Autore: Mario De Filippis

  • Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

    Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

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    Quando si vuol dare un esempio di cultura pop, si fa ricorso alla maglietta con il volto di Che Guevara. Per dire che tutti la indossano, senza sapere niente di preciso sulle vicende del mitico personaggio effigiato. L’industria culturale fagocita ogni evento, pure il più tragico, se lo ritiene funzionale alla sua incessante attività.
    Anche la Shoah non è sfuggita a questo destino, lo dimostrano innumerevoli film, docufilm, libri, spettacoli teatrali e convegni sfornati, in ogni angolo del pianeta, per narrarla a ogni sensibilità, a un pubblico sempre più vasto e vario. Con contorno di libri che analizzano il fenomeno: Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (Il Nuovo Melangolo 2016). Ci sembra di conoscere meglio eventi così tragici, proprio perché vengono manipolati e commercializzati.

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    Quel che resta del campo di Ferramonti

    Ferramonti e cultura pop

    E in Calabria come va con questo tipo di pop? In Calabria abbiamo Ferramonti.
    Nel 1982 Gaetano Cingari pubblica la Storia della Calabria dall’Unità a oggi (Laterza), che si chiude con una panoramica sugli anni Sessanta e la rivolta di Reggio Calabria del 1970. Scorrendo l’indice dei luoghi citati nel volume, tra Feroleto e Ferruzzano, non c’è Ferramonti.
    Oggi certamente tutti sanno che a Ferramonti, nel comune di Tarsia, in provincia di Cosenza, sorse, tra il 1940 e il 1943, il più grande campo di internamento fascista, costruito in vista della guerra, per rinchiudervi gli ebrei stranieri presenti in Italia.

    Sarebbe più corretto dire che tanti hanno un’idea, magari confusa, dell’esistenza di questo luogo e di quello che è accaduto in Italia, dal 1938 in poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali. Confondendo fascismo e nazismo, discriminazione e sterminio, razzismo e antisemitismo. Come avviene quando un fenomeno diventa popolare, pop, come le magliette con la faccia di Che Guevara. Dunque il campo di Ferramonti in questi quarant’anni è entrato a far parte della cultura pop.

    Ferramonti: il caso editoriale di Capogreco

    Ma cerchiamo di andare con ordine: la storia di Ferramonti e dei suoi internati è stata ricostruita, per la prima volta in un saggio organico, da Carlo Spartaco Capogreco: Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista, edito a Firenze, da La Giuntina, nel 1987. La pubblicazione di questo studio segna un punto di svolta. E a questo libro fanno riferimento tutti gli altri venuti dopo, sull’internamento fascista e sul carattere repressivo, autoritario, di questo regime, sugli strumenti che mette in atto per schiacciare ogni opposizione, dal confino ai campi.

    Sono trascorsi trentacinque anni dalla sua pubblicazione, in questo periodo sono accadute molte cose che sono riconducibili al caso editoriale rappresentato da Ferramonti, al dibattito sviluppatosi successivamente. Dopo Ferramonti Capogreco ha pubblicato molti altri contributi, frutto di anni di ricerche, e ha portato avanti delle iniziative che hanno inciso sul dibattito politico e culturale.

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    Carlo Spartaco Capogreco, storico e presidente della Fondazione Ferramonti

    Gli alleati liberano Ferramonti

    Capogreco insiste, in ogni suo intervento, sulla questione che il campo di Ferramonti va inquadrato nell’ambito di un regime, un lungo periodo che va dal 1922 alle date cruciali, fatidiche, del 25 luglio 1943, e poi dell’8 settembre 1943. Il campo di Ferramonti viene liberato dagli Alleati nel settembre 1943, ma verrà utilizzato anche dopo, ad esempio da gruppi di ebrei in attesa di partire per la Palestina, dove sorgerà lo stato d’Israele. A ottobre del 1943 i tedeschi a Roma rastrellano oltre mille ebrei nel ghetto, e conducono operazioni simili nella parte d’Italia che controllano, assieme ai fascisti della Repubblica di Salò, ma intanto Ferramonti e i suoi internati sono al sicuro, nella parte d’Italia occupata dagli Alleati.

    La memoria pop della grande tragedia

    Difficile riassumere questi trentacinque anni: Capogreco ha dato vita, nel 1988, alla Fondazione Ferramonti, che ha svolto un ruolo importante sui temi della memoria, con una serie di convegni e di iniziative di ampio respiro, come il convegno del 24 e 25 aprile 1995, I luoghi della memoria: un contributo essenziale al dibattito pubblico, da allora sempre vivo in Italia, sul modo di intendere la memoria e la salvaguardia dei luoghi legati a questo tema.

    Alcuni di questi campi o edifici utilizzati per l’internamento sono stati riconsiderati, recuperati, salvaguardati. In qualche caso sono diventati oggetto di periodici pellegrinaggi. Una forma nuova di turismo culturale. Il recupero della memoria si attua anche attraverso tali forme di fruizione. Con l’inevitabile considerazione che il turismo di massa dei tempi nostri non è il Grand Tour dei ricchi europei del Settecento e dell’Ottocento. Dunque le comitive in magliette sgargianti e lattine al seguito, in marcia attraverso i campi di internamento trasformati in musei, suscitano a volte dei dubbi sul modo in cui viene intesa e consumata la memoria nella nostra società.

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    Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici

    Una miniera inesauribile di storie 

    La documentazione cartacea, fotografica, memorialistica ed epistolare è imponente, sia quella custodita negli archivi di Stato, sia quella raccolta negli istituti di storia della Resistenza e nelle fondazioni, nei musei della memoria.
    Da ogni parte del mondo, gli internati di Ferramonti hanno inviato o consegnato a Capogreco molte testimonianze e dati relativi al periodo di internamento. Una miniera inesauribile di storie e di piste di ricerca. Un materiale che potrebbe facilitare un recupero memoriale, in Calabria, nei piccoli comuni isolati, ritenuti dal regime fascista terra ideale per confinarvi oppositori e persone da controllare, su cui ci sarebbe tanto da raccontare.

    Ad esempio, Capogreco ha seguito a lungo le tracce di Ernst Bernhard, medico e psichiatra tedesco di fama internazionale, di famiglia ebraica, internato a Ferramonti, rilasciato dal campo per intervento di un influente accademico italiano, suo amico, e inviato per alcuni mesi in “internamento libero” – così lo chiamavano i fantasiosi burocrati del tempo – nel comune di Lago, a 30 chilometri da Cosenza. Unica traccia, una cartolina postale inviata dallo stesso Bernhard, dove si vede la casa che gli era stata assegnata. La casa non c’è più, ma potrebbero emergere altri documenti su questi mesi.

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    Internati a Ferramonti

    Il Giorno della memoria

    Un altro esempio, il giovane studioso di musicologia Raffaele Deluca di recente ha pubblicato un volume dedicato ai musicisti e compositori internati a Ferramonti e negli altri campi fascisti: Tradotti agli estremi confini. Musicisti ebrei internati nell’Italia fascista, Mimesis, 2019. Un lavoro che aiuta a comprendere le infinite possibilità di ricerca offerte da questi archivi.
    Nel frattempo sono accadute tante altre cose, ad esempio la Legge 211 del 20 luglio 2000, istitutiva in Italia del Giorno della Memoria. Dopo venti anni si sta discutendo apertamente e senza remore dei rischi connessi a queste celebrazioni. Potrebbero rivelarsi controproducenti rispetto agli intenti dei promotori della legge. Vedi la questione del pop.

    Ferramonti non era governato da italiani bonari

    Per quanto riguarda Ferramonti e gli altri campi fascisti, si è ingenerata qualche confusione rispetto alla macchina di distruzione allestita dalla Germania nazista. Sono due sistemi diversi, nati per scopi diversi. Almeno fino all’8 settembre 1943 e alla divisione dell’Italia, da una parte l’esercito tedesco, dall’altra gli Alleati.
    Quindi bisogna studiare la storia, prima di avventurarsi a discettare di campi e di antisemitismo. Per non incorrere nella grossolana semplificazione che capita ancora di ascoltare, che vuole presentare Ferramonti come un luogo fuori dal tempo, allestito e governato da italiani bonari, paciosi, contrapposto ad altri luoghi più inquietanti, gestiti da tedeschi cattivi.

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    Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti

    La parziale distruzione del campo per fare spazio all’autostrada

    Parlare di Ferramonti significa ricordare la parziale distruzione di ciò che rimaneva del perimetro del campo. Anche a causa dei lavori di ampliamento dell’autostrada che lo costeggia. Una volta tanto non è una vicenda calabrese; in ogni parte d’Italia molti luoghi di confino e di internamento sono stati cancellati, per l’incuria, per fare spazio a speculazioni edilizie, per semplice indifferenza. Capogreco ne ha raccolto le tracce ne I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2004. Un repertorio di luoghi di oppressione e di violenza, le cui vicende sono spesso ignote anche alle persone che vivono accanto a questi siti storici.

    Il prefetto che fa lezioni di storia

    Intanto la cultura pop fiorisce pure da noi, al Sud. Mi sono trovato in uno dei tanti convegni per il Giorno della Memoria, qualche anno fa, dove il prefetto, proprio Sua Eccellenza il Prefetto, come si scriveva una volta, ha dominato la scena. Prima ha scoperto una targa, distribuendo riconoscimenti di Giusto d’Israele a destra e a manca, con buona pace dell’istituzione israeliana a ciò deputata.

    Poi, davanti a una platea di eleganti signore, come si usa nel Sud, ha preso in mano il microfono e si è lanciato in una lezione di storia (ormai è assodato che chiunque può parlare di Shoah) che ha fatto rizzare i capelli in testa agli storici presenti, esautorati d’autorità, come solo un prefetto sa fare. Poi il prefetto, sazio, ha ceduto il microfono a un giovane sacerdote, che si è lanciato a sua volta in un intervento dai toni transreligiosi, ecumenici, buddistici-panteistici. Solo dopo è stato il turno di un rabbino, scovato sempre dal prefetto. Un autentico rabbino che, a onor del vero, almeno ha fatto un intervento da rabbino. Fine del convegno. Molti complimenti al prefetto da parte delle eleganti signore presenti.

    E Capogreco? Continua a fare ricerca (insegna Storia contemporanea all’Università della Calabria), e a relazionarsi, attraverso i suoi libri, con gli studiosi di ogni parte del mondo, sui temi dell’internamento e della memoria. Cercando di sfuggire agli agguati del pop.

  • Torremezzo: nostalgia del mare arbëresh

    Torremezzo: nostalgia del mare arbëresh

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    Terzo anno di pandemia, di nuovo a pensare alle vacanze possibili. Condizionato dal Covid e dalle relative problematiche due anni fa e poi l’estate scorsa ho iniziato a passare in rassegna le spiagge della mia infanzia, progettando di ritrovarne una adatta a un periodo di riposo. Ne ho rivisto alcune dopo decenni di reciproca indifferenza. Speravo di evitare le videochiamate pietose dei tanti connazionali confinati in quarantena a Malta, come a Mykonos o alle Baleari, imploranti soccorso dalla patria lontana. Questa umiliazione pubblica e mediatica no, non intendevo subirla.

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    Il mare di Fiumefreddo visto dal centro storico

    Due mesi sul Tirreno cosentino

    I miei genitori, da Cosenza, quando noi figli eravamo piccoli – parliamo di mezzo secolo fa – avevano preso l’abitudine di affittare un appartamento al mare. Per un mese, a volte anche per due, come si usava allora, di solito sul Tirreno cosentino. Da Amantea a Cetraro, da Guardia Piemontese a Fiumefreddo, da Fuscaldo ad Acquappesa, abbiamo vagato per molti anni, come gli ebrei nel deserto del Sinai. Gli ebrei avevano trasgredito, così racconta la Bibbia, ma noi che colpa dovevamo espiare? Cosa cercavamo, dopo aver caricato l’auto di tante masserizie, che all’epoca i padroni di casa non ritenevano di mettere a disposizione degli ospiti?

    Dune, mare, edifici abusivi

    Un’estate, forse due siamo sbarcati a Torremezzo, frazione sul mare di Falconara Albanese. Le marine calabresi si somigliavano tutte, tra le dune dal nulla spuntavano case e palazzi vicinissimi alla spiaggia. Edifici in gran parte abusivi ovviamente, proprio davanti al rilevato ferroviario, così di notte si saltava nel letto, al passaggio di ogni espresso Palermo-Milano.
    Le prime case prese in affitto dai miei non le ricordo, ero troppo piccolo. Dai racconti che ritrovo nella memoria si capisce che erano essenziali e scomode, ma ancora più ristretti erano gli alloggi dei proprietari che, pur di guadagnare qualcosa, si trasferivano in una mansarda, o presso parenti. A Torremezzo, però, eravamo già negli anni Settanta e le sistemazioni pioneristiche, per uomini duri, erano disponibili, per fortuna nostra, solo ai ritardatari incalliti.

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    Il centro storico di Falconara Albanese, Comune che comprende anche Torremezzo

    L’eparchia di Lungro arriva a Torremezzo

    Non ho trovato molte foto di queste vacanze, soprattutto le case si vedono appena. All’epoca scattare una foto richiedeva un minimo di formalità, un’occasione, un compleanno, una prima comunione, eravamo lontani dalla follia dei social.
    Quello che mi ha meravigliato, però, dopo tanti anni, parcheggiando sul lungo viale di Torremezzo, davanti ai palazzi e ai condomini scrostati dalla salsedine, è stata la scoperta di trovarmi nei confini dell’eparchia di Lungro. L’eparchia è una circoscrizione amministrativa, in uso nella chiesa orientale. Quella di Lungro è una delle due eparchie italiane, l’altra ha sede a Piana degli Albanesi, in Sicilia. Nelle due estati trascorse a Torremezzo non mi ero reso conto di dimorare in una comunità di cattolici albanesi di rito greco.

    L’eparchia di Lungro è stata istituita nel 1919, le sue comunità sono sparse lungo la valle del Crati, alcune anche fuori regione, ma i fondatori di Falconara si sono allontanati dai compatrioti fino a stabilirsi tra le montagne della catena tirrenica.
    La comunità originaria è quella di Falconara, un borgo nascosto tra le montagne, a qualche chilometro dal mare. Per non trovarsi d nuovo davanti i turchi, o piuttosto i pirati saraceni, da cui erano fuggiti intorno alla metà del Quattrocento, quando la loro terra entrò a far parte dell’Impero ottomano, la Sublime Porta.

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    Particolare del Castelluccio, nel Comune di Falconara Albanese

    La Storia mi è apparsa davanti all’improvviso, sotto le modeste sembianze di una piccola chiesa, intitolata al Santissimo Salvatore, in mezzo ad alcuni sterminati alveari abitativi dall’aspetto desolato, in abbandono. Tra le palazzine orfane di vacanzieri la chiesa era aperta e in ordine, ed era una tipica chiesa bizantina, con le icone alle pareti, i mosaici e l’iconostasi che separa la zona riservata al papas, al sacerdote, dal settore dei fedeli.

    I Balcani sul Tirreno?

    Imperdonabile non aver esplorato il territorio delle vacanze, anche se la chiesa non credo esistesse in quegli anni (su un sito arbëresh ho letto che fu edificata nel 1991). Ho scoperto anche che la parrocchia di Falconara entrò a far parte dell’eparchia in tempi recenti, durante l’episcopato a Cosenza di monsignor Enea Selis, che volle riunire quella comunità isolata alle altre comunità albanesi.
    Ma perché durante il mio soggiorno non mi ero spinto fino a Falconara? Cosa avevo da fare di importante in quella noiosa marina?

    Monsignor Selis accanto al papa in occasione dei 750 anni del Duomo di Cosenza

    Se mi fossi mosso da ragazzo avrei scoperto, molti anni prima, il fascino del mondo balcanico. Magari sarei partito subito per la Morea, in cerca dei castelli crociati e delle fortezze ottomane e veneziane. In Albania avrei ammirato prima il parco archeologico di Butrinto, bellissimo, immerso nel verde, circondato da una laguna, dove si passano in rassegna tutte le civiltà mediterranee.

    Le vacanze dei cosentini

    Il problema delle vacanze dei cosentini, a ragionarci adesso, mi appare chiaro: ci si ritrovava al mare, tutti negli stessi posti, sempre tra le stesse facce, a volte in mezzo a conoscenti, vicini di casa, parenti proprietari di seconda casa, data la nota, sfrenata passione edilizia dei miei concittadini. Quindi non ti veniva la curiosità di esplorare i luoghi, perché ti sembrava di stare sempre a Cosenza, una Cosenza con la spiaggia e il mare.

    A volte passeggiando a Guardia Piemontese, per dire, mi capitava di pensare di trovarmi in città, a via Caloprese. C’erano negozianti, parrucchieri, che in estate aprivano al mare un doppione dell’attività cittadina. Perfino i sacerdoti andavano in trasferta, a tenere d’occhio le pecorelle del gregge parrocchiale, temendo la dissolutezza e il sesso libero delle vacanze. Il massimo dell’esotismo era rappresentato da qualche famiglia di napoletani. In questa situazione non potevo pensare né all’esodo albanese né al dramma dei Valdesi massacrati a Guardia. Eravamo autoreferenziali, come si dice adesso.

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    Lo Scoglio della Regina nella marina di Guardia Piemontese (foto Alfonso Bombini 2021)

    In una marina nulla è pensato per spingerti verso la storia. Poi negli anni Settanta le marine erano una manifestazione della volontà di buttarsela alle spalle, quella storia triste, fatta di paesi isolati, di contrade senza acqua potabile e luce elettrica. Di noia e occhi sempre puntati addosso. Al mare si stava in costume, si passeggiava fino a tardi, si mangiava in modo più disordinato.

    In mezzo a tutti quei glutei esibiti senza ritegno (in molti casi sarebbe stato opportuno un velo pietoso), a quei corpi ustionati e spalmati di olio solare (un solo flacone di Coppertone appestava una spiaggia), offerti allo sguardo critico o libidinoso dei vicini di ombrellone, ognuno poteva illudersi di trovarsi nella lussureggiante Bora Bora. I locali, ovviamente con nomi evocativi, minimo Palm Beach, mandavano musica ad alto volume, tutto il giorno; che ti fregava, insomma, della storia della fondazione di Falconara?

    Torremezzo e Falconara

    Evidentemente questi saranno stati i miei colpevoli pensieri in quelle roventi estati a Torremezzo, pensieri disturbati dal fischio stridente del treno. Ora ne passano meno, di treni, mi sembra, e le folle di vacanzieri devono aver preso altre direzioni, a giudicare dall’aspetto dimesso e malconcio di molti edifici. Il mare purtroppo mi apparve sporco, in quella prima estate di pandemia, segnato da schiuma e strisce inquietanti. Peccato.

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    Ombrelloni vuoti sulla spiaggia di Torremezzo

    Ora sarebbe il momento di recuperare il filo della storia: a Falconara qualcuno si è preoccupato di studiare, raccogliere tradizioni, canti, usi della piccola comunità. In rete si trova qualche documento interessante, si rinvia a dei libri. Molto più di quello che di solito si riesce a leggere su un comune così piccolo. Bisognerebbe raccontare o inventare, nel caso, le mitiche peripezie dei fondatori. Necessita un racconto di fondazione. Si potrebbe anche prenderlo in prestito dai libri di Carmine Abate, che ne ha scritti tanti. Io ho ancora da recuperare gli altri borghi delle mie vacanze del secolo scorso, per espiare la distrazione peccaminosa degli anni giovanili.

  • Un altro Mondo nuovo non è più possibile: 5 anni senza Lombardi

    Un altro Mondo nuovo non è più possibile: 5 anni senza Lombardi

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    Antonio Lombardi se n’è andato l’11 aprile 2017, pochi mesi prima di compiere ottant’anni. Con lui è venuto meno un pezzo di storia di Cosenza, le inquietudini, l’acume critico, il desiderio di cambiamento di tanti giovani della sua generazione.
    L’avevo conosciuto in una giornata di primavera del 2002 quando mi sono affacciato per la prima volta nel suo negozio di tappezziere, nel centro di Cosenza, in via Trento al numero 59.

    Via Trento è una parallela di corso Mazzini, risale all’impianto urbano di epoca fascista, ospita un negozio di dolciumi caro ai cosentini, Monaco e Scervino. Pochi metri lo separano dalla vetrina della tappezzeria Lombardi.

    Due luoghi agli antipodi, con mio grande dispiacere, dato che visitando l’uno mi sembrava doveroso astenermi dall’altro. Moralismo piccolo borghese, avrebbe detto Lombardi.

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    Antonio Lombardi, il tappezziere agit prop e letterato di Cosenza

    A sessantacinque anni Antonio era ancora un uomo vigoroso, diretto, quasi brusco nei modi. L’avevo cercato incuriosito da un articolo apparso su Teatro Rendano, anno VI (numero 50), marzo 2002, pp. 12-18: Michele Cozza: “Mondo nuovo reprise. Ricostruiamo una vicenda singolare degli anni Sessanta a Cosenza”.

    Nella minuscola stanza semibuia e ingombra di materiale, rotoli di carta da parati, corde, soprattutto piena di libri, ritagli di giornali e stampe alle pareti ho avuto subito l’impressione di entrare in un altro mondo, la sensazione che si prova quando ci si inoltra in un edificio antico, oppure incontriamo una persona capace di restituirci un’epoca, un modo di sentire le cose, un approccio alla realtà fatto di nomi, di pensiero, di idee.

    Il Mondo nuovo di Antonio Lombardi

    Mi ha indicato una sedia piuttosto precaria e mi ha squadrato; aveva un piglio quasi da maestro di altri tempi, mentre parlava si accertava che fossi in grado di seguirlo sul racconto che stava articolando, anche per valutare se fosse il caso di sprecare il fiato.

    Ho capito con il tempo che quell’atteggiamento nasceva proprio dalla sua storia personale, dal ruolo e dalla missione che si era assunto, sia personalmente sia come animatore del circolo Mondo nuovo.

    Lui che era un appassionato lettore dei saggi di Lukács amava richiamarne un concetto in particolare. Quello secondo cui un testo saggistico deve risultare comprensibile per un operaio, per una persona dotata di una cultura di base.

    Dopo i fatti di Ungheria

    I testi sacri per Lombardi andavano studiati pagina per pagina, e questo impegno l’aveva attuato negli incontri serali, nel circolo, leggendo insieme agli amici e spiegandosi uno con l’altro innumerevoli libri su ogni genere di argomento. Tra il 1960 e il 1980, insieme a rassegne di cinema, dibattiti, interventi sull’attualità politica e artistica.
    Così ho iniziato ad ascoltarlo e ad addentrarmi nella storia del circolo Mondo nuovo, prendendo in mano libri, volantini, foto e ritagli di giornali, ma soprattutto rivivendo quegli anni grazie al suo vivo racconto. La svolta nella sua vita avviene nel 1956, con i fatti di Ungheria e la decisione di aderire al socialismo libertario; lui e i suoi amici sono studenti all’istituto per geometri, hanno un rapporto privilegiato con il professore di italiano, Umile Peluso, sindaco di Luzzi e senatore del P.C.I.

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    Dagli anni ’60 agli anni ’80 giovani e meno giovani hanno frequentato Antonio Lombardi e il circolo Mondo nuovo a Cosenza

    Diversi dalle solite conventicole culturali

    Non mi era mai capitato, fino a quel momento, di percepire un approccio così diretto, immediato, ai libri e al lavoro culturale. Nella città dell’Accademia cosentina, delle tante conventicole e consorterie, un atteggiamento simile era del tutto inusuale e dirompente, infatti aveva dato vita a un gruppo di giovani, quasi tutti provenienti dalle scuole tecniche, estranei ai riti e alle cerimonie, alle liturgie della politica e della vita culturale di una città di provincia. Dopo quel primo incontro ne sono seguiti molti altri, durante i quali ho avuto in consegna una serie di documenti, un piccolo ma significativo archivio relativo all’attività di Mondo nuovo, che ho inventariato e studiato.

    Consigli di lettura

    Alla fine di ogni visita mi assegnava qualche libro da leggere. Alcuni me li vendeva, dato che era rimasta qualche copia della libreria del circolo, a un prezzo stabilito da lui senza possibilità di trattativa. Altri me li prestava, quando si trattava di copie uniche, come “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” di Ruggero Zangrandi. Mi dava i compiti perché, diceva, avevo dei vuoti da colmare sulla storia dei movimenti e del socialismo.
    Così pur essendo all’epoca già un quarantenne con laurea ho accettato, in amicizia e per la forza dei suoi racconti, questo ruolo di discepolo che non è proprio in linea con il mio carattere. Penso che entrambi fossimo consapevoli che la mia estraneità al suo mondo facilitasse molto la comunicazione, non c’erano diffidenze ideologiche tra noi.

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    Anche Giampiero Mughini ha scritto per i Quaderni di cinema (a cura del circolo Mondo nuovo di Cosenza)

    Mondo nuovo e la vecchia Olivetti di Antonio Lombardi

    Non mi proponeva solo letture impegnate. Mi aveva dato da leggere anche i romanzi di Stefano Terra, storie romantiche ambientate tra l’Italia e la penisola balcanica, le Porte di Ferro, Rodi e Atene. Insieme ai libri di Terra mi aveva consegnato un carteggio con amici e conoscenti di questo giornalista torinese, a cui avrebbe voluto dedicare un convegno. Così ho capito come si muoveva quando decideva di approfondire una questione. Non so come riuscisse, dal suo negozio, a rintracciare inviati all’estero, editori francesi, direttori di istituti culturali oltrecortina. Senza internet e con una vecchia Olivetti. Era meticoloso e ostinato, in queste ricerche.

    Il Foglio volante e Umberto Eco

    Abbiamo discusso per ore, con Antonio, della storia del circolo, delle rassegne di cinema, dei dibattiti, dei verbali dattiloscritti delle assemblee dei soci, in cui tutto veniva registrato e messo agli atti. Come è noto alle centinaia di persone che hanno partecipato alla vita del circolo, Mondo nuovo ha costituito un luogo di formazione culturale e politica il cui peso non è stato, ancora, adeguatamente riconosciuto.
    Antonio non era divorato dalla nostalgia, anzi, dopo un lungo silenzio successivo alla chiusura del circolo, nel 1980, aveva ripreso a intervenire a modo suo, nella vita cittadina, con il suo Foglio volante, confezionato artigianalmente, fotocopiato e diffuso come un samizdat clandestino, per vie misteriose che solo lui conosceva. Lo riceveva pure Umberto Eco.

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    Umberto Eco tra i suoi amati libri

    Poeti a Santa Chiara

    Sul Foglio volante riprendeva articoli significativi del dibattito in corso, ma da un certo momento in poi aveva iniziato a pubblicare anche testi suoi, brevi componimenti in versi, in dialetto, i muttetti di Santachiara, perché così aveva deciso di firmarli, dal nome della zona del centro storico, Santa Chiara, a cui si sentiva più legato per storia familiare.
    Spesso incollava sui Fogli le foto delle attrici della sua giovinezza, specie quelle dove le forme dei fianchi e del seno erano più evidenziate. Alle dive più procaci dedicava versi allegri e scurrili, che amava leggere agli amici di passaggio e alle signore, purché fossero anche loro ben dotate, giunoniche. Sulle misure femminili era intransigente come nell’avversione allo stalinismo.

    Oltre i confini cittadini

    Radicato nella sua città, di cui conosceva aneddoti e personaggi, Antonio aveva però sempre guardato oltre i ristretti confini cittadini, dialogando con i protagonisti della cultura italiana e non solo. Scherzava raccontando di come fosse abituato a presentarsi, senza preavviso, a casa di Franco Fortini, per fare lunghe chiacchierate sulle novità in libreria e sulle vicende politiche.
    Molti progetti di Mondo nuovo e Antonio Lombardi sono rimasti incompiuti, e sono testimoniati dalle carte d’archivio, corrispondenze per organizzare pubblicazioni, per sollecitare attenzione verso un autore ingiustamente dimenticato.
    Durante gli anni della nostra frequentazione avevo pubblicato qualche articolo e alcuni documenti inediti del suo archivio, strappandogli qualche bonario e ironico apprezzamento: «Bravo, ti sei impegnato». Aggiungeva poi che, senza rendersene conto, stava scivolando verso posizioni socialdemocratiche, dato che si intratteneva in conversazioni con una persona come me, estranea ai gruppi eternamente litigiosi della sua area politica.

    Il carteggio con Lelio Basso

    L’archivio è parziale, perché alcune parti sono forse andate disperse, o si trovano in mano a persone che non sono riuscito a rintracciare, o che non intendono metterle a disposizione. Materiale vario credo sia ancora nel negozio. Dietro sue indicazioni ho cercato le tracce delle centinaia di lettere scambiate, in venti anni, con registi, pittori, artisti e intellettuali italiani e stranieri. A Mondo nuovo avevano progettato di pubblicarle, per documentare l’attività del circolo. Forse in parte si potrebbero ancora recuperare, tra i fondi documentari privati disponibili negli archivi. Servirebbe un progetto di ricerca.

    Anche nella sua parzialità la documentazione è impressionante rispetto agli striminziti resoconti e annuari di altre associazioni coeve. Di recente, dando seguito a una sua volontà e dopo aver considerato la situazione degli istituti culturali cittadini, ho deciso di consegnare tutte le carte in mio possesso alla Fondazione Basso a Roma, dove già custodivano le lettere scambiate con Lelio Basso, verso cui Lombardi nutriva un affetto filiale.

    Un articolo dedicato a Mondo Nuovo e Antonio Lombardi

    Il dovere di ricordare

    Sapevo e so bene, ora che non c’è più, che ben altro andrebbe ricostruito e portato all’attenzione in un dibattito dominato, come sempre, da logiche di mercato e diviso in riserve indiane, in cui non ci si può azzardare a mettere piede. Antonio Lombardi non si rammaricava dell’isolamento e delle ristrettezze economiche dei suoi ultimi anni. L’aveva messo in conto molti anni fa, quando il suo attivismo e la sua irruenza avevano scavato il vuoto intorno a lui.
    Ora però la sua città e i suoi amici e anche i suoi avversari dovrebbero rendergli omaggio e saldare il debito nei suoi confronti.

  • Peperoncino e cipolle? Meglio il cammino dell’Abate

    Peperoncino e cipolle? Meglio il cammino dell’Abate

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    Il 26 marzo scorso ho visitato per la prima volta la chiesa di San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, in provincia di Cosenza. Si tratta di un sito immerso nel verde di un fitto bosco, raggiungibile anche in macchina, seguendo una strada stretta ma asfaltata. La maggior parte delle persone presenti quel giorno, però, ha raggiunto questo luogo bellissimo a piedi, seguendo probabilmente gli stessi sentieri percorsi dai monaci compagni e discepoli di Gioacchino da Fiore, che morì qui, il 30 marzo del 1202.

    San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta

    La moda dei cammini

    Marciare per antichi sentieri ormai va di moda. Migliaia di pellegrini si muovono ogni anno lungo la via che attraverso i Pirenei porta a Santiago de Compostela, in Spagna, oppure lungo la via Francigena, che dal Nord Europa, attraverso le Alpi e i passi appenninici, conduceva i penitenti a Roma, per pregare nelle grandi basiliche della cristianità e lucrare l’indulgenza.

    Il fatto che si stampino libri intitolati Come sedurre la cattolica sul cammino di Compostela (Castelvecchi) lascia intuire che le motivazioni di questi marciatori incalliti possono essere le più varie, non tutte riconducibili a un’esigenza religiosa.

    Dobbiamo ammettere che qualcosa del genere accadeva anche ai tempi di Dante Alighieri, quando personaggi di ogni genere si mettevano in cammino per desiderio di avventura, per sfuggire alla giustizia, per cercare un luogo migliore in cui vivere.
    Molti testi ispirati raccontano, invece, il valore del pellegrinaggio, il senso di questi viaggi che potevano durare anni, attraverso selve oscure e pericoli di ogni sorta, e trasformavano la sensibilità del pellegrino, gli spalancavano la conoscenza di altri mondi, altri stili di vita e culture materiali.

    E oggi? Prendiamo ad esempio la giornata dedicata a uno dei luoghi di Gioacchino da Fiore, un personaggio noto in tutto il mondo agli studiosi di Medioevo, citato a proposito e a sproposito da politici, rivoluzionari, agitatori e scrittori di ogni epoca, per la sua forza visionaria, per la prefigurazione di un’età della Spirito, in cui tanti hanno voluto vedere un sogno messianico e utopistico.

    Più Gioacchino da Fiore, meno peperoncino e calabriselle

    Gioacchino da Fiore è quasi certamente il calabrese più famoso di tutti i tempi. Ma nella sua terra i luoghi in cui ha vissuto e operato sono fuori dalle strade principali. Non fanno parte dell’immaginario collettivo, che può spingere gli stessi calabresi e i visitatori di questa regione sulle sue tracce. La Calabria ama presentarsi con il logo dei Bronzi di Riace, ma più prosaicamente e banalmente si racconta con le calabriselle, le cipolle, i peperoncini festivalieri e altri prodotti enogastronomici su cui si fa affidamento, per invogliare i viaggiatori a percorrere le sue strade dissestate.

    Antica iconografia che raffigura Gioacchino da Fiore

    A me i prodotti sott’olio non sembrano una motivazione sufficiente per mettersi in viaggio. Si parte per un’esigenza interiore, per cercare qualcosa, per capire una parte di sé che nascondiamo a noi stessi, a volte, per timore che ci scombussoli la vita ordinata e noiosa che conduciamo.  Possiamo anche ammettere che, durante il cammino verso Santiago de Compostela o qualsiasi altra meta, i falò serali, le chitarre e il vino per ristorarsi dalle fatiche della giornata favoriscano la reciproca attrazione e seduzione, ma si tratta sempre di un’alta e nobile necessità (questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine, un rapimento mistico e sensuale… cantava il vecchio Battiato).

    Contro le direzioni ovvie e banali

    A me la strada verso San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, ha fatto pensare che di solito, nella nostra vita, imbocchiamo quotidianamente le direzioni più ovvie e banali, che ci appaiono le più semplici e rassicuranti. Perché sono quelle più affollate, c’è sempre tanta gente e ci pare naturale ficcarci pure noi nella confusione.
    Invece gli antichi sentieri sono solitari, incutono un po’ di timore, facciamo bene ad avventurarci da soli?cNon sarebbe più normale andare a spasso sul corso oppure al centro commerciale?

    Alla fine, il 26 a Canale, ci siamo ritrovati in cinquanta persone, che non è proprio una situazione eremitica, di quelle che piacevano tanto all’abate Gioacchino. Forse vorrà dire che nel manicomio inconcludente che è la nostra vita, non siamo gli unici a pensare che bisognerebbe fermarsi, rallentare il passo, guardarsi intorno e recuperare questi luoghi incantati che, per miracolo, ancora sopravvivono in Calabria.

    La chiesa di Gioacchino diventò una stalla

    San Martino di Giove, come tanti altri monasteri, era diventato una stalla di proprietà privata. In periodo napoleonico prima e poi con l’Unità d’Italia, le leggi sul patrimonio ecclesiastico hanno espropriato molti beni della Chiesa, venduti all’asta o trasformati in edifici pubblici, caserme, uffici, scuole.

    Solo di recente questo piccolo edificio è stato recuperato e liberato dalle murature più arbitrarie, e ci appare in tutta la sua bellezza. Quest’anno Demetrio Guzzardi, editore di Editoriale Progetto 2000 e irrefrenabile animatore culturale, ha in programma di guidare le pattuglie di intrepidi camminatori a riscoprire, dopo San Martino di Giove, anche altri luoghi gioachimiti nascosti lungo quelle strade secondarie, che sembrano tagliate fuori dai circuiti più consueti.

    I luoghi di Gioacchino da Fiore in Calabria

    La Sambucina a Luzzi, che non si trova in paese, ovviamente, ma lungo la strada poco frequentata che porta in Sila. Santa Maria della Matina a San Marco Argentano, lungo la vecchia statale. Sono due luoghi uniti da una lunga storia e il 26 giugno prossimo Guzzardi propone un preoccupante tour automobilistico-pedonale, tra questi due centri della Calabria medievale. Preoccupante per me, che mi perderò di sicuro.

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    Il complesso di Santa Maria della Matina a San Marco Argentano

    E che dire della giornata del 23 luglio? Da Fontelaurato, nel comune di Fiumefreddo Bruzio, alla Badìa e a Sotterra a Paola, tre luoghi incredibili, che meriterebbero pagine e pagine di racconto, e invece hanno rischiato la distruzione totale e la cancellazione dalla memoria. La Badìa ci riporta alla storia delle Crociate, in particolare a un piccolo ordine monastico-cavalleresco, quello di Santa Maria di Valle Josaphat.

    Questi monaci e cavalieri, dopo la perdita dei luoghi santi, si riorganizzano tra la Sicilia e la Calabria, che rappresentavano una prima linea contro il mondo musulmano. All’epoca il dialogo interconfessionale non andava di moda. Cristiani e musulmani si combattevano ferocemente. Quanti libri sono stati scritti sui Templari e sulla loro tragica fine? Sicuramente conosciamo meglio le loro vicende rispetto a quelle che si sono intrecciate intorno alla Badìa. Luoghi che non hanno trovato ancora un narratore, che riesca a farli rivivere per un pubblico più vasto di quello degli storici di professione.

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    I resti dell’abbazia di Corazzo a Carlopoli

    Guzzardi da molti anni affianca al suo lavoro di editore questa missione di animatore e organizzatore, a cui si dedica con un accanimento che gli invidio (ne avrei bisogno per certe faccende mie).

    A spasso tra le rovine

    La riscoperta dei luoghi gioachimiti proseguirà, dal 20 al 27 agosto, intorno alle suggestive rovine di Corazzo, nel comune di Carlopoli (CZ). In Sila, tra i boschi più alti, dove Gioacchino amava ritirarsi per meditare e pregare. E dove ognuno di noi potrebbe avere l’occasione di passeggiare e riflettere sulla propria situazione. Lontano dai lidi affollati, dalla musica sparata al massimo, dalla spazzatura che si accumula, come ogni estate, nelle nostre marine. E non mancheranno, non mancano mai, gli articoli giornalistici sugli sversamenti di liquami a mare, ricorrenti ogni anno per la serenità e la gioia delle famiglie che ci portano i bambini.

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    L’abbazia florense di San Giovanni in Fiore

    Il bed and breakfast del pellegrino

    Un’altra vita è possibile? Non riesco a immaginarmi nei dintorni di Corazzo ad occuparmi di mucche al pascolo. I bovini mi sembrano grossi e pericolosi per i dilettanti allo sbaraglio. Non mi azzarderei ad avviare una produzione di vini dell’abate, né ad impiantare un Bed and Breakfast del pellegrino lungo uno di questi percorsi. Io mi accontento di visitarli, certi posti, e di conoscerne o immaginarne le storie.
    Ognuno dovrebbe concedersi la libertà di cercare quello di cui sente il bisogno, in un determinato momento della sua vita. Forma fisica e fidanzate, silenzio e preghiera, lontananza e anche, se capita, l’idea di candidarsi come apprendista pastore, boscaiolo, guida turistica, eremita a tempo indeterminato.

    Non possiamo portarci tutto appresso

    La Calabria medievale è lontana. Possiamo vagamente intuire come fosse, ma la nostra vita è un’altra faccenda. Il mondo in cui siamo immersi è complesso e inquietante. Per affrontarlo con cautela e sensibilità abbiamo bisogno di sapere da dove veniamo. Abbiamo bisogno di aggrapparci alle nostre radici, di capire cosa custodire e cosa abbandonare, se non ci interessa più. Non possiamo avere tutto e nemmeno portarci tutto appresso; i pellegrini di una volta lo sapevano, e pure i viaggiatori di oggi sono consapevoli che il bagaglio deve essere leggero.