Autore: Matteo Dalena e Lorenzo Coscarella

  • BOTTEGHE OSCURE | Gassose: un “derby” tutto calabrese

    BOTTEGHE OSCURE | Gassose: un “derby” tutto calabrese

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    Ancor più dell’agone calcistico è una bibita tutta calabrese a dividere le città di Cosenza e Catanzaro. Una bevanda semplice, che si ottiene aggiungendo caffè alla gassosa, determina una quasi fideistica adesione a due brand o “parrocchie”: la cosentina Moka Drink e la catanzarese Brasilena. Impossibile cercare di stabilire quale sia la più buona, ricercata o ancora la più datata. Ma un fatto è certo: in quanto ad “acque gassose” entrambe le città vantano, insieme a Reggio Calabria, una tradizione che affonda le proprie radici nella seconda metà dell’Ottocento.

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    Il derby delle bolle: “Brasillena” contro “Moka drink”

    Derby calabrese: in principio era Reggio contro Cosenza

    Nel 1879 erano soltanto tre le fabbriche calabresi che producevano “acque gassose”: due in provincia di Reggio Calabria e una a Cosenza, tutte classificate come produzioni “di minore importanza” e che davano lavoro a un manipolo di operai. Catanzaro non conosceva ancora una produzione locale di bollicine.

    Il successivo ventennio fece registrare per le bibite frizzanti con proprietà toniche e rinfrescanti un discreto successo, preludio al boom dei decenni che verranno. Alla metà del Novecento la gassosa era diventata un must, l’alternativa innovativa ad acqua e vino. Con quest’ultimo la gassosa formava un’abbinata “vincente” che accontentava persone poco avvezze all’alcol o serviva a camuffare vinacci di terza o quarta scelta.

    Questa tendenza ottocentesca ad “aggiustare” vini poco gradevoli era incoraggiata un po’ dovunque da pubblicazioni come la Rivista d’igiene e sanità pubblica del 1895. Qui apprendiamo che la produzione delle prime acque artificialmente gassate avvenne nel corso del Settecento, ma per molto tempo furono considerate un bene di lusso per l’alto costo.

    Acquafrescaio a Napoli

    Bollicine e progresso

    Poi negli anni ‘30 dell’Ottocento nella Francia funestata dal colera si diffuse «la credenza che l’acqua di Seltz, ed in generale tutte le bevande gassose, giovassero assai contro il morbo asiatico» al punto che «si pensò a svilupparne grandemente l’industria». Il prezzo scese notevolmente e la produzione s’incrementò, anche per la convinzione che «le acque gassose devono essere considerate come bevanda di notevole importanza dal lato igienico».

    L’aggiunta della gassosa al vino era addirittura incentivata: «Infatti un vino debole acquista così una certa sapidità per la quale il gusto è meglio soddisfatto». Ma soprattutto «si è osservato che i casi di ebbrezza sono tanto meno frequenti, quanto più si fa uso di acque gassose mescolate al vino» e per questo, come sosteneva il batteriologo Francesco Abba: «il crescere del consumo dell’acqua di Seltz è cagione ed indizio di progresso nella civilizzazione».

    Il giro di affari cresce

    A fine Ottocento le fabbriche di acque “gassose” o “gazose” iniziarono a diffondersi capillarmente anche in Calabria. Nel 1891 la provincia di Reggio contava sette fabbriche, nelle quali lavoravano sedici operai e che quell’anno avevano prodotto nel complesso 197,69 ettolitri di acque gassose. Quattro di queste erano attive a Reggio e impiegavano 10 operai. Le altre tre fabbriche sorgevano a Bagnara Calabra, Gioia Tauro e Palmi e vi lavoravano due operai ciascuna.

    Le fabbriche nella provincia di Cosenza erano quattro: due a Rossano che davano lavoro a quattro operai, una a Cosenza con tre lavoratori e una a Castrovillari che contava un solo impiegato. Nel Catanzarese nel biennio 1890/1891 erano attivi quattro impianti per la produzione di acque gassose che impiegavano in tutto otto operai. Oltre alle due del capoluogo che davano lavoro a quattro operai, erano in funzione altre due fabbriche, una a Monteleone e un’altra a Nicastro che impiegavano due operai ciascuna. La produzione catanzarese complessiva si aggirò in quel biennio sui 123.87 ettolitri di bevande gassose.

    Il giro di affari continuò a crescere nel giro di pochi anni anche se non è facile disporre di dati esaustivi considerato che la produzione di acque gassose era spesso affiancata nell’ambito della stessa fabbrica ad altri generi: dolciumi, spiriti, materie vinose e confetture.

    Pubblicità di D’Atri da Indicatore postale-telegrafico del Regno d’Italia 1902-1903

    Gassose d’antan

    Nel 1902 a Castrovillari il proprietario del Gran Caffè Unione, un certo Alberto d’Atri, oltre a commerciare armi e altri articoli da caccia era noto come “Fabbricante di Acque Gassose”. Negli anni successivi gli elenchi dei produttori calabresi, spesso piccoli artigiani che inseguivano la fortuna nei settori più disparati, si fanno più fitti. A Castrovillari nel 1918 operava la “Società Riunite”, a Cosenza si dedicavano alla produzione di bollicine Agostino Deni e Giovanni Gallo, a Scigliano Luigi Virno.

    A Catanzaro operavano Raffaello Camistrà, Giuseppe Castagna, Demetrio Quattrone e Luigi Turrà. Antonio Scerbo era titolare di un’industria a Marcellinara. Nel 1924 a Catanzaro operavano i fabbricanti di gassose Giuseppe Corace e Nicola Taranto, a Nicastro Vincenzo e Fedele Ferrise e Santo Riommi, a Cutro Ferdinando Mancuso, a Sambiase Rocco De Silvestro, a Soriano Pasquale Vari mentre a Limbadi Vincenzo Musumeci.

    In provincia di Reggio nel 1918 era attiva l’industria di Spataro a Bova Marina, di Francesco Laganà a Motta San Giovanni, di Giovanni Belordi e Antonio Lazzaro a Sambatello, di Giuseppe Mittica a Sant’Ilario dell’Ionio, Matteo Laganà a Radicena, Mariano Ursino a Roccella, Domenico Spagnolo a Rosarno. A Gallina nella fabbrica di Pasquale D’Ascola si producevano insieme “Gassose e Birra” e lo stesso avveniva a Siderno negli impianti di Raffaele Pellegrino e Vincenzo Cremona.

    Il dato significativo riguarda il 1924, anno in cui si registrò una produzione considerevole. Tra i beni soggetti a dazio, le acque gassose erano associate alle acque minerali da tavola e raggiungevano una produzione di 2.717 ettolitri in provincia di Cosenza, per un reddito generato di 22.515 lire, 2.810 ettolitri ed un reddito di circa 20mila lire in quella di Catanzaro, e 2.402 ettolitri con un reddito di circa 24mila lire in quella di Reggio Calabria.

    Vuoti a rendere

    Negli anni ‘50 del Novecento fabbriche e fabbrichette si moltiplicano, dai centri più grandi fino ai piccoli paesi. La gassosa si è ormai ritagliata un posto sulle tavole e nei bicchieri dei calabresi, con l’immancabile bottiglietta di vetro “vuoto a rendere”.
    A Cosenza spopolavano le gassose di Gallo, di Bozzo, di Spadafora e di varie altre piccole fabbriche, in genere a conduzione familiare, che avevano sede in quella che era allora considerata la parte nuova della città.

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    Marchio di Fabbrica per le bibite di Annino Gallo a Cosenza depositato nel 1933

    Prima della Seconda guerra mondiale, stando all’Annuario generale d’Italia e dell’Impero italiano, la fabbrica di acque gassate di Annino Gallo aveva sede in corso Umberto, quella di Antonio Spadafora in via Monte Santo, quella di Sante Filice in corso Mazzini e quella di Alfio Deni di Agostino in via Rivocati.

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    Alcuni marchi di gassose cosentine (foto L. Coscarella)

    Nei decenni successivi molte si spostarono, altre aggiunsero nuovi prodotti al loro listino, qualcuna chiuse del tutto, qualche altra continua ancora la sua attività mutando col tempo forma e denominazione. Quella di Gallo è rimasta particolarmente impressa nei ricordi, anche perché il suo laboratorio, oltre alle semplici gassose, produceva anche bibite al limone, cedrate e, più in là, la mitica gassosa al caffè.

    Il marchio di fabbrica, che non poteva che rappresentare un gallo stilizzato, venne depositato nel 1931 da Annino Gallo per una generica “Bibita Gallo” e comparve poi con nuove forme sui tappi e sul vetro delle mitiche bottigliette di gassosa. Più in là comparve anche la marca “3 galletti”, mentre tra la concorrenza si diffondeva anche la gassosa della fabbrica di Eugenio Bozzo. Qualunque fosse la marca, in cantina e in famiglia la gassosa divenne per alcuni decenni ospite fisso della tavola, sia in cantina, accompagnando i famosi tre quarti di vino, sia in famiglia, soprattutto nelle ricorrenze.

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

    BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

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    Quanto sareste disposti a pagare per un chilo di neve? Probabilmente nulla, ma attenzione: la domanda non è così peregrina come si può immaginare. Fino a circa un secolo fa (prima dell’avvento dei mezzi meccanici per produrre il ghiaccio), la neve alimentava un discreto mercato anche fuori dai mesi invernali. Era pratica diffusa acquistarne quantitativi più o meno grandi da usare in casa per i motivi più svariati, dal più intuibile tentativo di rinfrescare l’acqua a realizzare bevande. Che ai nostri trisavoli piacesse gustare una scirubetta ad agosto, diciamocelo, non ce lo saremmo immaginati.

    La pratica era diffusa non solo in Italia ma anche in Francia, Germania e in altri paesi europei. Certo, suscita curiosità come un simile settore economico abbia potuto prendere piede anche al Sud e in Calabria in particolare, visto il torrido clima estivo. Era necessario disporre di neve, o ghiaccio, nei mesi estivi, quindi bisognava trovare il modo per conservarne nei mesi invernali, quando ce n’era in abbondanza. E quale luogo se non la Sila poteva divenire la “miniera” calabra dove “estrarre” questo prodotto?

    In Magna Sila

    «Su i monti della Sila vi sono alcuni fossi, ne’ quali si ripone la neve, che con diritto proibitivo si dispensa alle popolazioni delle due Calabrie» scriveva nel 1788 l’avvocato Giuseppe Maria Galanti nella sua Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie. La Sila era tra gli “arrendamenti”, cioè le fonti di gabelle e imposte per il Regno di Napoli, che ne appaltava la riscossione a privati. La Sila generava allo Stato un gettito fiscale non indifferente perché forniva legname per le navi, pece bianca e nera di buona qualità, pascoli. E, appunto, neve in abbondanza.

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    Pinelli, venditore di Sorbetti a Napoli, 1840

    Nello stesso periodo nella città di Napoli la neve si vendeva al minuto a tre grana il rotolo (circa 900 grammi). I venditori la compravano a 2,40 ducati al cantaro (circa 90 kg, dunque 2,4 grana al rotolo, con un guadagno di 0,60 grana a rotolo) e su questi dovevano pagare diverse gabelle. Una buona parte della neve “napoletana” arrivava in città via mare dalla Calabria e in particolare dalle neviere silane. Si trattava di cavità, a volte naturali ma molte altre volte opera dell’uomo, quasi sempre sotto terra, nelle quali d’inverno la neve veniva accumulata, pressata e compattata fino a formare un enorme blocco di ghiaccio. Le neviere venivano poi “foderate” con legname, foglie o paglia, creando, per quanto possibile, una sorta di isolamento termico.

    A vineddra d’a nive

    Dalla centrale (almeno un tempo) piazza del Duomo, si dirama a sinistra della Cattedrale l’attuale via Giuseppe Campagna, che scende verso il quartiere dello Spirito Santo. Siamo nel cuore del centro storico di Cosenza, a monte delle antiche mura romane che costeggiavano il fiume Crati, in quella che tutti conoscono come a vineddra d’a nive.
    La delimitano in alto la piazza del duomo e in basso la pustìerula, la postierla, porta d’accesso secondaria nelle mura della città. Era conosciuta nel ‘500 come ruga dei Morti, probabilmente per via del vicino cimitero della Cattedrale.

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    La ‘vineddra d’a nive’ nei pressi di piazzetta Toscano

    Iniziò successivamente ad essere indicata come via della Neve perché divenuta intanto il punto di concentrazione delle neviere urbane e dell’attività di vendita di neve e ghiaccio, che generalmente avveniva da maggio ad ottobre. La via era adibita a questo uso probabilmente perché, essendo stretta e formata da edifici alti, il sole difficilmente riusciva a penetrare fino a giù. I bassi di via della Neve erano così perfetti per realizzarvi le neviere cittadine e replicare il sistema silano all’interno di grotte e cantine. Anche qui erano presenti delle cavità scavate nel terreno dove la neve veniva stipata, e coperta di paglia perché la temperatura rimanesse più bassa possibile.

    Caterina a nivara

    Dalle pergamene dell’Archivio storico diocesano di Cosenza apprendiamo come agli inizi del ‘700, ad esempio, vi operasse Caterina De Prezio alias a nivara, vedova di Francesco Santanna da Cosenza che nel 1709 vendette al Capitolo della Cattedrale di Cosenza la sua casa «sita in Cosenza alla Ruga dei Morti o dove si vende la neve». Il soprannome a nivara dato alla De Prezio e il toponimo rappresentano una testimonianza straordinaria del legame tra luogo, abitanti e attività commerciali: via dei Mercanti, degli Orefici, dei Cassari, dei Pettini, delle Conciarie, piazza delle Uova, del Pesce, dei Follari, della Neve e così via. Si trattava di attività spesso portate avanti dalle classi popolari, ma la vera partita si giocava molto più in alto.

    Monopolio sulla neve

    La possibilità di estrarre la neve era prerogativa del regio fisco, che ne appaltava la gestione a privati. Il conduttore della bagliva e delle neviere della regia Sila, aggiudicatario dell’appalto, aveva la gestione in monopolio della distribuzione della neve in tutta la regione. Non di rado sorgevano controversie tra questo, i baroni e le università demaniali, che pretendevano di mantenere alcune libertà sui loro feudi e territori. I “conduttori” avevano il compito di far realizzare le neviere in Sila e il loro monopolio subiva la concorrenza di feudatari e università con territorio in altre zone nevose, dove sorgevano altre neviere in genere per uso locale.

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    Biblioteca Nazionale di Napoli. 1770. Documentazione della causa dei baroni calabresi contro il Conduttore delle Neviere

    I problemi arrivavano quando feudatari e università calabresi posti in luoghi senza neviere non acquistavano la neve della Sila dal conduttore delle neviere ma da altri feudatari o università che le realizzavano per proprio consumo. Ne scaturivano dispute infinite per dazi e diritti vari, con “molestie” ai nevaioli che trasportavano e vendevano la neve in giro per la regione.

    Appalti e multe

    «La sera fui presa da un caldo violento; mandai a comprarmi un po’ di neve. Gesù! Che porcheria! Vi era paglia, vi era cenere, né potei spiccarne un po’ di netto per metterlo dentro il bicchiere e rinfrescarmi l’acqua». Così fa dire Vincenzo Padula a Mariuzza Sbriffiti nel 1864 su Il Bruzio, in una lettera-denuncia in cui accenna alla scarsa qualità della neve venduta a Cosenza. E non era un problema di poco conto. In città l’appalto per la vendita della neve era oggetto di dibattito nell’amministrazione comunale ancora nel 1869.

    Per il municipio di Cosenza l’appalto della “privativa della neve”, come veniva in passato indicato il sistema di monopolio esercitato dal Comune sulla vendita della neve, era una risorsa finanziaria consistente. L’aggiudicatario dell’appalto aveva il compito di provvedere al trasporto della neve dalla Sila alla città, venderla pulita e scartare quella gelata. Nei mesi estivi la richiesta era tale che l’appaltatore doveva fare in modo di tenere le rivendite aperte giorno e notte «per ogni bisogno, almeno fornita di non meno di otto balle di neve». E per gli inadempienti erano previste pesanti multe.

    U Zumpo

    A dispetto dell’attuale rete idrica colabrodo e della relativa mancanza cronica in gran parte dei quartieri cittadini, nei tempi passati attorno all’acqua cosentina – pubblica, potabile e pure di buona qualità – gravitava tutta una serie di attività. La data più importante da annotare è il 14 marzo 1899. Centoventidue anni or sono, infatti, l’arcivescovo – che, scherzo del destino, di cognome faceva Sorgente – tenne a battesimo insieme al sindaco Salfi la fontana detta dei Tredici canali, così detta per il numero di “bocche” all’epoca tutte attive (che però all’inizio erano dodici). Quest’ultima era il simbolo di quel progresso che, finalmente, portò l’acqua corrente in città grazie alla rete idrica dello Zumpo. Lo stesso acquedotto che in epoca fascista sarebbe stato affiancato da quello del Merone per servire una città ormai lievitata a vista d’occhio.

    La “belle époque” dell’acqua cosentina vide venire alla luce tre floride attività. Nell’estate del 1900 i cosentini andavano a fare i bagni nel fondo agricolo dei Frugiuele detto “la Castagna”, dentro una vasca d’acqua – «potabile» secondo le autorità sanitarie – che proveniva dallo Zumpo. A questa si aggiunse nel 1911 la gloriosa Risanatrice, una lavanderia a vapore che fungeva anche da stabilimento balneare. Ma, cosa più importante, fu l’impianto nel 1912, sempre alla Castagna, di una ghiaccieria o ghiacciaia, vale a dire una fabbrica per la produzione di blocchi di ghiaccio.

    Una “dieci” di ghiaccio

    L’acqua allo stato solido, in forma di neve oppure ghiaccio, conserva un posto speciale nelle memorie bruzie. Nei vasci della vineddra d’a nive, a un tiro di schioppo dal Duomo, la stessa veniva raccolta e conservata in apposite vasche e cummegliata con uno strato di paglia. Oggi la maggior parte di quei magazzini versa in uno stato pietoso, ricettacolo di macerie e spazzatura. Dell’antica pratica di conservare la neve per i più svariati usi non rimane la benché minima traccia.

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    Un ‘vascio’ nella ‘vineddra d’a nive’

    Ma ancor più care nella memoria collettiva sono le due storiche e rinomate “ghiacciaie” cosentine: Cinnante, sempre ara Castagna, e Gervasi ara Riforma. Quest’ultima fino alla seconda metà degli anni ‘50 era ritrovo per grandi e soprattutto piccini, specie per motivi di centralità e densità abitativa. A pochi metri dalla salita dell’ospedale civile – oggi via Migliori – nello stabile che per molti anni ospiterà un rifornimento di benzina stava la rinomata ghiacciaia di Gervasi. Qui accorrevano torme di monelli armati di mappina pulita a comprare il ghiaccio. A quell’epoca con 10 lire te ne portavi a casa quasi 1 chilo e mezzo!

    L’Anthony Quinn della Riforma

    «Lo portavamo a casa e ccu u murtaru du sale o ammaccaturu si triturava per ottime granitine a base di mel’i ficu, mandorla o altri estratti che si aveva in dispensa» ricorda un nostalgico Ciccio De Rose. Qui pare che un tipo dallo sguardo torvo e dai lineamenti poco gentili desse quotidianamente vita a una danza del ghiaccio. Servendosi di uno spaventoso arpione, l’Anthony Quinn della Riforma tirava giù con vigoria gli enormi pezzi che si formavano per via di alcune serpentine poste nella parte alta del locale. Un movimento che ripeteva fino allo sfinimento, cadenzato dalla caduta dei pesanti blocchi che s’infrangevano su una sorta di tavolato. Qui li frenava lo stesso omaccione a colpi d’arpione, per poi ridurli con una serra a mano in “tagli” da cinque, dieci e venti lire per i più svariati usi ed esigenze.

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    Piazza Riforma negli anni ’60: il distributore di benzina ha da poco preso il posto della ghiaccieria di Gervasi

    L’Anthony Quinn bruzio appese il proprio arpione al chiodo intorno alla fine degli anni ’50. Le due ghiaccierie sopravvissero ancora per qualche anno, ma non ressero all’arrivo dei moderni frigoriferi e congelatori, una vera e propria svolta per quanto concerne la conservazione degli alimenti e le abitudini famigliari. Furono in breve gli altoparlanti Marelli, in vendita da Scarnati in piazza Ferrovia e da Caputo in via Sertorio Quattromani, a suonare il requiem per neviere e ghiacciaie cosentine.

     

  • Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    La canapa è come il maiale, non si butta via proprio nulla. Lo sostengono a gran voce coltivatori e commercianti che negli ultimi anni, anche in Calabria, hanno deciso di puntare sui molteplici usi della cannabis industriale, principalmente nei settori tessile, alimentare e della cosmesi. Sono tante le aziende calabresi, soprattutto a carattere famigliare, che hanno deciso di coltivare a cannabis appezzamenti di terra prima destinati all’incolto, applicando nuove tecniche e tecnologie a una coltura che si pratica nelle province di Calabria Citra ed Ultra già da cinque secoli.

    Swinburne a Pentidattilo e la migliore canapa della Calabria

    Nel 1777 lo scrittore e viaggiatore britannico Henry Swinburne percorreva in sella a un cavallo il tratto di costa ionica da Bova a Reggio Calabria quando s’imbattè in “un paese delizioso”, Pentidattilo. Qui ebbe modo di apprezzare che «le condizioni dell’agricoltura erano molto migliori di quelle che avevo visto finora in questa provincia». Così come che «la terra è coltivata con perizia e cura maggiori e di conseguenza dà raccolti più ricchi». Il giudizio finale dello scrittore è netto e lusinghiero: «La sua canapa è la migliore della Calabria». Era tempo di raccolto e il colto viaggiatore non poté fare a meno di annotare che, nonostante l’impegno, «sembrava che [i contadini] ci mettessero troppo per la scarsità di manodopera».

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    Strumenti per la lavorazione dei filati. Dipignano,, Museo del rame e degli antichi mestieri. (foto L. Coscarella 2019)

    L’erba buona del marchese

    Il primo a proiettare un poderoso fascio di luce su «queste due derrate così utili», il lino e appunto la canapa, è il marchese Domenico Grimaldi. L’opera Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra (Napoli, 1770) è un’attenta disamina in perfetto stile illuminista e riformatore dello stato dell’economia agricola della parte meridionale della regione. L’obiettivo è il superamento dell’ignoranza, dell’indolenza e della rassegnazione delle classi dirigenti. Ossia quelle che impedivano la piena valorizzazione dei tanti “tesori” a portata di mano. Grimaldi definisce quella della canapa una «coltura ristrettissima». Eppure, commentava, «potrebbesi nella Calabria dilatare assai più, essendovi una quantità immensa di terreni, dove la canapa riuscirebbe della più sopraffina che vi sia». Il clima moderatamente caldo e i «terreni leggieri» del sud della Calabria determinerebbero secondo Grimaldi «file assai più fine». Altra cosa, dunque, rispetto a quelle venute su in «terreni forti, ed umidi» e climi freddi.

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    Una raccoglitrice di canapa

    Purgare e pettinare la canapa

    Da buon illuminista Grimaldi fa parlare i numeri e l’esperienza diretta. Da 25 libbre di canapa di scarsa qualità, buona soltanto per la produzione di corde, racconta di essere riuscito a ricavare «libre 9 e mezza di finissima, che non era inferiore al più bel lino d’Olanda e, libre 14 di stoppa così bella, che se ne poteva far ovatta, come il cotone, e che filata ha reso un filo anche bellissimo». Il “segreto” risiede a suo parere nell’ultima scoperta «sulla maniera di purgar la canapa». Quale? Nettarla da quelle «cannucce non ancora ben macciolate», cioè dalla parte più grossolana. Con questo metodo «nella Provincia si potrebbe avere la più bella, e finissima canapa del Mondo, le stoppe veramente eccellenti, e che servirebbero a più usi».

    Un’arte femminile da perfezionare

    Riguardo alle fasi cruciali della pettinatura e alla filatura Grimaldi parla chiaro. La canapa calabrese potrebbe acquistare in qualità se pettinata con «pettini francesi, e la ver’arte di pettinare». Le donne calabresi, precisa, «filano alquanto bene». Ma nessun barone o ricco proprietario ha mai pensato di perfezionare la loro arte facendo «venire qualche contadino forastiero perito della coltivazione della canapa; e delle buone filatrici e tessitrici». Coltivando la canapa in Calabria alla «maniera forastiera», facendo cioè arrivare degli esperti «per insegnare a manifatturarla», i baroni o ricchi proprietari potrebbero impiantare una fabbrica di tele fine. I costi? Secondo il marchese «con meno di tre mila ducati si potrebbe introdurre una picciola fabbrica di tele, ed a misura potrebbe crescere, e rendersi considerabile».

    Canapa in Calabria: i cànnavi di Corrado Alvaro

    Di canapa scrisse anche Corrado Alvaro. Lo fece nel 1941, in Civiltà, una poco conosciuta “Rivista trimestrale della Esposizione Universale di Roma”. L’articolo, corredato da belle fotografie, era dedicato alla produzione nel Bolognese e nel Ferrarese. Ma non manca un riferimento al Meridione: «La canapa è cosa vecchia come il mondo nostro Mediterraneo. Non ha mai mutato nome, e si chiamò “cannabis” in greco come in latino. In quasi tutta l’Italia meridionale serba questo nome: si chiama “cànnavi”. In bolognese “cànnva”. In sanscrito era “cana”[…] Con la lana e il lino ha vestito l’umanità per migliaia di anni».

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    La lavorazione della canapa, foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numero di “Civiltà” del 1941

    La provincia di Reggio era quella dove la canapa trovava terreno fertile alla sua proliferazione. Superava persino il lino tra le piante tessili utilizzate. «Nei paesi del circondario di Reggio, e massime nelle campagne adiacenti il capoluogo, si coltiva su larga scala la canapa e subordinatamente il lino, che crescono giganti, raggiungendo la prima l’altezza di due metri». La destinazione era la solita produzione di tessuto per corde e cordame, in primo luogo. Non mancava, tuttavia, l’utilizzo per capi di abbigliamento popolari. Così le donne tessevano tele di lino, cotone o canapa «per uso di camicie, di mutande, di lenzuola».

    Febbri palustri

    Il terreno per la coltivazione della canapa, che doveva essere profondo e sufficientemente umido, veniva preparato nei mesi di marzo e aprile con la pulizia dalle erbacce, la concimazione e la semina. Una volta venute fuori le piantine, il terreno veniva irrigato per inondazione. E così si arrivava al momento della fioritura, in genere tra fine giugno e luglio. In questa fase le piante venivano strappate con tutte le radici e riunite in “mannelli” pronti per la fase della macerazione. La presenza di queste terre irrigue aveva risvolti meno felici. Si ipotizzava che le stesse causassero la diffusione della “febbre intermittente o palustre”, una delle maggiori cause di mortalità della popolazione agricola. Inoltre la vegetazione troppo fitta, che impediva il passaggio dell’aria, e le stesse fasi della macerazione della pianta (fatta senza alcuna precauzione) e dell’essiccazione erano considerate promotrici dello sviluppo di febbri miasmatiche.

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    Le fasi della lavorazione della Canapa (da Encicolopedia Popolare Sonzogno, 1928)

    Più canapa che lino in Calabria

    Il processo di lavorazione delle piante seguiva metodi che venivano definiti già allora letteralmente “primitivi”. «Giunte queste piante a maturità, e private dei loro semi, vengono raccolti in fasci, i quali si pongono a macerare in larghi fossi scavati sul lido del mare od in apposite gore situate lungo i corsi d’acqua, fissandoli con grosse pietre. Dopo otto o dieci giorni, e quando l’agricoltore si accorge che la parte tigliosa è ben macerata, i fasci si tolgono dall’acqua stagnante, si fanno asciugare al sole e poi si gramolano con un rostro a battitoio di legno».

    La canapa veniva piantata anche nei gelseti. Fatto sta che gli ettari coltivati in tutta la provincia di Reggio erano circa 1200. Nel 1879 avevano prodotto 8000 quintali di canapa. Per fare un confronto con la “pianta concorrente”, il lino, sappiamo che nello stesso periodo si coltivavano a lino 1748 ettari, che avevano prodotto 6000 quintali di lino.

    Strumenti per la lavorazione della canapa

    Le vurghe

    In provincia di Cosenza la macerazione di lino e canapa era malvista per la credenza che nuocesse alla salute. Si registrarono, infatti, alcune morti di animali che avevano bevuto le acque dei “maceratoi”, ma non c’erano conferme. In provincia, al 1883, rispetto al lino la produzione della canapa faceva registrare cifre inferiori. La procedura di lavorazione, però, era simile e richiedeva una fonte d’acqua per la macerazione. A volte si scavavano delle fosse nel terreno dette “vurghe”. Si riempivano d’acqua di fiume o di sorgente incanalata con un rivolo che scorreva rinnovando continuamente l’acqua delle fosse. Al loro interno si mettevano a macerare il lino o la canapa. Il tempo necessario oscillava fra i 10 e i 15 giorni. Nei dintorni di Rossano la macerazione avveniva in acque stagnanti in riva allo Jonio o nel letto dei fiumi. Capitava così che le alluvioni distruggessero tutto il lavoro.

    Una produzione locale

    Dopo la macerazione la canapa veniva asciugata al sole. Poi si lavorava con un “ordegno” formato da due pezzi di legno, uno fisso e uno mobile. Tra essi si inseriva il prodotto che doveva essere maciullato e ridotto in sostanza utile per la filatura. Non erano stati ancora introdotti sistemi di lavorazione meccanica. Intorno al 1880, nel Catanzarese, la coltivazione della canapa era rara. La si poteva incontrare «appena in qualche orto e nelle vicinanze di Filandari».

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    Memoria di Vincenzo Ramondini per migliorare la lavorazione della canapa in Calabria Ultra

    Alcuni dati di qualche anno dopo ci informano che nel 1892 in Calabria si utilizzavano per la coltivazione della canapa 417 ettari, 11 in più dell’anno precedente. Di questi 228 erano nel Vibonese e 133 nei dintorni di Palmi. Su questi terreni, nel 1881, la produzione ammontava a 2161 quintali di canapa, divenuti 3271 l’anno seguente. Si trattava comunque di una produzione limitata all’uso locale.

    Corde e spaghi

    Sul finire dell’Ottocento c’è traccia di diversi opifici che utilizzavano la canapa per la fabbricazione di cordami. Nel Reggino operavano ben ventuno piccole fabbriche. Sette erano a Polistena e le altre sparse tra Sant’Eufemia d’Aspromonte, Gioiosa Ionica, Bagnara Calabra, Caraffa del Bianco, Mammola, Rosarno e Seminara. Quelle di Polistena e Gioiosa erano le più importanti. Oltre spaghi e cordicelle, producevano anche «funi grosse a cavi doppi di cui si servono i mulattieri ed i marinai». La materia prima non era solo locale, ma reperita anche a Napoli e Messina. Il commercio dei prodotti, invece, rimaneva essenzialmente locale.

    A Cetraro, sul Tirreno cosentino, erano attive quattro piccole fabbriche che occupavano quattro uomini e cinque donne. Al loro interno si adoperava canapa proveniente da Napoli per produrre cordami «con semplici congegni torcitoi a mano». Tre fabbriche a Fuscaldo, invece, impiegavano canapa di produzione locale per produrre cordoncini e spaghi grazie al lavoro di cinque uomini e una donna.

    Industrie casalinghe

    Nel Catanzarese le fabbriche di cordami operanti a fine Ottocento erano cinque. Tre erano operative a Soriano Calabro e le altre a Cortale e Chiaravalle Centrale. I macchinari erano assenti, ad eccezione dei soliti «semplici congegni torcitori a mano». La produzione era riservata all’uso agricolo, impiegando canapa locale e altra proveniente dalle provincie di Caserta o di Reggio Calabria. Una porzione rilevante era comunque destinata all’industria tessile casalinga. Erano migliaia i telai che tessevano lino e canapa, ma i prodotti si realizzavano quasi sempre per uso degli stessi produttori.

    Altra foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numeri di Civiltà del 1941

    Nei primi del Novecento la coltivazione della canapa aveva «importanza limitatissima». I circondari di Monteleone, l’attuale Vibo Valentia, e Palmi, in provincia di Reggio, erano ancora le zone più utilizzate. Le aree coinvolte erano in genere terreni irrigui posti lungo i torrenti. Nel 1908 la produzione di canapa raggiungeva i 6 quintali per ogni ettaro di terreno. Ma le industrie del settore, come anche quelle del cotone, del lino e della iuta, si erano «arrestate allo stato d’industrie casalinghe».

    Canapa in Calabria: un comparto tutto femminile

    Sul numero di telai operanti a inizio del secolo, sappiamo che erano 5137 quelli adibiti alla tessitura di lino e canapa in questa industria casalinga. Sempre unitamente per lino e canapa, sappiamo che gli artigiani filatori erano 35 uomini e ben 62.040 donne (delle quali più di 60 mila la esercitavano come attività principale, e 1766 come professione accessoria). I tessitori delle stesse materie, invece, erano 20 uomini e 8709 donne (delle quali 8279 lo svolgevano come mestiere principale). Il prodotto veniva utilizzato nei 38 opifici per cordami censiti nel 1901, nei quali erano attivi «99 congegni torcitori a mano» e «lavoravano 120 individui». Altri 117, a loro volta, lavoravano come “indipendenti”.
    Tuttavia il livello d’innovazione in questo campo fu sempre quasi nullo. Metodi primitivi, strumenti a mano, scarsa richiesta di esportazione facevano del settore della canapa calabrese un’industria locale con scarse prospettive.

     

  • Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

    Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

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    Il diciannovesimo secolo portò innovazioni nei vari campi della vita. Perciò anche la morte e le sue adiacenze subirono cambiamenti repentini e radicali. La spinta data dalle leggi successive all’Unità d’Italia sulla costruzione dei cimiteri e l’abbandono delle sepolture nelle chiese fu fondamentale per la modernizzazione della “bottega” della morte.

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    L’Editto di Saint Cloud

    Chiunque abbia studiato I Sepolcri di Foscolo dovrebbe aver conservato una qualche reminiscenza dell’Editto di Saint Cloud (1804), con cui Napoleone vietava nel suo impero il seppellimento dei cadaveri all’interno dei centri abitati e delle chiese. Una legge di civiltà, non c’è che dire, ma che ovviamente in Calabria venne recepita e applicata soltanto molti decenni dopo. Le discussioni sul tema furono vivacissime per tutto il secolo. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo abitudini secolari, scarse finanze degli enti preposti, e l’atavico immobilismo della classe dirigente. Che fosse ormai necessario costruire un camposanto in ogni centro abitato era ormai chiaro ai più.

    Un moderno cimitero a Cosenza

    Nel 1856 il dottor Michele Fera illustrava agli accademici cosentini la sua relazione sulle febbri che periodicamente affliggevano Cosenza. E tra le misure di profilassi indicava la realizzazione di un moderno cimitero, schernendo chi ancora era restio all’idea: «Non si dee credere che i Camposanti siano stati nelle grandi città costruiti per offrire ispirazioni a’ romantici poeti, o perché l’innamorato trovi una perenne ricordanza de’ passati palpiti sull’avello che chiude il frale di colei che amava, ma denno ritenersi come utilissimo trovato della pubblica igiene per evitare che, colla putrefazione de’ cadaveri, s’impurasse l’aria delle città; e le usanze di tutti i paesi dell’antichità ciò mostrano perché i cadaveri s’incenerivano».

    Essiccati come il baccalà

    Ancora nel 1864 la situazione era pietosa anche nelle città più grandi. Il solito, mai abbastanza appezzato, Vincenzo Padula, nel suo periodico Il Bruzio ci offre un quadro a tinte fosche della situazione cosentina. Passando in rassegna le statistiche comunali, osservò che in dieci mesi erano morte più di mille persone. E che tutte erano state seppellite all’interno delle chiese della città. Gran parte di queste ultime si trovava in pieno centro abitato e l’una non lontana dalle altre. Padula ne aveva esperienza diretta: «Il bruzio abitando a 30 passi dal Cimitero di Santa Caterina ha osservato che il fetore dei cadaveri cresce secondo i gradi di umidità, minimo nelle giornate asciutte, massimo nelle piovose […]. Il possesso di un buon naso diventa una sventura».

     

    Sarà stato anche per questo che buona parte della popolazione negli ultimi mesi estivi e in tutto l’autunno “migrava” nelle campagne e nei casali vicini dove il clima era più salubre. Del resto, proprio nella chiesa di Santa Caterina «i morti non che sotterrarsi sotto un buon cofano di calce, si lasciano disseccare col metodo adoperato pel baccalà».

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    Padula dixit

    Né si deve credere che altrove la situazione fosse migliore. Anzi. È facile immaginare non solo il fastidio arrecato dal cattivo odore, ma anche le implicazioni negative a livello sanitario. «A medicare tanta pestilenza si grida contro i porti, si perseguitano i cani, si chiama l’opra degli spazzini, e non si vuol capire ancora che quel puzzo scappa dalle sepolture, che i morti uccidono i vivi, e che sarebbe miglior senno agli spazzini sostituire i beccamorti».

    Beccamorti 

    Finché si continuò a seppellire nelle chiese, quella dei beccamorti fu una categoria professionale poco numerosa e ancor meno considerata. I documenti ci restituiscono tracce minime di Carmine Mancino e Gabriele Fabiano, abitanti nel quartiere di Santa Lucia. Indicati come “becchini”, nel 1844 si occuparono della registrazione della morte dei fratelli Bandiera. E, probabilmente, del loro seppellimento. Ma la costruzione dei cimiteri era un problema indifferibile e non di facile soluzione. I comuni, che avrebbero dovuto accollarsi tale spesa, non sempre potevano affrontare l’impresa. Inoltre la resistenza della gente, legata alle proprie tradizioni, era forte e trasversale alle varie classi sociali.

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    Atto di morte di Attilio Bandiera, 1844. Foto Museo dei Brettii e degli Enotri

    Confratelli

    I nobili tenevano molto alle proprie sepolture gentilizie, il popolo a riposare all’interno di una chiesa. E parroci e priori delle confraternite si occupavano della gestione di tutto ciò. Le confraternite ebbero un ruolo centrale. Antesignane delle attuali società di mutuo soccorso, erano associazioni laiche di credenti, soggette solo parzialmente all’autorità ecclesiastica, mentre per il resto erano controllate da quelle civili.

    Funerale con Confraternita a Napoli nel 1861

    Le confraternite si occupavano del sostegno ai propri iscritti, che versavano annualmente una quota in denaro, e delle attività di culto. Ma anche di ciò che riguardava la morte, il funerale e la sepoltura dei confratelli. Ogni iscritto aveva diritto a ricevere un funerale particolare, con l’intervento degli altri iscritti e di altre cerimonie. E, soprattutto, a essere seppellito nella chiesa del proprio sodalizio. Un discorso a parte meriterebbero le spese funerarie affrontate dalle famiglie in vista, che per prestigio ambivano a cerimonie particolarmente solenni, ed erano così alte che «tre casi di morte in un anno bastano a rovinare ogni ricca famiglia».

    Servizio pubblico di seppellitori

    Padula proponeva di stornare queste somme di denaro e destinarle alla costruzione del camposanto, visto che «si riposa meglio in campagna, e sotto un albero, o lungo la strada maestra come usavano i nostri antichi che nel recinto d’una chiesa». Un camposanto avrebbe così portato maggiore decoro e migliorato la salute pubblica. Ma la sua proposta era tanto (per l’epoca) innovativa quanto utopica: ogni municipio avrebbe dovuto organizzare un «servizio pubblico di seppellitori, il quale, dietro domanda delle parti interessate, curerebbe l’esequie del defunto in modo eguale e gratuito per tutti, lasciando però la facoltà di pagarle a chi le volesse fatte con maggior pompa».

    La costruzione dei cimiteri migliorò le condizioni igienico-sanitarie di paesi e città. La municipalizzazione del servizio di “seppellitori” avvenuta qualche decennio più tardi non portò invece tutti i benefici sperati, nonostante gli auspici. Le vicende della costruzione dei cimiteri nelle città e nei paesi calabresi in alcuni casi furono delle vere e proprie odissee durate anni. E anche quando realizzati erano spesso in condizioni pessime. Nel comune di Rose, in provincia di Cosenza, nel 1893 le pratiche per la costruzione del cimitero erano state avviate ma i cadaveri si seppellivano ancora nella chiesa di un ex convento, in fosse carnarie ormai sature, tanto che si iniziò a utilizzare anche l’atrio e i corridoi del convento.

    I topi fanno il loro dovere

    Nel 1908 un medico di Catanzaro raccontava che «in alcuni cimiteri della provincia scorrazzano grufolando i maiali». In un paese della provincia di Reggio «il cimitero è circondato da una sconnessa palizzata per cui si introducono nella notte le volpi, tantochè alcuni cacciatori del luogo sogliono mettersi alla posta per ucciderle». Agli inizi del ‘900 in alcuni paesi esistevano ancora le “fosse carnarie”. In una relazione dell’epoca si legge che, ancora in un comune della provincia di Reggio, i cadaveri venivano gettati in una cella carnaria attigua alla chiesa, dove però «durante la notte vi entrano gatti e animali».

    Il sindaco del posto, interrogato su come potesse essere sufficiente quella fossa per tutto il paese, rispose candidamente «i topi fanno il loro dovere». Non mancavano episodi poco edificanti, come il caso di un custode del camposanto di Catanzaro che, per aver sottratto dal cimitero beni mobili come «casse mortuarie, croci di ferro, basi granitiche, ecc.» venne accusato di concussione e il suo caso nel 1895 arrivò fino alla Cassazione.

    Disumani becchini al cimitero di Cosenza

    Nel 1903 il cimitero di Cosenza versava in condizioni pietose, con i cadaveri disposti in «veri carnai» e «i familiari dei morti recenti disponibili a dar mance per ingraziarsi i disumani becchini». A ciò bisogna aggiungere «le Congregazioni di Carità che speculavano sulla concessione dei loculi nelle loro Cappelle», annota Enzo Stancati sulla base di uno spoglio dovizioso della stampa d’epoca. In attesa della municipalizzazione del servizio di pompe funebri, a S. Ippolito e Torzano l’utilizzo del carro era ancora un’utopia e il trasporto dei defunti si effettuava «a spalla d’uomo».

    Un funerale d’inizio Novecento a Paola @Foto Agenzia Funebre De Luca Paola

    Sepolture di carità

    Francesco Marano è un povero lustrascarpe della Cosenza d’inizio Novecento. La morte della moglie «per cui ottenne una sepoltura di carità» lo obbliga ad indebitarsi con la Banca Cattolica per pagare oltre al carro e a una minima «rivestitura della cassa», 2 lire e mezza «per ottenere i documenti dal Comune e centesimi cinquanta per mancia a chi gli portò la cassa». Marano è uno dei primi, impotenti cosentini a finire invischiato nell’allora fiorente ramo industriale del “caro estinto” per trovare un posto alla consorte nel cimitero di Cosenza.

    Cari estinti

    Dal lontano 1903, un’unica ditta, la Gaudio-Cundari, gestiva in maniera monopolistica il trasporto dei cadaveri dell’intera città in un oleato sistema di connivenze e piccole speculazioni proprio a danno degli indigenti. Lo sappiamo grazie a una puntuale Inchiesta sull’Amministrazione del Comune di Cosenza, stilata nel 1913 per conto del Ministero dell’Interno dall’ispettore Paolo Donati, “sceso” per fare le pulci ad amministrazioni pigre e scialacquatrici, tra ammanchi di cassa, scandali piccoli e grandi e una gestione familistica della cosa pubblica.

    Pubblicità di onoranze funebri di Cosenza su un periodico degli anni ’20

    La municipalizzazione del servizio di pompe funebri dalla quale «il Comune potrebbe ritrarre un vantaggio di otto o dieci mila lire all’anno» era ovviamente avversata dall’impresa Gaudio-Cundari alla quale «il Comune paga, invece pel trasporto dei cadaveri appartenenti a famiglie povere lire 12 per ognuno».
    La tariffa corrente, stabilita dal regolamento di polizia urbana, per un carro di terza classe era di 10 lire.

    I miserabili del cimitero di Cosenza

    Nella relazione, l’ispettore governativo pone l’accento sulla gestione della ditta di pompe funebri «cui affermasi appartengano, come soci note persone di Cosenza» e su di un servizio «sfruttato in modo poco pietoso». Ma è la concessione da parte del Comune dei certificati di miserabilità a finire sotto osservazione ministeriale: «Non si dura molta fatica ad essere classificati come poveri, dato il modulo adottato dal Municipio e la facilità estrema con la quale si prestano certi individui, fra cui mi si afferma siano anche i facchini della ditta, ad attestare a favore di chicchessia il concorso dei coefficienti necessari ad essere classificati come poveri».

    La Casa delle Culture, sede dell’amministrazione comunale di Cosenza prima della costruzione di Palazzo dei Bruzi

    L’ultima prova del rodato sistema di connivenze e compiacenze tra la ditta Gaudio-Cundari e l’amministrazione comunale la offre il primo cittadino di allora. Guarda caso si chiamava Antonio Cundari, sindaco dal 22 giugno 1908 al 6 febbraio 1911. In una «statistica dei trasporti funebri per i defunti poveri nel biennio 1908 e 1909», datata 4 aprile 1910, ne denunzia 130 nel primo e 140 nel secondo. Quelli sepolti a carico del Comune risulterebbero, sempre secondo i calcoli dell’ispettore Donati, in un anno circa 180.

    Appalti senza concorrenti

    In una città infestata da batteri d’ogni sorta, con condizioni igieniche allarmanti che minavano la salute dei cosentini, specie quelli di condizioni miserande, l’industria della morte rappresentava una fonte inesauribile di guadagni che gli amministratori tenevano a riparo da fastidiosi concorrenti come Salvatore Belsito. Questi, alla scadenza dell’appalto, si sentì di precisare: «Badiamo di non fare qualche altro contratto a trattativa privata; e loro risposero: non temete, che intenzione nostra è che vada l’asta pubblica, perché vantaggiosa al Comune». Alla fine la premiata ditta Gaudio-Cundari si aggiudicò un altro anno di appalto solo perché non avendo dato la disdetta «nel frattempo il vecchio contratto erasi rinnovato per tacito consenso».

  • Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Non esiste “bottega” più oscura della produzione del carbone: lavoro gravoso, d’altura, e poco visibile. Ciononostante il mestiere di carbonaio e il prodotto del suo lavoro erano parte integrante della vita quotidiana di alcune comunità calabresi. Su quest’attività calava inoltre un alone di mistero: sarà per questo che ai carbonai e al loro mondo si ispirò la società segreta della Carboneria, nata agli inizi dell’Ottocento nel Regno di Napoli?

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    Carbonaie in un’incisione del Dizionario delle arti e de’ mestieri di Griselini del 1769

    Operai da fuori regione per il Carbone calabrese

    Agli inizi del Novecento la produzione del carbone era ancora una delle maggiori industrie forestali della regione. Ma, inutile dirlo, il tutto veniva portato avanti seguendo tecniche tradizionali e metodi primitivi. La quantità di carbone ricavata per ogni quintale di legna era molto limitata: «Pel faggio si ammette comunemente necessaria una quantità di circa 6 quintali di legna stagionata per averne uno di carbone, e per la quercia 5 quintali». Il rendimento era dunque del 16% nel primo caso e del 20% nel secondo. E la causa, secondo Nino Taruffi, era dovuta alla lavorazione all’aperto, mentre la carbonizzazione in forni chiusi avrebbe potuto portare il rendimento fino al 25/27%.

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    La legna da trasformare in carbone tra le Serre vibonesi (foto Mario Greco 2015)

    Nonostante ciò si trattava di un settore vivace e che richiamava anche lavoratori da fuori regione, come i 40 carbonai del circondario di Catania che giunsero nel Catanzarese nell’ottobre 1905 per tornare in patria a febbraio dell’anno successivo. Nel Reggino, nello stesso periodo, si mobilitavano tra gli 80 e i 100 carbonai della provincia. L’industria del carbone nel Reggino aveva meno forza rispetto alle altre province, ma già dalla fine dell’Ottocento faceva eccezione il distretto di Palmi, da dove «se ne esporta una notevole quantità per la Sicilia, ed i punti principali di smercio sono i comuni di Gioia Tauro e Bagnara».

    Gli ultimi uomini del fuoco e del carbone

    In genere veniva utilizzato per la carbonizzazione «molto del legname grosso di specie diverse e tutto il legname di sfrido nella fattura di tavole e traverse». I tagli avvenivano spesso in modo indiscriminato. Perfino molti alberi di sughero «vennero devastati per averne carbone e corteccia da concia».

    Ma ciò che gli osservatori di fuori regione avevano già rilevato più di un secolo fa circa la deforestazione della Sila avrebbe interessato poco gli speculatori. Il problema non era certo dovuto ai soli carbonai ma, come riporta lo scrittore Saverio Strati in un suo articolo del 1961, erano questi a pagarne lo scotto cadendo sotto la scure del pregiudizio: «Terra del vento, terra bruciata. E a bruciarla, secondo l’opinione popolare, sono i carbonai, questi uomini del fuoco, questi maledetti che dietro di loro lasciano sempre piazza pulita, che sempre sono nudi e affamati, come nuda lasciano la terra».

    Fuoco e pagliaio

    Le condizioni di lavoro erano durissime. Le difficoltà iniziavano con l’approvvigionamento della legna. Il carbonaio riceveva in consegna un pezzo di bosco da un appaltatore e doveva obbligarsi a consegnare un dato quantitativo di carbone a un determinato prezzo e in un tempo stabilito.

    Giunto sul posto, si preparava lo spiazzo per le carbonaie. Come prima cosa, si tirava su il pagliaio, che per molte settimane sarebbe stata l’abitazione del carbonaio, e spesso anche della sua famiglia, bambini compresi.

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    Il “pagliaro” con i carbonai e le loro famiglie

    Una casa «incerta come la loro esistenza», dice ancora Strati: «Coprono di rami d’elce, le cui foglie sono più dure che quelle della quercia, il pagliaio, e poi di terra pressata. Per letto rami frondosi, o felci secche. In un lato tre grosse pietre messe a modo di fornace, per contenere il fuoco, che d’inverno è sempre acceso».

    Il fuoco va “civato

    Poi iniziava la parte più delicata. Dopo aver tagliato, trasportato e raccolto la legna, bisognava sistemarla in forma circolare per realizzare la carbonaia, mettendo in basso i ceppi più grossi e man mano la legna più minuta. Al centro si lasciava una bocca circolare da servire per accendere il fuoco e per far fuoriuscire il fumo. Il tutto veniva ricoperto di terra. La combustione all’interno doveva avvenire senza fiamma, altrimenti la legna si sarebbe trasformata in cenere. Una grande perdita per il carbonaio.

    Il piccolo vulcano che ne nasceva andava controllato e “civàto, cibato, inserendo dal buco in alto nuova legna per mantenere il fuoco. Non meno faticosa era la fase di “scarico”. Sulla carbonaia si buttava tanta acqua e infine, rompendo il guscio di terra compattata, il carbone estratto doveva essere poi trasportato fino a valle con muli o, più spesso, a spalle.

    Carbone e ferriere nelle Serre calabresi

    Le selvagge e impenetrabili foreste delle Serre calabresi hanno fornito da sempre legname per le sporadiche ma significative attività metallurgiche, attestate in regione sin dal XI secolo. Ricca di legname e di acqua, la regione delle Serre ha visto nascere nella seconda metà del Settecento le ferriere di Mongiana prima poi quelle di Ferdinandea (oggi frazione di Stilo). Qui oltre ai minatori, ai fonditori e ai mulattieri trovavano spazio centinaia di uomini dediti alla produzione di carbone dal legno per alimentare queste industrie sempre bisognose di combustibile. Chiuse le ferriere, la produzione di carbone di legna continuò a rappresentare il sostentamento per un intero paese.

    Vivere di bosco

    Nella seconda metà dell’800 la popolazione del territorio di Serra San Bruno «vive pei boschi» e «se un grave incendio od una speculazione disastrosa distruggesse quei boschi, una emigrazione di massa ne sarebbe la dolorosa conseguenza». Lo si trova scritto in un numero della “Nuova Rivista Forestale” del 1886. In realtà una migrazione massiccia c’era già stata quando, dopo la chiusura della fabbrica di Mongiana, quasi tutti gli armaioli e gli artigiani del ferro che dimoravano a Serra San Bruno partirono alla volta di Terni, allettati da un impiego sicuro.

    L’ondata migratoria spopolò il paese, in cui rimasero oltre ai bovari solo segatori, accettaioli e carbonai. Ma agricoltura e pastorizia garantivano a quelle genti la sussistenza soltanto per due mesi l’anno. Così la sussistenza famigliare era legata unicamente ai cosiddetti “lavori del bosco”: abbattimento degli alberi, taglio dei tronchi, sramatura, sminuzzamento del legname da carbone e cottura dello stesso.

    Affari di famiglia

    I lavori boschivi si praticavano per contratto a «tanto al pezzo». In particolare, per il carbone si parlava di “tanto al cantaro” (85 chilogrammi). I carbonai di Serra San Bruno, al pari degli accettaiuoli, non formavano squadre di venti operai sotto la direzione di un capo e una mensa comune come avveniva nelle zone alpine, ma «le compagnie si restringono a due od al più tre individui legati o da vincoli di sangue o da vecchia amicizia».

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    Gli ultimi carbonai di Calabria a Serra San Bruno (foto Mario Greco 2015)

    Gli ultimi carbonai di Calabria

    Ad assumere le lavorazioni erano di solito i carbonai «più anziani od intelligenti» che ovviamente tenevano per loro una percentuale relativa «alle loro particolari prestazione e responsabilità». Nella grande filiera del legno da carbone, i carbonai entravano in gioco subito dopo gli accettaiuoli. Preparata la legna e composta la carbonaia, i carbonai vi appiccavano il fuoco secondo il “metodo tedesco”, vale a dire dalla sommità di quest’ultima.

    Esclusi i mesi di «gran neve», la produzione del carbone dal legno d’abete o di faggio si protraeva per tutto l’anno. Oggi nelle contrade di Spadola l’attività di produzione del carbone secondo il metodo tradizionale è ancora praticata dalla famiglia Vellone e suscita la curiosità di studiosi e fotografi. Come Mario Greco, il cui reportage ha conquistato le pagine di La Repubblica.

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    Carbonai del Vibonese (foto Mario Greco 2015)

    «Costano meno le donne dei muli per il trasporto del Carbone»

    Il trasporto del carbone prodotto avveniva di norma a trazione animale, specialmente per mezzo di muli e somari. Anche se, come afferma Agostino Lunardoni sulla stessa rivista, «le donne fanno la concorrenza ai primi». Lo studioso stimava per il territorio di Serra San Bruno «da 700 a 800 povere contadine occupate esclusivamente al trasporto della legna da fuoco e del carbone, sia per loro uso sia per vendere». Ovviamente il loro guadagno era misero e oscillante dai 50 ai 70 centesimi al giorno.

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    Le portatrici di carbone nella foresta di Ferdinandea nel 1908

    Leonello De Nobili, nel suo studio sull’emigrazione in Calabria, nel 1908 afferma di non poter dimenticare «due donne che mi apparvero come anime dannate nella folta boscaglia di Ferdinandea, dileguarsi sotto il peso di enormi carichi di carbone (40 kg) che portavano, così sulla testa, fino a Serra San Bruno (circa 10 miglia) per la mercede di 50 centesimi». «Perché non adoperare i muli?», chiese quindi a un taglialegna, che rispose candidamente: «Costano meno le donne». Oltre alle fatiche del lavoro, le trasportatrici erano esposte a diverse forme di violenza.

    Elisabetta donna ribelle

    In Storia dello stupro e di donne ribelli, lo storico Enzo Ciconte narra la storia di Elisabetta. Era una giovane carbonaia che nel 1888 aveva rifiutato la proposta di matrimonio di un giovane di Serra San Bruno. «La rapirò nel bosco quando di notte andrà pel trasporto di carboni» affermò il giovane rifiutato che «avendo pensiero di sposarla cercava obbligarla con oscenità».

    Un giorno mentre trasportava carbone insieme ad alcune compagne nei boschi secolari intorno alla Certosa, Elisabetta si trovò di fronte il giovane malintenzionato che «con la scure fece allontanare le altre e gittandola a terra le disse: o vuoi o non vuoi ti devo togliere l’onore ed Elisabetta gridando rispondeva: mi ammazzi ma non cedo». Fortunatamente l’accorrere di altre persone impedì all’uomo di usarle violenza.

    Carbonari e briganti

    Le buone maniere, in ogni caso, non erano certo la prassi. Nei boschi i carbonai non erano liberi di scegliere il luogo dove tagliare e impiantare le proprie cravunère. E oltre ai vincoli contrattuali e di proprietà intervenivano fattori “esterni” a condizionare il lavoro e la vita di questi lavoratori. Come noto, nei boschi silani a cavallo dell’Unità d’Italia i briganti facevano il bello e il cattivo tempo. Avendo interesse a che ampie porzioni di foresta facessero loro da nascondiglio, condizionavano la scelta dei luoghi dove impiantare le carbonaie, non senza ricorrere ad avvertimenti e violenze.

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    Carbonaio in Sila negli anni ’70, Dal volume “Serra Pedace nel mirino. Click sul passato”

    Come avvenne nel novembre 1864, quando alcuni carbonai di Piane (Francesco Guzzo, Pietro Prete, Salvatore Esposito e Antonio Pellegrino) intenti a far carboni nella contrada silana di Acqua del Corvo, si imbatterono in «otto individui armati di fucili a due colpi e di revolver» che uscendo dal bosco iniziarono prima a percuoterli e poi a sparare, uccidendone tre. Scrive Padula che «gli uccisori fossero briganti della banda di Francesco Albi della provincia di Catanzaro», e che dopo il fatto si spostarono in contrada Quaresima dove spararono a un altro carbonaio di Piane, Antonio Arcuri.

    Qualche anno dopo le uccisioni dei carbonai da parte dei briganti divennero oggetto di dibattito parlamentare grazie al senatore Guicciardi, già prefetto di Cosenza, che intervenendo a proposito di una legge sulla Sila ricordava che i briganti «in diverse occasioni commisero uccisioni di carbonai, perché questi non vollero limitarsi a fare il carbone nelle località e nella misura che loro era prescritta. I carbonai poi, difficilmente disobbedivano a tali prescrizioni perché l’autorità non aveva modo né di tenerli costantemente protetti, né di garantirli contro l’audacia dei briganti, i cui fatti crudeli e le cui sommarie esecuzioni incutevano un terrore a cui nessuno sapeva sottrarsi».

    Da Serra San Bruno a Serra Pedace

    Le tracce lasciate dal carbone ci conducono a Serra Pedace, uno degli storici Casali di Cosenza. Vista la vicinanza dei boschi silani, qui quello del cravunàru era uno dei mestieri più diffusi. Nella bella stagione gli uomini si spostavano per settimane nei boschi per attendere alle “cravunère”. Sistemavano le “catine” di tronchi disposti in forma circolare. Coprivano il tutto con le “tife” di terra, “civàndo” la carbonaia introducendo man mano la legna dallavùcca per raggiungere la combustione ottimale.

    Per la festa di San Donato

    Alla fine del duro lavoro il carbone era trasportato, a spalle o con i “traini”, in paese o a Cosenza per essere venduto. Non di rado a spostarsi erano intere famiglie. E la vita del paese rimaneva quasi come congelata, per riprendere normalmente al ritorno dei carbonari dai monti. La festa patronale di San Donato era fissata annualmente la seconda domenica d’ottobre. In questo modo potevano partecipare coloro che nei mesi estivi erano lontani dal paese. Rappresentava così molto più che una semplice celebrazione religiosa.

    E proprio la festa patronale segna in paese il mutare dei tempi. Gli ultimi carbonai sono scomparsi e non c’è più necessità di recarsi in Sila per lungo tempo nei mesi estivi. Anzi, l’estate è divenuta, come ovunque, un momento di ritorno al paese per i molti che lo hanno lasciato, e da alcuni decenni la festa è stata spostata ad agosto.

  • BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

    BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

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    Produrre alcool ha rappresentato da sempre un lavoro pericoloso pure in Calabria. Quanti nel corso dei secoli s’improvvisavano produttori dovevano fare i conti con due temibili nemici. Le leggi governative punivano gli alambicchi clandestini con sanzioni e arresti. C’era poi il rischio che il prodotto distillato “fai da te” provocasse intossicazioni da metanolo, ponendo gli improvvisati lambiccanti a serio pericolo di vita. Ciononostante, vuoi per bisogno, vuoi per ignoranza oppure perché si seguiva alla lettera l’adagio popolare secondo cui “un bicchiere non fa mai male”, la Calabria dei secoli passati vanta una radicata tradizione di distillerie e alambicchi più o meno legali.

    Prega e distilla

    Nel 1775 venne colto con le mani nel prezioso liquido un frate della Riforma a Cosenza e arrestato per aver prodotto acquavite tra le mura del monastero senza le dovute autorizzazioni. È proprio nella quiete dei conventi calabresi, dove i frati univano il lavoro alla preghiera, che si producevano i migliori prodotti dolciari ed enologici. Il nostro, affezionato, don Vincenzo Padula, ci racconta che le famiglie ne facevano provvista annuale. Da un suo “pezzo” del 1864 veniamo a conoscenza dei risvolti sociali dovuti all’istituzione della legge sul dazio-consumo nel neonato Regno d’Italia. La legge prevedeva un’imposta su diversi beni, tra cui vino, aceto, alcool e acquavite.

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    Alambicco di rame per produrre Gin funzionante nel 1945 (Pagina Facebook Distilleria Fratelli Caffo)

    Per la vendita di quest’ultima nel comune di Bisignano si sarebbero dovuti pagare 14 carlini ogni due barili solo se superava i 59 gradi sull’alcolometro di Gay-Lussac. Tuttavia il letterato di Acri non mancava di osservare che «considerando che ciascuna famiglia ha il suo botticello di vino, e distilla ogni anno la sua provvisione di acquavite, noi chiediamo quanto vino, quant’acquavite si può mai vendere in piazza, perché il governo ne percepisca almeno ciò che basti a pagare gli agenti destinati alla riscossione».

    Alambicchi in ogni comune

    È lo stesso Padula a darci notizia che, sempre nel 1864, i «giovani intelligenti ed arditi» Raffaele Fera e Giovanni Noce avevano impiantato a Cosenza «una fabbrica di potassa con una distilleria, dando così un valore alle ceneri ed alle vinacce, che tra noi si buttano», ma che questi non avevano trovato appoggi e capitali. Le vinacce erano infatti semplici scarti della produzione del vino, e generalmente erano «mescolate al letame dopo che i maiali ne avevano mangiati i vinacciuoli». Nel 1879 veniva invece impiantata la distilleria a vapore dei fratelli Bosco e si riuscì a distillare circa 5mila ettolitri di vinacce.

    Nel Cosentino si distillava dovunque. E infatti le inchieste governative attestavano che «in ogni comunello vi sono degli alambicchi semplici e pochi a serpentino», che spesso servivano per recuperare «qualche botte di vino guasto». Una macchina distillatrice introdotta nel Rossanese nel 1883 giaceva «inoperosa». E leggi restrittive avevano distrutto la produzione di alcool mediante alambicchi nel circondario di Castrovillari.

    Nei dintorni di Cirò, oltre al rinomato vino, si produceva ottima acquavite. Nel 1849 gli alambicchi operativi erano 10. Come testimonia lo storico Giovan Francesco Pugliese, agli inizi del secolo erano molti di più, ma «dopo che l’acquavite si estrae in più luoghi, ed i rosolij ci vengono a migliaia di bottiglie a vil prezzo se n’è diminuito il numero». L’anice, «anisi di Cirò», restava comunque molto «stimato e ricercato». Il suo consumo, però, era ritenuto «pruova di cresciuta intemperanza, e di debilitati stomachi». Secondo lo storico, infatti, «non si beve caffè senza spirito».

    Il primato di Reggio

    Nell’Ottocento le distillerie e le fabbriche di liquori in Calabria erano tante, sparse nei territori delle tre province. Ma solo in poche riuscivano a emergere. In genere le fabbriche di liquori e quelle di “spirito”, cioè le distillerie, erano due produzioni separate. E solitamente le prime erano associate a quelle in cui si producevano dolci e confetture. Il primato ottocentesco nel campo della distillazione spetta alla provincia di Reggio Calabria. Intorno al 1890 vi operavano ben 22 fabbriche di “spirito”, 20 classificate come fabbriche che «distillano materie vinose e vino», le restanti due come «distillerie agrarie».

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    Fabbriche di spirito in provincia di Reggio Calabria, da Annali di Statistica, 1893

    Le prime utilizzavano 24 alambicchi a fuoco diretto, le altre, invece, alambicchi composti. Tutte insieme giungevano a produrre migliaia di ettolitri di prodotto grazie a 87 operai sparsi nei diversi comuni. In particolare erano operanti 4 fabbriche a Palmi, che impiegavano insieme 17 operai; 3 a Gallico, Gioia Tauro e Seminara, e una a Bagnara Calabra, Bivongi, Campo di Calabria, Laureana di Borrello, Reggio, Rosarno, Sambatello, Tresilico e Villa San Giovanni. Si contavano poi innumerevoli fabbriche di liquori, dolci, frutta candita, torroni etc.

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    San Giorgio Morgeto (RC), castello e fabbrica di liquori e profumi

    Catanzaro e Cosenza

    Nel Catanzarese, nello stesso periodo, erano 15 le fabbriche di “spirito” operative, sparse da Borgia a San Vito sullo Jonio, da Casino a Sambiase, da Cessaniti a Palermiti, Cirò, Nicotera, Monteleone. Negli opifici disseminati in questi comuni lavoravano 18 alambicchi a fuoco diretto. Impiegavano 72 tra lavoratori e lavoratrici.
    Nella provincia di Cosenza operavano, tra il 1892 ed il 1893, 21 fabbriche di “spirito”, ma di queste «soltanto 2 attive classificate fra quelle che distillano materie vinose e vino». Entrambe sorte a Cosenza, avevano due alambicchi che lavoravano «a fuoco diretto, producendo 219,95 ettolitri di spirito da 55° a 65°, corrispondenti ad ettolitri 128,44 di alcool anidro, ottenuto dalla distillazione di 9,544 ettolitri di vinacce». Le due fabbriche cosentine impiegavano complessivamente otto uomini. Tra le fabbrichette “miste” di liquori e dolciumi, spiccava a Rossano la ditta “Fratelli Bianco” che dava lavoro per una parte dell’anno a 24 operai.

    La Stregaccia di Rossano

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    Testata del 1919 della fabbrica De Florio da www. grappa. com

    La città bizantina è stata sempre una zona di fermenti imprenditoriali. Nel campo dei liquori, alla ditta dei fratelli Bianco si aggiunse presto quella dei De Florio. Le due realtà finirono per fondersi intorno agli anni ’20 del Novecento, dando vita – come ci ricorda Martino Rizzo – alla Fratelli Bianco & De Florio. La punta di diamante della produzione era un liquore chiamato Stregaccia ma si producevano ed esportavano anche all’estero biscotti, torroni, confetti e dolciumi in genere. Sciolta nel 1936, la ditta si trasformò in Fratelli De Florio & C. e rimase attiva fino al 1973.

    Amari e altri tonici

    Pubblicità fabbbrica liquori Bosco, Cosenza, 1903

    Nel 1920 il Silanus era la specialità dell’azienda Bozzo&Filice operante a Donnici, alle porte di Cosenza. La ditta, «premiata fabbrica di liquori con distilleria a vapore», produceva anche «Cognac distillato da puro vino, pari ai migliori francesi».

    Amaro Magna Sila (Enoteca Stanislao Felice, Cosenza 1928-1929, Archivio Centrale dello Stato, Marchi e Modelli)

    Preparato con erbe medicamentose colte sui monti dell’altopiano silano, si affermò alla fine degli anni ’20 l’amaro Magna Sila, veicolato da un marchio finalmente a colori su cui si leggeva: «Per le sue proprietà toniche è un potente ricostituente dell’organismo. Efficacissimo nelle convalescenze di lunghe malattie. Utilissimo nelle languide e stentate digestioni, nei bruciori, dolori di stomaco, coliche nervose e nelle flatulenze».

    Tra Ottocento e Novecento Catanzaro poteva vantare invece il rinomato Cassiodoro. Era il prodotto di punta della Pasticceria, Vini, Liquori di Paolino Michele Potortì che metteva in bella mostra i premi conseguiti e gli encomi del Ministero dell’Agricoltura. Il «sublime liquore», cui si diede il nome del celebre politico, letterato e storico di Scolacium (Squillace) era presentato come un piccolo miracolo in bottiglia: «Tonico, ricostituente, antifebbrile, aperitivo, stomatico, digestivo». Una panacea, insomma.

    Pubblicità fabbrica liquori Potorì, Catanzaro,1903

    Paisanella

    «Distillare è come imitare il sole che evapora le acque della terra e le rinvia sotto forma di pioggia» affermava Dioscoride Pedanio, medico del I secolo d.C. Nonostante i fervori creativi non è tutto “oro” ciò che viene distillato. Sull’altopiano silano è attestata da decenni una produzione oscura, contrastata dalle norme ma validata e vivificata dalla tradizione.

    Il giornalista e scrittore Amedeo Furfaro (Quante Calabrie, 2013) definisce quella della paisanella una «pratica produttiva popolare avente requisiti di antigiuridicità». Questo per due motivi fondamentali. La distillazione a livello casalingo ha sempre comportato l’evasione automatica di un tassa sulla produzione. E poi produrla in casa, senza controlli, esponeva a un forte rischio d’intossicazione da metanolo, sostanza altamente nociva e in alcuni casi mortale.

    Alambicchi silani: i segreti della paisanella

    Ciononostante la grappa era il corroborante per antonomasia dei contadini, dei mandriani, dei cacciatori e di quanti e quante si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto. Trangugiare d’un sol colpo uno o più bicchierini permetteva di scacciare oltre al freddo e alla stanchezza gli affanni dell’esistenza per abbandonarsi a un profondo sonno ristoratore. I segreti della produzione della paisanella sono custoditi gelosamente dai montanari, al pari di quell’umile teoria di oggetti utili a darle vita.

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    Un vecchio alambicco silano per la produzione al livello familiare (Foto di Francesco De Rose nel libro di Furfaro)

    Secondo Furfaro (La paisanella, la grappa calabrese fuorilegge in Calabria Sconosciuta, 1987) occorrevano un fusto o marmittone (detto anche quararella), completo di cupola (cappiellu), cannuccia e treppiede (tripitu). La prima fase consisteva nel cambio della cosiddetta fezza (la zavorra del vino) dalle botti. Ciò avveniva nei mesi di marzo o aprile. Verso settembre, poi, la si riponeva nel fusto mescolata ad alcuni litri d’acqua.

    Il composto ottenuto veniva quindi portato a ebollizione a fuoco molto lento, aggiungendo man mano altra acqua dalla cupola, con la premura di cambiarla non appena diventava tiepida. Giungeva infine tanto agognato il momento in cui era possibile raccogliere, goccia dopo goccia, il prezioso fluido dalla cannuccia.

    Paisanella: da San Giovanni in Fiore a Longobucco

    Il “codice” dei vecchi distillatori silani ammette pure delle varianti. Colore, sapore e gradazione venivano opportunamente dosati a seconda dei gusti del produttore, che poi era spesso anche consumatore principale. A tal proposito a San Giovanni in Fiore si ravvisava una paesanella meno aromatizzata rispetto a quella che si produceva a Longobucco. Ad attenuare l’acidità del distillato contribuivano scorze d’arancia, pere, gusci d’uovo, fichi secchi e a volte qualche tozzetto di pane duro, mentre i lambiccanti più raffinati v’immergevano cedro o limone.

    Il primo “prodotto” della distillazione veniva generalmente “ripassato” più volte nello stesso alambicco o in un altro più piccolo in rame o in lamiera e, senza aggiunta ulteriore d’acqua, si poteva ottenere una gradazione superiore ai 40 gradi. Nonostante il suo essere fuorilegge, la paesanella che veniva prodotta in casa dai contadini tra i monti della Sila aveva un valore d’uso non indifferente. Essendo una produzione limitata e appannaggio dei ceti più umili, il distillato assurgeva spesso a dono da inviare a coloro i quali non lo producevano, cioè i borghesi. Così, divisi ma uniti nelle fragorose sbornie silane a base di paesanella, il povero e il ricco si davano alcune volte la mano, molto più spesso le lame.

  • BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

    BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

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    La liquirizia di Calabria è uno di quei prodotti che non temono confronti. Aromatizzata o in purezza, dura al pari dei sassi, gommosa oppure in polvere, la liquirizia calabrese fa oggi sfoggio di sé da New York a Dubai, “regina” di aeroporti e stazioni. La propongono a prezzi anche decuplicati rispetto all’origine. D’altronde è indiscutibilmente “oro nero”. E, in quanto tale, cela una storia grandiosa, avvincente però amara, nonostante le scene accattivanti stampigliate sulle confezioni dal gusto retro.

    La liquirizia dell’abate

    Per la sua capacità di radicarsi selvaggiamente su terreni complicati, ma anche per la mole di quattrini che fruttava ai latifondisti-produttori una volta lavorata, la radice di Glycyrrhiza glabra stava sempre tra le mascelle e nelle cronache dei molti viaggiatori stranieri che attraversarono la Calabria negli ultimi secoli. Probabilmente il “testimonial” più autorevole è l’abate de Saint-Non, che in Voyage pittoresque… s’insinuò insieme a un drappello d’intellettuali francesi nei conci di liquirizia di Corigliano.

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    Vue d’une Fabrique de Reglisse à Corigliano. Incisione dall’opera di Saint-Non, 1786

    Da questa esperienza fatta nel 1778 ricavò un’incisione raffigurante l’interno di un concio, rappresentato come un antro oscuro nel quale bollivano enormi caccavi contenenti radici di liquirizia semilavorate. Tutt’intorno, tra i fumi prodotti dalla bollitura, i lavoratori erano intenti a spaccare la legna, attizzare il fuoco, mescolare, trasportare…

    Come gli schiavi delle Antille

    Ogni concio era un cosmo a sé stante. Impiegava gente addetta alle mansioni più disparate tanto da dare l’idea di un vero e proprio centro abitato: «In ogni concio è un fattore, sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, due acquajuoli, un pesatore di legna, un fanciullo marchiatore e sedici impastatrici. Accrescete a costoro i mulattieri che someggiano legna, i contadini che scavano la radice, e già un concio vi darà l’aspetto d’un piccolo paese». È il solito autore de Il Bruzio, Vincenzo Padula, ad accompagnarci in un viaggio alle radici di una “bottega oscura” per davvero.

    Per sei mesi l’anno, da novembre/dicembre fino a maggio, uomini e donne lavoravano duramente giorno e notte, e le paghe variavano in base alla mansione. Mentre il “capoconcaro” poteva superare le 50 lire al mese, i “concari” e i “molinari” non raggiungevano le 30 lire. Una lira al giorno per un lavoro del quale, sempre secondo Padula, «l’inumano governo che se ne fa persuade a chi visita un concio di trovarsi tra gli schiavi negri delle Antille». Alla modesta paga giornaliera si aggiungeva poi il vitto: quattro chili di olio «per lume e condimento» e una mancia di sei chili di «carne porcina al Carnevale».

    Niente mance per le donne

    L’avarizia dei proprietari aveva tolto ai lavoratori i due barili di vino che si concedevano all’apertura del concio e altre mance «a Natale ciascuno uomo toccava mezzo chilogramma di olio ed altrettanto di farina per far frittelle; a Capodanno una ricotta; a Carnevale una libbra di formaggio, e due di maccheroni, ed a Pasqua un chilogramma di carne di agnello».

    Alle donne, neanche a dirlo, toccava la condizione peggiore. Alle impastatrici, ad esempio, non spettava alcuna mancia. Spesso le donne giungevano ai conci insieme ai padri o ai mariti, altre volte erano «avventuriere». I “concari”, infatti, arrivavano da luoghi lontani e trasferivano lì l’intera famiglia, compresi asini, gatti e galline. Era invece “bandito” portare i maiali. Il lavoro delle impastatrici consisteva nel rimescolare con i polsi la pasta di liquirizia bollente su di un tavolo, ungendosi le mani con dell’olio per non scottarsi e cercando di fare arrivare la pasta alla giusta consistenza.

    Il concio è un lutto

    A differenza di altri lavori, nel concio non era permesso ridere e cantare. «Il Concio è un lutto», dichiarava a Padula una giovane impastatrice di Longobucco. Donne e uomini vi vivevano separati, anche se sposati: «Qui le mogli si dividono barbaramente dai mariti, e questi per vederle alla macchia pagano una multa». Trovarsi fuori all’orario di chiusura del concio, infatti, impediva di farvi rientro fino alla mattina dopo, e al rientro si doveva pagare una ammenda. La situazione era quasi inumana e i fattori facevano il bello e il cattivo tempo. Ma in molti, soprattutto tra i braccianti che nella stagione invernale vedevano scarseggiare il proprio lavoro, erano disposti a spostarsi anche di decine di chilometri pur di guadagnare qualcosa.

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    Corigliano, concio di liquirizia dei baroni Compagna. Foto Fb ‘Centro Storico Corigliano’

    Gli abitanti dei Casali di Cosenza, ad esempio, lasciavano i propri luoghi per recarsi a lavorare nei conci, non senza difficoltà. Non si stupiva perciò il letterato di Acri che in molti non vedessero l’ora che arrivasse la bella stagione «per pigliare il mestiere del brigante, o del manutengolo». Anzi, lo stesso Padula invitava i padroni ad avere atteggiamenti più umani: «Proseguite pure, miei bei signori Calabresi, a far così inumano governo della povera gente, e poi gridate, ché ne avete ben d’onte, che vi siano briganti i quali vi sequestrino».

    Non solo Jonio: la liquirizia in Calabria

    Le radici di questa pianta si sviluppavano anche spontaneamente «in terreni pliocenici e quaternari», in particolare sul versante ionico della valle del Crati, del Neto e nel Marchesato fino al fiume Alli. Il circondario di Rossano, con la «vasta pianura volta a tramontana tra Corigliano e Rossano» la faceva da padrona. Ma la pianta era diffusa anche nei territori di Terranova da Sibari, Malvito, Cassano, Spezzano Albanese. Anche in provincia di Reggio Calabria si poteva trovare nei terreni incolti.

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    Concio dei Longo a San Lorenzo del Vallo. Foto pagina Fb ‘La Peschiera’

    Durante l’Ottocento i conci si moltiplicarono e le condizioni di lavoro conobbero un miglioramento. Tra gli stabilimenti più importanti si confermavano quelli di Capo Rizzuto, nei pressi di Crotone, e quelli di Rossano e Corigliano. Fabbriche di pasta di liquirizia a fine secolo si trovavano anche a Castrovillari, Altomonte, Fagnano Castello, Bisignano, Cassano, Cervicati, Cerchiara, San Lorenzo del Vallo, quasi tutte legate allo spirito imprenditoriale delle famiglie facoltose.

    Le fabbriche di liquirizia

    Nel 1894, secondo i dati forniti da Giovanni Sole, nella provincia di Cosenza erano operative 9 fabbriche di liquirizia. Ben tre erano a Corigliano, di proprietà del principe Nicola Gaetani, del barone Francesco Compagna e di Guglielmo Tocci. Mosse da motori a vapori o idraulici, tutte e tre producevano quasi duemila quintali di liquirizia all’anno e impiegavano 193 operai. A Rossano erano presenti le fabbriche di Giuseppe Amarelli, che da sola dava lavoro a 66 operai, di Giuseppe Martucci e di Gennaro Labonia. A Cerchiara era attivo l’opificio del principe Pignatelli, a San Lorenzo del Vallo quello di Giulio Longo e a Rende quello di Tommaso Zagarese.

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    La fabbrica di liquirizia Zagarese a Rende. Foto gruppo “Il Senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Meritano una menzione le due fabbriche esistenti in provincia di Reggio a metà Ottocento. Una a Gioiosa, del signor Macrì, e una a Stignano, del signor Baracca. Lavoravano la liquirizia che cresceva spontanea nei territori di Bianco, Bovalino e Riace, dove per la raccolta spesso giungevano «vanghieri cosentini».

    Regalìzia

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    Archivio Centrale dello Stato, Roma. Marchio liquirizia Zagarese, 1956

    È interessante notare come la liquirizia calabrese venisse soprattutto esportata, mentre a livello locale la regalìzia, come veniva chiamata in dialetto, era consumata pochissimo, salvo qualche panetto che veniva comprato dai ragazzi come «ghiottoneria» e dagli «infermi per espettorante». All’estero era molto ricercata, invece, in Inghilterra, Germania, Belgio, Austria, Ungheria e perfino in Russia e Olanda.
    Nota dolente restavano i trasporti. Il barone Compagna di Corigliano beneficiava di tariffe ferroviarie speciali per il trasporto del suo “sugo di liquirizia” da Taranto a Napoli. Ciò voleva dire che dai conci di Corigliano il prodotto doveva giungere con altri sistemi fino a Taranto.

    Ancora agli inizi del ‘900, comunque, la coltivazione e lavorazione della liquirizia costituiva in provincia di Cosenza una discreta fonte di reddito. Dai dati di una inchiesta del 1908, ad esempio, si ricava che, lasciando la radice a dimora per più anni, da un ettaro si potevano ricavare tra i 300 e i 500 quintali di radici grezze.

    Liquirizia: dall’oscurità al grande schermo

    Delle diverse fabbriche di liquirizia operanti in Calabria, solo in poche riuscirono a superare le peripezie del secondo dopoguerra. Se la Zagarese di Rende oggi opera col nome di Nature Med, altre piccole aziende lavorano e commercializzano il prodotto. Da alcuni anni le imprese del settore hanno costituito il Consorzio di Tutela della Liquirizia di Calabria Dop.

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    Interno del Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli, Rossano

    La regina indiscussa rimane tuttora la secolare Amarelli di Rossano, la cui epopea familiare e imprenditoriale legata alla liquirizia smerciata (e apprezzata) in tutto il mondo è raccontata nel docu-film Radici presentato nei giorni scorsi al Cinema Citrigno di Cosenza: «Un viaggio reale, in automobile con due amici, che poi si è trasformato in un viaggio nel tempo. E a guidarci è stata proprio la liquirizia. Così, seguendo i solchi segnati nel terreno dai rizomi, attraversiamo secoli di storia, di arte, di cultura, nella terra indissolubilmente legata alle dolci radici sotterranee: la Calabria ferox. Radici come rami sotterranei. Radici come origini di una terra sempre da riscoprire» ha dichiarato il registra Fabrizio Bancale.

    La locandina del film-documentario “Radici” di Fabrizio Bancale
  • BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

    BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

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    Se si chiedesse a qualcuno d’indicare un prodotto strettamente identificabile con la Calabria, al netto degli stereotipati ‘nduja e peperoncino, in molti risponderebbero «il bergamotto». Questo agrume noto per le essenze che è possibile ricavare dalla sua scorza, giunse in Calabria quasi per caso e non si sa bene quando. E ottenne un discreto successo per la sua bellezza come pianta ornamentale. Secondo la tradizione si diffuse agli inizi del Seicento, altri studiosi ne attestano la presenza più di un secolo prima.

    Ma è dalla seconda metà del XVIII secolo che la coltura si è estesa gradualmente. E, comunque sia, la sua fortuna, e quella dei proprietari, giunse all’apice tra Ottocento e Novecento, quando la sua coltivazione era divenuta molto redditizia.

    https://www.youtube.com/watch?v=R8lohpOthd0

     

    Come Reggio comanda

    C’è da fare un’altra precisazione. La coltivazione di questo agrume era caratteristica non dell’intera regione ma di una zona specifica: il circondario di Reggio Calabria. In una relazione del Ministero dell’Agricoltura del 1879 si sottolinea proprio questa specialità del Reggino: «Quasi esclusivamente proprio del solo territorio di Reggio, è la cultura fatta su larga scala del bergamotto (Citrus Bergamia), il quale vi sostituisce ogni altra specie di agrumi ed è fonte di grandi guadagni per l’essenza che si trae dalla corteccia dei suoi frutti». Qui, nella zona tra Scilla e Palizzi affacciata sullo Stretto di Messina, questa coltura veniva portata avanti «con arte insigne, e con pari arte si conducono le relative industrie».

    Ma cosa se ne ricavava? La coltivazione di questo agrume aveva, e in larga parte ha tuttora, come scopo principale l’estrazione dell’essenza dalla sua scorza, molto ricercata da industrie come quella profumiera. Dalla polpa si ricavava invece «agro cotto ed acido concentrato o citrato di calcio».

    Quest’idea che il bergamotto fosse «una pianta tutta propria del territorio di Reggio» e che se trapiantata altrove non avesse gli stessi risultati, nell’Ottocento era tanto radicata che in regioni vicine con clima simile, come le coste siciliane, il bergamotto non aveva riscosso molto successo.  A Messina, ad esempio, «molti proprietari, allettati dai più lauti profitti che i bergamotti fra tutti gli agrumi son capaci di dare, in varie epoche ne hanno tentato con pieno successo la coltura», ma la minore richiesta e la mancanza di persone dedite alla cura e al commercio del prodotto, non permetteva di trarne «quei vantaggi che ordinariamente ne ricavano i proprietari ed i coloni del territorio di Reggio».

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    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (foto Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Le statistiche del 1879

    Le statistiche del 1879 riportano per la provincia di Reggio la presenza, contando insieme bergamotti, cedri e mandarini, di più di 400mila piante. Un numero che, da solo, rappresentava oltre il 70% dell’intera produzione italiana, percentuale che, se si considera l’alto tasso di prodotto medio per pianta, superava l’85% del totale della produzione in frutti.

    Si tratta di numeri che reggevano il confronto con le vaste produzioni di aranci e limoni delle province siciliane. Meno di venti anni dopo il numero di piante di bergamotti, cedri e mandarini dei “giardini di Reggio” era ulteriormente aumentato superando le 750mila piante, segno di una industria molto florida e di una significativa vivacità economica.

    La Zagara contro gli speculatori siciliani

    Tra Otto e Novecento quasi tutta la produzione reggina finiva per foraggiare le industrie di Francia, Germania, Russia, Inghilterra. Il polo principale dello smercio era Messina, dove «commercianti siciliani accaparrano i prodotti calabresi che vengono esportati nelle varie direzioni». Per sfuggire a questi “accaparramenti” degli speculatori, nel 1903 a Reggio venne costituita la Zàgara, una società di proprietari terrieri che cercavano di acquistare e vendere direttamente le essenze, creare depositi di prodotti agrumari, incrementare scambi e depositi di essenze.

    Nei primi anni di attività la Zàgara ottenne un discreto successo, ed era ancora attiva un trentennio dopo nel settore della produzione di essenze di agrumi. In generale, però, la produzione era «esercitata alla spicciola, proprietario per proprietario», tanto che nel 1903 erano attivi 160 piccoli stabilimenti di fabbricazione che impiegavano, nelle varie fasi, 1748 lavoratori.

    Contadini, coloni, proprietari

    I libri e le statistiche ovviamente tralasciano le fatiche insite nel lavoro di raccolta, o le sfiorano appena. I vantaggi economici che spinsero molti proprietari a impiantare coltivazioni di bergamotto si riflettevano solo parzialmente sui contadini, assoggettati in genere a patti agrari particolari. In generale negli agrumeti vigeva un sistema di “colonia mista”.

    Se in quel fondo era possibile piantare anche ortaggi, il colono si occupava della raccolta dei bergamotti. Percepiva una percentuale del prodotto e pagava un fitto per il terreno sul quale coltivava l’orto per sé. Al colono che effettuava la raccolta dei bergamotti poteva spettare una percentuale tra 1/4 e 1/7 del prodotto. Il resto era del proprietario. Ed era quest’ultimo a occuparsi delle spese per l’estrazione delle essenze e l’acquisto e la manutenzione dei macchinari. Proprio la fase dell’estrazione dell’essenza dal frutto era particolarmente delicata.

    Il reggino che inventò la macchina per l’estrazione

    Anticamente si ricavava tramite spremitura a mano. I frutti venivano tagliati in due. La polpa era tolta e la scorza lavorata attraverso delle spugne con un particolare recipiente di terracotta. Intorno al 1840 la svolta. Il reggino Nicola Barillà inventò una macchina per l’estrazione dell’essenza.

    Presto venne chiamata comunemente “macchina calabrese”. Permetteva di estrarre una maggiore quantità di prodotto. Col tempo i sistemi migliorarono, ma il prodotto continuò a rimanere pregiato: con 10 quintali di frutti si ricavavano in media 12 libbre di essenza e 35 kg di citrato. La quasi totalità del prodotto veniva esportata, ma non mancavano alcuni tentativi di lavorazione in loco. Negli anni ‘20 del ‘900, ad esempio, erano attivi tre stabilimenti che producevano acqua di colonia: a Melito Porto Salvo la “Melita”, a San Giorgio Morgeto la “Calabresella” e a Cannitello la “Efel” dei fratelli La Monica.

    Autarchia e rilancio del Mezzogiorno

    Proprio dal Reggino provenivano le sequenze filmate di un cinegiornale (in alto nel video da Youtube) del Luce del 1936. Il titolo è “Un prodotto nostrano: il bergamotto” in pieno stile autarchico. Nel video chiari messaggi in linea con la retorica del regime fascista: «Italiani che giustamente boicottate i prodotti di profumeria dei paesi sanzionisti, ecco una coltivazione e un’industria di carattere prettamente nazionale».

    Meno di trent’anni dopo, il bergamotto è nuovamente al centro di  un documentario dell’Istituto Luce sulla “XVI fiera degli agrumi a Reggio Calabria” (1964). In un tono meno aulico del precedente ma fiducioso in un rilancio del Mezzogiorno, l’agrume viene presentato come l’elemento «alla base della moderna profumeria». Prodotto che, secondo il cronista, avrebbe portato a un «aumento dell’economia a tutto vantaggio delle popolazioni del Sud».

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    Una fase della raffinazione dell’olio essenziale di Bergamotto (foto Consorzio di tutela del bergamotto di Reggio Calabria)

    Denominazione di origine protetta

    Oggi nel Reggino la coltivazione del bergamotto e la preparazione degli oli essenziali continua. Il prodotto è sempre ricercato e, per le sue peculiarità, il “Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale” ha ottenuto nel 2001 l’iscrizione nel «registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette».

    Il riconoscimento ne fissa caratteristiche, processi di lavorazione ed enti di sorveglianza, in modo che il prodotto possa mantenere alta la sua qualità, ed è sorto un apposito consorzio. Di pari passo è cresciuta la consapevolezza dell’importanza anche culturale del bergamotto, divenendo anche oggetto di studi e pubblicazioni, fino alla realizzazione di un apposito “Museo Nazionale del Bergamotto” a Reggio Calabria.

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    Il pregiatissimo olio essenziale di bergamotto
  • BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

    BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

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    Nel 1806 la Calabria Citra era in subbuglio. Tra i dominatori francesi e i rivali borbonici erano botte da orbi e si combatteva villaggio per villaggio. Non era certamente un periodo roseo per progetti e affari, ma non secondo Michel Voizot, misterioso «francese abitante in Cosenza». Insieme al cosentino Bonanno, Voizot costituì una società col proposito d’impiantare un caffè in città. Il luogo prescelto fu una bottega lungo Strada del Ponte, la via che da Piazza Piccola porta al Ponte di San Francesco. Il locale avrebbe servito non soltanto caffè ma anche liquori. A tal proposito Voizot, versò 200 ducati, mentre il cosentino Ignazio Bonanno ne aggiunse altri 100, così da coprire le spese e le riparazioni già fatte nel “cafè”, l’acquisto di oggetti e mobili per arredarlo e le «mercanzie di zuccaro, cafè, ed acquavite».

    Le origini del caffè a Cosenza

    Monsieur Voizot ne rimaneva gelosamente il gestore e si occupava in prima persona dell’acquisto degli oggetti, riservandosi l’80% dei guadagni. A Bonanno rimaneva il 20%, e ciò in considerazione che il francese rimaneva il conduttore dell’esercizio. Il cosentino non poteva minimamente interferire nella gestione e nella realizzazione dei prodotti, sui quali monsieur Voizot pretese espressamente di «conservarsi il segreto». Il locale era ben arredato, dotato di mobili, oggetti in legno, vasi di creta, vetri, stagno e altri oggetti.

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    Una delle vedute di Cosenza pubblicate dall’editore Sonzogno ne “Le cento città d’Italia”. Supplemento mensile illustrato n. 11289 del “Secolo” del 31 maggio 1897 (Collezione Barone)

    Circa un anno dopo la società fu sciolta. Voizot e Bonanno cedettero l’attività a Raffaele Zampelli o Zampella, «napolitano commorante pure in Cosenza», che per 150 ducati acquisì «il detto cafe ammobigliato con tutti li suddetti oggetti». Un altro napoletano, che di cognome faceva pure Zampella, a partire dal 1803 fece la sua fortuna a Cosenza con il Caffè che diventerà prima Gallicchio e poi Renzelli.

    Pietro Zampella, come evidenziano i documenti storici pubblicati nel volume che racconta la storia del Gran Caffè Renzelli, aveva rilevato «una nuova bottega di Sorbetto, Cafè, Dolci, Rosoli, ed altro» posta nei locali di palazzo Cavalcanti, sulla Giostra Nuova, aperta nel 1802 dal cosentino Francesco Caruso.

    Nobiltà e clero

    A Cosenza e dintorni la moda del caffè cominciò a diffondersi in pianta stabile a partire dalla fine del Settecento. Erano i personaggi più nobili e in vista a ricercare gli oggetti utili a prepararsi un buon caffè o a offrirne una tazza fumante ai propri ospiti. Agli albori del secolo successivo non c’era palazzo che non avesse l’occorrente per preparare caffè o cioccolata in tazza. La pratica era diffusa anche negli ambienti ecclesiastici.

    La chiesa di Sant’Agostino alla Massa nei primi del ‘900

    Nel 1806, ad esempio, nel Convento degli Agostiniani di Cosenza il “Padre maestro” intratteneva i propri ospiti con caffè o cioccolato, tanto che vi erano conservati «due molini di Cafè; una cioccolatiera di landia; due caffettiere rotte; una zuccariera; sei chiccare» oltre che piattini di caffè e «un cocchiarino di argento per uso di cafè».

    Chicchi crudi e cicculatera

    La moda del caffè si diffuse rapidamente tra tutte le classi sociali. La materia prima veniva commercializzata ancora “cruda” e doveva essere tostata, o “abbrustolita” come si diceva correntemente. La procedura avveniva per piccole quantità direttamente in casa, sulla brace o su poco fuoco. Gli strumenti per farlo erano rudimentali, simili a cilindri girabili grazie ad una lunga asta, oppure a padelle chiuse e dotate di un sistema a manovella per girare i chicchi all’interno.

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    Utensili per la preparazione domestica del caffè

    Dopo la tostatura, che richiedeva attenzione e un continuo movimento dei chicchi perché fosse uniforme, il caffè veniva fatto raffreddare e quindi macinato. I macinini a mano li conosciamo tutti, sono ancora oggi diffusi almeno come soprammobili. La fase finale di cottura della bevanda domestica avveniva nella cicculatèra, nome che più in là indicherà nel dialetto anche la macchinetta cosiddetta “napoletana” (che in realtà sarebbe stata inventata però dai francesi a inizi Ottocento, ma tant’è).

    Il boom del caffè a Cosenza

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    Un prezziario storico del caffè Gallicchio

    Il caffè da tostare a casa poteva essere acquistato dalle famiglie anche presso il locale stesso. Il celebre Gallicchio di Cosenza, ad esempio, nel suo listino del 1888 ne vendeva di diverse qualità: Portorico sopraffino, Rio fino verde, mezzo fino, S. Domingo fino e Moka, la maggior parte dei quali veniva importata dall’America del Sud. L’Ottocento vide a Cosenza un proliferare di caffè, grandi e piccoli, alcuni dalla lunga attività altri di breve durata, e così anche l’inizio del Novecento.

    Tra i “caffettieri” di Cosenza figuravano Annibale Biondi, Carmine Cesario, Francesco Ficca, il Caffè di America di G. Funari, G. Nappa, il Caffè Buvette di Angelo Noce, il Gran Caffè di Giuseppe Pranno, il Progresso di Nicola Rajola e il Caffè del Popolo di Domenico Viafora. Alcuni pensarono di mettere il proprio marchio a mo’ di réclame sulla stampa locale, come Francesco Palumbo che su L’Unione del 1919 pubblicizzava la vendita, tra i vari prodotti del suo negozio in piazza Duomo n. 2, di «Caffè Genuino Brasiliano delle migliori qualità».

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    1919, pubblicità di Francesco Palumbo su L’Unione

    Non solo una bevanda

    Caffè non è solo materia prima torrefatta, macinata e poi messa in vendita in grani, polvere oppure somministrata sotto forma di bevanda. Anche nella città dei Bruzi il caffè è, ed è sempre stato, luogo d’incontro, socializzazione, costruzione di un’opinione e creazione di ciò che si definisce sfera pubblica. Ce lo dice ormai da anni il sociologo Massimo Cerulo (Andare per Caffè storici, Il Mulino 2021) che inserisce il Gran Caffè Renzelli (ex Gallicchio) come ottava tappa del suo singolare viaggio in quei locali che hanno almeno un secolo di vita, hanno ospitato al loro interno importanti eventi sociali-politici-culturali della storia d’Italia, mantengono parti degli arredi originali, sono tuttora aperti al pubblico.

     

    Il Gallicchio e i suoi avventori

    I Caffè cosentini erano però anche il teatro di scontri verbali o fisici, che si spingevano sovente fino alle lame. Una domenica di marzo del 1895, sul far della sera, scoppiò un acceso diverbio tra i tavolini del Gallicchio, su corso Telesio. Un gruppo di giovinastri avvinazzati riempì d’insulti alcuni studenti del Regio Liceo intenti a prendere un caffè. Dalle parole ai pugni il passo fu assai breve e a farne le spese furono ovviamente i liceali. Vista la carenza cronica di agenti di pubblica sicurezza la rissa fu sedata dai gestori del locale con l’aiuto di qualche cliente e passante.

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    Il Gran Caffè in piazza Arcivescovado in una foto dei primi del ‘900

    Le adiacenze del Gallicchio diventavano spesso ricettacolo di strilloni, monelli, perdigiorno, ambulanti e mendicanti che «fanno un chiasso del diavolo, bestemmiando, lanciando parole oscene e scurrilità, importunando i clienti, mostrando i propri cenci e la propria ineducazione» denuncia la Cronaca di Calabria nel marzo del 1905. Agli albori del ‘900 i frequentatori del Gallicchio appartenevano varie tipologie.

    I già citati liceali rappresentavano una clientela “mordi e fuggi” e non osavano nemmeno avvicinarsi alle due sale – la rossa e la verde – chiamate così per via dei colori prevalenti in ciascuna e separate dal resto del locale da una balaustra che, come scrive Luigi Rodotà in Visioni e voci della vecchia Cosenza (Pellegrini, 1966) «sembrava un reticolato insormontabile che c’impediva d’entrare liberamente nelle due sale perché frequente da persone più grandi di noi».

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    Il Renzelli su Corso Umberto in una foto di Malito degli anni ’20

    Cesarino ‘o pallista e le fake news

    A tarda sera gli immancabili viveurs d’ancienne régime davano il “cambio” tra i tavolini del bar al fior fiore degli esponenti della vita intellettuale cosentina: pezzi grossi della cultura, della politica, del giornalismo e delle professioni. Erano serviti e riveriti da un tale Cesarino detto “’o pallista”, un cameriere napoletano abbigliato col frac che «correva da un tavolo all’altro recante sul vassoio la fumante tazza di caffè, il gelato o la granita».

    Per soli due soldi di mancia propinava le ultime di cronaca cittadina, clamorose fake news ante litteram che in pochi si prendevano la briga di verificare. Tra questi, probabilmente, il docente e scrittore Nicola Misasi, frequentatore assiduo del Caffè «ascoltava distratto le sue fandonie con quel caratteristico sguardo assorto e pensoso mentre seguiva la spire azzurrognole del suo mezzo toscano».

    Bar d’antan

    Decisamente più “popolare” nei prezzi e nella clientela era il Caffè Raiola, “rifugio” di studenti, viaggiatori ma soprattutto commercianti che addolcivano la propria sosta con caffè, cappuccini, bocconotti, savoiardi o, nel periodo natalizio, con i torroncini alla martiniana. Dalla piccola saletta puntellata da pochi tavoli si udiva l’inconfondibile ohè giuvino’ del famoso banditore Micarano, re di Piazza Piccola, che annunciando l’arrivo del pescato prometteva affari e delizie.

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    Micarano

    Sempre in Piazza Piccola, all’angolo del palazzo Valentini, aprì alla fine del 1908 il Gran Bar. Il locale fu uno dei primi a veder zampillare l’acqua dello Zumpo in una vaschetta incastonata in un elegante bancone sormontato da specchi lucidi, dove vennero serviti i primi espressi fumanti della città. L’ascesa del Gran Bar fu repentina al pari del suo declino. Senza fronzoli né paillettes e sotto un lume praticamente inesistente era il Caffè Luciano, ritrovo degli abitanti del rione Santa Lucia. Qui il caffè si preparava ancora nella classica cuccumella napoletana.

    Al Caffè del Popolo in Piazza san Domenico «l’odore del caffè e dei liquori si confondeva a quello del fumo che saturava le due maleodoranti salette» frequentate da operai e artigiani, soprattutto muratori, che si sfidavano a scopone e a briscola. Ai Rivocati c’era poi il Caffè dei Cacciatori, davvero essenziale, al pari del Caffè della Stazione in via Sertorio Quattromani, un locale definito dalla stampa d’epoca “inquietante”, “tenebroso”, “luogo d’ogni sorta di traffico”, obbligate e rapidissime soste. In piazza Ortale c’era infine il Biondi, un Caffè mattutino frequentato soprattutto da contadini che nelle piovose albe invernali si scaldavano con un caffè corretto all’anice prima di scaricare le bestie ricolme di ortaggi.

    Cosenza e gli altri caffè: Vittoria, Moncafè, Sesso e Cimbalino

    Una svolta interessante, dal punto di vista economico, avviene a metà del Novecento con le prime torrefazioni cosentine. L’Archivio centrale dello Stato, tra i Marchi e brevetti, conserva quello della Torrefazione Vittoria, che nel 1960 aveva come simbolo un volto baffuto coperto da un sombrero e con una tazzina di caffè accostata al viso. La ditta, di Giovanni e Gaspare Aiello, aveva sede in via Panebianco e si occupava di caffè crudo e torrefatto.

    Nel 1961 registrava invece il proprio marchio la torrefazione dell’azienda La Commerciale Cosentina con il suo Moncafè, che aveva come slogan: «Dei caffè più fini la miscela squisita». Il Caffè Sesso, altro storico marchio cosentino, fa risalire la propria attività al 1926, mentre chi scendeva dai paesi delle Serre e arrivava alla Riforma doveva fermarsi per forza di cose al Cimbalino, un bar con torrefazione propria gestito amabilmente dalla famiglia Arnone.

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    Cosenza, Piazza Riforma e il bar Cimbalino negli anni ’50
  • BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

    BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

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    La carta si fa con gli alberi, e di alberi in Calabria ce ne sono sempre stati tanti. Ma la produzione della carta direttamente dal legno è storia recente. Nei secoli passati la “bambagina” era fatta soprattutto con gli stracci e dal XV secolo in poi, con l’introduzione della stampa a caratteri mobili, la domanda di tale bene aumentò vertiginosamente soprattutto quando l’abbattimento dei costi di produzione portò a un uso capillare.

    Correva l’anno 1590 quando i veneziani Domenico Contarino e Giacomo Ferro, e il napoletano Marcio Imparato, impiantarono una cartiera nella città di Cosenza. Non sappiamo se l’opificio venne realizzato o meno, ma l’antico documento denota la forte richiesta di carta in riva al Crati. Ciononostante per ben due secoli la Calabria non vide neppure l’ombra di una cartiera. Nel suo Saggio di economia campestre (1770) Domenico Grimaldi scriveva infatti che la regione «n’è totalmente priva, malgrado le acque, che ha in abbondanza, i stracci, e carnaccio che vende al forastiero». Poi, d’improvviso, fra ‘800 e ‘900 qualcosa cambiò.

    A Serra San Bruno producevano 12mila quintali di cellulosa

    A Serra San Bruno, venne impiantata la Fabbrica Italiana di Cellulosa e Carta, un bagliore d’industria nell’entroterra calabro. Nel 1908 spiccavano due industrie dipendenti dalla silvicoltura regionale. Si trattava di quella di Serra San Bruno per la fabbricazione di carta e cellulosa e quella di Dinami per la “distillazione del legname”. Le due realtà impiegavano insieme 155 lavoratori. Quello di Serra San Bruno era uno stabilimento ben attrezzato. Aveva macchine continue, sfibratoi con pressa, autoclavi, tre caldaie a vapore della potenza di 300 cavalli dinamici e cinque motori. Impiegava 68 uomini e 12 donne, che riuscivano a produrre 12mila quintali di cellulosa all’anno e, con lavorazione aggiuntiva, anche «carta da impacco lucida da un lato, ruvida dall’altro».

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    La Fabbrica di Cellulosa a Serra San Bruno

    Costi di trasporto troppo alti

    La materia prima utilizzata era il legno di abete proveniente dai boschi limitrofi della «nobile casa Fabbricotti, di A. Fazzari ed altri» e «ricchi di secolari abeti, che intanto si adoperano per l’industria, sebbene non forniscano il miglior materiale». Il taglio non era indiscriminato. Di anno in anno venivano gli alberi venivano «ricostituiti nell’intento di ridurli in turno trentennale». Nonostante la forte disponibilità di materia prima e i dati lusinghieri per una fabbrica di provincia, lo stabilimento di Serra San Bruno incontrava difficoltà per gli alti costi di trasporto della cellulosa e della carta fino alla marina di Pizzo e alla ferrovia più vicina. Così, come ricostruito da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nel volume La Fabbrica di Cellulosa e la Villa Fabbricotti di Serra San Bruno, già negli anni trenta del ‘900 la cartiera risultava abbandonata.

    Carta da imballaggio nel Reggino

    Nel Reggino, già negli ultimissimi anni dell’Ottocento, era attiva una cartiera a Favazzina. Si trattava di un’industria piccola ma operosa, che impiegava l’elettricità nel processo produttivo. Si occupava soprattutto della produzione di carta da imballaggio e che nel 1906 aveva esportato «quintali 1190 di carta da involti». Sempre in provincia di Reggio, nel 1968 era attiva la cartiera di Rosarno che, con quella di Cosenza, produceva «modesti quantitativi di carta-paglia e di cartone pressato, destinati alla confezione di imballaggi per agrumi».

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    Migranti nella cartiera di Rosarno, foto Andrea Scarfò, fonte Wikipedia)

    Gli ormai dismessi capannoni della cartiera di Rosarno, di recente sono assurti agli onori della cronaca per essere stati il rifugio di molti immigrati che svolgevano lavori stagionali nei dintorni. Nel 2009, in seguito ad un rogo scoppiato nei capannoni, alcuni immigrati rimasero feriti e la cartiera venne sgomberata e murata.

    Carta e tipografia lungo il Busento

    Il fattore incentivante l’inizio della moderna industria della carta nel Cosentino fu la presenza di importanti corsi d’acqua, in primis il Busento. Al 1928 risale infatti la richiesta della ditta “Luciano ed Ernesta Ragonesi” per la «concessione di derivare dal fiume Busento in comune di Cosenza» le acque necessarie «per azionare un lanificio ed una cartiera».

    Intestazione cartiera Ragonesi (foto Franco Michele Greco)

    Già nel 1921 è attestata nella cartiera Ragonesi la produzione di carta da imballaggio. La stessa famiglia possedeva pure, sempre sul fiume Busento ma nel comune di Dipignano, un impianto idroelettrico per il quale riceveva delle sovvenzioni. Lanificio e cartiera Ragonesi caratterizzeranno a tal punto la zona di Cardopiano, a monte della Riforma lungo la strada che porta a Carolei. A volte veniva identificata proprio come “contrada Ragonesi”.

    Nel 1912 la proprietà affiancò alla fabbrica anche una piccola stamperia, la “Tipografia Cartiera Ragonesi”, un modo di utilizzo diretto della propria produzione di carta ancora fino agli anni ’20. Un decennio più tardi la gestione della cartiera, ancora nominalmente Ragonesi, passò alla famiglia Bilotti, tanto che negli annuari industriali dell’epoca intorno al 1938 compare la denominazione “Ragonesi Luciano ed Ernesta di V. Bilotti”. Con la nuova gestione la cartiera cosentina crebbe notevolmente e i Bilotti ampliarono il raggio di azione raggiungendo anche gli Stati Uniti.

    Industriali cosentini

    Quando nel mese di giugno del 1950 la Cartiera Bruzia prese il posto dell’ormai dismessa Ragonesi, la città era in piena fase di espansione. Quel tessuto proto-industriale costituitosi a inizio secolo fatto da attività artigianali e piccoli opifici a conduzione familiare era ormai a un bivio: rilancio e modernizzazione oppure dismissione. Fu allora che i fratelli Mario, Vincenzo e Ferdinando Bilotti, industriali cosentini di spessore, decisero di riporre entusiasmi e capitali nella produzione della cellulosa dalla paglia e della carta oleata dalla cellulosa.

    «La cartiera Bilotti – scriveva Concetta Guido nel 2001 su Repubblica è una specie di monumento cittadino. È lì da decenni, appena fuori il centro urbano. La cartiera è uno dei primi insediamenti industriali in un territorio che di ciminiere non ne ha conosciute quasi per niente. Vincenzo Bilotti (proprietario di palazzi a Rende, il comune attaccato a Cosenza nato come città dormitorio, e di ville a Sangineto, il lido dei vip locali) è un uomo che gode di molta stima negli ambienti professionali».

     I sindacati denunciano: lavoratori sfruttati

    La fabbrica portò occupazione e un momentaneo benessere per gli oltre 100 operai impiegati. Inoltre i prodotti della cartiera di via Cardopiano 44 erano inclusi nei cataloghi di produttori e commercianti d’oltreoceano. Com’è ovvio lo sviluppo in senso capitalistico avrebbe cominciato a piagare il territorio. «Già nel 1955 la cartiera, che appestava l’aria con i miasmi dei suoi scarichi acidi versati nel Busento, attirò le denunce da parte dei sindacati, che nel 1957 segnalavano lo sfruttamento dei circa 200 operai, impegnati per 11 ore al giorno con una paga giornaliera di lire 1.100 da parte del proprietario, Mario Bilotti, consigliere comunale Dc» scriveva lo storico Enzo Stancati in Cosenza nei suoi quartieri (Pellegrini, 2007).

    Operaio muore schiacciato

    Tra l’aprile e il maggio del 1963 si consumò la rottura definitiva tra gli operai e la proprietà. Per più di un mese oltre 200 cartai intrecciarono le braccia e invasero le strade del centro cittadino. Chiedevano l’applicazione più giusti salari, la corresponsione degli stipendi arretrati, condizioni di lavoro più dignitose. E protestavano pure per avere una maggiore attenzione sul problema della sicurezza sul lavoro. Poco dopo quella che fu ricordata come “La lotta più lunga degli annali sindacali” (Gazzetta del Sud), beffarda arrivò la tragedia.

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    Gazzetta del Sud, archivio storico, settembre 1964

    Il 25 settembre del 1964 Antonio “Tonino” Garofalo, operaio venticinquenne di Santo Stefano di Rogliano, finiva schiacciato sotto l’ascensore di un compressore: «Il giovane stava pressando della carta, inavvertitamente però anziché azionare il pulsante per la salita dello ascensore del compressore, ha azionato quello per la discesa con la inevitabile conseguenza di restare investito in pieno».

    Le indagini non portano a nulla

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    Il giovane cartaio Tonino Garofalo, vittima del lavoro

    Le indagini della Squadra Mobile per omicidio colposo non portarono a nulla, se non fosse per una forte mobilitazione popolare in occasione dei funerali. In uno scritto A memoria del concittadino… (2014), Pro Loco e Gruppo consiliare “Insieme per Santo Stefano” ricordano che «gli ingranaggi facenti parte del sistema produttivo della Cartiera Bilotti, sopprimono in pochi istanti la vita di quel giovane, da pochi mesi padre di una bambina, consegnando alle vittime cadute sul lavoro uno dei migliori figli della comunità santostefanese che, avendo conosciuto nell’età giovanile il volto e le sofferenze derivanti dal fenomeno dell’emigrazione in Germania, riteneva il lavoro un momento esaltante per la dignità e la libertà individuale».

    Cartai a Montecitorio

    La cartiera Bilotti chiuse i battenti nel 1972 lasciando un centinaio di lavoratori, da mesi in cassa integrazione, senza lavoro. Pochi mesi prima il “caso cartai” venne portato tra gli scanni di Montecitorio dall’ex fascista e deputato missino per la circoscrizione di Catanzaro-Cosenza-Reggio, Antonino Tripodi. Il politico calabrese si rivolse all’allora ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, il socialista Mauro Ferri. Chiedendo al ministro come «intende intervenire con l’urgenza e la perentorietà che il caso richiede per evitare che in provincia di Cosenza continuino a ripetersi recessioni produttivistiche con drammatiche conseguenze sull’occupazione operaia».

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    Antonino Tripodi

    In quei mesi aveva decretato lo stop della produzione e l’inizio della dismissione lo stabilimento tessile di Cetraro che occupava 500 dipendenti. Stessa sorte per le metalmeccaniche Cavalli di Rende, mentre anche la Mancuso e Ferro si avviava alla fine della sua gloriosa esistenza. «Non sembra che le autorità locali stiano seriamente agendo per evitare che i dipendenti della cartiera Bilotti perdano, non solo il posto ma anche il presidio di disoccupazione. Se il governo non interviene la già dissestata economia della provincia di Cosenza riceverà un colpo fatale…», tuonò Tripodi.

    Da cartiera Bilotti a discoteca

    Il ministro Ferri portò alla memoria i due grossi finanziamenti ricevuti dalla cartiera per un totale di poco meno di 200milioni di lire tra il 1969 e il 1970 e la promessa di una proroga a 9 mesi dell’intervento della cassa integrazione. Poi nicchiò: «Alcuni settori produttivi risentono com’è noto, da vari anni, di una recessione […] Tra tali settori è compreso il l’edilizio, il cartario e il tessile, cioè quei settori che riguardano le industrie di Cosenza che recentemente hanno interrotto la loro attività». Continuando: «Ovviamente nelle zone nelle quali il processo di industrializzazione è agli inizi, la chiusura delle industrie viene subito maggiormente avvertita ed il governo tiene in conto tale aspetto, intervenendo con tutti i mezzi di cui dispone».

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    A poca distanza dal fiume Busento, dove sorgeva la cartiera Bilotti e poi la discoteca “Soho”

    Divenuta “Cartiera Busento” dopo un piano di ristrutturazione aziendale, la gloriosa fabbrica chiuse definitivamente nel 1976. Una fine tra clamorose perdite, 35 licenziamenti e conti ballerini. Nei capannoni dell’ex cartiera, adibiti a partire dal dicembre del 1997 a discoteca “Soho Music Hall”, molti di noi brindarono al nuovo anno leggeri, psichedelici e sicuramente immemori.