Autore: Matteo Dalena e Lorenzo Coscarella

  • BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    Per i viaggiatori che giungevano a Cosenza in treno via Sibari, l’accoglienza nella città dei bruzi non era delle più rosee. Ragazzacci di strada prendevano d’assalto l’ingresso principale della stazione proponendosi ai forestieri come facchini oppure offrendo accoglienza in alberghi, pensioni, locande e osterie. «È uno sconcio» scriveva nel 1896 un indignato redattore della Cronaca di Calabria dopo aver assistito a quel «pigia-pigia indiavolato ed i poveri viaggiatori spesso sballottati tra la ressa di tanti ragazzacci».

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    La stazione di Cosenza a inizio ‘900

    Tra «mmuttuni» e «male parole» ciascun giovinastro avrebbe “puntato” il proprio forestiero e conducendolo alla carrozzella libera gli avrebbe spillato qualche quattrino che si sarebbe bevuto nel giro di pochi minuti nelle fetide cantine di Santa Lucia. La carrozzella avrebbe cominciato allora la sua lenta ascesa su corso Telesio verso piazza Prefettura, dove sorgeva l’unico albergo della città degno di tale nome.

    Don Ciccio Lupoli, lo chef che sfidò i big

    C’era poco da fare: commercianti, uomini d’affari, artisti e soubrettes avrebbero soggiornato all’Albergo Vetere, a un tiro di schioppo dalla Villa Comunale. Ai primi del ‘900 era gestito da Francesco Lupoli, per tutti “Ciccio”, chef dell’annessa trattoria “Zumpo”. Oltre a preparare un sontuoso capretto al forno, Lupoli era rinomato per la torta di mandorle servita nell’ampio salone che si popolava di professionisti, gente di spettacolo e politici. Lo stesso Lupoli tentò la candidatura “autonoma e di protesta” alle elezioni amministrative del 1895 rispetto ai candidati del Partito socialista ufficiale. Si arrivò a dire che i 47 voti allo chef – “tolti” secondo alcuni ai due “big” Pasquale Rossi e Nicola Serra – furono dovuti alle laute pietanze somministrate e recensite sulla stampa locale.

    L’Albergo Vetere e il teatro Rendano in piazza Prefettura

    Tra i fan più accesi di Lupoli c’erano i redattori della Cronaca di Calabria. Nel 1911 il giornale diretto da Luigi Caputo scrisse che commercianti e professionisti si sentirono di offrire al loro chef «un pranzo per il modo signorile col quale erano trattati: un pranzo a chi aveva il merito di preparare ottimi pranzi». Nonostante la mancanza di un ascensore/montacarichi e di bagno, telefono e riscaldamento nelle camere private, l’albergo ai piedi di colle Vetere con le sue camere «ricche di sole e aria sana» era il meglio che si potesse trovare a Cosenza tra ‘800 e ‘900. Divenne persino un ricovero per famiglie sfollate durante la Seconda guerra mondiale. Fu infine demolito nella seconda metà degli anni ’60 per far posto al nuovo Liceo “Telesio”.

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    Pubblicità dell’Albergo e Ristorante Vetere su un numero della Cronaca di Calabria di fine ‘800

    Brutti, sporchi e cattivi

    «Albergo buono anche se primitivo» scriveva del Vetere la storica dell’arte statunitense Mary Berenson nel suo diario di viaggio In Calabria (1908). Avrebbe dovuto soggiornarvi pure lo scrittore inglese George Gissing che in Sulla riva dello Ionio (1897) lo giudicò «veramente un albergo decente». Tuttavia non trovò posto. La guida Baedecker lo condusse allora all’Albergo Leonetti su Corso Telesio (erroneamente tradotto “I due lionetti”), un vero e proprio dramma per lo scrittore britannico: «Una terribile buca aperta e sporca al di là di qualsiasi cosa io mi sia giammai imbattuto». Il “puzzo” avvertito dall’ospite era forse dovuto alla trattoria gestita da don Ciccio Altalena, specializzata in fritti e arrosti.

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    Cosentini in piazza Piccola, su corso Telesio: poco più giù, l’Albergo Bologna

    Sognò il Vetere anche il giovane aristocratico austriaco Friedrich Werner van Oestéren che giunse a Cosenza una sera di primavera del 1908 intenzionato a riposare, quando gli si fece incontro un cameriere: «Mi accolse con la domanda se fossi io il signore che ha prenotato una stanza». La tentazione del disfatto viandante fu enorme: «Se non fossi stato per principio contrario alle bugie oggi ne avrei detta una e avrei risposto affermativamente. Non appena risposi secondo verità mi mandarono indietro per mancanza di stanze».

    La solita guida spinse l’avventuroso austriaco in una “locanda di terz’ordine”, l’Albergo Falcone (in seguito Albergo Bologna): «Oh Dio Cane! – esclamò il viaggiatore – la camera nella quale mi condussero aveva un aspetto orribile […] pur con un senso di raccapriccio e paura rimasi in quel buco privo d’aria, sporco, maleodorante e con un’illuminazione elettrica ridicola». Nelle prime ore del mattino van Oestéren se ne tornò al Vetere dove nel frattempo si era liberata una camera e «dormii alla grande fino a mezzogiorno».

    Tavernari di Cosenza

    Più che alberghi il Falcone, il De Felice, il Gonzales e il Giglio d’Oro erano locande modeste o malfamate, con pareti nere e umide, odore di muffa, aria malsana, stanze buie e prive di suppellettili. Ce n’erano diverse anche tra piazza S. Giovanni, nei vicoli di piazza San Domenico e in via Sertorio Quattromani, frequentate da lavoratori dalle mani callose e, in generale, gente senza troppe pretese.
    Piccole cantine e osterie popolavano i quartieri popolari della città. Massa, Garruba, Rivocati, Santa Lucia, Spirito Santo, ma anche la parte alta, ne ospitavano diverse. A differenza degli alberghi, visitati da ospiti illustri di passaggio, le cantine e le osterie hanno lasciato traccia soprattutto negli atti dei processi per i reati di cui furono teatro.

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    Cantina Mazzei a Motta di Rovito. Foto dal gruppo Fb “”Calabria di una volta

    Nelle cronache delle rivolte cosentine del 15 marzo 1844, ad esempio, si legge di come alcune taverne funsero da punti di raccolta per i rivoltosi in attesa di entrare all’opera. Nella Taverna di Stocchi, per esempio, posta nel territorio rendese lungo la strada maestra che da Nord portava a Cosenza, si diedero appuntamento i ribelli provenienti dai paesi arbëreshë.
    «Un’ora prima dell’alba bussarono alla taverna vicino Emoli pria del signor Stocchi di Cosenza, ora di Spizzirri di Marano Marchesato e bevvero del vino; indi si avviarono per la volta di Cosenza, e sul ponte d’Emoli spararono dei razzi da fuoco […] e ciò per segnale da darsi a Cosentini» scrive lo studioso Stanislao De Chiara.

    La figura dell’oste, costantemente attorniato da avvinazzati, tipi loschi, prostitute e tagliagole, era guardata con sommo rispetto. Lo spiega con il consueto tono canzonatorio l’apriglianese Domenico Piro, alias Duonnu Pantu, che nei suoi versi dissacranti ebbe a dire che avrebbe preferito fare il macellaio o il taverniere al letterato: «E si campu n’autru annu, e si nun muoru, o chianchieri me fazzu, o tavernaru!».

    Dodici al litro: la cantina ‘i Bifarelli

    Le cantine avevano le caratteristiche più disparate. Negli edifici erano poste in genere al livello della strada, spesso illuminate da poca luce e riscaldate da un camino. Botti, damigiane, tavoli traballanti ai quali ci si sedeva con sedie e sgabelli in attesa di gustare il vino locale nei classici bicchieri in vetro “da 12 al litro”, accompagnato da qualche tarallo e poco altro. Più in là con tempo sarebbe arrivata anche qualche gazzosa, prodotta magari da varie piccole industrie locali, ma questa è un’altra storia.

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    Si beve vino e si gioca a carte in una vecchia cantina di Cosenza (foto Mario Zafferano)

    A Cosenza è diventata proverbiale la cantina ‘i Bifarella (o Bifarelli secondo altri), che dalla vita reale di meno di un secolo fa è assurta alla mitologia cittadina divenendo un luogo tra il reale e il fantastico, posto nel quartiere dei Rivocati, ma anche alla Massa, a Santa Lucia. Insomma, ognuno ricorda che fosse un po’ ovunque. Il vino annacquato e le risse all’ordine del giorno l’hanno fatta diventare l’emblema del luogo caotico e popolare, frequentato da perdigiorno e dispensatori di “vino di cartella”, come soleva chiamarsi il vino adulterato con polveri varie. Magari nella realtà vi si poteva assaggiare del buon vino, chissà. Del resto il vino, comunque fosse, era un prodotto di largo consumo e gli si attribuivano anche virtù benefiche. Per restare nella cultura popolare: «Pìnnuli ‘e cucina e scirùppu de cantìna su la mèglia medicìna».

    Vino e follia nelle cantine di Cosenza

    Abitudinari delle malfamate cantine della Cosenza di fine ‘800 erano “Giacchino” e “Balletta”, due avvinazzati ben noti alle guardie di pubblica sicurezza. In perenne stato di «ubriachezza ripugnante e molesta» a tutte le ore del giorno e della notte i due, tremolanti e seminudi, si esibivano «nelle più loide espressioni, le più schifose invettive, le più triviali espressioni» che i più giovani ascoltavano e commentavano per ore. Nelle cantine di via Fontana Nuova, come quella gestita dall’oste Angelo Reda, nel 1895 si giocava a primiera. Una notte di primavera fecero irruzione le guardie che bloccati i giovani biscazzieri e sequestrate le carte «dichiararono in contraddizione il cantiniere che permetteva quel gioco, proibito dalla legge» si legge sulla Cronaca di Calabria.

    Carabinieri a Cosenza all’inizio del secolo scorso in quella che oggi è piazza dei Bruzi

    A sera i muratori della Massa e gli operai degli opifici di contrada Castagna si abbandonavano in una miriade di luoghi improvvisati di mescite illegali, oppure vere e proprie cantine aperte e poi chiuse nel volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Qui si somministrava vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcol, tagliato da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre al taglio discutibile, la vendita o la mescita a prezzo superiore a quello imposto dal calmiere era il tipo più diffuso di speculazione legata al vino.

    Dal bicchiere alle lame

    Per chi gradiva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde sotto sale, più raramente uova o frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Si giocava d’azzardo, si discuteva di donne e armi, e dagli apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era breve. Si girava armati di coltello a manico fisso o a molla, da far scattare alla bisogna. L’ubriachezza nelle sue varie forme – continua, manifesta o molesta – era spesso associata come aggravante o al contrario attenuante nei procedimenti penali per rissa, ferimento o mancato omicidio. Le guardie di pubblica sicurezza presidiavano gli avventori delle osterie da lontano, poi seguivano come ombre i giovani avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere in una città ebbra di vino e follia.

  • BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    Nel dicembre del 1906, dopo un un’estate e un autunno inclementi di pioggia, una spaventosa tempesta di grandine provocò le ire del fiume Crati che si abbatté sulle tane dei cosentini. Ma, ieri come oggi, la natura è responsabile solo in parte della furia distruttiva. Già dalla fine dell’Ottocento, infatti, una vera e propria “febbre edilizia”, con abitazioni tirate senza alcun criterio estetico ed edilizio affiancate a eleganti palazzotti, aveva gonfiato a dismisura i quartieri bassi della città di Cosenza.

    L’epopea di Mancuso e Ferro

    Alla “Castagna” aveva sede l’opificio Luigi Mancuso e C. (poi “Ditta Mancuso e Ferro”) che con i suoi innumerevoli manufatti in cemento contribuì per decenni alla grande espansione della città verso Nord. E fu anche uno dei siti maggiormente danneggiati dalla tempesta del 1906. Insieme al Tannino, collocato sulla sponda opposta del Crati, la fabbrica di laterizi che aveva aperto i battenti nel 1903 contribuì a dare alla città di Cosenza un primo germe di sviluppo industriale.

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    Un campionario di cementine che si producevano alla Mancuso e Ferro

    Cementine

    Più di mezzo secolo dopo, alla fine di novembre del 1959, la furia degli elementi si abbatté sulla fabbrica. Le acque raggiunsero i due metri di altezza, inghiottendo materiali e attrezzature – si apprende dalla documentazione del Genio Civile. All’epoca la Mancuso e Ferro era la fabbrica più importante della città, dava lavoro a circa 150 operai e da soli tre anni aveva aperto dei saloni di rappresentanza in piazza Fera. In poco più di mezzo secolo di vita i suoi manufatti in cemento erano apprezzati soprattutto fuori regione, oltre a ornare gli edifici borghesi della città dei bruzi. Il fiore all’occhiello del campionario era rappresentato dalle cosiddette “cementine” in pasta colorata, dette anche “pastine”. Si trattava di mattonelle dai motivi delicati ed eleganti utilizzate anche oltre gli anni ’30 del Novecento in sostituzione dei vetusti pavimenti in argilla pressata.

    Fabbrica, amianto e musei mancati

    Delle pregevoli cementine della Mancuso&Ferro dai motivi geometrici o floreali restano solo alcuni esemplari che ornano il muro di cinta del vecchio stabilimento alla Castagna. Beffarda memoria di un’eccellenza che fu. Nonostante da alcuni anni siano stati rimosse le tettoie in amianto, causa di patologie tumorali per gli abitanti di via Carducci e dintorni, la vecchia fabbrica-zombie è ormai l’ombra di se stessa. «In questo quartiere in passato trascurato, e in particolare sul sito dove sorge l’ex fabbrica, il Comune ha in programma di realizzare il Museo di arte contemporanea nell’ambito di un percorso culturale che inizia dal Museo all’Aperto Bilotti e termina proprio nella città antica» scriveva nell’aprile del 2015 l’Ufficio del portavoce dell’allora sindaco Mario Occhiuto. Una reinterpretazione visionaria rimasta carta morta per un glorioso reperto di archeologia industriale che (forse) è più facile dimenticare che recuperare.

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    Il rendering del museo che aveva in mente Occhiuto sul sito della Mancuso&Ferro

    La ciminiera e il pompiere

    Tra le prime fotografie pubblicate dai giornali calabresi troviamo, nel 1905 sulla prima pagina della Cronaca di Calabria, quella della grande ciminiera della fabbrica di laterizi “Aletti” a Rende. Il terremoto dell’8 settembre di quell’anno aveva provocato ingenti danni alla struttura. La ciminiera doveva essere demolita, ma nessuno ovviamente aveva intenzione di arrampicarsi fino all’altezza di 45 metri. «Si era in sul forse se demolirlo a colpi di cannone – scrive il periodico cosentino – o se far venire da Bologna un’apposita scala per raggiungere l’altezza del fumajuolo», quando un coraggioso alla fine spuntò fuori: il caporale dei pompieri Estro Menabue.

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    La ciminiera Aletti sulla Domenica del Corriere del 26-10-1905

    Il bolognese Menabue, insieme al tenente Barattini e al pompiere Finelli che rimasero sulla tettoia, si arrampicò per iniziare il lavoro e riuscì, dopo sei ore, a demolirne una parte consistente. Le foto dell’evento rimbalzarono sugli organi di informazione, passando dalla Cronaca di Calabria ai giornali nazionali. Perfino sul diffusissimo La Domenica del Corriere si diede spazio all’evento con tanto di foto della ciminiera ancora intera, compreso il pompiere arrampicato in lontananza, e foto della ciminiera ormai dimezzata.

    Imprenditori del Nord

    La fabbrica di laterizi della famiglia Aletti rappresentò una realtà industriale di importanza notevole per il territorio, sia per la portata della produzione e per la mole dello stabilimento, sia perché la famiglia non si limitò alla produzione di mattoni ma estese la sua azione in molti settori, dalle ferrovie alle piccole miniere, dalle segherie agli impianti idroelettrici. Ne ricostruisce le vicende, attraverso i fondi superstiti dell’archivio della famiglia, una pubblicazione edita nel 1989 da Editoriale Progetto 2000 e curata da Roberto Guarasci e Silvia Carrera. Uno spaccato interessantissimo della vita economica calabrese tra fine ‘800 e inizi ‘900, quando questa famiglia di imprenditori giunti dal Nord, da Varese per la precisione, incrociò la propria storia con quella di molti “simboli del progresso” di una Calabria che con un po’ di ritardo si affacciava nell’età contemporanea.

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    La fabbrica di Laterizi ‘Aletti’ di Rende alcuni anni fa

    L’acquedotto dello Zumbo, ad esempio, quello del Merone, e soprattutto vari tronchi ferroviari tra cui la tratta Cosenza-Pietrafitta, e ancora ponti, strade, palazzi. In molte di queste opere si possono ancora vedere grandi porzioni realizzate proprio con i mattoni prodotti nella mattoneria di Rende e marchiati con il caratteristico simbolo della “A” stilizzata in un triangolo inscritto in un cerchio. A Rende, nella zona di Surdo, la presenza della fabbrica di laterizi fu una svolta. Lavoro sul posto e materiale a portata di mano possono spiegare il gran numero di edifici a mattoni a faccia vista che sorsero nella zona attorno alla vasta fabbrica, caratterizzando quella porzione del territorio di Rende. Nel 1906 gli Aletti costituirono una società per aprire una nuova fabbrica a Trebisacce, sullo Ionio, un’altra realtà vivace in cui la fabbrica Aletti impiegò un gran numero di operai.

    I mattoni rendesi

    Rende, in verità, ha una “storia di mattoni” molto più antica, che getta le radici nella presenza di argilla utilizzabile per la realizzazione di diversi manufatti in terracotta. Gli oggetti da cucina in terracotta, “terraglie”, erano da secoli una delle produzioni tipiche della zona, evolutisi poi nella produzione su più larga scala di laterizi tanto che a metà Ottocento, come scrive Giovanni Sole, vi operavano ben sette fabbriche di vasi, tegole e mattoni che impiegavano sessanta dipendenti, tra cui ventuno donne. Si trattava comunque di opifici artigianali e a conduzione familiare e per trovare esempi di dimensione più “industriale” ci volle il nuovo secolo, quando oltre a quella di Aletti operavano anche le fabbriche di laterizi Magdalone e Zagarese.

    Dodici ore di lavoro al giorno

    Nella metà dell’Ottocento quella dei laterizi era, comunque, una delle industrie più importanti della Calabria Citra, con opifici sparsi oltre che a Rende anche a Fiumefreddo, Lago, Longobardi, Carolei, Roggiano, Paola e Cosenza. Il lavoro era duro, le fornaci e le calcare richiedevano tanta fatica, sudore e legna da ardere. Le fabbriche di mattoni di Fiumefreddo, riporta ancora Sole, occupavano otto uomini e due donne per 12 ore al giorno, con una produzione di tegole e mattoni concentrata nei mesi estivi, quando si lavorava di continuo giorno e notte, mentre per gli altri oggetti di terracotta la produzione continuava tutto l’anno.

    Operai nella fabbrica di Trebisacce nel 1931 (foto tratta dal volume di Guarascio e Carreri, Editoriale Progetto 2000)

    Archeologia industriale

    I ruderi di molte di queste fabbriche sono ancora oggi i testimoni muti ma eloquenti di quell’epoca. Delle fabbriche rendesi i ruderi della Aletti, sulla strada che da Saporito va a Marano Marchesato, sono i più imponenti. Un complesso di archeologia industriale che riflette ancora la cura con cui venne realizzato, utilizzando quegli stessi mattoni che vi si producevano sia per le parti strutturali che per le parti decorative. Nel corso degli ultimi anni le proposte di riutilizzo sono state tante, perfino la creazione di un Museo della civiltà industriale, ma allo stato attuale tutto sembra ancora fermo.

    Migliore sorte è toccata allo stabilimento di Trebisacce, che conserva ancora l’alta ciminiera in mattoni, dove la ex fornace Aletti-Palermo è al centro di un consistente progetto di recupero. Molto altro è andato invece perduto irrimediabilmente sotto i moderni picconi dello sviluppo edilizio a tutti i costi. A Cosenza, ad esempio, la ciminiera e ciò che restava della Mattoneria Pupo, posta proprio accanto allo stadio San Vito-Marulla, è stato demolito intorno al 2010 per fare posto a moderni edifici. È il progresso, bellezza.

     

  • BOTTEGHE OSCURE | Calabria maiala: l’industria del “porchicidio”

    BOTTEGHE OSCURE | Calabria maiala: l’industria del “porchicidio”

    «Se doppo haver mangiato carne di porco bevissimo dell’acqua vi farebbe molto danno, ma bevutoci vino temperatamente, sarà buona, e salutevole». Il saggio consiglio di abbinare del buon vino alla carne di maiale per ridurne gli effetti dannosi per l’organismo viene da un astrologo e astronomo cosentino. A cavallo tra ‘500 e ‘600 il torzanese Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo – in cui si occupa sostanzialmente di firmamento, corpi celesti, calcoli pseudoscientifici e nozioni di storia – si premura di dare al lettore «alcuni buoni et utili avertimenti per conservarsi la salute et vivere lungo tempo sani». Non sappiamo quale beneficio per la salute ne abbiano tratto i lettori dell’Almanacco. È certo però che nei secoli passati la gente comune faceva incetta di carne di maiale, che rappresentava una vera e propria “conquista” e occasione festiva per molte famiglie.

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    Maiali neri di Calabria

    Vasci e detti

    L’allevamento del maiale era una delle voci che più contribuivano al sostentamento famigliare. Allevare maialini e poi macellarli, di gennaio in gennaio, significava avere la dispensa piena. Quella del “porco” era un’industria dal basso e le “botteghe oscure” erano in questo caso le stesse abitazioni. A parte le famiglie benestanti che potevano permettersi una stalla, generalmente nelle case il piano superiore era riservato alle persone mentre il piano inferiore a masserizie e animali. Ma a “sua maestà” il maiale veniva generalmente riservato un angolo a sé.

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    La ‘piertica’

    Le famiglie povere invece condividevano il “vascio” con le bestie, porco compreso. Il possesso di maiale rappresentava un vero e proprio spartiacque tra l’inedia e la sazietà, che significava benessere. A tal proposito un proverbio riportato da Luigi Accattatis nel suo vocabolario del dialetto calabrese recita che «amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, ca ‘e vide e li desiddera i sazizzi». Oppure un altro avverte che «chine se spùsa sta cuntientu nu jùarnu, chine s’ammazza lu pùorcu sta cuntìentu n’annu».

    I porci del marchese

    Nel 1770 il marchese ed economista Domenico Grimaldi diede alle stampe un Saggio di economia campestre di Calabria Ultra con l’obiettivo di diffondere quelle che oggi definiremmo con un termine abusato “buone pratiche” agricole. Grimaldi, che aveva delle proprietà in Calabria, era consapevole che «fra li maggiori capi d’industria della Calabria, quella d’ingrassare i Majali è una delle più considerabili». Ciò era dovuto al fatto che i suini erano soliti scorrazzare liberi nei boschi e cibarsi di ghiande che rendevano «la carne di questi animali più solida, e più sana, e più durabile dopo salata» rispetto a quella dei maiali nutriti a granturco e che dimoravano nei porcili. Ma se c’era una cosa che non gli andava a genio era il modo di produrre e commercializzare i salumi in Calabria.

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    De’ Majali. Dall’opera di Grimaldi del 1770

    Secondo il marchese non si usava «alcuna diligenza per scegliere la carne […] niuna regola prefissa per salarla e mettersi la giusta quantità di sale […] Di più i Calabresi ignorano la maniera di prosciugarli e unger di tempo in tempo i detti salami». Nonostante l’ottima qualità delle carni, i discutibili metodi di conservazione rendevano disponibile per l’esportazione una bassissima quota di prodotto. I calabresi avrebbero dovuto dunque imitare «il più ricco commercio che fanno i Bolognesi delle loro mortadelle» e incominciare a «estrarre salami dalla Calabria, che fossero gustati nell’Inghilterra, e in altre parti oltramontane, che il profitto farebbe certamente stropicciar gli occhi alli nazionali».

    Maiale al bando

    Nella seconda metà dell’Ottocento i maiali vagavano indisturbati per le vie di città e paesi. Erano una presenza costante nei più immondi tuguri, tanto da far scrivere al solito Vincenzo Padula che «il Calabrese nasce tra porci e porcelle». Nell’articolo L’ostracismo dei porci (Il Bruzio, Cosenza 4 Maggio 1864) il sacerdote-giornalista si spinge in «quei bugigattoli, dove stivate, pigiate e affumicate albergano le famiglie del popolo». Poco oltre quel «fetido pagliericcio, che chiamasi letto, un truogo [trogolo, mangiatoia dei maiali, nda], e presso al truogo un porco».

    Una Calabria non troppo antica dove il maiale viveva in famiglia (foto pagina Facebook Calabria Ieri)

    Padula non manca di sottolineare la stretta simbiosi tra esseri umani e rosee ma talvolta pezzate creature, giacché «il porco in Calabria dorme sotto il letto, scorrazza per le vie, si conduce a passeggiare per le piazze, spinge il grifo [naso grosso] nei caffè, si ferma innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli buttano i bevitori, e quando bene gli pare entra in chiesa a sentire la predica». Tutto ciò suscitava le sdegnose proteste di quei pochi privilegiati e dei sindaci «dai calzoni di segovia e dagli stivaletti di vitellino incerato» che in nome della civiltà e dell’igiene chiedevano «di mettere i porci cittadini al bando».

    Pentolini di creta

    Tra il serio e il faceto Padula spiega come all’improvviso «i porci si posero sotto il patrocinio di S. Antonio». In effetti Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici, è spesso raffigurato con un maialetto al suo fianco. Padula annota come in Calabria i frati Cappuccini e Riformati – francescani come Sant’Antonio di Padova – abbiano attribuito a quest’ultimo la protezione dei maiali ma solo per un fatto di omonimia con l’altro santo Antonio.

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    Rende (CS), chiesa di S. Antonio Abate. Il santo con il maialino

    Questo garbuglio di santi e maiali serve a Padula a introdurre un uso devozionale, praticato in alcuni paesi della Calabria fino pochi decenni or sono e legato al suino. «Appressandosi la stagione del porcocidio» i frati andavano di uscio in uscio e lasciavano dinanzi a ciascuno cinque pentolini di creta. Nel trovarli, spiega Padula, «la donna calabrese li bacia per devozione». Dopo una quindicina di giorni un fraticello sarebbe passato a raccoglierne uno solo ma pieno di strutto, un “ben di Dio” che si ricava dalle parti grasse dell’animale.

    Maiale, unica industria

    Padula tuona però contro sindaci, agenti di pubblica sicurezza e paladini della nettezza urbana: in Calabria «togliere la cittadinanza ai porci non si può». Il sacerdote dalla penna affilata adduce tre ragioni a sostegno della sua affermazione. La prima: «Dei nostri cento paesi, novantasette non hanno macelli, né beccai; e se gli hanno, il villano è sì povero che deve rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un po’ di carne fresca». La seconda: «Tra noi l’uomo del popolo, a rompersi tutto il dì l’arco della schiena, è molto se guadagna una lira e la sua donna 25 centesimi».

    Dinanzi a siffatta «spaventevole miseria, effetto di mancanza di lavoro e di arti» a quei disgraziati non rimane altra industria che «allevare un porco» e godere dei suoi frutti. La terza motivazione a sostegno dei suini è pratica: «Lungi dal creare immondezze, le distruggono». In breve: finché in ogni paese non verrà costruito un sistema fognario in pietra, per Padula non cesserà «la necessità delle fogne vive che sono i porci».

    Pubblico mattatoio

    A Cosenza nel 1859 l’aria era poco salubre anche per via della pratica della macellazione delle bestie, maiale incluso. A tal proposito Ferdinando Scaglione annota che «l’abuso generale de’ macellai di sgozzare e di scorticare quasi entro l’abitato gli animali vaccini, pecorini e porcini, riempendo ogni luogo di sporcizia e d’impurità». Bisognava dunque «impedire ogni sorta di putrefazione, sola cagione di miasmi e di febbri tifoidee» e ci si pose il problema della creazione di un pubblico mattatoio cittadino. Tuttavia, ancora nel 1870 il medico Domenico Conti scriveva che «per mancanza di adatto macello sgozzansi gli animali nell’abitato buttandosene gli escrementi o nelle strade o ne’ fiumi Crati e Busento».

    Grastaturi e daziari

    Era colui che interveniva con la sua arte per castrare il maiale. Si riteneva che la procedura favorisse la crescita dell’animale e evitasse alcuni inconvenienti che potevano inficiare la qualità delle carni. Chiamato all’occorrenza, il grastature giungeva nella “zimma” con la sua cassettina di legno contenente gli attrezzi del mestiere, quasi una valigetta da chirurgo viste le mansioni veterinarie che era invitato a svolgere. Attraverso delle piccole lame affilatissime interveniva incidendo, dopo una sommaria pulitura della parte interessata, e quindi, con un altro arnese, castrando il malcapitato maiale. Si trattava di competenze chirurgiche molto rudimentali ma non alla portata di tutti, acquisite non con lo studio ma con la pratica, spesso passata di padre in figlio.

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    Lo ‘scannaturu’ (foto Lorenzo Coscarella)

    Se il grastature godeva del rispetto delle famiglie allevatrici, al contrario l’agente del dazio, chiamato a riscuotere una tassa per ogni animale macellato, si accattivava tutti gli odi. I “porchicidi” non denunciati erano passibili di multe che rappresentavano per le famiglie un danno economico. In breve, l’agente daziario era il guastatore della festa e in molti cercavano di eludere i controlli. C’era chi sottoposto a indagine dichiarò di trasportare due mezzi maiali quando, in realtà, ciascuna metà era dotata di coda e dunque i maiali dovevano essere almeno due. La multa fu inevitabile e salata.

    Cosenza caput… puarci

    Le statistiche circa “l’industria del porco” nella provincia di Cosenza tra ‘800 e ‘900 dimostrano quanto questa fosse diffusa e popolare. Accattatis scrive infatti che solo la città capoluogo «coi suoi mercati settimanali provvede di carne suina anche le altre Calabrie». Il prodotto medio annuale dell’intera provincia era di 249 mila animali. Questi consumavano 100 mila ettolitri di ghiande e 150 mila di castagne. Circa 40mila maiali venivano consumati nella provincia, di cui 4.000 nella sola Cosenza ricavandone prosciutti, costa, gelatina, sanguinaccio, frittule, gambone, soppressata, salsicce, capocollo, lardo, frisuli, grasso. Un maiale tra i 30 e i 90 kg poteva costare tra le 34 e le 100 lire in base al peso.

    Nel comune di Cosenza nel 1908 erano stati macellati 4098 maiali, per un totale di circa 165mila kg di carne suina (a peso morto). I capi di suino consumati erano stati però 8991, quindi gran parte dei maiali giungeva in città dai centri vicini. A Corigliano i suini macellati erano stati 1151, a San Giovanni in Fiore 3742. A Catanzaro, nello stesso anno, erano stati macellati 1080 suini per un totale di 158mila kg di carne, mentre i maiali consumati 3947. Nel suo circondario è possibile conoscere i dati di Monteleone, con 359 maiali macellati; Nicastro con 1648; Sambiase con 860. Per Reggio non si hanno a disposizione dati per quell’anno, visto che i registri furono dispersi durante il terremoto, ma per la provincia le statistiche riportano 451 maiali macellati a Palmi e 67 a Cittanova.

  • BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    Trappeto a sangue. Si chiamava così il frantoio per la molitura delle olive azionato da uomini e animali, e ciò basta a dare un’idea di quanta fatica costasse la produzione di olio fino all’impiego dei moderni macchinari. Poi vennero i frantoi meccanici, più rari e in genere mossi dalla forza idraulica, ma fino al XVIII secolo la lavorazione delle olive in Calabria seguiva tecniche arcaiche.

    Olio-calabria-i-calabresi
    Trappeto a sangue all’uso genovese. Dal volume di Grimaldi del 1773
    Trappeto alla calabrese e alla genovese

    Decisamente arcaico era il cosiddetto “trappeto alla calabrese”: due grandi viti incastrate nella pietra pressavano le olive già lavorate dalla macina. Il sistema consentiva però una scarsa resa e la necessità di scaldare i frutti prima della lavorazione ne inficiava la qualità. La svolta arrivò nella seconda metà del XVIII secolo grazie all’introduzione del trappeto “alla genovese”.

    Costituito da un torchio a unica vite, tale sistema giunse in Calabria nel 1773 sponsorizzato dal marchese genovese Domenico Grimaldi proprio per la regione in grado di produrre «più di centocinquantamila macinature di ulive, ciascheduna di nove tomola». La reclame del marchese sortì gli effetti sperati giacché il frantoio “alla genovese” resse fino alla comparsa delle prime macchine novecentesche. Il trappeto era sinonimo di prosperità, oltre che di esibizione dello stato sociale.

    Macina di frantoio in rovina nelle campagne di Santa Sofia d’Epiro nel 2017
    Le braccia e le bestie

    Lo spiega bene il solito Vincenzo Padula: «Nessun nostro galantuomo si crede proprietario davvero quando non abbia un trappeto». Le figure chiave nel sistema di lavoro del trappeto erano essenzialmente tre: l’oliandolo o agliere, l’attizzatore o tizzuni, e il saccardo o vetturino. Quest’ultimo si occupava di condurre l’animale, in genere un mulo o un bue, che faceva andare le macchine e versava la pasta d’olive macinate sui fischiuli per essere pressata al torchio.

    Una paga misera

    Toccava poi all’attizzatore il compito di spingere le olive con una pala sotto la macina a ogni giro della stessa. Infine l’oliandolo faceva funzionare il torchio e, dopo la spremitura, raccoglieva l’olio dal pozzo. Nonostante le enormi fatiche, il lavoro nel frantoio permetteva ai fattoiani (quanti lavoravano in un “fattoio”) di mettere da parte una riserva d’olio per uso familiare. Per ogni macina di olive infatti, essi avevano diritto a poco più di due litri d’olio, da spartirsi però con l’oliandolo, l’attizzatore, il saccardo oltre che col proprietario del frantoio.

    Coloro i quali portavano le olive a macinare avevano il buon cuore di offrire agli operai anche «la minestra di fave, o fagiuoli, e pane, formaggio e salame per spesare i fattoiani». Insieme al pasto trangugiavano grandi quantità d’olio, tanto che «la favata, che dalla popolana viene apparecchiata per essi, deve nuotare nell’olio».

    “Più pende, più rende”

    L’olivicoltura calabrese ottocentesca dalla coltivazione alla potatura e dalla raccolta alla molitura era praticata con scarsa cura e nulla razionalità. Ciò portava a raccolti esigui e a oli di scarsa qualità. Il proverbio secondo cui l’olivo “più pende più rende” conduceva infatti alla raccolta in periodi in cui il prodotto aveva già perso di qualità. In una relazione del 1863 il professore Giuseppe Antonio Pasquale scriveva che «le olive cascano da sé a poco alla volta, s’imbrattano di terra e si feriscono, poi s’ammonticchiano ed incamminano, e fermentano, e rancidiscono, e talora saponificano».

    Olive nella tradizionale rete utilizzata per la raccolta

    Un tale spreco era inconcepibile. Secondo lo scrivente era necessario dunque «raccogliere le olive colle mani da sopra l’albero, e spremerle tosto in apparecchio tersissimo, ed ecco l’olio più puro che la natura e l’arte possa dare». Da questo punto di vista, le olive della Piana di Gioia Tauro erano da preferire perché da un uliveto di venticinque piante si poteva ricavare un totale di 200 tomoli, e di conseguenza 4 botti d’olio per un totale di 16 quintali.

    Il nettare verde amato dagli italiani

    Nonostante i metodi arcaici e gli esigui raccolti all’alba del ventesimo secolo le olive, e in misura maggiore l’olio prodotto nelle province calabresi, deliziavano i palati di tutta Italia e a volte superavano i confini nazionali. Il rapporto intitolato “Sul commercio oleario delle Calabrie nel 1902”, firmato dal direttore del regio oleificio sperimentale di Cosenza, Flaminio Braccis, ripercorre le strade imboccate da questa “pregevole derrata” il cui traffico complessivo, specie via mare, «raggiunse la rispettabile cifra di 153.373 quintali, peso netto».

    “Il vaiuolo dell’olivo”

    Si tratta di numeri che, a detta di Braccis, andavano quasi ad eguagliare «il livello normale dei tempi migliori, dopo un periodo abbastanza prolungato d’insolita depressione, causata dalla fallanza continuata dei raccolti». Il migliore di quell’anno si registrò in provincia di Catanzaro, mentre Cosenza e Reggio furono penalizzate da fattori ambientali. Per gli oliveti «dell’ampia zona Rossanese che si stende fin sulla spiaggia del mare» fu un’annata inclemente a causa del cycloconium o più semplicemente “vaiuolo dell’olivo” che causò gravi danni. Allo stesso modo nella zona tra Gioia Tauro, Rizziconi, Radicena, Cittanova e Polistena la nemica si rivelò essere la mosca tardiva specie nelle zone pedemontane. Nonostante ciò i produttori calabresi non si persero d’animo, motivati a esportare la loro eccellenza a migliaia di chilometri di distanza.

    Raccolta delle olive in Italia. Stampa francese del 1862
    L’olio esportato in Francia

    Le commesse, seppur in calo, non mancavano. Gli oli provenienti da Rossano e Gioia Tauro raggiungevano la Francia, mentre la stessa località della Piana fu penalizzata dal venir meno della commessa record di 10milia quintali di olio da ardere proveniente dalla Russia. Anche per questo motivo i coltivatori reggini si convinsero a puntare sull’impianto di qualità di olive “mangiabili o fini”, più redditizie, dirette principalmente in Liguria (Genova, Porto Maurizio, Oneglia e Sanremo), Toscana (Livorno) e nel Barese. Mentre gli oli industriali prendevano soprattutto la strada di Sicilia, Sardegna e del Napoletano. Gli “scali” dell’allora versante tirrenico catanzarese (Pizzo, Nicotera, Sant’Eufemia) brillavano sia per esportazioni di oli da tavola sia per quelli industriali, diretti anche in questo caso in Campania, Toscana ma anche a Venezia.

    L’olio al solfuro

    Ma dal punto di vista logistico i più organizzati erano gli scali ionici di Rossano e Corigliano e quello tirrenico di Amantea, da dove «si effettuarono spedizioni a vagoni completi per la Liguria, il Barese e Napoli». Lo stesso rapporto annovera tra le eccellenze calabresi in ascesa un nuovo protagonista: l’olio al solfuro. Prodotto negli stabilimenti di Rossano, Cariati, Catanzaro, Siderno e Gioia Tauro, veniva utilizzato e apprezzato dalle industrie cosmetiche di Catania, Genova e Bari per la produzione di saponi verdi che cominciavano a far la loro comparsa nelle toilette dell’epoca bella.

    La “buona scuola” tra gli uliveti

    Ai sistemi arcaici utilizzati nei secoli precedenti fece da contraltare, nel senso del progresso, l’esperienza vissuta da alcuni allievi della Scuola pratica d’agricoltura di Cosenza (oggi Istituto agrario “G. Tommasi”). Ciò che recentemente chiameremmo entusiasticamente “buona scuola”, “alternanza scuola-lavoro” o “a scuola d’azienda” si praticava tra gli oliveti della provincia di Cosenza già 120 anni fa. Nell’anno scolastico 1902-1903 il Ministero dell’agricoltura pensò di promuovere un corso teorico-pratico d’oleificio su esplicita iniziativa dell’Oleificio sperimentale di Cosenza diretto da Flaminio Braccis. Al corso, indirizzato oltre che agli studenti anche a operai e agenti di campagna, parteciparono due classi della locale Real scuola pratica d’agricoltura diretta dal cavalier Tommasi (che oggi dà il nome all’Istituto agrario).

    A lezione dai latifondisti

    Per venti giorni venti allievi di due classi frequentarono lezioni specifiche ed approfondite tra Cosenza (Campagnano e Rovello), Montalto Uffugo, Rossano, Amantea, Scalea. Qui, sui terreni di ex latifondisti incuranti ora apertisi alle diavolerie della modernità, ebbero luogo conferenze, visite e dimostrazioni pratiche in campagna: dalla constatazione dello stato del frutto e delle piante alla scelta delle parcelle di terreno da sottoporre a concimazione chimica, dallo studio delle malattie dell’ulivo ai rimedi possibili e ai sistemi di piantamento dell’olivo.

    Il fine, esplicitato nel documento finale, fu quello di convincere e formare al «vantaggio degli ordegni moderni e delle pratiche razionali di oleificazione che hanno sostituito e vanno sostituendo in quest’ultimo quinquennio ai preadamitici frantoi ed ai torchi di legno». Ma c’è di più. A una scuola che, secondo gli indirizzi ministeriali, veicolava un’agricoltura finalmente razionale e non più arcaica si aggiungeva un aspetto non secondario. Il corso era non solo gratuito, ma ciascun partecipante fu rimborsato delle spese di viaggio (andata e ritorno) mentre ai più bisognosi venne riconosciuto addirittura un compenso giornaliero. Naturalmente tutti gli studenti erano maschi.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina facebook: Calabria Fotografia Sociale)
    Le insidie sessuali del padrone

    E le donne? Le raccoglitrici di olive condividevano i medesimi patimenti e condizioni di lavoro disumane delle gelsominaie. Più o meno giovani, le donne lasciavano i propri paesi per recarsi negli uliveti dei grandi proprietari nei diversi giorni della campagna di raccolta e condividevano locali angusti e poco igienici. Inoltre erano soggette alle insidie sessuali del padrone o dei suoi fattori. Scalze e curve sul terreno per la raccolta lungo tutta la durata della giornata, dovevano poi sobbarcarsi il peso dei sacchi colmi di olive fino ai depositi. La paga era quasi sempre misera, incerta e molto spesso corrisposta in natura. Alle raccoglitrici era concesso infatti di mangiare solo le olive già cadute al suolo ma non potevano portarne a casa. La condizione delle “montanine” che si riversavano nelle zone marittime nei mesi di maggior produzione è esposta nei minimi particolari da Vincenzo Padula.

    Giovinette sotto l’ombra degli ulivi

    Il letterato di Acri non manca di annotare che «il più vago spettacolo è d’inverno nella marina del Jonio: giovinette di tutti i tipi, che vestono di tutti i colori, che cantano in tutti i tuoni, ora sole, ora a gruppi, ora ritte, ora piegate sotto l’ombra degli ulivi». Non riuscivano però a racimolare «più di 34 centesimi al giorno», mentre erano sorvegliate da un misaruolu che nella giornata guadagnava una lira. Padula denuncia una realtà fatta di angherie, maltrattamenti e violenze commesse dai padroni che amavano «godere della voce, e delle grazie di quelle poverelle, alle quali danno 34 centesimi al giorno per disonorarle».

    Al momento della partenza per i luoghi di lavoro i genitori le mettevano in guardia ma «molte ed assai molte immemori dell’avvertimento paterno vi perdono l’onore; molte sono più avventurate, e prima divengono concubine, poi mogli di alcuno dei loro padroni». Non mancavano componimenti in versi e canzoni sull’argomento, tra cui una che Padula ebbe modo di sentire da una donna e che diceva in modo ironico: «Mi susu la matina/ Mi mindu lu jippuni/ U pulici d’u Baruni/ M’è venutu a muzzicà».

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando il calabrese era… la sua zampogna

    BOTTEGHE OSCURE | Quando il calabrese era… la sua zampogna

    «Personaggio importante, aspettato e desideratissimo, quasi all’improvviso sbuca fuori dal suo nascondiglio, dove pel resto dell’anno si cela alla vista altrui». Così, nel 1886, il pratese Apollo Lumini scriveva dello zampognaro in uno studio sul Natale nei canti popolari calabresi. Nel romantico Ottocento questa figura di musico-girovago ha stimolato la penna di numerosi storici delle tradizioni popolari. Il collegamento col Natale è immediato: in molte culture è proprio la zampogna ad annunciare l’arrivo della festa per eccellenza, le cui note cominciano a udirsi per le strade dei paesi già dai primi giorni di dicembre. Non si può parlare però di una “economia della zampogna calabrese”. Spesso gli zampognari erano semplicemente pastori-contadini che nel periodo natalizio sfruttavano le proprie abilità musicali per rimpinguare i propri guadagni.

    Una sequenza de “Dal tronco al suono. La zampogna di Andrea Pisilli”, documentario girato e montato da Gianfranco Donadio e Agostino Conforti e prodotto dal Centro Demoantropologico, in collaborazione col Laboratorio multimediale di Sociologia e Scienza politica dell’Unical
    Accattoni e migranti

    Con la celebre “zampogna a paro” calabrese sotto braccio questi pastori si spostavano dai paesi verso le grandi città. Tutto per guadagnare pochi spiccioli, in alcuni casi come accattoni ai bordi delle strade ad annunciare e allietare le festività imminenti. I “pifferari” calabresi partivano alla volta dell’allora capitale dello Stato Pontificio per far musica durante la novena di Natale. Le tante edicole votive incastonate nei muri di Roma erano i luoghi privilegiati verso cui si rivolgevano questi “concertini improvvisati”. Altre volte erano le famiglie più in vista a chiamare i pifferari a suonare nel proprio palazzo in ciascuno dei nove giorni che precedevano il Natale.

    Zampognari del Regno di Napoli che a Roma suonano per la Novena di Natale. Stampa di Pinelli del 1815
    Zampognari del Regno di Napoli che a Roma suonano per la Novena di Natale. Stampa di Pinelli del 1815

    Dai paesi più remoti dell’Aspromonte e del Pollino gli zampognari raggiungevano la Toscana, Napoli o la Puglia. I più ardimentosi si spingevano fino a Parigi. Con i loro costumi ancestrali e pittoreschi realizzati con le pelli degli animali, i loro larghi mantelli, le scarpe grosse e i cappelli a punta non facevano altro che vivificare la brigantesca (e stereotipata) Calabria di Alexandre Dumas.

    Intorno al 1853 il fotografo André Adolphe-Eugène Disdéri (1819-1889) immortalò a Parigi – quasi fossero esemplari di una specie rara – due “nativi di Calabria” abbigliati con mantelli e cappelli e muniti, manco a dirlo, uno di zampogna, l’altro di ciaramella. La loro immagine è oggi patrimonio del Getty Museum, vivida testimonianza dell’epoca degli imperi, delle razze e degli “altri” messi in mostra alla stregua di animali nei recinti e nelle gabbie delle grandi Esposizioni universali.

    Arrivano “i calabresi”

    Nella Toscana ottocentesca “calabresi” era l’appellativo – pronunciato in tono evidentemente dispregiativo – che accomunava tutti i suonatori di zampogna. Non importava se «questi infelici in cerca di pane» provenissero da Abruzzo, Campania, Lucania, Puglia: erano tutti “Calabresi”! Il già citato Lumini ci lascia una testimonianza importantissima su quanto fossero forti e radicati i pregiudizi sugli zampognari, migranti dal Sud in cerca di fortuna: «I ragazzi accerchiano i calabresi (così li chiamano in Toscana, mettendo tutte in un mazzo le varie nazionalità meridionali) e li salutano con urli, fischi, e spesso, nella loro crudeltà fanciullesca, aizzata dall’ignoranza e malvagità dei grandi, usano contro quelli infelici, venuti di lontani paesi, trascinandosi dietro moglie e figlioli, laceri ed affamati, argomenti più materiali e non sempre inoffensivi».

    Il motivo di tali invettive è presto detto: in Toscana troneggiava incontrastata la credenza popolare che gli zampognari portassero il maltempo. Gli si gridava dietro con tono sprezzante «e’ pioè, e’ pioè, e’ fanno pioère». Spesso, senza pietà alcuna, le guardie municipali li allontanavano dai paesi. Viene da chiedersi se, ed eventualmente quanto, la presenza degli zampognari calabresi abbia influito sul consolidarsi in molte regioni di una mentalità che porta a guardare al calabrese con sospetto, con stereotipi che resistono al comune sentire. Quel che è certo è che nelle stampe o nei resoconti di viaggio ottocenteschi il calabrese era soprattutto la sua zampogna.

    Zampogne e rampogne
    Suonatori di zampogna e di ciaramella a Samo (RC) nel 1924, fotografati da Gerhard Rohlfs
    Suonatori di zampogna e di ciaramella a Samo (RC) nel 1924, fotografati da Gerhard Rohlfs

    Portavano con sé la ceramella e la zampogna i due contadini che Gerhard Rohlfs, studioso tedesco innamorato delle tradizioni e dei dialetti della Calabria, fotografò nel 1924 a Samo, in provincia di Reggio Calabria nel 1924. Ma non c’è paternalismo né malizia. Lo studioso era consapevole che nella propria terra d’origine gli zampognari erano portatori di festa e allegria. Rappresentavano una presenza fissa nelle innumerevoli feste patronali, spesso in associazione con altri suonatori di strumenti tradizionali, su tutti tamburi e tamburelli. Un acquerello realizzato nel 1811 da Luigi Del Giudice e conservato al museo San Martino di Napoli rievoca un momento di festa a Serra San Bruno in Calabria Ultra (oggi in provincia di Vibo Valentia). E, ovviamente, non può mancare lo zampognaro ad accompagnare le danze popolari in onore di S. Bruno.

    Festa di S. Bruno a Serra, in Calabria Ultra. L. Del Giudice, 1811. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino
    Festa di S. Bruno a Serra, in Calabria Ultra. L. Del Giudice, 1811. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino
    Zampognari all’Opera

    Anche il compositore e librettista Ruggero Leoncavallo li inserisce ne “I Pagliacci”, opera ispirata a un fatto di cronaca avvenuto a Montalto Uffugo nel 1865. La stessa opera è ambientata a Montalto nei giorni della festa dell’Assunta, che si teneva e si tiene tuttora a ferragosto nella chiesa della Madonna della Serra, e Leoncavallo si mantenne fedele, per le scene e per i costumi, alle ambientazioni e al vestiario tipico del luogo: «Gli zampognari arrivano dalla sinistra in abito da festa, con nastri dai colori vivaci e fiori ai cappelli acuminati».

    Il compositore folignate Vito Fedeli incontrò un gruppo di ciarammeddrari o zampognari che dai villaggi dell’Aspromonte «eran discesi in città per fare la Novena del Bambino». Nel suo saggio datato 1912 Fedeli nota come i musici si dividevano la città di Reggio in varie zone «per non farsi tra loro una nociva concorrenza» e forse «per rispetto alle tradizioni, o per spirito di carità verso i ciaramellari, o per sentimento religioso, o per passatempo dei fanciulli» tutti spalancavano la porta della propria abitazione.

    Zampognari e suonatori ambulanti con costumi calabresi. Inizi '900Zampognari e suonatori ambulanti con costumi calabresi. Inizi '900
    Zampognari e suonatori ambulanti con costumi calabresi. Inizi ‘900
    Amore e odio

    Era un rito atteso che nell’euforia collettiva si protraeva dal 16 al 24 dicembre. Ma non era così per tutti. Sul suo giornale politico-letterario Il Bruzio, Vincenzo Padula scriveva nel 1846 che «le zampogne e le cornamuse sono la sua disperazione» e che «il Bruzio inseguito dalla cornamusa scappò di casa». Dalla zampogna alla rampogna: «Il ministro Sella avrebbe fatto una bella cosa ed un grosso guadagno se avesse imposto una tassa ai panettieri, ai bottegai, ai pastaiuoli di Cosenza, ed all’infinita turba dei gonzi, che posseggono il barbaro gusto di farsi suonare la cornamusa sera e mattina avanti l’uscio di casa con grave disturbo dei vicini, che hanno orecchio delicato e sonno leggero».

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    Dalle neviere ai fichi ci fa da trait d’union la scirubetta. Era una e una sola l’essenza per eccellenza che si mescolava alla neve raccolta al momento e trasformata in granita nel bicchiere: il miele di fichi. Questa leccornia tanto ricercata quanto complessa da ottenere, è solo uno dei prodotti che nella Calabria e nel Cosentino si ricavavano dalla coltivazione dei fichi. Oltre al frutto da mangiare fresco e al miele ricavato tramite la sua bollitura e spremitura, a tenere alta la bandiera calabrese negli scorsi decenni sono stati i fichi secchi, che nella seconda metà dell’Ottocento raggiungevano le tavole di mezza Europa rappresentando per la Calabria una significativa fonte di guadagno.
    Altro che “non valere un fico secco”!

    Ficu prene

    La cultura popolare e contadina ha poi elaborato il prodotto in varie altre declinazioni, in base alla forma, all’intreccio, all’essiccazione, al passaggio in forno o all’abbinamento con altra frutta secca. Le crucette, che Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese chiama anche ficu prene e definisce «due o quattro fichi spaccati, imbottiti di noci e simili ingredienti, incastonati a forma di croce e tostati al forno», sono forse i prodotti più noti, ma non sono i soli. Ficu ‘mpurnate, cioè passate al forno, jette, trecce di fichi secchi infilzati ad un’asta di canna, ficu a pallune, i fichi secchi e infornati, uniti all’interno di foglie a formare una palla dalla grandezza di un pugno, sono solo alcune delle specialità tradizionali più ricercate. Ma a volerle elencare tutte… te salutu ped’e ficu!

    Fichi al forno
    Fichi al forno (foto Rosalia Spadafora)
    Influssi astrali

    Tra Cinquecento e Seicento i fichi calabresi erano rinomati soprattutto fuori regione. Ne offre una preziosa testimonianza lo storico Giovanni Fiore da Cropani in Della Calabria Illustrata (1691): «Nientemeno più prezioso, e per la copia e per la perfezzione egli è il raccolto delli Fichi. Principia egli nel mese di Giugno, e si allunga fin all’altro di Decembre». Fiore scrive a proposito della coltivazione, della diversità delle specie e dell’esportazione verso Napoli, Sicilia, Roma e addirittura Malta.

    Ma come tutti i prodotti della terra, si credeva che anche i fichi fossero soggetti agli influssi astrali e che richiedessero particolari attenzioni nella coltivazione. L’astronomo/astrologo cosentino Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo divideva i frutti in tre gruppi di dodici. Li distingueva tra quelli che «si mangiano tutti», quelli che «si mangiano dentro» e quelli che «si mangiano quello di fuora». I fichi «che si mangiano tutti» erano dominati dall’Orsa maggiore. Nel calendario annuale, invece, era da annotare la data del 31 agosto, in cui «Andromeda appare, e fa freddetto, ed in questi tempi si domesticano li fichi, e s’incomincia dai 14 di luglio ad innestare et insertare».

    Secondo Benincasa persino il lattice, cioè la sostanza bianca che stilla dal fico non ancora maturo appena raccolto o dalle sue foglie, aveva proprietà benefiche, tanto che a chi avesse voluto far passare il gonfiore di punture di api o di vespe consigliava: «Sopra detto morso vi metterete latte di fico».

    Dalla seta ai fichi

    Dalla fine del Settecento la coltivazione prendeva sempre più piede nelle campagne calabresi, con un particolare incremento nel Cosentino. Nel 1792, nel corso di un viaggio in Calabria, attraversando il Cosentino l’economista e intellettuale napoletano Giuseppe Maria Galanti notò che i fichi stavano lentamente prendendo il posto dei gelsi, a testimoniare un’involuzione dell’economia della seta. Quella dei fichi era infatti una delle “estrazioni della provincia” e «olio, fichi ed uve passe, qualche volta grano» erano le uniche esportazioni che giungevano «fuori dal Regno».

    Certo, il commercio era ostacolato da numerose “vessazioni”. Tra queste, il “lasciapassare” che era necessario anche all’interno della Calabria «per trasportarsi i generi d’olio, di cotone, formaggio, lana, lino, canapa, fichi secchi, da un lato all’altro». Galanti non può fare a meno di notare e annotare che «la miseria sembra estrema ne’ casali di Cosenza. La principale industria era la seta; si tagliavano prima li castagni per piantare gelsi: oggi si esercita a pura perdita ed in luogo di gelsi si piantano fichi». Anche nel Vallo, cioè nei paesi della Valle del Crati, «da pochi anni si sono fatte gran piantagioni di olivi e di fichi dove i gelsi si sono invecchiati».

    Così pure nel «litorale da Amantea a Belvedere» l’industria della seta, un tempo principale, era in declino, mentre era attivo un discreto commercio di fichi secchi. La coltivazione dei fichi era praticata abbondantemente anche nelle altre aree della regione, ma non sempre riusciva a travalicare i confini territoriali. A tal proposito lo stesso Galanti fa notare che nei dintorni di Tropea «i fichi secchi si reputano i migliori del paese» ma la loro esportazione era scarsa: «si seccano i fichi e le prugne damascene, che sono ottime, ma sono per l’uso del paese».

    Trecentomila quintali

    A fine Ottocento le qualità più pregiate venivano coltivate a Cosenza, Rende, Rose, Castiglione Cosentino, Roggiano, Torano, Rovella e Zumpano. La produzione in media raggiungeva i 300 mila quintali. La gran parte di questi veniva esportata «al prezzo medio di L.34 per ogni quintale». Il prodotto di prima scelta veniva confezionato e spedito all’estero.

    La Francia ne importava ancora agli inizi del Novecento le quantità più significative, ma fichi calabresi giungevano anche in Olanda, in Austria e, ovviamente, in tutte le regioni d’Italia. Se ne trova menzione anche nel carteggio di Filippo Turati, uno dei fondatori nel 1893 del Partito dei lavoratori italiani dai quali nascerà lo storico Partito socialista. In una sua lettera del 1920, infatti, Turati accenna a un Berardelli indicandolo come «quello dei fichi di Cosenza».

    Non mancavano le note dolenti. Non sempre i prodotti calabresi riuscivano a imporsi all’estero, e a difettare non era la qualità, ma spesso la capacità di saperli presentare in modo efficace. Durante un congresso di frutticoltura nel 1927 uno dei relatori, a proposito dell’esportazione dei fichi di Cosenza, notava che spesso «difetti nella scelta delle razze, nella cernita e nella confezione del prodotto, nei sistemi di imballaggio, tengono i nostri fichi secchi in condizione di inferiorità» ma allo stesso tempo ricordava che «i migliori fichi di Cosenza, esportati in Francia e pagati a prezzi modici, vengono quivi accomodati in modo civettuolo in eleganti cestini e rimessi in commercio col nome di fichi di Smirne!».

    Siccaficu e leghe bianche

    Ogni quintale di fichi secchi richiedeva un notevole lavoro. Trattandosi di un prodotto essiccato al sole la variabile metereologica incideva molto. La parte destinata all’essiccazione veniva raccolta dagli alberi una volta giunta a maturazione, i passulùni, e riposta sulle cannizze, graticci di canne intrecciate, pronte a essere ritirate in fretta all’asciutto al primo accenno di pioggia. Ma anche dopo riposte sulle cannizze, il lavoro non era finito. Periodicamente era necessario girarle da un lato, dall’altro, e anche con la punta in alto, perché si essiccassero in maniera uniforme.

    Fichi sulla cannizza
    Fichi in essiccazione sulla “cannizza” (foto Rosalia Spadafora)

    Distese di cannizze colme di fichi al sole costellavano così le campagne attorno alla città e quelle più vicine ai paesi attorno a Cosenza. Per gli abitanti di Sant’Ippolito, ad esempio, Vincenzo Padula riporta il soprannome di siccaficu, a conferma che l’attività era tanto diffusa da caratterizzare il paese. E una simile cosa doveva avvenire a Torzano, attuale Borgo Partenope, dove ancora negli anni ’20 del secolo scorso si era soliti fare anche una “raccolta delle fichi”, oltre che di grano e mosto, per sovvenzionare le feste di Santa Maria e dell’Immacolata che si tenevano all’inizio e alla fine di settembre, il mese dei fichi per eccellenza.

    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi
    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi – I Calabresi

    In questi centri, così come a Donnici e negli altri paesi del Cosentino, gli intermediari acquistavano la parte migliore per poi immetterla sul mercato. Le famiglie, invece, tenevano quelle di minore qualità da ‘mpurnàre o trasformare in crucette conservandole in apposite ceste o nei casciùni. A contrastare l’attività lucrosa degli intermediari provò don Carlo De Cardona che, nel primo decennio del Novecento, tramite le sue “leghe bianche” aveva incentivato la nascita di una cooperativa di produzione. La cooperativa aveva rappresentanti a Marsiglia, dove giungeva una parte significativa dei fichi calabresi.

    Un frutto, tante varietà

    «Che dir dobbiamo ai venditor di fichi?» si chiede Nicola Leoni in Della Magna Grecia e delle Tre Calabrie (1844). Nel suo pistolotto lirico lo scrivente ammonisce i contadini calabresi dediti a ogni sorta di magheggio pur di piazzare la propria mercanzia: «I buoni esporre de’ canestri in fuori […] i viziosi e i duri occultare in sotto». E di fichi eccellenti, o almeno di buona qualità, in quelle ceste non dovevano essercene in grande quantità. I pezzi migliori, cioè quelli più grassi e intonsi, erano destinati all’esportazione.

    Ficu citrulare
    “Ficu citrulare” – I Calabresi

    Gli almanacchi di cultura popolare calabrese e le istruzioni a uso del contadino citano molteplici varietà. Tra queste:

    • il dottato (volgarmente ottato), «varietà squisita che viene principalmente e specialmente adoperata per seccare»
    • i fichi melignana, che per forma e colore rassomigliavano a una melanzana
    • il calastruzzo, «piccolo e saporito»
    • i fichi biferi
    • i fichi fiore (fioroni), con buccia verde, frutto paonazzo «grossi e di sapore gradito»
    • il messinese
    • il natalino nero
    • il troiano
    Cosenza vs Smirne

    Nella seconda metà dell’Ottocento il fico dottato bruzio era rinomato e secondo soltanto a quello coltivato nella città turca di Smirne. Il motivo è presto detto: il fico cosentino «è più ricco in glucosio, ma più deficiente in sostanze proteiche dei fichi di Smirne: in confronto a quelli i prodotti calabresi sono più piccoli». Anche in termini di peso medio la differenza era macroscopica: 22 grammi contro 10.

    Ciò secondo gli “addetti ai lavori” era dovuto a una coltura praticata in maniera non razionale, senza cure alla pianta e in maniera promiscua, cioè affiancata ad altre piante. Anche per quanto riguarda le fasi successive il caro vecchio almanacco si premura di sentenziare: «Converrebbe migliorare la tecnica dell’essiccamento che si fa al sole pei primi fichi e al forno per gli ultimi, ma sempre con mezzi deficienti, in caso di variazioni dell’andamento della stagione».

    Figues de Cosenza
    Dal gruppo Facebook "Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza"
    Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Bertini, Garritano, Colavolpe, Aloisio sono solo alcune delle decine di aziende del Cosentino con una solida tradizione famigliare alle spalle dedite alla lavorazione e al commercio di fichi infornati, ricoperti, imbottiti. Molti anni prima delle fortune di costoro altri imprenditori, autentici pionieri nel settore, guardavano Oltralpe per piazzare la propria migliore mercanzia.

    Una preziosa testimonianza sulle qualità e le tipologie di fichi esportati è offerta dai marchi e modelli originali custoditi nei corposi registri dell’Archivio Centrale dello Stato. La città di Cosenza e il suo produttivo hinterland (Bisignano, Torano, Vaccarizzo, Montalto Uffugo) si presentavano sul mercato transalpino con un tripudio di etichette sulle quali campeggiavano ancore, pavoni, docili mucche e felini, stemmi inquartati e divinità alate.

    Alcuni sono davvero essenziali, come quello studiato da Catiello Florio, dedito alla fichicoltura dal 1883. C’è poi la ditta Barone&C. di Bisignano, che negli anni ’30 del Novecento si presentava sulle piazze di Parigi, Lione e in tutta la Francia con addirittura quattro specialità a base di fichi e una “prima scelta” propagandata da due falchi divisi da una stella. Infine nel 1906 Guglielmo Pellegrini Lise si rivolge senza mezzi termini ai propri affezionati clienti: «Tra i fichi di Cosenza preferite “la marca sette colli”, esclusiva produzione del luogo».

    Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

     

  • BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    Sono due i ricordi che la maggior parte dei cosentini di una certa età collega alla parola tanninu”. Il primo è la grande vasca d’acqua nella quale venivano raccolti gli scarti di lavorazione, ma che i ragazzi dei quartieri di Casali, Massa, Garruba, Spirito Santo utilizzavano per fare il bagno e fronteggiare la calura estiva. C’è persino chi in quella vasca imparò a nuotare.

    Cosenza, 1949. In basso a destra gli scivoli tra la stazione e la fabbrica (foto Stenio Vuono)

    Il secondo ricordo riguarda il suono deciso della sirena che scandiva i turni di lavoro dello stabilimento. Inevitabilmente, finiva per segnare i ritmi della vita quotidiana nei quartieri al di qua e al di là del fiume Crati. La sirena prima di andare a scuola, la sirena di mezzogiorno per “calare la pasta” e così via.

    La parola “tannino” si ricollega invece con una certa difficoltà al disastro ambientale connesso alla ex Legnochimica di Rende. Lì dove “u tanninu” si era spostato negli anni ’70 seguendo l’espansione a nord della città.

    “U tanninu”, ieri fiore all’occhiello oggi solo degrado

    Ma cos’era “u tanninu”? Oggi esempio eccezionale di archeologia industriale – da decenni nel degrado più totale – con i suoi capannoni che ricordano una cattedrale in rovina e la sua alta ciminiera in mattoni che reca ancora la data 1906. Rappresentò fino al 1970 circa una delle punte di diamante dell’industria locale, sia per quanto concerne i livelli di produzione sia per il numero di operai impiegati.

    L’interno del tannino trasformato in segheria (foto Mario Magnelli)

     

    Il liquido utilizzato per conciare le pelli

    Il nome richiama l’acido tannico che vi veniva prodotto attraverso un procedimento di estrazione dal legno di castagno, che ne contiene in natura una quantità significativa. Il legno veniva essiccato e, dopo diversi passaggi, era possibile estrarne il tannino. Poi veniva commercializzato inizialmente allo stato liquido all’interno di botti in legno e, successivamente, in polvere dentro appositi sacchi. Il tannino estratto veniva usato soprattutto nell’attività di concia delle pelli per la realizzazione di oggetti in cuoio e restò un elemento essenziale per il settore artigianale finché non si riuscì a sintetizzarlo chimicamente. 

    La vecchia fornace (foto Dalena Mmasciata 2016)
    Le cataste dei tronchi e la ferrovia

    A dispetto della marginalità odierna la posizione della fabbrica di Casali era fortemente strategica. Proprio a monte dello stabilimento era posta la stazione delle ferrovie Calabro-Lucane di Cosenza-Casali e questo garantiva l’approvvigionamento quasi sul posto della materia prima. I tronchi di castagno venivano trasportati tramite treni-merci e scaricati alla stazione di Casali. Da qui, attraverso un apposito sistema di scivoli, era possibile indirizzarli direttamente nel piazzale della vicina fabbrica.

    Per chi arrivava in zona, insomma, le alte cataste di tronchi di castagno disposte nei pressi della struttura erano, al pari della ciminiera, parte integrante del paesaggio. Ma non solo. Attorno alla fabbrica del tannino ruotava un significativo indotto. Col tempo sorsero nelle vicinanze anche delle case per gli operai e, tramite la ferrovia, la manodopera affluiva da numerose località del circondario. Tutto ciò era affidato alle cure della famiglia Merola, di origini francesi, giunta a Cosenza appositamente per gestire il tanninificio. 

    “U tanninu” diventa Legnochimica

    La società “TANCAL, Tannini di Calabria”, derivata dalla società francese “Rej et Fils” e che diede avvio alla produzione nel 1906, restò attiva fino agli anni ’50 con una significativa capacità produttiva raggiungendo le 2000 tonnellate annue di estratto. Nel 1954 venne ceduta alla società “LEDOGA” e così continuò a lavorare fino alla fine degli anni ’60, quando intervenne la chiusura dello stabilimento.

    La vecchia ciminiera con la data di costruzione della fabbrica

    La società ambiva ormai a realizzare una moderna struttura a Rende, che impiegasse moderni metodi di produzione e radunasse in essa più strutture in un nuovo assetto societario. Nasceva così la Legnochimica. Dopo il trasferimento dello stabilimento nella zona industriale di Rende, l’enorme struttura posta tra Casali e il fiume Crati venne utilizzata in parte come sede di una azienda di comunicazioni, e in parte come segheria e deposito di materiali di vario genere ancora per alcuni decenni. Oggi versa in uno stato di più completo abbandono.

    Le segherie in Sila

    All’alba del Novecento l’industria forestale era tra le più floride nella provincia di Cosenza, potendo contare su una serie di segherie in Sila che sorgevano in baracconi posti lungo le rotabili e che dalla primavera all’autunno lavoravano a pieno regime. I boscaioli o “mannesi” – forse per via della “mannaia” adoperata – erano addetti all’abbattimento e alla squadratura del legname che veniva accatastato e – prima dell’avvento della ferrovia – trasportato a Cosenza con traini tirati da muli. All’epoca circa il 25% dell’intero territorio provinciale (oltre 660mila ettari) era coperto da boschi. Il castagno faceva da padrone con oltre 14mila ettari che assicuravano una resa di circa 15quintali per ettaro e facevano balzare la provincia di Cosenza al secondo posto in Italia dopo quella di Genova. Ma dal 1906 buona parte del legno di castagno proveniente dal versante cosentino della Sila cominciò a essere assorbita dalla nascente industria estrattiva.

    Tannins di Cosenza

    Tannino si chiamava l’acida molecola che strappava il legname alle foreste silane dando il nome a una fabbrica, lavoro alle genti e pane alli Casali. Il 23 novembre 1906 Agostino Imard le directeur della pregiata Société Nouvelle de Tannins della “Rej et Fils” con sede a Marsiglia presentò alla Prefettura di Cosenza l’incartamento per la registrazione del marchio. Il fondo “Marchi e Modelli” dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma ci permette di conoscere la descrizione del logo originale. Un logo che campeggiava sulle prime etichette appiccicate sulle confezioni di estratti di materie tannanti e coloranti: «Impronta costituita da due triangoli equilateri incrociati in modo da formare una stella a sei punte, nel cui mezzo spiccano le iniziali S. N. T. Completa il marchio l’iscrizione intorno Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza».

    Registrazione marchio Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza_1906 (Foto @Archivio Centrale dello Stato)

     

    Il secondo opificio a San Vincenzo La Costa

    Nei primi anni di attività l’opificio francese di Casali si dimostrò capace di lavorare oltre 15mila metri cubi di legname all’anno. Le grandi potenzialità del legno di castagno a fini estrattivi furono sfruttate dalla Società Italiana per l’Acido Tannico. Nel 1907 decise d’impiantare a Gesuiti di San Vincenzo La Costa un secondo grande opificio, capace di trasformare 5mila metri cubi di legname all’anno.

    Brucia la fabbrica

    «Violentissimo incendio a Cosenza» titolava L’Avanti il 9 settembre 1914. Nel grande opificio francese il rischio d’incendi era all’ordine del giorno. A causa della disattenzione di qualche operaio il giorno prima era andata a fuoco l’intera officina per la fabbricazione delle botti nelle quali veniva conservato l’acido tannico destinato all’esportazione. Le fiamme divamparono inghiottendo buona parte della struttura e i vigili del fuoco e la truppa impiegarono diverse ore prima di estinguerle. L’episodio provocò la chiusura dello stabilimento per alcune settimane, la mobilitazione e il ritorno in patria di tutti gli operai di nazionalità francese.

    Gli stessi che per mezzo di una propria rappresentanza si dissero preoccupati per le condizioni di lavoro nell’opificio cosentino. A stretto contatto con estratti e coloranti nocivi per la salute, e quasi sempre senza alcuna forma di cautela e tutela, presto la maggior parte degli operai francesi chiese il trasferimento a Marsiglia anche se una rappresentanza transalpina continuò a esistere fra gli estrattori almeno fino a tutti gli anni ’30. 

    Le zanzare killer del Crati

    Ma i veri nemici degli operai del tannino, come di quelli che sulla sponda opposta del Crati erano addetti alla colorazione chimica delle “cementine” sfornate nella Mancuso&Ferro, erano le zanzare. Il rione Casali, con l’opificio francese che sorgeva a pochi passi dalla ferrovia, si trovava in piena “zona malarica”. Spinti dal vento e dalla necessità di trovare nutrimento, gli anofeli portatori della “dea febbre” infestavano le numerose pozze d’acqua stagnante e lurida, prodotto delle lavorazioni industriali.

    I lavoratori contraevano il “mal d’aere” e spesso ne morivano. Per effetto della legge del 19 maggio 1904 ogni titolare di opificio era stato obbligato alla somministrazione del chinino di Stato all’interno della propria fabbrica. A fine epidemia ciascun imprenditore sarebbe stato indennizzato dal Comune – e quest’ultimo dallo Stato – della cifra investita nell’acquisto di dosi del prezioso farmaco. A gestire per molto tempo la chinizzazione per bocca degli operai a scopo preventivo fu il dottor Antonio Rodi, direttore del dispensario di Caricchio. 

    L’operaio francese che giocava bene a calcio

    Tra gli operai impiegati nella catena estrattiva dell’acido tannico dal legno di castagno nell’opificio di Casali c’era un francesino che giocava bene al calcio e che di lì a poco avrebbe fatto parlare di sé. Si chiamava Ettore Chenet e proveniva da Prato. Incerte le sue origini, introvabile la fotografia. Francesco Magnini in Bandiera biancazzurra scrive: «Determinante alle spalle delle punte la tecnica di Ettore Chenet, un nome da opera pucciniana. Di questo centrocampista non è rimasta certa la provenienza e nemmeno il destino. Pare fosse di passaporto francese ma di lui raccontano fosse rimasto in città come meccanico dopo aver svolto il servizio militare a Prato (alquanto strano per un francese)». Chenet giunse a Cosenza nella seconda metà degli anni ’20 e, forse con un contatto già in tasca, trovò subito impiego nell’opificio francese.

    Di mattina al Tanninu, nel pomeriggio in campo

    Di mattina in fabbrica e di pomeriggio a sciorinare dribbling su uno di quegli sterrati ai margini della città di allora, quando l’“Emilio Morrone” era ancora un sogno. Crepas, Recanatini, Fresia, Solbaro, Chenet… erano i “pilastri” della formazione del Cosenza Football Club che il 27 novembre 1927 pareggiò con il risultato di 1-1 con il Dopolavoro di Taranto. Pur non entrando nell’azione del momentaneo vantaggio bruzio siglato da «Recanatini su passaggio di Fresia che fece riposare la palla nell’angolo sinistro» il ragazzo, che partita dopo partita si era guadagnato i gradi di capitano, si distinse per «piedi buoni e intelletto da vendere».

    La fabbrica dove si produceva il tannino come si presenta oggi
    Il crollo delle commesse e la fine del Tanninu

    Proprio al tempo in cui l’operaio Chenet custodiva le chiavi del centrocampo bruzio il tanninificio di Casali realizzò il proprio record di produzione: 5 mila metri cubi al mese! Ma nel 1932 a causa del crollo delle commesse e delle mancate esportazioni negli Stati Uniti d’America dovute alla sostituzione del tannino con altri preparati chimici, la produzione si era già drasticamente ridotta segnando praticamente l’inizio della fine del glorioso opificio bruzio. 

  • BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

    Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

    Il trailer del documentario dell’UDI Reggio Calabria sulle gelsominaie “La Rugiada e il Sole”, realizzato dalle giornaliste Paola Suraci e Anna Foti
    Fiori ricercati

    In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

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    La raccolta del gelsomino a Brancaleone in una cartolina d’epoca

    Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

    A capo chino

    A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

    Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

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    Gelsominaie al lavoro (Collezione Iriti-Venanzio)
    Dai centomila chili al collasso

    Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

    A Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

    In Parlamento

    La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

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    Emilio Argiroffi

    È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

    In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

    I primi servizi sociali

    Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

    È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

    Damnatio memoriae

    Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

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    Raccoglitrici di olive in Calabria negli anni che precedettero la meccanizzazione

    Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

    Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

    La Rugiada e il Sole

    In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».

  • BOTTEGHE OSCURE | Piombo e libertà nelle mani dei tipografi

    BOTTEGHE OSCURE | Piombo e libertà nelle mani dei tipografi

    La maggior parte dei lettori non avrà quasi idea di cosa siano i caratteri mobili per comporre un testo da imprimere sul foglio. I tipografi non sono più quelli di una volta, la professione è cambiata moltissimo negli ultimi decenni. Le innovazioni sono state tantissime e hanno mutato radicalmente il modo di lavorare, fino alla rivoluzione introdotta dalle tecnologie digitali. Le piccole tipografie locali hanno subito duri contraccolpi e l’introduzione di diversi macchinari ha reso molte figure non più necessarie.

    Basti pensare al compositore, che si occupava di comporre la pagina da stampare unendo pazientemente i pezzetti di piombo con lettere, spazi e segni di punteggiatura. Nei periodi elettorali, invece, si utilizzavano dei grandi caratteri in legno, utili a stampare inviti di voto su carta colorata di diverse dimensioni. Anche questo sistema è tramontato, e l’innovazione ha semplificato notevolmente i passaggi.

    Stampatori da primato

    Il primo libro stampato a Reggio Calabria risale al 1475 ed è la più antica opera in caratteri ebraici stampata al mondo. A Cosenza già nel 1478 Ottaviano Salomonio, anche lui probabilmente di origine ebraica, imprimeva con i suoi torchi alcuni opuscoli che recano impressi data e luogo di stampa. A dispetto di questo rapido arrivo, le tracce delle tipografie calabresi scomparvero per quasi un secolo, per ricomparire negli ultimi anni del ‘500.

    Agli inizi dell’800 l’istituzione delle Intendenze da parte dei dominatori francesi portò all’impianto di una nuova tipografia a Cosenza. Era quella di Francesco Migliaccio, stampatore appartenente ad una famiglia napoletana già operante nel settore che attraverso i propri torchi darà luce a moltissime opere di autori locali noti. A cominciare da “Il Bruzio” di Vincenzo Padula, pubblicato nel 1865, ma anche opere e operette di autori meno noti che altrimenti avrebbero difficilmente lasciato una traccia nella storiografia.

    Gutenberg calabresi

    Nell’ultimo quarto dell’800 il boom. Il monopolio di Migliaccio venne pian piano eroso da altre piccole tipografie, spesso legate alla diffusione di giornali e periodici espressione di particolari categorie o correnti culturali. Nel 1884 a Cosenza si contavano Giovanni Alessio, della tipografia dell’Indipendenza, Domenico Bianchi, Davide Migliaccio e Francesco Principe, della tipografia Municipale. Questi, con tutta probabilità titolari degli stabilimenti, avevano a loro volta diversi operai. Anche in provincia erano presenti attività tipografiche, tra cui quelle di Leonardo Condari e di Francesco Patetucci a Castrovillari, di Giuseppe Giuliani a Cerchiara, la tipografia del Ginnasio a Corigliano, a Lungro quella di Gaetano Guzzi e a Paola la tipografia della Concordia di Salvatore Stancati Vasquez.

    Nel Catanzarese la situazione era altrettanto vivace. Nel capoluogo c’erano le tipografie degli editori Vitaliano Asturi e Luigi Mazzocca, la tipografia della Prefettura di Giuseppe Dastoli, la tipografia Municipale e quella di Francesco Veltri e C. A Nicastro la tipografia Colavita, a Filadelfia la tipografia della Società operaia. Monteleone contava le tipografie di Fedele Gentili, Francesco Rubo, Giovanni Troise e la Tipografia Cordopatri, mentre a Crotone operava Tomaso Pirozzi. A Reggio Calabria operavano Luigi Ceruso della tipografia “all’insegna del Petrarca”, Domenico Corigliano, Adamo D’Andrea, Marianna Pananti Lipari e l’editore Paolo Siclari. A Palmi stampavano Giuseppe Lo Presti e Domenico Lipari.

    Stampa e politica

    Era il periodo della diffusione dei periodici locali, soprattutto cittadini, spesso semplici fogli in concorrenza tra loro e schierati su fronti diversi. Molti di questi si erano dotati di una propria tipografia per ridurre i costi dalla stampa del giornale. Queste piccole officine della parola scritta passavano non di rado dalla stampa del giornale alla pubblicazione di opere a tiratura più o meno elevata. Pasquale Rossi, antesignano della psicologia sociale, si serviva spesso per le sue opere dalla tipografia del giornale cosentino “La Lotta”. E allo stesso modo facevano oscuri intellettuali locali con scritti di cui non resta quasi memoria.

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    La tipografia Riccio durante l’alluvione del 1959 (Foto dal gruppo fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)

    Tra fine ‘800 e inizi ‘900 nasce così anche in Calabria, e nel Cosentino in particolare, una piccola classe di operai-tipografi. Il lavoro dei tipografi iniziava ad essere “politico” e si svolgeva in modo sparso nella città. Nella prima metà del ‘900 il quartiere cosentino di Rivocati ne accoglieva più di una, mentre la tipografia Riccio occupava uno stabile sul Lungo Crati soggetto a inondazioni. Una foto dell’alluvione del 1959 mostra l’edificio con ancora l’insegna della tipografia dipinta a grandi lettere sull’intonaco sopra l’ingresso principale.

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    L’onorevole Aldo Moro visita i locali dove veniva stampato Parola di Vita (Foto in Salvatore Fumo, Il giornalismo cattolico e lo sviluppo della Calabria Editoriale, Progetto 2000-2004)

    La parte alta di corso Telesio ospitava nei locali del palazzo vescovile, poco lontano da quelli dove ancora campeggia l’insegna del giornale “Cronaca di Calabria”, la tipografia che sarebbe diventata “La Provvidenza”, i cui torchi diedero alle stampe molto materiale di ambito cattolico. In tal senso è da segnalare la presenza in città negli anni ’40 di una tipografia della Pia Società S. Paolo, le note Edizioni Paoline, che tra l’altro diede alle stampe nel 1948 un’edizione dell’opera del sacerdote antifascista don Luigi Nicoletti, Meditazioni Manzoniane, che sarebbe finita sui banchi di molte scuole d’Italia.

    Un leghismo d’altri tempi

    All’alba del Novecento il termine “leghismo” aveva un senso e un colore politico opposti a quello odierni. Muratori, sarti, falegnami, panettieri, calzolai, facchini e tipografi cosentini diedero vita nel 1906 ad altrettante “leghe di resistenza”. Si trattava di movimenti di fratellanza operaia, veri e propri cordoni solidaristici capaci di proteggere e orientare menti non eccelse e braccia toste come il legno silano, che unendosi avrebbero potuto porre un freno alla forza padronale e un argine ai rischi connessi a lavori duri e pericolosi.

    La lega dei tipografi cosentini era presieduta da Federigo Adami, uno dei fondatori del circolo repubblicano intitolato ai Fratelli Bandiera, destinato a diventare nel 1913 il primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza.
    «Dovete fidare soprattutto in voi stessi, se volete davvero incamminarvi per la luminosa via de la rivendicazione» ripeteva Adami ai giovani apprendisti tipografi. Negli annali della Camera del Lavoro e del socialismo cosentino, Adami è descritto come organizzatore degno di stima, sempre pronto alla battaglia. Esercitava un certo influsso sui giovani apprendisti, che vi si affidavano per ogni cosa.

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    Il tipografo d’idee repubblicane Federigo Adami, primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza

    All’epoca i tipografi come i muratori, i falegnami o i fornai si dividevano in due macro-categorie: i “mastri” – custodi dell’arte e proprietari di un’attività – che speravano nel buon andamento e magari in un ampliamento della stessa, e i “garzoni” che stavano a bottega dal mastro artigiano con la prospettiva di diventare anch’essi capi d’arte e chiedevano semplicemente condizioni di trattamento migliori. La Cosenza d’inizio Novecento andava estendendosi verso le campagne ca minanu a Renne: si aprivano ovunque cantieri, e nei piccoli opifici di contrada Castagna il lavoro abbondava.

    Primo maggio 1906

    Insieme ai muratori del rione Massa, i giovani tipografi che facevano capo ad Adami furono i protagonisti della prima celebrazione del 1° maggio, datato 1906, che si svolse a Pianette di Rovito perché la pubblica sicurezza vietò il comizio in una piazza cosentina. Nei giorni precedenti tipografi e muratori avevano cercato di convincere sarti e calzolai delle migliori boutique di corso Telesio ad astenersi dal lavoro. Il favore di questi “artigiani privilegiati” sarebbe servito a far udire le lagnanze salariali ai ceti agiati della città che vi si servivano. Così fu.

    Durante la celebrazione del 1° Maggio 1906 fece la propria comparsa tra gli applausi l’anziano tipografo Rosalbino Serpa, dalle mani solcate da decenni di fatica. Era il “proto”, coordinava cioè il reparto di composizione e controllava l’esecuzione tecnica della stampa del giornale “La Lotta”, che al tempo fomentava la battaglia politica cittadina. Come ricorda Pietro Mancini: «Egli [Serpa] ci comunicò subito che era rimasto solo nella tipografia e quindi era stato mandato via a festeggiare il primo maggio dal direttore del giornale».

    La tipografia degli orfanelli

    A Cosenza l’infanzia abbandonata, i cosiddetti “trovatelli”, e insieme a loro ladruncoli e perdigiorno trovavano posto nell’orfanotrofio “Vittorio Emanuele II”. L’ospizio nacque nel periodo preunitario con l’obiettivo di garantire un futuro e avviare al lavoro i figli della miseria provenienti dai quartieri e rioni popolari di Massa, Spirito Santo e Santa Lucia. Nella seconda metà dell’Ottocento fu installata nell’orfanotrofio un’officina tipografica, destinata a diventare nei decenni una vera e propria scuola.

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    Il reparto di composizione della scuola poligrafica dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele II di Cosenza

    Con entusiasmo il deputato provinciale Francesco Vetere nel 1882 la presentò come una gloria nell’insegnamento delle «arti meccaniche, di cui l’Ospizio può attingere un incremento di forza, e gl’infelici orfani e trovatelli, raccolti dalla pubblica carità, potere apprendere un’arte colla quale possano campar la vita, acquistare un posto nella società». Fino ai 18 anni i giovani aspiranti tipografi venivano suddivisi in squadre di sette elementi alle dipendenze di un capo d’arte. Il frutto del loro lavoro – libri, opuscoli ecc. – sarebbe stato venduto e 1/5 dell’utile (al netto delle spese) sarebbe stato diviso in parti uguali tra i giovani lavoranti.

    Sfruttamento e futurismo

    Ma le cose non andarono sempre per il verso giusto. Già sei anni dopo, il commissario governativo Tancredi ravvisò che i capi d’arte sfruttavano il lavoro degli apprendisti per proprio tornaconto, che nessuno degli alunni aveva appreso le prime nozioni e tutti lavoravano senza compenso. La tipografia dell’orfanotrofio conoscerà una stagione ben più florida negli anni ’50 del Novecento. L’ospizio era presieduto da Ruggero Dionesalvi e nel consiglio d’amministrazione figurava l’avvocato e giornalista sampietrese Giuseppe Carrieri (1886-1968) definito dal suo compaesano Alfredo Sprovieri «primafila dell’ultima avanguardia futurista italiana in grado di sedurre il mondo».pIO

    La “poesia silenziosa” di Carrieri venne scandagliata attraverso le opere di Pietro De Seta e Gaetano Gallo pubblicate proprio nel “Baraccone”, com’era chiamata l’officina annessa all’orfanotrofio e trasformata il 10 giugno 1950 in una vera e propria scuola poligrafica allo scopo «di tenere il piccolo drappello di fanciulli lontano dai rumori e vizi della città […] educare alla scuola del lavoro le tenere e frequenti vittime dei pregiudizi e dei disordini sociali».

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    La vecchia tipografia dell’orfanotrofio, oggi cadente e in preda al degrado, fu tagliata fuori dal progetto di ristrutturazione, adeguamento antisismico e riconversione dell’ex convento dei Carmelitani, e che fu sede dell’orfanotrofio, nel moderno Istituto Alberghiero “Mancini”, una delle opere di edilizia scolastica del primo mandato di Mario Oliverio quale presidente della Provincia.