoni sparuti di una fede umile che sopravvive sui margini violati della storia, il pericolo incontrollabile che si aggira tra i vicoli di un paesino dissanguato sì, ma da povertà ed emigrazione; loro che in un convegno religioso di poche anime che si rinnova da secoli non cercano e non chiedono altro che trovare un appiglio e un conforto grazie ad un rito collettivo e all’oltraggiosa resistenza di una pratica di fede popolare?
    Sono loro il difetto, la minaccia all’ordine, l’infezione sociale, quelli da sorvegliare e punire, la realtà da rimuovere dall’inflessibile dispositivo di potere che controlla le nostre vite e il nostro mondo?
    Siamo diventati, mi chiedo, davvero tutti così ammalati di intransigenza, così mediocremente, conformisticamente e ipocritamente “civili”?

    Quasi tutte le immagini all’interno dell’articolo fanno parte del reportage “Deliver us from evil” del fotografo Leonardo Perugini sui Vattienti di Nocera Terinese. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo sulle pagine de I Calabresi. Riproduzione vietata.

  • Cesare Battisti e quel perdono mai chiesto

    Cesare Battisti e quel perdono mai chiesto

    Cesare Battisti, 69 anni, ex terrorista protagonista degli anni di piombo, condannato all’ergastolo per quattro omicidi ed altri gravi reati, catturato in Bolivia nel 2019 dopo una latitanza durata ben 37 anni, si è fatto risentire nei giorni scorsi. Aveva chiesto del vino da consumare in cella, negato. Poi alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Parma, dove è detenuto, si sarebbero resi responsabili del «danneggiamento di alcuni suoi oggetti personali, tra cui il computer», il tutto «nel disegno di un’accanita persecuzione» nei suoi confronti: così reclama le sue ragioni il detenuto “politico” – definizione alla quale non rinuncia – Cesare Battisti: «Aggredito da agenti in carcere, hanno rotto il mio pc».

    Cesare Battisti e il perdono agli ex terroristi

    Il computer è diventato per lui una compagnia inseparabile. Battisti scrive, fa lo scrittore, mestiere appreso nella lunga latitanza trascorsa da fuggiasco; identità multiple e vita sotto copertura per decenni in giro per il mondo. «Un trauma» per lui che considera il computer «strumento di lavoro come scrittore ed editor di Artisti dentro», una rivista che documenta le attività dei detenuti impegnati in attività artistiche e creative nei luoghi detenzione. Ma il PC in carcere per Battisti è diventato anche «l’unico mezzo per mantenere un equilibrio psichico in circostanze tanto avverse». Responsabilità e fatti ai danni di un detenuto in un carcere della Repubblica che se accertate andrebbero sanzionate.

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    Marco Pannella manifesta per la liberalizzazione delle droghe leggere, 6 ottobre 1979

    “Nessuno tocchi Caino”, come ci ha insegnato Marco Pannella, precetto sacrosanto di una giustizia giusta. In questi giorni il nome e il profilo di Battisti è tornato in ballo non solo per questo episodio. Si riparla di perdono agli ex terroristi. La storia, si dice da più parti, deve poter chiudere definitivamente i conti con un gruppetto di reduci della lotta armata, ormai vecchi, malati e male in arnese, anche se molti di loro circolano comunque liberi altrove e godono dello stato di rifugiati politici – certuni niente affatto pentiti – in Francia e in altri paesi che hanno offerto loro rifugio. Non è il caso di Cesare Battisti. Ormai assicurato dalla giustizia italiana alla sua pena, lunga e definitiva.

    Un ragazzo di Calabria

    Ma se per ipotesi Battisti dovesse ritornare in libertà e uscire per qualche motivo dalla galera, potrebbe benissimo passare un giorno o l’altro da queste parti, in Calabria, magari per scriverci sopra una delle sue storie noir. Potrebbero invitarlo a trascorrere qualche giorno di relax diplomatico sulle belle spiagge dello Ionio. Magari a Sant’Andrea Apostolo sullo Ionio, un comunello in provincia di Catanzaro che oggi conta non più di 2.161 abitanti.

    Un posto che a parte il mare e le spiagge, gli ulivi e gli aranci piantati sulle colline di creta divorate del vento di scirocco, non ha altro da dichiarare al mondo oltre al fatto che dal 1931, quando faceva quasi 6.000 abitanti, ha visto sparire due terzi della sua popolazione nella diaspora infinita dell’emigrazione che ancora oggi continua a svuotare i paesi della Calabria. Oggi ci sono “androeolesi” emigrati sparsi in tutti i continenti e ai quattro angoli del mondo.

    Forse Cesare Battisti a questo punto si chiederebbe il perché di quest’invito improvvido in un posto così strambo e fuori mano. Che pure di tempo ne è passato tanto. Ma il paesello di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio qualcosa a che fare con l’ex rivoluzionario (non proprio una sagoma di eroe della rivoluzione à la Che Guevara) ce l’ha. Una piccola cosa, un’emozione da poco nell’economia generale della Storia.

    Qui era nato un ragazzo di Calabria, uno di quelli che per stare al mondo un giorno prendono il treno e vanno via da paesi sfiniti e inariditi come Sant’Andrea per andare a cercarsi “fortuna” dove se ne trova. Il lavoro, quello che tocca in sorte a chi emigra e ne trova uno, quello che è, qui di chiama ancora così, è “la fortuna”.

    Andrea Campagna e i poliziotti di Pasolini

    Di quel ragazzo partito come tanti altri dal suo paese, oggi resta solo qualche foto sorridente, i baffi e l’espressione impettita. Una di quelle foto sta al cimitero, e ingiallisce al sole sopra la lapide della sua tomba. Si chiamava Andrea Campagna, emigrò a Milano con la famiglia, trovò un lavoro, e per sua sfortuna diventò poliziotto. Uno di quei ragazzi figli degli emigrati poveri del Sud ai quali Pier Paolo Pasolini dedicò la poesia che lo scrittore, dispiacendo molto a certa sinistra radicale, pubblico su L’Espresso il 16 giugno del 1968.

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    Andrea Campagna

    Tra quei versi asciutti Pasolini dichiarava la sua distanza antropologica e sentimentale dalla rivolta degli studenti, rappresentanti della borghesia. Quella per lui non era una vera rivoluzione, non aveva a che fare con la vita dei poveri, con i figli della classe operaia e contadina. I poliziotti invece, quei ragazzini in divisa che parlavano un dialetto sporco, coscritti per fame, rappresentavano invece la classe operaia, quella che all’epoca manifestava contro la borghesia.

    Una rivolta di facciata

    Quelle erano manifestazioni alle quali anche gli studenti contestatori, diceva Pasolini, quasi tutti figli della borghesia urbana partecipavano sì, ma come figuranti. Per Pasolini la rivoluzione degli studenti era una rivolta di facciata, era falsa, ipocrita. Non era quella la vera rivoluzione che avrebbe realmente cambiato la società italiana: «Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati». Pasolini era già allora controcorrente, una voce dissonante in un periodo storico che sfociò poi apertamente in tensioni e violenze terroristiche, negli anni di piombo. Anche quel suo breve scritto, come il resto della sua vita e delle sue opere, fece scandalo. Ebbe effetti spiazzanti e creò talmente tanto scalpore da trascinare controcorrente l’attenzione critica del mondo culturale italiano di sinistra sui movimenti politici di quella fase storica.

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    1968, gli scontri a Valle Giulia

    «Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità». È questo il gruppo di versi di quella poesia di Pasolini, che da allora è rimasto nella storia, di cui si continuò e si continuerà a parlare ancora per molti anni.

    Con le labbra, non con il cuore

    Poi successe che una mattina del 1979, la faccia di Andrea Campagna, ragazzo calabrese figlio di paese e di emigranti a Milano, partito al mondo come poliziotto, finì con una foto formato tessera sulle prime pagine dei giornali. Andrea era stato ucciso “in azione” da Cesare Battisti, a quel tempo militante dei PAC e oggi rubricato nella ricca biografia di Wikipedia come “ex terrorista e scrittore italiano”. Uno che, già, approfittando dell’omonimia fa ombra alla memoria di quell’altro Cesare Battisti, il patriota trentino che con ben altra fine fu eroe dell’indipendenza italiana.

    Tra gli amici di gioventù di Andrea Campagna, originario anch’egli del paese di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, c’è Salvatore Mongiardo, da cui ho raccolto il racconto di questa storia. Nel 2009 Mongiardo, emigrato anche lui a Milano, torna a Sant’Andrea e incontra Antonietta, la madre di Andrea Campagna. «Fu più forte di me, e mi misi a parlare di Andrea, della sua uccisione, di come lei, la madre, lo venne a sapere».

    Il perdono con le labbra, non con il cuore

    «Antonietta ricordava con estrema lucidità quel giorno terribile, e concluse: “Dicono che bisogna perdonare, ma io potrei dirlo solo con le labbra, ma non con il cuore, con il cuore no, mai”, e alzò ripetutamente la testa per sottolineare il diniego. Quando torno al cimitero del paese, rivedo la tomba e quella foto di Andrea e penso che il mondo va male perché governato da quelli che affamano i miseri e proteggono pure i delinquenti. Un mondo così, prima finisce meglio è», conclude amaro Salvatore Mongiardo, oggi uomo di successo, filantropo e filosofo pacifista ispirato dal pensiero pitagorico. Un punto di vista sul mondo che uno che sparava e uccideva per la Rivoluzione comunista come Battisti magari farebbe ancora in tempo ad apprezzare.

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    Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ)

    Caro Battisti se mai verrà un giorno da uomo libero a Sant’Andrea, in Calabria, stia certo che nessuno le rimprovererà nulla o le torcerà un capello. Potrà camminare tranquillo per le strade del paesino ionico spogliato dall’emigrazione. Magari le offriranno anche un bicchiere di vino di quelle campagne. E poi potrà andare a dare uno sguardo al piccolo cimitero del paese. Lì c’è la misera tomba di questo Andrea ammazzato da lei, Cesare Battisti, a 25 anni. Poi magari potrebbe passare anche da casa di sua madre, che se fosse viva, davanti a lei alzerà ancora una volta la testa, e ancora una volta, finché le resterà fiato, le chiederà perché, «perché, cosa ti aveva fatto mio figlio?», e le dirà ancora che per lei, dopo quello che le ha fatto, «perdonare è mai!».

    Cinque colpi alle spalle

    Altri lo hanno fatto, legittimamente, per dare pace e darsene, per chiudere finalmente quel capitolo della storia. Chi è morto però resta per sempre dalla parte dei vinti, dei sopraffatti dalla storia. Il perdono è un diritto, un dono, appunto, mai un dovere. Chissà che incontro sarebbe quello tra lei e quella vecchia donna che non ha mai sciolto il lutto del figlio morto ammazzato per le ragioni dei padroni e per una rivoluzione, la sua Battisti, che non c’è mai stata. Tra i vinti di questa terra disertata resta lui, Andrea, tornato qui da morto, ragazzo di Calabria che si era fatto poliziotto a Milano, ammazzato con 5 colpi di revolver dietro le spalle, a 25 anni.

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    L’agente Campagna, ricordano freddamente le cronache fu «ucciso al termine del suo turno di servizio, intorno alle 14 del 19 aprile 1979, in un agguato teso in via Modica, alla Barona», periferia operaia di Milano. Freddato «di fronte al portone dell’abitazione della sua fidanzata». Ad attenderlo c’era «un gruppo terroristico». A capeggiarlo era proprio Cesare Battisti, che eseguì personalmente la sentenza di morte.

    Campagna «fu raggiunto e colpito alle spalle, mentre si accingeva ad entrare in auto, da cinque colpi di rivoltella» che la stampa riferì essere quelli «di una 357 Magnum calibro 38 corazzato». La successiva rivendicazione dell’omicidio fu siglata dai Proletari Armati per il Comunismo (PAC), di cui Battisti era esponente di punta. Nella rivendicazione si parlò di Campagna come “torturatore di proletari”. In realtà il giovane agente calabrese svolgeva mansioni da autista presso la Digos di Milano.

    Fantasmi

    In questa storia dalla parte dei vinti, dei senza storia, resta lui Andrea Campagna. La stessa parte di quei padri e di quelle madri povere e diseredate di una Calabria contadina ormai estinta, costretta ma ancora dolente. La madre di Andrea, figura tragica piegata dal crepacuore, lei che sembra intravista, con intorno il suo piccolo mondo di affetti violato dalla sofferenza che si sconta da vivi, era già dentro quei versi di Pasolini del 1968: «la madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa, in terreni altrui, lottizzati».

    Chissà, magari trovasse un giorno un modo, con la voglia e il coraggio di venire fin quaggiù ad affrontare, lei, Battisti, gli occhi o il fantasma di quella donna, madre di una vittima povera, dimenticata e senza giustizia. Andrea Campagna, uno che non ha avuto la sua stessa fortuna, Battisti, questo è certo. Ci provi. Magari anche solo col pensiero, anche da dove si trova adesso, in quella cella del carcere di Parma dove sconta i suoi ergastoli. Lei che è uno scrittore. Provi a scrivere una storia così. Per venire a vedere tra le pagine, fin qui, di persona, lei, Battisti, che oggi non è libero, ma è famoso e scrive noir di successo come Travestito da uomo, pubblicato da Gallimard, che ha amici influenti nel bel mondo come Bernard-Henri Lévy, Fred Vargas, Pennac e Carla Bruni.

    Un perdono che non conta più

    Provi a immaginare che faccia ha la vecchia mamma calabrese di Andrea Campagna, il ragazzo di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, emigrato per fare il poliziotto (un mestiere da “servo di quello Stato”, che da “comunista armato” lei voleva sovvertire, e ai cui codici e leggi adesso si appella a sua personale tutela), per morire un giorno ammazzato da lei. Tu Battisti, come quegli altri, «eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici».
    Furono pallottole e non fiori per Andrea, e gli occhi di quella madre continuano a piangerlo, per sempre. Quegli occhi velati da un dolore che non passa, le ricorderebbero Battisti che si vive o si muore sempre per un sì o per un no. E quel no per Andrea lo ha detto lei.

    Lei, Battisti, credo, se la vedrebbe ogni giorno davanti agli occhi, quella vecchia madre, mentre alza la testa per negargli il perdono (che lei neanche le ha mai chiesto); con il cuore che diceva no per il poco di tempo che le restava da vivere, e quel no era tutto quello le restava da dire. E così anche dopo. Finché il silenzio non si porterà nel buio del tempo anche quel suo ultimo, inutile e irrimediato diniego di madre. Un perdono che tanto ormai, se pure ci fosse, non conta più niente.

  • Perché Sanremo è… San Lucido

    Perché Sanremo è… San Lucido

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    Il Festival di Sanremo sta per iniziare, si sa, e interrogarsi su cosa significhi per questo nostro paese la sua puntuale, amplificatissima e superimposta celebrazione, nella disputa canonica tra elitarismo di massa e disprezzo intellettualistico per il pop, nella liturgica lotta tra apocalittici e integrati della canzonetta, è diventato oramai pericoloso come affrontare un dogma di fede, un tabù, un totem da scomunicare o idolatrare senza discussione.

    Festival per tutti (e tutto)

    Certo è che il Festival per antonomasia, quello di Sanremo, da settant’anni a questa parte è diventato il modello di spettacolo popolare che questo paese si è costruito per significare la categoria di un «evento di spettacolo popolare che ha luogo periodicamente in determinate località, con rappresentazioni di particolare rilievo e con programmi aventi di solito un loro carattere costante» (Treccani). La logica dell’evento, la festivalizzazione, ha colpito nel frattempo in ogni settore. Ormai un festival incombe per ogni cosa, dalla letteratura alla filosofia, dal porno all’edilizia, dalla cucina bio ai materiali high-tech. Un carattere di crescente enfatizzazione spettacolare e di ripetitività che, a partire dall’originale, ha generato sin dalle prime edizioni sanremesi anche curiose imitazioni e stravaganti repliche locali. Anche con sviluppi istituzionali.

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    La storica sede del Festival di Sanremo

    La Regione Calabria, per esempio, alcuni fa nella rincorsa ai “grandi eventi” spettacolar-turistico-culturali da celebrare in regione, si inventò un bando pubblico intitolato non a caso “Calabria Terra di Festival”. Ma anche uno dei primi tentativi di clonazione della rassegna canora sanremese, incredibilmente, prese in passato le mosse proprio in Calabria. E per similitudine con l’evento originario, proprio in un piccolo centro rivierasco del Tirreno cosentino, solo qualche anno dopo la celebrazione dal primo Sanremo canzonettistico.

    Il Lucival: San Lucido come Sanremo

    Accadeva a San Lucido negli anni ’50 del Novecento. Il festival appena gemmato sulle sponde calabre, magra e provinciale imitazione del primo, non poteva fare a meno di echeggiarne almeno la desinenza. E fu così che si chiamò Lucival. Dato che “sentirsi Sanremo”, sognare le luci della ribalta canora con contorno di personaggi noti ed esibizioni di arti varie, con musiche, balli e luminarie – potenza primordiale dei primi organismi staminali dell’odierna società dello spettacolo – pare sia stata la molla di un’aspirazione agonistica per uscire dal grigio anonimato locale della vita di provincia, quando quella Calabria del secondo dopoguerra ancora neanche intravedeva il boom.

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    1954, un’esibizione durante la prima edizione del Lucival

    La prima edizione del Lucival, «grande evento locale» celebrato nella “perla del Tirreno” calabrese, è datata 1954. Per chi ne divenne artefice «era il momento giusto per inventarsi qualcosa di simile» a Sanremo anche in un paesino di mare della lontana Calabria tirrenica, che dall’altro capo dell’Italia sognava di uscire con la musica, le canzoni e i cantanti dalle ombre lunghe della guerra. Alcuni giovani del luogo «al passo con i tempi capiscono che qualcosa sta cambiando nel mondo dello spettacolo». E così pensano bene di organizzare a casa loro “una kermesse canora-culturale, alla quale danno il nome di Lucival – abbreviazione originale di Festival San Lucidano”.

    Nilla Pizzi in Calabria

    Il Festival di Sanremo era iniziato appena qualche anno prima, nel 1951, quando le canzoni si potevano ascoltare solo alla radio, dato che la televisione non c’era ancora. Il 1954, l’anno del primo Lucival, fu pure l’anno di un avvenimento che cambio la vita dell’Italia popolare: il 3 gennaio la RAI, radiotelevisione italiana, aveva avviato la trasmissione dei primi programmi televisivi in bianco e nero. Nel 1951 il Festival di Sanremo lo vinse l’allora giovanissima Nilla Pizzi, che aveva spopolato con Grazie dei fiori, considerata all’epoca, con Papaveri e papere una sorta di manifesto in musica dell’Italietta di buoni sentimenti post bellica prudentemente guidata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi.

    https://www.youtube.com/watch?v=4fuyGhGZOlA

    Proprio la Pizzi, «con la sua voce melodiosa e la sua avvenente presenza», diventata personaggio familiare con il successo radiofonico del primo Sanremo, fu “ospite d’onore negli anni successivi proprio a San Lucido, conquistando tutti con le sue esibizioni canore”.
    C’era chi intravedeva anche in Calabria in quelle presenze musicali amplificate dalla crescente risonanza del festival ligure, «l’avvento di un periodo di ottimismo, di incredibili trasformazioni sociali e di crescente entusiasmo culturale». Furono dei sognatori da pro-loco e filodrammatica di paese e far nascere il Lucival nel 1954. Ingenuità culturale e illusioni visionarie fecero il resto.

    I premi per i bambini

    «Il Lucival sanlucidano aveva l’impronta di una manifestazione di arte e di cultura varia che ambiva a valicare i confini locali per raggiungere tutta la Calabria; infatti, scrittori, poeti, giornalisti e artisti di varie specialità potevano concorrere per premi quali Il Giornale d’Italia e La Calabria Letteraria». Un mix popolare di musica, cantanti e buoni sentimenti, dato che «la manifestazione era organizzata a scopo benefico, tant’è che gli stessi vincitori devolvevano i premi in denaro a favore dei bambini poveri della scuola».

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    1966, un bambino sul palco del Lucival

    Il Lucival non era infatti destinato solo ad una platea «di artisti locali e ad un pubblico di adulti», “ma si rivolgeva anche ai più piccini, con concorsi a premi come La Palestra dei Piccoli, L’Ugola d’Oro, Lo Zibaldone». Di fronte a queste auliche e ingenue dichiarazioni artistiche impossibile non provare sfogliando il folto album ingiallito del festivalino sanlucidano, una sorta di Amarcord per un mondo di sentimenti, emozioni e personaggi paesani ormai trapassato.

    L’inventore del Lucival e l’inno cittadino

    L’idea della manifestazione canora sanlucidana «era maturata grazie alla passione di un insegnante di musica», Giovanni Ciorlia,. Per anni fu animatore e «direttore artistico del festival sanlucidano» (ma anche primo presidente della Pro Loco e a lungo assessore comunale ed esponente della DC locale). Al suo fianco, il «Prof. Dalmazio Chiappetta, il Prof. Antonio Calomino, Sindaco di San Lucido, e il Prof. Giacomoantonio Napolitano (direttore didattico)». L’orchestra Primavera diretta dal maestro Franco Perri e il quartetto Aurora, diretto da Davide Iorio, costituivano, invece, il supporto orchestrale del festival, «il cuore pulsante dell’evento». Dopo aver «trionfato nell’edizione del Lucival del 1955», la canzone A ritmo di beguine, Notte Sanlucidana, «scritta dal maestro Clemente Selvaggio e musicata dal maestro Matteo Puzzello», composta e cantata in quell’occasione, “è divenuta nel tempo l’inno musicale della cittadina”.

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    Giovanni Ciorlia sul palco del Lucival insieme all’Orchestra Fenati

    Il Lucival fu così nel giro di qualche anno un vero happening indigeno, un «evento musicale di grande richiamo» locale che raccolse nelle sue serate al clou del successo «un pubblico pagante» che, sostengono le cronache, giunse «fino a 7.000 persone». Il Lucival fu ripetuto con successo in diverse edizioni, ma senza mai valicare «i confini della provincia».
    Si teneva in estate in uno spazio all’aperto, e tutto durò sino allo scoccare del fatidico 1968. Poi, cambiati i tempi, la musica e le mode, solo qualche replica minore e grandi nostalgie attestate da reduci e gruppi facebook locali, che oggi del “mitico Lucival” sanlucidano conservano a futura memoria reliquie e icone del bel tempo che fu.

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    Magari non come a Sanremo, ma anche gli spettatori del Lucival a San Lucido erano numerosi

    San Lucido (quasi) come Sanremo: i big del Lucival

    Si ricorda così qualche memorabile comparsata di alcuni volti noti del bel mondo dello spettacolo nazionale. Quella dell’attrice Sandra Milo o, nel 1968, quella di «Nuccio Costa, mattatore dell’ultimo Cantagiro». Persino un memorabile passaggio di Enzo Tortora, che “accolto calorosamente” presentò il Lucival del 1967. Poi una galleria minore di artisti di passo a cui arrise in quel periodo anche una qualche sporadica notorietà. Qualche esempio? La cantante Anna Identici e il più classico Achille Togliani. O, ancora, «Franco Tozzi e il suo complesso», che al Lucival del 1968 cantò I tuoi occhi verdi, unica hit che si ricordi di colui che altri non è che il fratello del più noto e fortunato Umberto Tozzi.

    Insieme a questi, una carrellata di dilettanti locali calcarono il palco delle “voci nuove” del Lucival restando per sempre “promesse locali”. Come “il complesso The Seamen”, o «l’orchestrina sanlucidana degli Aurora». Ma resta, forse unica impronta di vite e carriere artistiche avvolte nel buio della dimenticanza, una folta processione di illustri carneade e di figurine appena tangenti quel mondo fatuo e fatato «della Rai-TV». Epifanie forestiere in mezzo a quelle calde estati di fervore paesano di cui non resta altra traccia che queste fugaci apparizioni artistiche sanlucidane da rotonda sul mare. Evocazioni di nome d’arte quasi circensi e di silhouette teneramente fellinane, fantasmi del palcoscenico rimasti malinconicamente ai margini delle luci della grande spettacolo.

    Fantasisti, imitatori e ragazzi di strada

    Un appello a cui rispondono nomi da leggenda strapaesana come «il cantante Franco Giangallo», «gli illusionisti del duo Naldys», «la cantante Niky», «l’attrice Nuri Neva», «Rino, il ragazzo di strada», «la cantante della Rai-TV Myriam del Mare», seguita in altre edizioni dalle «applaudite apparizioni delle cantanti Rita Monaco, Germana Caroli, Anna Maria Maresca, Valeria Foroni». Con un contorno fiorito di interpreti e artisti di arti varie, come il «celebre Maestro direttore d’orchestra Giovanni Fenati», «il magnifico trombettista Tony Spada», o «il grande fantasista Riccardo Vitali».
    Al cast nostrano dei Lucival di quei tempi non poteva mancare una specie di Noschese dei poveri, il mai più rivisto Mario Di Giglio. Era lui «il bravo imitatore» cui spettava l’arduo compito, in mancanza dei più noti e blasonati personaggi originali, di portare al Lucival tutte «le altre voci delle celebrità mancanti».
    Erano pur sempre luci del palcoscenico, Lucival della ribalta.

    Le immagini a corredo dell’articolo sono state raccolte negli anni dalle pagine FB “Giovanni Ciorlia – Un pezzo della nostra storia”; C’era una volta Santu Lucidu”; “Tavernetta letteraria”