Autore: Maria Concetta Loria

  • Pasolini e la Calabria: un viaggio tra passato e futuro

    Pasolini e la Calabria: un viaggio tra passato e futuro

    La Calabria rappresentava un luogo giusto per le personali indagini e riflessioni antropologiche di Pier Paolo Pasolini. Una regione che, insieme a tutti i sud del mondo, incarnava la memoria e l’identità collettiva. Non una collocazione strettamente geografica, ma una precisa connotazione storica che identifica il tempo della pre-storia, in contrapposizione con il tempo della dopo-storia, colpevole di una profonda crisi della cultura iniziata negli anni ‘50 del ‘900, in un momento storico in cui l’Italia si avviava verso quel processo di mutazione antropologica capace, secondo Pasolini, di trasfigurare completamente la realtà.

    Pasolini in Calabria: dal reportage ai Comizi d’amore

    Il viaggio di Pasolini in Calabria inizia già nel 1959, quando per la rivista Successo, attraversando le spiagge di tutta la penisola, realizza un lungo reportage per raccontare l’Italia del cambiamento e della tradizione, divisa tra borghesia e classe operaia. Ritornerà nuovamente tra marzo e novembre 1963 per il film documentario Comizi d’amore. Attraverso una serie di interviste si raccontavano i pregiudizi su temi scottanti come la sessualità, l’aborto e il divorzio. Sulla vicenda giudiziaria, successiva all’affermazione di Pasolini che definì Cutro come una terra capace d’impressionarlo, con i suoi banditi come si vede nei film western, molto è già stato scritto, ma tanto resta ancora da dire sugli incontri di Pasolini in Calabria.

    De Martino e Pasolini: la Calabria del Premio Crotone

    Nel 1959, in occasione del Premio Crotone, un concorso letterario istituito nel 1952, su delibera dell’amministrazione comunale guidata dal PCI di Silvio Messinetti che, a sua volta, aveva ricevuto indicazioni dal segretario regionale Mario Alicata, Pasolini era a Crotone per ritirare il prestigioso Premio. Proprio lì Pasolini incontra l’antropologo Ernesto De Martino, con il quale condivideva la visione di una fine del mondo, vista come disgregazione, annientamento dell’unità e delle strutture sociali e culturali, intesa secondo una forte matrice marxista non teorica o etica, ma esclusivamente di radice umanistica.

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    Pasolini premiato in Calabria per Una vita violenta

    Se è vero che La fine del mondo di De Martino fu pubblicato postumo nel 1977, Pasolini ebbe modo di coglierne appieno le suggestioni, attraverso un articolo che ne anticipava le tesi: Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1964, di cui Pasolini era condirettore insieme ad Alberto Moravia.
    Nel ‘59 la giuria del Premio Crotone era composta da personaggi come Ungaretti, Gadda, Mondadori, Sciascia, Bompiani, Repaci, Bassani e Moravia.

    Sud, magia e vite violente

    Al culmine di numerose polemiche dovute all’omosessualità di Pasolini, della quale non fece mai mistero, la giuria premiò il suo romanzo Una vita violenta a pari merito con il saggio antropologico Sud e Magia di De Martino, destinato a raccontare il ruolo della magia nelle società primitive, quindi in un Sud ancora legato a una certa ritualità. Da questo possiamo comprendere, quanto il confronto culturale tra i due era concentrato sui temi di cultura popolare.

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    Ernesto De Martino

    E, indubbiamente, le teorie di Pasolini e De Martino sono rintracciabili, con le dovute differenze tra prospettive simboliche e potere distruttivo del capitale, in un’unica visione legata alla cultura popolare. Pasolini nel ricevere il premio dichiarò alla giuria che i protagonisti del suo romanzo, sebbene fosse ambientato nella capitale, facevano parte del Mezzogiorno d’Italia. Per questo motivo era giusto che a Crotone, i protagonisti, trovassero la giusta comprensione e accoglimento.

    Mario Gallo e il mago

    La rilevanza simbolica di una cultura radicata in un universo contadino si concretizza anche attraverso la realizzazione di alcuni cortometraggi improntati sui richiami della cultura contadina del Salento e della Calabria. Fin dal 1958 collabora con il documentarista, giornalista, produttore cinematografico, critico e regista calabrese, Mario Gallo. Insieme realizzeranno un cortometraggio della durata di circa dieci minuti, dal titolo Il Mago.

    Il corto racconta la storia di un mago cantastorie, lo stesso Mario Gallo ne riassume il contenuto con semplici parole: «Nella vecchia Calabria sopravvivono vecchie abitudini, vecchi canti d’amore, di lavoro, di morte, vecchie figure; tra queste il mago. Egli se ne va in giro per le campagne recitando tutto solo davanti alle famiglie di contadini vecchie storie di paladini, dame e draghi. E così si guadagna un pezzo di pane».
    Il mago è un saltimbanco che, recitando tutte le parti del dramma o della commedia, riusciva a far piangere o ridere i contadini strappando così loro delle provviste. Non c’erano sceneggiature o dialoghi, l’attore protagonista improvvisava. Il corto sarà poi proiettato nel 1959.

    Pasolini torna in Calabria: Il Vangelo secondo Matteo

    Il suo incontro con un Sud ancora arretrato lo spinse ad una visione che possiamo definire di presagio della storia degli ultimi anni. Grazie ad essa riuscì a cogliere le insidie della globalizzazione, che lo portarono a vedere il Mediterraneo come il luogo dei grandi conflitti religiosi, culturali e sociali. Nella poesia Profezia parla delle coste calabresi, descrivendo l’arrivo di migliaia di uomini pronti a sbarcare sulle coste di Crotone o di Palmi. In questo Sud Pasolini riesce a ritrovare gli elementi in grado di mescolare sacro e profano, religione e laicità, insieme all’empatia del sentire umano. Questi sono i motivi che lo spingono a girare le scene del suo Vangelo secondo Matteo nell’Italia del Sud.

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    PPP tra i Sassi di Matera durante le riprese del film

    Effettua le riprese nella terra incontaminata e sconosciuta come la Basilicata, facendo conoscere le bellezze dei Sassi di Matera, ma arriva anche sulle spiagge della Calabria, sulla costa Ionica che conosceva fin dai primi anni ‘50. Pasolini portò Il Vangelo secondo Matteo sulla spiaggia di Le Castella, frazione di Isola Capo Rizzuto, in quei luoghi già visitati in occasione del Premio Crotone. Si tratta di un capolavoro della cinematografia italiana del 1964, giudicato dall’Osservatore Romano il miglior film su Gesù mai girato.

    Un viaggio nel tempo e nella storia dell’arte

    Il regista utilizza il paesaggio della costa Ionica per costruire una sorta di viaggio nel tempo, una traccia del passato, qualcosa che, con i suoi riti e i suoi miti rischia di scomparire. Pasolini colloca la Calabria in diretta relazione con le culture del passato che l’hanno attraversata, preferendola addirittura alla Palestina ritenuta ormai troppo modernizzata, inadatta ad accogliere le scene de Il Vangelo. La Madonna incinta nella scena iniziale è Margherita Caruso, una giovane quattordicenne di Crotone. Nella scena è evidente il rimando alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. Altrettanto chiari sono i richiami iconografici in tutti i fotogrammi del film.

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    Margherita Caruso

    Non bisogna dimenticare che Pasolini fu allievo del critico d’arte Roberto Longhi e l’arte visiva resterà sempre parte integrante di tutto il cinema pasoliniano. Enrique Irazoqui, l’attore spagnolo che nel film interpretava Gesù, cammina sulla spiaggia di Le Castella, alle sue spalle la fortezza, risalente al 400 a. C., collocata su un piccolo lembo di terra in uno dei tratti più suggestivi dell’Area Marina Protetta di Capo Rizzuto.

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    Enrique Irazoqui

    Pasolini e la Palestina in Calabria

    Nella campagna di Salica, frazione del comune di Crotone, è girata la scena di Gesù che dice ai discepoli di seguirlo, ma è necessario che ognuno prenda su di sé la propria croce. Nello stesso punto era girata la scena di Gesù che guarisce lo storpio e viene rimproverato per aver compiuto il miracolo nel giorno del sabato. La spiaggia del lago di Tiberiade, dove Gesù incontra per la prima volta i futuri discepoli e li invita a seguirlo, è la spiaggia di Irto, a ridosso di Capocolonna e del promontorio di Hera Lacinia, dove si trova la colonna di età ellenica. Una foto accanto ad essa, in occasione del Premio Crotone del ’59, immortala Pasolini in Calabria insieme alla giuria.

  • Venuti dal Mare, drammaturgia di un tempo policronico

    Venuti dal Mare, drammaturgia di un tempo policronico

    Il ricordo è solo la costruzione di una realtà soggettiva, emozioni improvvise che agiscono costruendo, o ri-costruendo, un tempo oggettivamente inesistente, ma concreto nella percezione di impressioni dettate da una dimensione tanto sfuggente quanto radicata nella propria storia e nel proprio vissuto. In virtù di questo, Gaetano Tramontana, regista, autore, attore e direttore artistico di Spazio Teatro – associazione culturale nata a Reggio Calabria nel 1999 – costruisce la drammaturgia di Venuti dal Mare, un racconto nel quale si intreccia la storia di un giovane ragazzo e quella di una comunità entusiasta per l’arrivo in città di quei due misteriosi guerrieri opliti.

    Venuti dal Mare, 50 anni dopo i Bronzi

    Venuti dal Mare è uno spettacolo teatrale nato nel 2022. Un’idea che Tramontana coltivava già da molto tempo si è concretizzata in occasione del cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace, avvenuto il 16 agosto del 1972. Da circa un anno lo spettacolo teatrale calca con successo i palcoscenici italiani, cercando di restituire al pubblico una storia, quella del 1981, vista con gli occhi di un adulto, Tramontana, che posa il suo sguardo indietro, al ragazzo che era e a una città, Reggio Calabria, ancora socialmente provata per essersi vista negare la possibilità di diventare capoluogo di regione, rimanendo così relegata in una condizione di perenne marginalità.

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    Uno dei Bronzi circondato dalla folla dopo il ritrovamento di 50 anni fa

    Un romanzo di formazione

    Tramontana che in luglio ha replicato lo spettacolo a Torino e Frosinone, accompagnato da Ernesto Orrico che per l’occasione ha abbandonato il suo ruolo di attore per diventare Dj, riprenderà le repliche in autunno, riportando in scena le lancette indietro nel tempo, per il suo personale racconto di ex adolescente nella città della Fata Morgana.
    Se è vero che Venuti dal Mare rientra in quel genere riconosciuto come Teatro di Narrazione, quindi quel tipo di drammaturgia costruita intorno a temi di attualità politica e sociale, in cui l’attore coincide con la figura di un narratore testimone dei fatti accaduti, risulta altrettanto vero che la performance di Tramontana presenta alcune peculiarità che lo collocano, azzardando un accostamento strettamente letterario, nella dimensione del romanzo di formazione, quindi una narrazione che segue la crescita del personaggio.

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    Tramontana e Orrico

    In scena non c’è un narratore di cronache esclusivamente collettive, ma un attore che attraverso il suo monologo ci rende partecipi di un suo esclusivo flusso di coscienza. Ciò che affiora è il suo racconto personale messo in relazione con le aspettative di una città che, con l’arrivo dei Bronzi, si illudeva di uscire dalla sua condizione di periferia.
    Il testo drammaturgico è concepito come un ipertesto, così una serie di eventi storici raccontati in ordine sparso, quasi come se fossero dei link di un’epoca pre-digitale sui quali cliccare, creano una narrazione tanto emozionante quanto incompleta. Ma è proprio nell’incompiutezza descrittiva, tipica dell’alternarsi dei ricordi, che si determina la sua originalità.

    Viaggi paralleli

    Una trasmissione radiofonica diventa l’espediente narrativo per dare inizio ad un racconto privato che inevitabilmente raggiunge un pubblico fatto soprattutto di giovani. È il racconto di un ragazzo degli anni ‘80 che parla con altri giovani che, diventano in quel momento, nonostante lo scarto temporale, suoi coetanei. Tramontana riesce a tenere lontana ogni forma di retorica paternalistica, scarta il senso di superiorità che si presenta quando si parla della propria giovinezza. Semplicemente, racconta delle cose successe in un momento in cui il mondo stava cambiando e ci riesce con ironia e leggerezza.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    I Bronzi di Riace, figure avvolte da un alone di mistero che ne rafforzava la popolarità, dopo il lungo intervento di ripulitura e restauro presso il Museo Archeologico di Firenze, finalmente nell’estate del 1981 stavano per tornare a casa, non prima di un passaggio a Roma per volere del presidente partigiano Sandro Pertini.
    Il Museo Archeologico di Reggio Calabria era pronto ad accoglierli, una città intera lusingata dal fatto di poter essere visitata, come Pompei, Roma e Parigi, da persone di tutto il mondo, per l’importante scoperta delle antiche, preziose ed enigmatiche statue greche. Ma quello dei Bronzi non è l’unico viaggio. Parallelamente, in pullman, dopo una gita tra Francoforte, Londra e Parigi, la sera del 2 agosto 1981 un gruppo di giovani scout faceva ritorno a casa.

    Reggio Calabria tra passato e presente

    Attraverso il viaggio, Tramontana, traduce la sua esperienza interiore: una nascita come quella dei Bronzi emersi dalla profondità del mare, l’adolescenza fatta di esperienze nello spazio e nel tempo, la maturità fatta anche di disillusioni e, dopo il lungo viaggio, l’incontro con la morte, il primo lutto di un quindicenne che, per quella “mania, di dare ai nipoti il nome del nonno”, vedeva il suo nome scritto sul manifesto a lutto. Nel parallelismo tra il suo viaggio personale e quello dei Bronzi, Tramontana, non fa altro che restituire se stesso e il suo percorso di uomo inserito nella circolarità della vita.

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    Un altro momento di Venuti dal Mare (foto Marco Costantino)

    Da maggio ad agosto una serie di eventi aveva segnato la storia non solo personale, ma anche quella della sua città e di un mondo sulla soglia tra un passato e un presente destinato alla digitalizzazione. La morte di Bob Marley, l’incidente mortale di Rino Gaetano, la tragedia di Vermicino con la morte in diretta televisiva del piccolo Alfredino Rampi, l’attentato a papa Wojtyla, sono le storie che si alternano ai ricordi personali di quei venti giorni lontani da casa e con pochissimi contatti con la famiglia, giusto qualche minuto per dire «stiamo bene, ci stiamo divertendo», tanto poi i genitori «si sarebbero sparsi le notizie fra loro», perché ci volevano molti gettoni per telefonare dall’estero e i soldi dovevano bastare fino al ritorno a casa.

    Venuti dal Mare tra spazio e tempo

    La musica che si alterna ai ricordi e ai racconti emoziona per la sua capacità di riportarci a quel 1981. I successi musicali diventano un ponte con il passato, trascinando il pubblico in una dimensione temporale accarezzata da successi come Enola Gay, Sfiorivano le viole, No woman no cry, Summer on a solitary beach, La costruzione di un amore e Quello che non ho. Un giradischi, i dischi in vinile, il cubo di Rubrik che in Italia diventa una moda proprio nel 1981, uno zaino, il modellino di una Volvo 343 per ricordare la tragica morte di Rino Gaetano, diventano oggetti capaci di superare la dimensione del monologo, imponendosi in una dimensione corale della scena.

    L’estate è il riferimento temporale delle vicende, ma il tempo più che indicare un periodo si avvicina molto di più a una condizione, una qualità di ciò che è stato. Non un tempo misurabile, quanto una esperienza pronta a comunicare valori condivisi e relazioni sociali. Per questo motivo il narratore si chiede:
    «Quanto spazio è necessario, perché il tuo mondo cambi? Quanti metri, quanti chilometri Sì, spazio. Non tempo. Quello è facile basta un calendario… È nel tempo che siamo abituati a calcolare i cambiamenti, no? Ma lo spazio?».

    Un tempo policronico

    Non è il tempo a creare le relazioni sociali, quanto lo spazio. I 700 metri che separano la casa dal museo di Reggio Calabria, le strade percorse ogni giorno, gli angoli della città conosciuti a memoria, sono gli spazi che creano le relazioni sociali e allora il tempo diventa policronico, legato ai cicli della vita e delle stagioni, altro da quel tempo così come siamo abituati a conoscerlo, misurabile quantificabile e monetizzabile. La condizione dell’estate si scontrerà con quella dell’autunno che conoscerà la delusione per un tradimento e la fine dell’entusiasmo di una città che assisterà alla conclusione delle lunghe file davanti al museo. I due guerrieri venuti dal mare finirono per essere inghiottiti, insieme ai ragazzi degli anni ‘80, in uno spazio vuoto e in un tempo monocronico incapace di creare relazioni.

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    Il monologo di Tramontana (foto Marco Costantino)

    Venuti dal Mare è una produzione Spazio Teatro. Scritto e interpretato da Gaetano Tramontana, con la partecipazione in scena di Alessio Laganà (Dj set live), la collaborazione artistica di Anna Colarco e, per luci e audio, di Simone Casile.

  • Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Il 6 luglio scorso il quattrocentesco chiostro della chiesa di Sant’Agostino, oggi parte del polo culturale del Museo dei Bretti e degli Enotri nello storico rione Massa di Cosenza, si è trasformato nel luogo di un grande rito collettivo. Artisti, spettatori, istituzioni hanno saputo concretizzare in una festa l’idea di teatro cara all’attore, regista e drammaturgo Antonello Antonante, uno dei più importanti riferimenti culturali della città dei Bruzi.
    A un anno dalla sua scomparsa, il Comune di Cosenza – in collaborazione con Centro Rat-Teatro dell’Acquario e la Fondazione Attilio e Elena Giuliani – ha inteso rendergli omaggio con una iniziativa dal titolo Un nome, un racconto, una vita.

    Antonello Antonante: dall’Acquario al Rendano, una vita per il teatro

    Antonello Antonante è stato uno dei fondatori del Centro Rat-Teatro dell’Acquario e direttore artistico del teatro di tradizione Rendano dal 2007 al 2011. Ma, soprattutto, pioniere e visionario del teatro contemporaneo in una terra, la Calabria, in cui questa forma d’arte ha conosciuto il suo vero volto identitario grazie alla sperimentazione e alla ricerca promossa dagli anni ‘70 in poi dal gruppo dell’Acquario.
    È difficile raccontare i suoni, le vibrazioni e le emozioni di una serata che ha segnato un nuovo tempo in divenire di un’arte che, pur nella sua incessante metamorfosi, rimane sempre fedele alle sue pratiche artigianali, legata ad una ritualità che affonda le sue radici nei miti. Oggi lo fa nel mito di un uomo che ha dedicato al teatro la sua vita, riuscendo a penetrare sulla scena nazionale. Un uomo che ha portato a Cosenza, grazie all’attività svolta nel corso dei decenni dal Centro Rat, il prestigioso Premio Ubu nel 2019, per aver creato, inventato e organizzato il teatro in tutte le sue forme in una città complicata.

    Cosenza, via Galluppi: l’ingresso del Teatro dell’Acquario

    L’avanguardia nel Sud profondo

    Antonello Antonante ha accolto quel prestigioso premio dedicandolo «a tutti i teatranti delle periferie». E di questa periferia del Mezzogiorno ora lui è diventato figura di richiamo, l’idea con la quale confrontarsi quando si parla di teatro. In questo Sud Antonante è riuscito a fare del teatro un laboratorio vivo per molte generazioni, le stesse che oggi sono parte attiva dell’attuale patrimonio teatrale calabrese.
    Di Antonante si è affermata l’idea di teatro non come luogo o edificio, ma di arte, festa, canale comunicativo “tra gente e cose che prima erano incomunicabili”. Antonello è riuscito nell’intento di far dialogare la città con sperimentazioni teatrali d’avanguardia, portando tra le strade di una piccola città di provincia quell’esperienza di nomadismo comunitario della più radicale avventura teatrale del novecento, il Living Theatre.

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    Maurizio Stammati e Alessandro Parente raccontano le storie di Giufà

    Il sacro fuoco brucia ancora per una sera

    Una nuova e rivoluzionaria idea di teatro che Antonello Antonante aveva fatto conoscere alla sua città fin dai tempi del teatro Tenda di Giangurgolo, intorno al 1977. In quegli anni di forti fermenti culturali, artistici e rivoluzionari apparve in città una tenda da circo sotto la quale fare teatro insieme ad altri idealisti, o utopisti culturali, oggi troppo spesso dimenticati e trascurati dalle istituzioni.
    La serata del 6 luglio – ideata e coordinata in regia da Renata Antonante – rievoca le parole scritte da Peter Brook ne Il punto in movimento: «La storia è un modo di guardare le cose che a me non interessa molto; a me interessa il presente…». E così è stato: magia di un presente animato, un hic et nunc lontanissimo da ogni logica di vana retorica commemorativa; una serata che secondo le parole di Dora Ricca, con la quale Antonante ha condiviso la vita e la sua idea di cultura, si è svolta con la fiamma accesa de «il sacro fuoco del teatro».

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    Un momento dell’omaggio ad Antonello Antonante e il suo teatro

    Abitare la memoria

    Il teatro, con i suoi protagonisti e il suo patrimonio ha dimostrato di riuscire ad essere luogo di aggregazione, capace di «abitare la memoria». La sua valorizzazione, però, spetta anche alle istituzioni politiche che devono dimostrare con fatti concreti, al di là di ogni enfasi celebrativa, che la cultura oltre ad essere un valore fortemente distintivo, può e deve essere il primo laboratorio di nuove e libere identità sociali.
    Antonello Antonante è riuscito nel suo intento, vivere di teatro e per il teatro, capace di rimanere libero in una terra che di libertà avrebbe tanto bisogno.

    La serata è stata possibile grazie alla partecipazione di:

    • Maurizio Stammati, Anna Maria De Luca, Ernesto Orrico, Angelo Gallo, Paolo Mauro, Nunzio Scalercio, Gianfranco Quero, Ester Tatangelo, Stefania De Cola, Ricchezza Falcone, Lara Chiellino, Lindo Nudo, Mariasilvia Greco, Dario De Luca, Ciccio Aiello, Alessandro Parente
    • Checco Pallone, Piero Gallina, Carlo Cimino, Leon Vulpitta Pantarei, Enzo Naccarato
    • Dora Ricca
    • Geppo Canonaco, Eros Leale, Renata Antonante, Carlo Antonante Bugliari, Antonello Antonante Bugliari
    • Ivana Russo
    • Francesca Laudani – La grafica
    • Tonino Principe
    • Marilena Cerzoso
    • Antonietta Cozza e il Comune di Cosenza

  • Donne sull’orlo di una crisi di Omero

    Donne sull’orlo di una crisi di Omero

    Sono belle le donne raccontate da Omero, attraverso l’arte della tessitura e la cura della casa conquistano gli uomini e restano fedeli ai mariti. Altre s’innamorano follemente di un uomo che appartiene a un’altra donna e lo trattengono su un’isola lontana. Sono donne lussuriose e c’è anche una maga seduttrice che trasforma gli uomini in maiali; donne come modelli da seguire e altre come esempi da respingere. Donne che ci parlano ancora con tutta la forza di una narrazione che affonda le sue radici nel mito, quello capace di esplorare interiorità personali e collettive.

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    Un momento del reading teatrale “Le voci delle donne di Omero”

    Le donne di Omero

    Le Voci delle Donne di Omero ci raggiungono attraverso un reading teatrale che, partendo dal mito, ripercorre le sensazioni dei personaggi femminili di Iliade e Odissea. Emozioni racchiuse nell’attenta scrittura drammaturgica di Katia Colica e, nella sua voce, che ne declama i versi, si addensa il senso profondo di una mitologia attualizzata. Le voci delle donne di Omero echeggiano tra gli spazi artistici della Calabria, riuscendo a registrare quel famoso sold out che fa ben sperare sulle sorti della diffusione della cultura teatrale nella nostra regione, luogo in cui vivere di teatro e più in generale di cultura, non è sempre un’impresa facile.

    È questa l’occasione per incontrare da vicino Katia Colica e, con lei, parlare di donne, miti, teatro, periferie e come dice lei di cultura salvifica. La performance, come chiarisce Colica, consente di far conoscere al pubblico, attraverso un linguaggio innovativo dettato da un’interpretazione personale, un testo che si articola in un intreccio narrativo, poetico e musicale.

    La dignità perduta

    Le donne di Omero, dee o umane, mortali o immortali, sono legate a un percorso di sofferenza, di sacrificio, ma che nella narrazione prendono forma, i silenzi diventano voci e le voci si concretizzano nella consapevolezza di essere state private della propria dignità. Donne che raccontano il proprio punto di vista e per fare questo partono dal mito, il solo capace di spiegare le emozioni di donne in balia del destino, donne utilizzate come merce di scambio, che piangono le sorti del marito, ma anche logorate dall’inganno. Nient’altro che i temi della nostra attualità descritti amplificando emozioni e sensazioni. In scena ci sono delle donne, voci di donne, che si raccontano, appartengono tutte allo stesso nucleo familiare. Emerge la voce di Persefone, una ragazza che vive il suo Ade personale all’interno della bulimia, quindi intrappolata in quel sotterraneo cavernoso del disturbo patologico alimentare.

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    Particolare di una scultura dell’Ottocento che raffigura Omero

    Il mito diventa narrazione contemporanea

    Demetra, la madre di Persefone, non vuole vedere e accettare l’Ade creato dalla figlia. Il personaggio di Tiresia è quello di una transessuale che si racconta, una narrazione che Colica ha costruito sulla doppia identità dell’indovino cieco che fu sia uomo sia donna. Eco è una donna trasparente, una ragazza che non riesce a esprimersi e quindi, senza le giuste parole la sua immagine non si concretizza in un corpo. Infine arriva Ade, simbolo di quel luogo in cui tutte le anime possono ritrovarsi solo ascoltando le proprie voci. Le musiche originali e dal vivo sono di Antonio Aprile e sul palco prende forma un percorso in cui il mito diventa una narrazione contemporanea, si parte da lontano per raccontare le problematiche femminili che si ripetono da millenni.

    La drammaturgia di Katia Colica

    La drammaturgia di Katia Colica nasce proprio dalla consapevolezza di storie reiterate, voci che arrivano da un tempo remoto, si attualizzano e si aprono a un costante e reciproco dialogo. Colica è riuscita a costruire una scrittura drammaturgica lavorando, come afferma, su una sorta d’innesto tra il mito classico e la contemporaneità. Un gioco d’incroci e di equilibri linguistici utili a non far dimenticare le nostre origini classiche. Katia difende la grecità radicata nella nostra cultura, ne parla come qualcosa che si avverte sotto pelle, una eco che risuona interiormente e che può tradursi nelle parole della contemporaneità.

    L’architetto delle emozioni

    Katia Colica è un architetto urbanista di Reggio Calabria, ma alle costruzioni di mattoni e cemento ha preferito quelle delle emozioni fondate dal sapiente intreccio delle parole. Il mestiere della scrittura per affrontare temi di disagio e di malessere sociale, autrice di romanzi e giornalista, ma più di tutto lei si sente una drammaturga e questo perché, come in un racconto mitico, non ha fatto altro che seguire le orme di una suggestione legata al tempo della sua infanzia.

    Un Altro Metro Ancora è la prima drammaturgia di Katia, quella che le ha consentito di rappresentare le emozioni suscitate da una storia vera vissuta da sua madre: finita la guerra, un gruppo di sfollati dell’Italia centrale diretti verso il Sud, si ritrova in un campo minato. Un ragazzo si propone di essere il primo della fila così da consentire a tutti di attraversare indenni quel pezzo di strada.

    Un progetto di liberazione

    Le figure del ragazzo e degli sfollati che seguivano le sue impronte, per Katia Colica, hanno sempre costituito un’immagine teatrale, tale da elaborarla negli anni e alla fine tradurla in una vera e propria scrittura scenica e anche in un libro. Fedele all’importanza attribuita alla forza delle parole Katia va in scena per raccontare delle storie, ma non si sente un’attrice, per lei stare sul palco è una pura casualità che ritrova un riscontro nell’apprezzamento del pubblico.

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    Katia Colica impegnata nel reading teatrale “Le voci delle donne di Omero”

    Le parole, Katia, le porta anche nelle periferie, e le condivide come un progetto di liberazione con gli stranieri, con le donne, con le minoranze etniche. Il suo amore viscerale per l’antica Grecia l’ha portata a ideare, insieme all’associazione Adexo, il Balenando in Burrasca Reading Festival, giunto ormai alla sua IV edizione e di cui lei è direttrice artistica. Il reading affonda le sue radici nell’antica Grecia, luogo in cui il cantore o aedo era considerato un profeta sacro poiché trasmetteva la tradizione orale dei testi accompagnato dal suono della cetra. L’ultimo progetto in cantiere della drammaturga Colica è il reading Persefone, il ritorno: incanto di primavera. che approderà in primavera nell’antico Parco Archeologico di Locri Epizeferi, luogo sacro della cultura e simbolo della Magna Graecia.

  • Ponti: la Calabria marginale tra oblio, paura e utopie

    Ponti: la Calabria marginale tra oblio, paura e utopie

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    Se dovessi pensare a un’immagine della Calabria da trasmettere come metafora della realtà socio-politica del nostro tempo opterei per quella dei suoi ponti. Tre nello specifico, anzi due ponti e un viadotto. Tre ponti di cui uno dimenticato e sconosciuto, un altro che ogni tanto rimbalza sulle pagine della cronaca e l’ultimo famosissimo ma anche futuristico, quindi inesistente. Ponti specchio di come questa regione è amministrata, ma allo stesso tempo di quanto stia poco a cuore ai suoi abitanti, sempre più lontani da una presa di coscienza oggettiva di quello che è il bene comune. Gente sempre più impegnata a perorare interessi privati, intenta a coltivare orticelli secondo quella logica del familismo amorale che, di fatto, ha determinato la marginalità della Calabria.

    Ponti del diavolo: la Calabria in buona compagnia

    I ponti sono strutture pensate dall’uomo per aprire nuove vie di comunicazione, superando ostacoli che s’interpongono alla continuità della viabilità. Opere d’ingegneria che, in Italia come nel resto del mondo, segnano anche mete turistiche. Perché, oltre la funzione pratica, i ponti parlano di storia, dell’evoluzione di una società. I ponti uniscono lembi di terra distanti geograficamente e avvicinano strutture sociali diverse.

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    Tra i ponti più famosi in Calabria c’è quello del Diavolo a Civita (CS)

    Nel resto d’Italia i ponti storici più famosi, solo per citarne alcuni, sono quello di Rialto a Venezia, Ponte Vecchio a Firenze, Ponte Sant’Angelo a Roma. Nel Cosentino abbiamo il Ponte di Annibale a Scigliano, monumento nazionale di epoca romana (II sec. A.C.), il suggestivo Ponte di Tavolaria a Marzi, edificato intorno al 1592, e il famoso Ponte del Diavolo a Civita che, secondo una recente documentazione, può essere datato intorno al 1840.
    In realtà ogni regione che si rispetti sembra debba avere un suo ponte del diavolo, dal Friuli al Veneto, passando per Piemonte, Toscana, Emilia, Lazio. Ognuna rivendica una leggenda che mette in relazione la capacità del demonio di costruire laddove per gli uomini è impossibile.

    Griffe e fiducia cieca 

    Poi ci sono gli altri ponti, quelli che gli automobilisti percorrono ogni giorno. Per citarne qualcuno ricordiamo il Viadotto Italia che attraversa i comuni di Laino Borgo e Laino Castello, il Viadotto Sfalassà sull’autostrada nei pressi di Bagnara Calabra, il Viadotto Fausto Bisantis, detto anche Ponte Morandi a Catanzaro. Spesso ne ignoriamo lo stato di salute e non possiamo fare altro che fidarci del fatto che siano aperti alla viabilità.

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    Il ponte di Calatrava a Cosenza

    In Calabria possiamo anche vantarci di avere un ponte griffato dal famoso architetto Santiago Calatrava. Lo hanno inaugurato nel 2018 in pompa magna con effetti speciali da far venire in mente Rutger Hauer in Blade Runner e la sua  «Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste neanche immaginarvi». Resta solo da capire la funzione di un ponte che in realtà più che a unire è riuscito a dividere una città intera, ma questa è un’altra storia.

    Tre ponti simbolo della Calabria

    Torniamo invece ai tre ponti simbolo della nostra realtà territoriale. E spostiamo, quindi, l’attenzione sul Ponte della Cona, costruito sul finire del 1700 nel comune di San Giovanni in Fiore, sul Viadotto del Cannavino, realizzato negli anni ‘70 del secolo scorso sulla SS 107 Silana Crotonese nei pressi del comune di Celico alle porte di Cosenza, e sul tanto discusso Ponte sullo Stretto, il cui primo progetto risale al 1969. Quest’ultimo, per il momento, riesce solo a unire nelle polemiche il dissenso e l’approvazione, il buonsenso e la sconsideratezza.

    I tre ponti in questione sono l’immagine del passato, del presente e del futuro. Il passato è abbandonato a se stesso, immerso nel degrado di un luogo che ha perso ogni contatto con il centro abitato e difficilmente raggiungibile. Il presente vive una situazione di precarietà e di pericolo che non fa ben sperare sulle sorti della sua stessa stabilità, e quindi sulla sicurezza di chi lo attraversa. Il futuro è incerto. E, soprattutto, appare come il luogo ideale per chi, da sempre, è alla ricerca di certi consensi personali o elettorali.
    Benvenuti in Calabria, dunque, dove il passato è stato dimenticato, il presente vacilla e il futuro è illusorio e fuorviante. L’immagine di questa terra è quella di una cultura dimenticata, di una società governata da un’imperante negligenza e di un avvenire costruito da accurate e ben orchestrate narrazioni utopistiche.

    Registi in fuga dalla Storia

    Il Ponte della Cona è una struttura a due arcate, con le volte a pietra incastrate fra loro e tenute insieme da uno strato di malta a base di calce. Anticamente era l’unico accesso al centro di San Giovanni in Fiore. Sul ponte transitarono anche i Fratelli Bandiera dopo la cattura in località Stragola, distante poco più di dieci chilometri dal centro abitato.
    Si giunge al ponte dopo aver percorso una ripida discesa e sembra quasi di fare un salto indietro nel tempo di almeno duecento anni. Una fitta vegetazione di betulacee, nello specifico ontani, costeggia il sottostante corso del fiume Neto. Insieme agli alberi anche i rifiuti si estendono lungo il fiume. E il ponte subisce i segni del tempo, tanto che da oltre un decennio c’è un divieto di transito per i mezzi e i pedoni.

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    Il Ponte della Cona nei pressi di San Giovanni in Fiore

    Ma chi se ne importa, il sito è ormai relegato ai margini della città e per essere sicuri non ci sono indicazioni che suggeriscano come raggiungerlo. Almeno così si può essere certi del fatto che nessuno chiederà nulla su alcuni sversamenti sospetti provenienti da condotte non canalizzate che confluiscono direttamente nel fiume. Di questo non potrà dare conto neanche il registro dei tumori perché in Calabria c’è ma è come se non esistesse.
    Qualche mese fa un regista ha fatto un sopralluogo in zona: voleva girare alcune scene di un film, ma poi è scappato a gambe levate spostando il lavoro della troupe verso l’Italia centrale. Altre regioni avrebbero trasformato quest’antico manufatto in una meta turistica, creando un indotto economico. L’idea di costruire un’industria culturale non è cosa che pare appartenere ai calabresi: meglio piangersi addosso o emigrare.

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    Rifiuti abbandonati ai piedi del Ponte della Cona

    L’eterno rattoppo

    Il Viadotto del Cannavino è nato sotto una cattiva stella: due operai nel 1972, durante la costruzione, persero la vita a causa di un cedimento del ponte. Da allora il viadotto non è mai stato sicuro, presenta un’accentuata deflessione che preoccupa. Fiumi di denaro pubblico continuano a essere spesi per incessanti manutenzioni che, con molta probabilità, non riusciranno mai a rendere sicura la struttura. All’orizzonte si prospetta, addirittura, l’ipotesi di un abbattimento e un rifacimento. Chiusure totali o parziali e aperture temporanee non fanno altro che peggiorare la già difficile situazione viaria di una regione sempre più dissestata e violata da politiche territoriali inconcludenti e incompetenti.
    Diciamo pure che per il momento il Cannavino barcolla ma fortunatamente non molla.

    Così lontane, così vicine

    E per finire la ciliegina sulla torta: un fantascientifico ponte che possa collegare in maniera diversa, più moderna – almeno così dicono – la Calabria alla Sicilia. Non bastano i pareri di esperti che, in tutti i modi, cercano di dimostrare i rischi di un’opera tanto dispendiosa quanto tecnicamente pericolosa. Senza scendere in tecnicismi da addetti ai lavori, a noi comuni mortali basta solo dire che l’economia calabrese per ripartire non ha bisogno dell’apertura di utopistici cantieri attorno ai quali potrebbero concentrarsi ulteriori interessi di malaffare. Si avverte, invece, il bisogno di una politica dignitosa in grado di dare un minimo di normalità a questa terra.

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    Una delle ipotesi progettuali per il mai realizzato ponte sullo Stretto

    Non abbiamo bisogno di avvicinarci alla Sicilia, anche perché non siamo mai stati lontani. C’è, però, la necessità di collegare i piccoli centri alle città, di avere la certezza che le strade interne non siano il luogo dove fare la conta dei “caduti”. Servirebbe avere finalmente la tranquillità di sapere che un’ambulanza potrà raggiungere un ospedale nel minor tempo possibile. Non abbiamo bisogno di dimostrare al mondo di essere capaci di avviare opere faraoniche se non abbiamo prima strade, ferrovie e aeroporti sicuri e funzionanti.

    I ponti che servono alla Calabria

    Si avverte il bisogno di valorizzare il nostro patrimonio storico, naturale e artistico, compreso il Ponte della Cona, perché è anche su questo che dovrebbe basarsi la nostra economia. I calabresi hanno la necessità di percorrere il Viadotto del Cannavino senza doverlo fare col fiato sospeso.
    La Calabria ha bisogno di un unico grande ponte capace di congiungere la dignità politica con la bellezza di un territorio in balia di brame personali. Un ponte che faccia transitare le persone sulla strada della consapevolezza e dell’autocritica, perché tutto ciò che noi abbiamo è il frutto delle nostre singole scelte. Ogni calabrese è responsabile della costruzione di tutti i ponti di collegamento tra il personale e il politico.
    Solo questa consapevolezza potrà ristabilire condizioni di autodeterminazione, libertà e dignità personale e collettiva.

  • Luci e periferie: così Cauteruccio racconta Pasolini

    Luci e periferie: così Cauteruccio racconta Pasolini

    Siamo quasi giunti alla fine di questo lungo anno in cui, in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, si sono moltiplicate le più disparate iniziative per celebrarne la figura. Tra i maggiori intellettuali del secolo scorso, è stato capace con la sua opera di suscitare ampi dibattiti nell’Italia edonista del boom economico. Leonardo Sciascia lo definì «personaggio fuori dal tempo». E Rossana Rossanda scrisse, all’indomani della sua morte: «Detestato da tutti in vita quanto ipocritamente compianto da morto, pronto a essere strumentalizzato da più parti».

    È stato scoperto dalle nuove generazioni e riscoperto da chi, insieme con lui, aveva vissuto quegli anni di forti mutamenti antropologici, ma non era stato in grado di comprenderne completamente il messaggio.

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    Giancarlo Cauteruccio, attore e autore teatrale

    L’omaggio del regista, scenografo e attore Giancarlo Cauteruccio per Pasolini è qualcosa di veramente sconfinato, intendendo questo termine nella sua accezione letterale di “penetrazione nel territorio altrui”, perché le periferie nell’immaginario comune sono considerate spazio “altro” e separato dal resto della città.
    Cauteruccio, approda – traforando con effetti di luci, musica e parole – nei sobborghi, considerati corpi estranei rispetto ai più decorosi e curati centri urbani. Delle periferie, Cauteruccio, secondo una sua concezione artistica d’avanguardia, vuole evidenziare il cuore pulsante, spesso nascosto tra il degrado di un’edilizia che si allontana da ogni ideale di bellezza.

    Un Cauteruccio “de borgata”

    Pasolini ha saputo raccontare le periferie come nessun altro, trasformando i “borgatari” nei protagonisti dei sui racconti e dei suoi film. L’operazione di Giancarlo Cauteruccio si colloca da un punto di vista artistico-intellettuale in linea con il pensiero pasoliniano, con la differenza che il ruolo dei protagonisti è assegnato alle facciate fatiscenti dei caseggiati periferici, immagine di un sottoproletariato urbano che racconta sempre una storia di emarginazione. Il regista mette in scena un’operazione di teatro-architettura, un’estetica rappresentativa legata alle nuove tecnologie delle arti sceniche, capace di trovare nei luoghi urbani e naturali, quindi sconfinando rispetto agli spazi tradizionalmente intesi come aree delle rappresentazioni sceniche, i suoi palcoscenici ideali.

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    Cauteruccio, calabrese di Marano Marchesato, è uno dei registi più innovativi nell’area della seconda avanguardia teatrale italiana. Esplora nuove specificità linguistiche nella relazione con le moderne tecnologie, crea nuovi processi artistici in un confronto costante con lo spazio, il corpo e la parola. Quella di Cauteruccio è una poetica che si basa sulla commistione tra arte e tecnologie, riuscendo, grazie ai media digitali contemporanei, a intaccare l’esperienza della percezione sensibile. Si tratta di una sperimentazione avviata fin dagli anni ’70 del secolo scorso, con performance artistiche che hanno raggiunto New York e Mosca. E tuttora Cauteruccio mantiene un ruolo da protagonista nel campo del rinnovamento del teatro contemporaneo.

    Teatro Studio Krypton

    Per più di tre decenni ha diretto il Teatro Studio di Scandicci e nel 1982 a Firenze, con Pina Izzi, ha fondato Teatro Studio Krypton ancora oggi attivo e apprezzato a livello internazionale. Il regista è stato un pioniere del videomapping, attraverso il quale è riuscito a trasformare le superfici, sulle quali sono proiettate le immagini, in nuovi palcoscenici in cui nascono e si sviluppano nuove forme drammaturgiche, modificando la concezione dello spazio, rendendolo, grazie alla luce, plastico, una sorta di tela da dipingere con pennellate leggere.

    Cauteruccio e Pasolini eretico

    Dalla Calabria a Firenze, le facciate dei palazzi sono illuminate nel nome di Pasolini. Proiezioni di luci compongono parole che diventano “corpo gettato nella lotta” di nuove percezioni emotive. Una messinscena che non ha nulla a che fare con l’idea di teatro di Pasolini perché, come afferma lo stesso Cauteruccio, «Io non affronto Pasolini nella sua specificità teatrale, quanto nella sua condizione di “sconfinamento”. Pasolini sconfina nelle espressioni, nelle arti e nella sua visione complessiva della comunicazione. Affronta condizione estreme, radicalizzando il linguaggio. Dal cinema alla poesia, al suo rapporto con il dialetto, con la pittura, con la musica, con la politica, è tutto un rapporto di sconfinamento rispetto ai canoni tradizionali».

    Il non-teatro di Pasolini

    Sulla produzione teatrale pasoliniana Cauteruccio ha una visione in linea con una concezione di non rappresentabilità: «Il suo teatro, dal mio punto di vista, non si trasforma mai in una scrittura scenica, riuscendo a concretizzarsi, di fatto, solo da un punto di vista del puro esercizio di lettura. La scrittura rimane nel libro non riuscendo mai a confluire in quei nuovi concetti d’avanguardia degli anni ’60 e ’70». Il regista non porta in scena né Pasolini né le sue tragedie, ma “teatralizza” il suo concetto di Pasolini: «Affronto Pasolini dal punto di vista delle sue tematiche generali: lui ha una grande visione delle arti e della periferia e riesce a creare continue immagini, ma nel teatro la parola rimane ancorata a se stessa. Il suo modello è la tragedia antica, ma nel dialogo nega l’immagine ed io non mi riconosco in questo».

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    Cauteruccio proietta Pasolini sulla facciata del teatro Politeama a Catanzaro

    Luoghi sconfinati: da Catanzaro a Firenze

    Realizzare l’idea dello “sconfinamento” per Cauteruccio è un’azione artistica fatta di effetti luminosi proiettati, un omaggio che si concretizza attraverso un’estetica estrema e, proprio per questo, in grado di raccontare la visione poetica, ma anche quella più strettamente intellettuale di Pasolini. «L’operazione “Luoghi Sconfinati” – afferma il regista calabrese – è partita nel mese di settembre da Catanzaro, ed è stata fatta come omaggio estetico. Si tratta d’immagini proiettate sulla facciata del teatro Politeama, un progetto di teatro-architettura che vede scenari visuali ed elaborazioni video proiettate sulla facciata del principale teatro cittadino. Una performance che, insieme ai testi e alle musiche, trasforma ogni passante in uno spettatore di un’opera immersiva».

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    La locandina di “Luoghi sconfinati”

    Dopo Catanzaro il progetto si è trasferito a Firenze, sviluppandosi nei quartieri periferici della città. Le periferie vivono le contraddizioni dei luoghi estremi: gli assembramenti di una gioventù problematica e l’accavallamento di architetture prive di poesia. La criticità delle periferie risiede nell’assenza di bellezza, ma proprio grazie al teatro-architettura si può mettere in relazione l’aspetto materiale della periferia con quello visionario della poesia.

    Ragazzi di vita

    La periferia per Pasolini è un luogo poetico e, allo stesso modo, nelle nostre periferie possiamo riconoscere i “ragazzi di vita”, grazie alla multietnicità incontrare un qualche “Alì dagli occhi azzurri”. Lo stesso che Pasolini profetizzava nel 1962, anticipando gli sbarchi sulle spiagge di Palmi, Crotone e più in generale su tutte le coste che si affacciano sul Mediterraneo.
    A distanza di mezzo secolo dalla sua morte possiamo affermare che la più grande eredità lasciataci da Pasolini è la sua straordinaria attualità. Era un uomo che aveva piena coscienza dei processi sociali in atto, capace di una visione profetica sul futuro. Ed è proprio questo che ci consente di mantenere con lui un dibattito aperto, vivo e non privo di contraddizioni.