Autore: Maria Concetta Loria

  • Tutti insieme per l’Auser, parola d’ordine: Ubuntu

    Tutti insieme per l’Auser, parola d’ordine: Ubuntu

    Andrà in scena venerdì 26 gennaio alle ore 17.00, presso la Casa della Musica Luciano Luciani di Piazza Amendola a Cosenza, lo spettacolo di beneficenza Ubuntu, tra musica e parole a sostegno della attività dell’Ambulatorio Auser di Cosenza “Senza confini”.
    A promuovere l’iniziativa ci sono anche l’Auser di Rende, le associazioni Confluenze, La Terra di Piero, Methexis, spazio teatrale partecipato e soprattutto il Conservatorio di Musica Stanislao Giacomantonio. Quest’ultimo ha messo a disposizione la struttura e i musicisti per la realizzazione dell’evento.

    Ubuntu e Auser

    Da anni l’Auser si prende cura delle persone che vivono ai margini di una società in cui ogni progetto di inclusione, soprattutto sanitaria, diventa sempre più difficile. Per fare questo c’è bisogno di sostegno da parte delle istituzioni e dei cittadini.
    L’idea di un evento dedicato alla musica e al teatro nasce dal desiderio di creare un rapporto tra le persone e la comunità fondato sulla bellezza che educa ai valori di un’etica che guarda all’equità sociale. Il titolo della serata, invece, arriva dal termine Ubuntu, che nella filosofia sub-Sahariana indica la credenza di un legame che unisce tutta la comunità: «Io sono perché noi siamo». E una comunità che vuole unirsi attorno alla bellezza della musica e delle parole riesce a guarire dal degrado e dalla malattia chi la bellezza non l’ha mai incontrata.

    Odontoiatri volontari nell’ambulatorio dell’Auser a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)

    Sul palco

    I protagonisti di Ubuntu saranno i musicisti Gottardo e Giuseppe Iaquinta. Al violino e al pianoforte eseguiranno le partiture di Fryderyk Chopin, tra i più importanti compositori del Romanticismo.
    Tra le note musicali si inseriranno i contributi teatrali di Lara Chiellino, Dario De Luca ed Ernesto Orrico, portando in scena storie di migranti, briganti, filosofi e di santi dai desideri spassosi.

  • Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    La Calabria ha un nuovo teatro comunale, “inaugurato” il 30 dicembre, proprio sul finire dell’anno nella città di Vibo Valentia e a dirigerlo sarà Angela Finocchiaro. Questa è la storia di uno spazio pubblico iniziata nel 1999 con un finanziamento da parte del Ministero della Cultura e che, inevitabilmente, è andata avanti in un continuo alternarsi di forze politiche per quasi un quarto di secolo.
    Il taglio del nastro è sempre qualcosa che piace molto alla politica, solitamente funziona come una medaglia da attaccare alla giacca per un risultato frutto della semina di altri.
    Maria Limardo, prima cittadina di Vibo, durante la conferenza stampa insieme alla vicepresidente della Regione Giusy Princi e all’ Assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì ha comunque ribadito quanto questo risultato sia frutto del lavoro di tutte le amministrazioni alla guida della città in questi anni.

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    Giusy Princi intervistata durante la presentazione del teatro

    In attesa della prima, prevista per metà gennaio, alcune considerazioni su quella che Giusy Princi ha definito «una bella pagina della Calabria, rappresentazione di quando la cultura diventa espressione di civiltà, di un popolo, di una città, in questo caso di Vibo», bisogna farle, però.
    Magari cominciando proprio dalla nomina del direttore artistico e poi in merito ai primi appuntamenti in cartellone a Vibo.

    Angela Finocchiaro prima di Vibo

    La nomina di una donna alla direzione artistica di un teatro calabrese non si può trattare come una questione di genere, si rischierebbe di scadere nella faziosità riduttiva delle tifoserie maschi contro femmine. Angela Finocchiaro è sicuramente una grande artista che ha alle sue spalle una carriera di alto profilo e il suo volto è noto al grande pubblico. Il cinema e la televisione l’hanno resa famosa molto di più del suo impegno in campo teatrale. Questa non vuole essere una critica, ma una semplice constatazione. Che diventa un po’ più amara quando, a garanzia della sua professionalità, qualcuno ricorda che ha vinto due David di Donatello come attrice non protagonista nei film La bestia nel cuore Mio fratello è figlio unico.
    Bene! Anzi, benissimo! Però…

    Teatro, questo sconosciuto…

    Però forse sarebbe stato più appropriato se avesse vinto un Premio Ubu. O, più banalmente, forse più che le sue apparizioni sullo schermo – ricordiamo, tra le tante, La Tv delle ragazze e l’esilarante Benvenuti al Sud – a Vibo qualcuno avrebbe fatto meglio a ricordare l’impegno teatrale di Angela Finocchiaro negli anni ’70 con la compagnia sperimentale Quelli di Grock.
    Ma ancora una volta la politica calabrese che si vuole occupare di cultura fa confusione sui diversi livelli. Scambia il piano della spettacolarizzazione con quello della cultura, quasi come se stesse sponsorizzando un prodotto televisivo.
    Ecco in risalto le caratteristiche più commerciali e quelle conosciute dal pubblico più vasto. E il teatro? In qualche scantinato della cultura, come un reperto destinato all’oblio ed esposto alla mummificazione.

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    Finocchiaro sul palco del Teatro Cilea di Reggio Calabria qualche anno fa con lo spettacolo Ho perso il filo (foto Aldo Fiorenza)

    Tv o palcoscenico?

    A conferma di questo orientamento consumistico troviamo i primi appuntamenti del cartellone della stagione teatrale: niente di più che spettacoli cabarettistici.
    Nessuno si perderà nulla, chi non riuscirà ad occupare la platea potrà tranquillamente sintonizzarsi sulle reti Mediaset.
    Niente contro Paolo Ruffini, Ale & Franz o il truccatore Diego Dalla Palma, ci mancherebbe. Ma lo capiamo immediatamente che non stiamo parlando di teatro, quanto di spettacoli che cambiano location: dagli studi televisivi alle tavole di un palcoscenico.
    Non si tratta di dire cosa sia meglio o peggio,  è che una stagione di un teatro pubblico appena inaugurato non dovrebbe esordire con degli spettacoli televisivi.

    Vibo: Angela Finocchiaro e Parioli sì, Calabria no

    Possiamo chiederci perché nessuno abbia pensato di inserire delle produzioni di compagnie calabresi. Oppure perché non si inauguri la stagione con il sei volte Premio Ubu Saverio La Ruina, soprattutto in virtù dell’ultimo riconoscimento ricevuto solo qualche settimana fa. Potremmo anche chiederci perché non si è pensato di coinvolgere il fondatore della Compagnia Krypton, Giancarlo Cauteruccio, tornato a vivere in Calabria dopo molti anni di direzione artistica del Teatro Studio di Scandicci e un’esperienza in campo teatrale tale da farlo annoverare tra i maestri delle avanguardie del ‘900.

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    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Forse si potevano invitare Francesco Colella o Marcello Fonte, giusto compromesso tra popolarità ed esperienza in campo teatrale. Infine mi viene in mente Manolo Muoio, la sua collaborazione con Julia Varley e con Eugenio Barba.
    Chissà se a Vibo o Germaneto ne hanno mai sentito parlare.
    Non è finita: per l’allestimento della prima stagione c’è un accordo con il Teatro Parioli di Roma. Come se in Calabria nessuno sapesse allestire una stagione teatrale. Come se il nome Parioli potesse bastare a garantire un buon successo di pubblico.

    Cultura e globalizzazione

    Non è una questione di campanilismo, quanto una rivendicazione di un’identità culturale ripetutamente calpestata da parte di una politica proiettata costantemente verso l’erba del vicino, cieca verso un patrimonio culturale che merita di essere valorizzato.
    Nell’epoca della globalizzazione a qualcuno potrà sembrare riduttiva una critica verso la scelta di affidare la direzione artistica a una professionista del Nord. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare: le diseguaglianze culturali all’interno di una società, proprio a causa della globalizzazione, sono suscettibili a maggiori accentuazioni. La situazione è chiara a livello economico per quanto riguarda i paesi industrializzati e i Sud del mondo. E lo stesso concetto si può applicare a livello culturale tra Nord e Sud. O, meglio, tra Nord e Calabria.

    2024, fuga dalla Calabria

    Sì, proprio la Calabria, perché le altre regioni del Sud hanno solo da insegnarci in materia di gestione delle politiche culturali. In una terra come la nostra, in cui nessuno investe in cultura, trovarsi nella situazione di essere “colonizzati” da professionisti provenienti da altre regioni, senza nessuna possibilità di fare rete oltre il nostro territorio, significa rimanere schiacciati sul piano culturale, continuare ad assistere inermi alla fuga di cervelli e di maestranze artistiche.
    Alla fine sul nostro territorio non rimarrà nulla, perché l’identità culturale di un luogo può essere costruita, recuperata e valorizzata solo da chi in quel territorio c’è nato o da chi ha deciso di viverci.

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    Il nuovo teatro di Vibo vuoto

    Benvenuta a Vibo, Angela Finocchiaro

    Di certo non abbiamo bisogno di esperti a tempo determinato e neanche di “missionari evangelizzatori”. Abbiamo un patrimonio e promesse culturali per poterci porre sul piano della sinergia con altre regioni e non di certo su quello dell’occupazione intellettuale.

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    Leonida Repaci

    Il teatro comunale di Vibo Valentia non è stato ancora intitolato a nessuno. Allora vorrei ricordare che il calabrese Leonida Repaci, oltre che scrittore e critico teatrale, è stato anche drammaturgo, i suoi drammi li ha rappresentati tutti a Milano tra il 1925 e il 1930.
    Nella speranza di un giusto riconoscimento al nostro teatro, quello di ieri e quello di oggi, ad Angela Finocchiaro auguro buon lavoro a Vibo: benvenuta al Sud.

  • Il “caso” Nello Costabile: così Catanzaro vince anche il derby della cultura

    Il “caso” Nello Costabile: così Catanzaro vince anche il derby della cultura

    Il 18 dicembre, nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, il regista cosentino Nello Costabile è stato insignito della laurea honoris causa in Cinema, Fotografia e Audiovisivo. Prendendo in prestito il gergo calcistico, potremmo dire che è il secondo derby tra Catanzaro e Cosenza che hanno vinto i giallorossi quest’anno. Certo non parliamo di una partita di pallone quanto, se così possiamo definirla, di una competizione culturale. E l’ABA ha prevalso sull’Università della Calabria, che pure può vantarsi di aver istituito in Italia il secondo corso di laurea in DAMS dopo quello di Bologna. Restando alla metafora calcistica potremmo dire che qualcuno, per comodità o poca lungimiranza, gioca a Subbuteo mentre altri guardano a sfide internazionali, dando i giusti riconoscimenti alle nostre eccellenze.

    Perché una laurea a Nello Costabile

    La laurea honoris causa è arrivato per l’impegno profuso dal Maestro Costabile per l’affermazione del teatro professionale in Calabria e per il lavoro svolto a livello nazionale ed europeo. Il titolo accademico onorifico trova, infatti, riscontro nella seguente motivazione: “Per gli studi e le ricerche sulla regia contemporanea, sul gesto come elemento trasversale tra i generi, sulla maschera di Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte. Per la sua instancabile attività a favore della ricerca e della formazione teatrale che da oltre 40 anni lo vede impegnato nella creazione di un teatro d’arte per le giovani generazioni e l’area della disabilità non solo nella nostra terra, ma in un più ampio contesto europeo con rapporti di collaborazione con network teatrali di rilevanza transnazionali”.
    Eppure questo riconoscimento poco spazio ha trovato sulle pagine dell’informazione regionale, a conferma di quanto il nostro teatro e le sue maestranze vengano marginalizzate, ignorate e sottovalutate.

    Il precedente

    Nello Costabile ironizza dicendo che questo è un cerchio che si chiude e ricorda che all’inizio della sua carriera, nel 1977, proprio Catanzaro gli aveva conferito il IX Premio Nazionale di Teatro, Musica e Poesia per il miglior testo e la migliore regia per lo spettacolo “Maschere e diavuli- Frammenti di un teatro popolare”.
    Ma la carriera del Maestro tutto può dirsi meno che conclusa. Nello Costabile continua il suo lavoro di ricerca sulle relazioni trasversali tra le discipline dello spettacolo dal vivo, un lavoro artistico, di regia e di pedagogia che si sviluppa in un continuo confronto tra tradizione e nuove tendenze della scena, guardando al teatro di figura, alla maschera, alle arti visive, al nuovo circo, alla danza, alle nuove tendenze musicali, alla riscoperta della marionetta, tutto in  un possibile incontro con le nuove tecnologie.

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    Uno scorcio dell’ABA di Catanzaro

    Possiamo considerare la lunga esperienza professionale di Costabile come parte di un patrimonio immateriale della nostra cultura e in virtù di quanto afferma François Jullien, non dobbiamo pensare che si tratti di valori immobilizzati, quanto di un qualcosa che possa servire da trait d’union tra la tradizione e il futuro culturale da costruire. Il patrimonio culturale deve dialogare con il presente per costruire un futuro, questo è possibile a patto che le istituzioni ne favoriscano il confronto. Allora Costabile può essere quel ponte tra la storia del teatro fatta dai grandi maestri delle avanguardie europee degli anni ’70 del ‘900 con un presente non ancora storicizzato e difficilmente classificabile.

    Nello Costabile e la sua carriera

    Il direttore dell’Accademia, Virgilio Piccari, insieme ad un’ampia commissione di docenti e rappresentanti degli studenti, ha conferito il diploma al regista calabrese riconoscendo il valore della storia professionale del maestro. Ripercorrere le tappe di una lunga e proficua carriera risulta difficile nel ristretto spazio di un articolo, ma già una sintesi sottolinea la ricchezza di una vita dedicata al teatro.
    Tra i maestri di Costabile è doveroso menzionare la regista teatrale e cinematografica francese Ariane Mnouchkine e la sua conseguente formazione presso il Théâtre du Soleil, il maestro Peter Brook dal quale ha appreso i fondamenti della messa in scena, del lavoro con la maschera e l’importanza dell’uso del corpo per il lavoro dell’attore.

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    Jerzy Grotowski

    Nel 1975 l’incontro con Jerzy Grotowski nel Laboratorio di Wroclaw in Polonia, e per la Biennale di Venezia partecipò al “Progetto speciale Jerzy Grotowski, lavorando con Ludwik Flaszen, co-fondatore insieme a Grotowski del Teatro Laboratorio.
    Fu proprio alla Biennale Teatro di Venezia che avvenne l’incontro con il Living Theatre. Da qui l’amicizia e il lungo rapporto di collaborazione con Julian Beck e Judith Malina, tanto da rivestire il ruolo di delegato della compagnia all’organizzazione della tournée in Italia. Grazie al rapporto con il Living, nel 1976 organizzò a Cosenza il “Progetto di contaminazione urbana” al quale partecipò anche l’importante compagnia argentina la Comuna Baires.

    Gli anni di Giangurgolo

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    Nello Costabile nei panni di Giangurgolo in un’immagine d’epoca

    Due anni prima, nel 1974, per la Rai il regista Enrico Vincenti, che stava realizzando una serie di cortometraggi sulle maschere della Commedia dell’Arte, gli chiese di partecipare recitando la maschera del Calabrese, Capitan Giangurgolo, assente dalla scena dal 1650. Nello stesso anno interpretò la maschera nello spettacolo Bertoldo a corte di Massimo Dursi, sempre con la regia di Vincenti. Gli  studi e le ricerche degli anni successivi su Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte fanno oggi di Nello Costabile il più importante studioso di questa maschera, come gli viene riconosciuto da due esperti internazionali di Commedia dell’Arte quali Arianne Mnouchkine e Carlo Boso.

    Nello Costabile è stato tra i fondatori della prima compagnia professionistica calabrese, la Cooperativa Centro RAT, che ha anche diretto fino al 1979. in quell’anno, poi, il Comune di Cosenza gli ha offerto la direzione del Teatro Comunale “Alfonso Rendano”, di cui è stato il primo direttore artistico.
    Con l’entrata in attività del Consorzio Teatrale Calabrese – Teatro Stabile Regionale ha ricoperto il ruolo di primo direttore. Dopo aver diretto compagnie, teatri e vari festival da oltre un ventennio si dedica, esclusivamente, alla regia e ad attività di educazione e pedagogia teatrale per le nuove generazioni e per ragazzi e giovani con disabilità e disagi sociali.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Nello Costabile e la Francia

    La sua solida conoscenza delle reti professionali, delle istituzioni e delle politiche culturali a livello europeo gli ha permesso di essere coinvolto anche in vari progetti e collaborazioni internazionali. In particolare con la École Supérieure Internationale d’Art Dramatique di Versailles, con l’Insitut de Teatre di Barcellona, il Théâtre de la Semeuse di Nizza e la FC-Produções Teatraidi Lisbona.
    È tra i fondatori e consigliere di amministrazione dell’Union Europèenne du Nouveau Théâtre Populaire, network europeo di festival, compagnie e scuole teatrali di Francia, Spagna, Italia, Portogallo, Finlandia, con sede presso il Comune di Versailles. Il network si occupa di cooperazione per la formazione, la programmazione e la creazione nelle arti della scena a livello internazionale.

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    L’edificio che ospita la Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille

    In Francia Costabile ha ottenuto importanti riconoscimenti accademici. Tra questi, la Laurea in Arti dello Spettacolo–Studi Teatrali dall’Università di Rennes; la Laurea magistrale in Arti della Scena e dello Spettacolo dal Vivo-Progetto culturale e artistico internazionale dall’Università di Parigi 8, Vincennes/Saint Denis; il Diploma di Stato di Professore di Teatro, rilasciato dalla prestigiosa Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille, sotto la tutela del Ministero dell’Educazione Nazionale Francese.
    Nel 2013, l’Ambasciata della Repubblica d’Indonesia in Italia gli ha conferito il riconoscimento ufficiale di Ambasciatore Culturale per la Promozione in Europa del teatro-danza balinese.

    Passato, presente e futuro

    Nella ristretta bibliografia sul teatro calabrese è triste constatare quanto nessuno, neanche a livello accademico, si sia occupato della storia del teatro dagli anni ’70 in poi. E se da una parte è vero che la Calabria risente della mancanza di una tradizione teatrale, dall’altra c’è tutta una storia, quella dell’incontro con le avanguardie degli anni ’70, che è stata completamente trascurata.
    Un colloquio con il teatro di quegli anni potrebbe raccontarci molto sui processi storici di un periodo di grandi rivolgimenti sociali e politici. Proprio per questo un dialogo con Nello Costabile potrebbe essere il nostro sguardo diretto su un passato che tanto potrebbe raccontarci su quello che siamo diventati. Gustav Mahler affermava che «la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri», noi invece semplicemente ignoriamo il passato, non guardiamo al presente. E difficilmente riusciremo a costruire un futuro culturalmente partecipato.   

                  

  • Ubu a La Ruina: la Calabria che trionfa a teatro ma se ne frega

    Ubu a La Ruina: la Calabria che trionfa a teatro ma se ne frega

    Il 18 dicembre si è conclusa la 45° edizione dei Premi Ubu. Come ogni anno, in diretta streaming in staffetta con quella di Radio Tre, è arrivato l’annuncio con i nomi dei vincitori per la stagione 2022/2023 del Premio che Franco Quadri ideò nel 1977. Nell’elenco, anche l’attore, drammaturgo e regista calabrese Saverio La Ruina.
    Ancora una volta La Ruina porta a casa il più prestigioso e importante riconoscimento del teatro in Italia. Lo aveva già fatto nel 2007 con Dissonorata (Miglior attore italiano e Miglior testo italiano), nel 2009 (Premio speciale per Primavera dei Teatri), nel 2010 con La Borto (Miglior testo italiano), nel 2012 con Italianesi (Miglior Attore italiano). In quest’ultima edizione vince con Via del Popolo come Miglior testo italiano o scrittura drammaturgica messa in scena da compagnie e artisti italiani.

    La Ruina, l’Ubu e “l’Oscar dei poveri”…

    Saverio La Ruina è un vincitore seriale di premi Ubu, un irriducibile artigiano del teatro che non si lascia inglobare, assorbire e omologare nella cultura liquida della contemporaneità. Rimane fedele al teatro, arte lontana dalle logiche dell’evento che la società dei consumi impone trasformando la cultura in una merce destinata esclusivamente all’industria del divertimento.
    Con Via del Popolo, un testo drammaturgico di straordinaria semplicità, dimostra che la cultura è qualcosa di profondamente radicato nella memoria individuale come valore della storia collettiva, capace di definire percorsi di crescita, o di decrescita, spingendoci ad inevitabili riflessioni di natura sociale, culturale e anche politica.

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    L’ultima edizione degli Ubu

    Ma partiamo con ordine: quando parliamo di Premio Ubu c’è sempre la necessità, quasi a giustificarlo nel tentativo di attribuirgli autorevolezza e prestigio, di spiegarne il valore. E l’unico modo per farlo è l’inevitabile comparazione con gli Oscar o i David di Donatello. Già solo questo basta a raccontare il valore che nella nostra cultura assume il teatro, qualcosa che resiste ed esiste solo per una fetta di pubblico che spesso finisce per identificarsi con gli stessi addetti del settore. Un’isola sperduta, raggiungibile per strade poco percorribili e scomode. Allora il teatro diventa anche un fatto politico perché ci dice che le istituzioni, in barba ai dettami costituzionali, poco si occupano di valorizzare, diffondere e sostenere un’arte antichissima e strettamente connessa con le manifestazioni dello stesso spirito umano.

    Nemo propheta in patria

    Via del Popolo è un racconto autobiografico. Parla della realtà di una strada nel centro di Castrovillari, di quando era piena di negozi, di gente, ricca di relazioni umane in uno spirito del luogo ormai passato. Quanto tempo occorre per percorrere duecento metri di strada? La risposta è negli anni di chi la percorre, perché il tempo non ha lo stesso valore per tutti: c’è chi lo vive assaporandolo e chi lo consuma fagocitandolo, perché le catene della grande distribuzione hanno cancellato i rapporti tra le persone.

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    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Via del Popolo parla la lingua del posto, uno tra i tanti dialetti calabresi che come tutti gli altri difficilmente è riuscito a varcare i confini regionali per diventare lingua di scena, relegato al ruolo di vernacolo per un teatro amatoriale, quasi una lingua da nascondere o da sbeffeggiare.
    La Ruina, che riesce a rendere comprensibile e universale anche quei modi di dire decifrabili solo per chi vive lo spirito dei luoghi, porta il suo dialetto e i tipi fissi della nostra realtà del Sud nei più importanti teatri della penisola. Non importa che sia a Messina, a Roma, a Trento o a Milano perché La Ruina trova consenso, applausi e successo ovunque, ma non in Calabria. Qui non c’è spazio.

    Meglio Muccino per la Calabria?

    A questo punto dovremmo chiederci perché l’immagine della nostra regione passa attraverso la promozione di quelle piste di ghiaccio davanti la stazione di Milano, negli spot con gli asini, le tovaglie a scacchi, i verbi coniugati male, i capodanni da milioni di euro. Tutto intriso da terribili luoghi comuni, come se i calabresi fossero solo mare, sole, nduja e soppressata. Invece non si valorizza mai il patrimonio culturale contemporaneo, costruito faticosamente da uomini e da donne lasciati soli da una politica troppo impegnata nella lotta quotidiana per i consensi elettorali.

    La Calabria trascura il passato e del presente culturale preferisce non occuparsi. Non si investe in progettazione culturale, in distribuzione. Se non fosse per le iniziative dei privati, a livello istituzionale, non potremmo che assistere a traslochi di spettacoli televisivi di dubbio gusto negli spazi pubblici delle nostre città.
    Abbiamo comunque una speranza perché esiste un movimento che potremmo definire di resistenza. Si tratta di tante piccole compagnie teatrali di elevato spessore professionale che ogni giorno combattono per preservare la cultura del teatro in un luogo politicamente ostile.

    L’Ubu a La Ruina e il teatro in Calabria

    Di questo si occupa anche Scena Verticale, la compagnia teatrale fondata nel 1992 da Saverio La Ruina e Dario De Luca, ai quali si unirà successivamente anche Settimio Pisano. Grazie a Primavera dei Teatri, il festival sui nuovi linguaggi della scena teatrale, riescono a trasformare ogni anno Castrovillari nel più importante avamposto del teatro in Calabria e in un punto di riferimento internazionale della scena contemporanea.
    Riescono in un’impresa grandiosa, una realtà che non riesce a costruire neanche il mondo accademico nonostante un corso di laurea in Discipline della Musica e dello Spettacolo, troppo chiuso in se stesso, autoreferenziale e incapace di creare sinergie con le compagnie teatrali del territorio calabrese.

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    Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano

    Il Premio Ubu a Saverio La Ruina è un premio che torna in una Calabria che ignora questo settore culturale. E allora è come se il brutto, panciuto e grottesco Ubu percorresse, in lungo e largo, le strade vuote di una via del popolo che attraversa tutta una regione abitata da istituzioni che, alla cultura, preferiscono l’educazione all’allineamento di quel pensiero unico che esclude ogni forma di partecipazione culturale e sociale.

  • Un po’ greco, un po’ beat: l’Ulisse on the road sulle strade della Calabria

    Un po’ greco, un po’ beat: l’Ulisse on the road sulle strade della Calabria

    Il tema del viaggio richiama da sempre alle avventure di Ulisse lungo il ritorno verso Itaca. Poi, grazie a James Joyce, abbiamo spostato l’attenzione dal poema di Omero al viaggio interiore dell’uomo moderno: non più eroe, ma antieroe raccontato nelle sue inquietudini e debolezze. Su tutto rimane il valore del mito, di storie che, pur in una nuova narrazione attualizzata, suscitano profonde riflessioni alla stregua dei testi classici.
    Con i poeti della Beat Generation, poi, abbiamo imparato che il viaggio è una ricerca sfrenata di libertà nel più completo rifiuto delle convenzioni sociali. Jack Kerouac, nel romanzo On the Road del 1951, restituisce con la sua narrazione autobiografica l’immagine della gioventù ribelle americana. Lo stesso Lawrence Ferlinghetti – l’ultimo poeta beat, morto nel 2021 a 101 anni – è ricordato come l’Ulisse on the road, lui che trasformò il viaggio in una ricerca interiore di ciò che è umanamente eterno, in una poetica fatta di parole, incontri e paesaggi.

    Da un Ulisse on the road all’altro

    Ulisse on the road è anche il titolo della drammaturgia con cui Katia Colica porta in scena, oltre all’eroe omerico e il suo viaggio, anche Penelope, Circe e Poseidone. Impossibile non coglierne le influenze beat, così come le suggestioni di libertà nelle interpretazioni della compagnia Officine Joniche Arti, attualmente in tour nei teatri calabresi. I protagonisti sono Americo Melchionda, Kristina Mravcova, Maria Milasi – che oltre al ruolo di Circe ha curato la regia – e Andrea Puglisi.

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    Katia Colica

    La scena si apre durante una tempesta che coinvolge i protagonisti, tutti indistintamente. Ma le onde che si agitano mentre si sentono i rumori dei tuoni e si vedono i bagliori dei lampi, non colgono tutti in mezzo al mare. Ognuno è esattamente nel luogo in cui dovrebbe stare: il palazzo, la nave, l’isola, il trono. Una tempesta che più che investire i corpi, insomma, travolge stati d’animo. Le emozioni, così, diventano parole, monologhi o dialoghi illusori tra i personaggi.
    Circe parla con Penelope, quest’ultima con Ulisse che, a sua volta, non può fare a meno di rivolgersi alla sua seduttrice. Tutto mentre il terribile Poseidone si rivolge a Circe, ma in realtà dialoga effettivamente solo con Penelope.
    Tutti (o quasi) dialoghi che sono solo fenomeni della coscienza, flussi di pensieri che si alternano in un botta e risposta metafisico, parole spinte oltre la realtà in grado di raggiungere le dimensioni oniriche e surrealistiche tipiche della poetica di Katia Colica.

    Tutta colpa di Poseidone

    Il viaggio vede i personaggi fermi in ruoli definiti: un eroe valoroso che vuole tornare a casa dopo dieci anni in guerra a Troia; una moglie paziente che attende il ritorno del padre di suo figlio; una maga capace di rendere schiavi gli uomini, colpevoli di essere preda dei loro stessi istinti; un dio potente ostinato a smuovere le acque e la terra.
    A determinare le vicende in Ulisse on the road è proprio il temperamento di questo dio vendicativo, violento e irascibile. Poseidone rappresenta l’Olimpo, il mare e l’oltretomba, ma anche il passato, il presente e il futuro.
    È il bravo attore catanese Andrea Puglisi a prestare il volto al figlio di Crono. Lo fa attraverso un’interpretazione istrionica, in cui i comportamenti manipolatori e seduttivi che esercita (soprattutto verso Penelope) si mescolano a una certa ironia così da rendere il personaggio ancora più cinico agli occhi del pubblico.

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    Un momento dello spettacolo della conpagnia Officine Joniche Arti

    Ulisse on the road: un viaggio alla ricerca di se stessi

    Il Poseidone di Puglisi è un dio che parla, presenta il suo punto di vista, riportando alla contemporaneità tutti i personaggi nel loro rapporto con il mito.
    In realtà si potrebbe vedere Poseidone come il vero protagonista della storia. È lui a scatenare la potenza del mare mentre è seduto sul suo trono o detta il ritmo semplicemente battendo il tempo su una tanica militare di metallo.
    Il tridente in Ulisse on the road, con un chiaro rimando alla simbologia del pomo della discordia, ha ceduto il suo posto ad una mela che viene lentamente consumata, così come si consumano le vicende degli altri personaggi sulla scena.

    Poseidone, figura mitologica di assoluta attualità, rappresenta i potenti, i dispotici, i prepotenti, tutti quelli che creano scintille pronte a scoppiare con le conseguenze inevitabili che conosciamo. L’atteggiamento di questo dio sopraffattore è determinante per lo sviluppo di una vicenda che si appropria dei destini altrui, spingendoli verso un viaggio fatto di insidie, ma capace di riportarli alla scoperta della loro stessa profondità.

  • Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il grande successo del film con cui Paola Cortellesi firma il suo esordio alla regia fa ancora parlare di sé anche per il record d’incassi. Si stimano oltre 27 milioni di euro e il concetto dietro C’e ancora domani certamente apparirà molto più chiaro anche al Ministero della Cultura. Lo stesso che al film, giudicandolo come “opera di scarso valore artistico e di qualità non straordinaria”, ha negato finanziamenti pubblici collocandolo addirittura come ultimo nella graduatoria del bando. Poco importa che alla data del 12 ottobre 2022, il Ministro che nominò la Commissione colpevole della bocciatura non era Sangiuliano, ma Franceschini. Il danno d’immagine è fatto. E ora Sangiuliano, oltre che elargire consigli di letture come il libro di Alessandro Sallusti, La versione di Giorgia, dovrebbe preoccuparsi, in concerto con il ministro Valditara, di portare questo film in ogni scuola italiana e di promuoverlo anche a livello internazionale.

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    I ministri Valditara e Sangiuliano

    Paola Cortellesi batte Ridley Scott

    C’è ancora domani ha avuto il suo meraviglioso domani, unico film di produzione italiana ad entrare nella Top 10 annuale, vincendo il Biglietto d’oro 2023. Dopo la presentazione in anteprima alla Festa del cinema di Roma, ha già portato a casa il Premio del pubblico, la Menzione Speciale Miglior Opera Prima e il Premio Speciale della Giuria.
    Dal 26 ottobre il lungometraggio riempie le sale cinematografiche, occupa le prime pagine dell’informazione, battendo anche Napoleon di Ridley Scott. Una prova insomma, qualora ce ne fosse bisogno, che il cinema italiano gode di ottima salute, anche quando racconta la storia di una donna di borgata a confronto con il più grande imperatore della storia contemporanea.

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    Joaquin Phoenix interpreta Bonaparte nel film di Scott

    Per questa volta la fascinazione del grande condottiero nulla può contro il femminismo in bianco e nero di Paola Cortellesi. E mentre tutti ne parlano, le interviste ai protagonisti si moltiplicano. Nessuno sembra intenzionato a rimanere fuori dal dibattito su di un film che fa molto ridere e, ancor di più, riflettere. Certo, il rischio è quello di non aggiungere nulla alla discussione su un’opera che, nonostante qualche vano tentativo di critica, semplicemente è bello da vedere e, possibilmente, anche da rivedere.

    Il 1946 di Paola Cortellesi

    La Cortellesi per la realizzazione del film ha seguito un percorso che può definirsi teatrale: tre mesi di prove prima di iniziare le riprese, cosa che nel cinema raramente avviene. Il cinema è fatto di scene tra attori che, molto spesso, si incontrano sul set giusto il tempo di un ciak, nulla a che vedere con il lungo lavoro di condivisione di una compagnia teatrale.
    La scena iniziale, vale a dire lo schiaffo di Ivano (Valerio Mastrandrea) alla moglie Delia (Paola Cortellesi), sembra una sorta di presentazione di ciò che accadrà, un prologo che ironicamente fa pensare «iniziamo bene!».

    Sarà Delia ad aprire il sipario sulla narrazione, spalancando la piccola finestra del seminterrato in cui abita con la famiglia. Delia guarda fuori dal basso della sua casa e dalla sua condizione di donna, non diversa da quella di tante donne degli anni ‘40. Ma aprire le finestre al nuovo sole è necessario per far entrare i nuovi sogni. La primavera del giugno 1946 è arrivata: le donne non saranno più le stesse di prima.

    I protagonisti di C’è ancora domani

    La guerra è finita da poco, l’Italia è stata liberata, la miseria è ancora tanta e la famiglia dei protagonisti vive la condizione del proletariato romano. Delia è moglie, madre di tre figli, vive anche con l’anziano suocero, il Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), alla quale la donna è costretta a fare anche da badante. La figlia primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano) spera di sposarsi in fretta con Giulio (Francesco Centorame), un ragazzo del ceto borghese, e liberarsi così da una famiglia per molti versi disagiata.
    Le giornate di Delia si svolgono tra la pulizia della casa, i lavoretti che svolge correndo da una parte all’altra della città per aiutare la famiglia, ma anche le botte e le umiliazioni del marito, quasi fossero uno dei compiti da assolvere quotidianamente.
    C’è Marisa (Emanuela Fanelli), la sua amica del cuore, con cui condivide confidenze e momenti di leggerezza. Ma c’è anche Vinicio Marchioni nella parte di Nino, il primo amore di Delia, capace di suscitare sentimenti di tenerezza che non possono essere ignorati.

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    Ritratto di famiglia

    Ricordi in bianco e nero

    Un giorno a Delia, che non aveva mai scritto nessuno, arriva una misteriosa lettera. E in quel momento comprende di avere una propria identità.
    Una storia semplice, un racconto come tanti. Non è una storia di donne, quanto il racconto di un momento storico in cui le donne sono protagoniste. Paola Cortellesi porta sullo schermo delle storie di quelle che raccontavano le nonne, di quelle che si ascoltavano nei cortili dei palazzi, dove tutti sapevano tutto degli altri e dove anche le botte erano una consuetudine.

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    André Bazin

    Il film è girato in bianco e nero, perché questo è il colore dei ricordi, di storie di cui abbiamo immagini grazie a quel neorealismo che, se da una parte non c’entra niente con la cifra stilistica della Cortellesi, dall’altra portava sullo schermo le storie della gente povera, frustrata, ma anche desiderosa di riscatto all’indomani del secondo conflitto mondiale.
    Il bianco e nero, come affermava André Bazin, trasfigura la realtà stilizzandola e rendendola evidente per sottrazione. E poi, proprio perché è il colore del ricordo, la soglia della coscienza rimane proiettata in quel tempo anche quando la colonna sonora ci riporta in un presente pop-punk-jazz.

    Cattivi che non seducono

    La linea dell’umorismo attraversa il film, soprattutto quella che ritrae i personaggi cattivi. Come ha affermato la stessa regista, solitamente la cattiveria rende i protagonisti affascinanti, quasi seduttivi. Cortellesi, invece, vuole sminuirli facendoli apparire ridicoli, quasi stupidi.
    La violenza tra le mura domestiche è resa come una sorta di rituale, un balletto grottesco che normalizza una situazione cancellandone immediatamente i lividi, incapaci di lasciare segni. Cortellesi voleva proprio evitare l’effetto volgare di un voyeurismo che osserva dal buco della chiave le botte in casa altrui. Trasforma così, con maestria, la brutalità in un effetto kafkiano, rendendo alcune scene ancora più intollerabili anche grazie ad un effetto di straniamento.

    E oggi c’è ancora un domani?

    Forse è proprio la capacità di straniamento che consente a Delia di guardare in faccia la propria vita, liberare la figlia da un destino già segnato, di indossare il rossetto e andare avanti in una rivoluzione che, anche se a bocca chiusa, le ha consentito di autodeterminarsi.
    Alla certezza di Delia di avere ancora un domani per portare avanti la sua rivoluzione aggiungerei un punto interrogativo: oggi c’è o potrà esserci ancora un domani per tante altre donne che, in altri paesi, nel nome dell’estremismo religioso, rischiano di trovare la morte ancor prima di aver realizzato la loro personale rivoluzione?

  • Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Il cinema, fin dalle sue origini, ha portato sul grande schermo le storie del sogno americano inseguito anche da milioni di italiani. Il teatro, invece, sembra essersi interessato poco a queste vicende, ma trova nell’attore e regista teatrale cosentino Ernesto Orrico un divulgatore di storie di migrazioni.
    Già con la regia di Malamerica, su una drammaturgia di Vincenza Costantino, aveva dato voce alle tribolazioni degli emigrati che non ce l’hanno fatta e i cui nomi si perdono nell’oblio della storia. Tra di loro, anche un anarchico, come i più noti Sacco e Vanzetti, finito sulla sedia elettrica nel 1933 dopo dieci giorni nel braccio della morte della Florida State Prinson di Raiford.
    Joe Zangara, protagonista dello spettacolo La mia idea. Memoria di Joe Zangara, era partito da Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria, nel 1923.
    L’opera trae spunto dal libro del 2020 La mia idea. Memoria di Joe Zangara, pubblicato nell’edizione italiana e inglese da Erranti nella collana La scena di Ildegarda e scritto da Ernesto Orrico, Massimo Garritano, tradotto da Emilia Brandi.

    Joe Zangara e l’attentato

    Giuseppe Zangara nasce nel 1900 in una terra che le logiche del latifondo costringono ad arretratezza e marginalità. Un’infanzia difficile la sua: perde troppo presto l’affetto materno e si ritrova a vivere tra la fame, la violenza di un padre padrone e una malattia cronica che gli procura forti dolori addominali, specchio del suo male di vivere.
    Dopo aver combattuto gli ultimi mesi del primo conflitto mondiale anche lui, come tanti, si lascia sedurre dal sogno americano e lascia per sempre l’Italia.

    È proprio su questa figura di perdente, nel suo aspetto più intimo, che Orrico si concentra. Un uomo condannato per aver attentato alla vita dell’allora Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, procurando la morte del sindaco di Chicago, Anton J. Cermak.
    Zangara è realmente colpevole di un tentato omicidio e dell’assassinio di un uomo, una condizione che non gli consente riabilitazioni come per Sacco e Vanzetti.

    Due lingue e un flusso di coscienza in musica

    La mia idea Memoria di Joe Zangara prende spunto dal memoriale che lo stesso Zangara scrive pochi giorni prima che lo giustizino. Orrico e Garritano lo presentano come uno spettacolo/concerto.
    Il racconto in prima persona procede attraverso un linguaggio capace di fondere termini dialettali calabresi con un inglese/americano  forzato, ma mai stentato. Ed è proprio questo bilinguismo a sottolineare l’incapacità di adeguarsi completamente ad una nuova realtà sociale.

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    Orrico e Garritano sul palco (foto noteverticali.it)

    La mescolanza di termini evidenzia il voler rimanere ai margini di Joe Zangara, estraneo alla nuova vita che aveva scelto di seguire, così come lo era nella sua terra.
    Il piccolo emigrante calabrese è insoddisfatto della sua vita e lo racconta attraverso un flusso di coscienza che si intreccia con la sonorità degli strumenti a corda. Allora il bouzouki e il dobro non sottolineano pensieri, diventano essi stessi riflessioni, rabbia e dolore.

    Il sogno americano infranto

    In scena vanno i sentimenti di un uomo dal destino segnato. E, attraverso questi, l’umanità e lo sdegno di chi, lasciando la propria terra per scelta o perché costretto, si accorge che il Nuovo Mondo è solo il luogo della perdita del valore umano, minacciato dalla logica dei consumi o barattato con la promessa di una effimera ricchezza.

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    Franklin D. Roosevelt pochi istanti prima che Joe Zangara gli sparasse

    L’attentato di Joe Zangara a Roosevelt, il 15 febbraio 1933, rappresenta l’incapacità di adeguarsi a vivere in un sistema che ha bisogno di sfruttare la gente per far decollare l’economia americana dopo la Grande Depressione del 1929.
    Il New Deal per Joe Zangara si traduce in un sentimento di anticapitalismo, “la sua idea”, cui Orrico e Garritano danno corpo attraverso parole e musica nell’autobiografia più intima di un condannato a morte.

    Joe Zangara dagli States al Rendano

    Dal 27 ottobre al 5 novembre i due hanno riportato Joe Zangara negli States tra la comunità italo-americana in occasione della decima edizione del festival In Scena! Italian Theater Festival NY Fall Edition 2023, promosso da Kairos Italy Theater in collaborazione con Kit Italia e Casa Italiana Zerilli-Marimò at NYU, con il supporto del Ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale.

    La kermesse, a cura di Laura Caparrotti e Donatella Codenescu, ha quindi raggiunto San Diego e Santa Rosa in California, poi Calgary e Lethbridge in Canada, con spettacoli teatrali per le comunità di origini italiane e incontri tra artisti italiani e internazionali rendendo concreto il senso più profondo del teatro che vuole essere un incontro, non solo tra pubblico e attori, ma tra comunità, tra culture e identità che si ritrovano oltre quell’oceano attraversato molti anni prima della loro nascita dai loro stessi progenitori.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Dopo il tour nordamericano, lo spettacolo torna adesso nei teatri della Calabria per il progetto speciale di Fondazione Armonie d’Arte, L’Altro Teatro e Nastro Mobius, nel cartellone di Un Giorno All’Improvviso .
    La mia idea. Memoria di Joe Zangara di Ernesto Orrico, con le musiche di Massimo Garritano, produzione Zahir/Teatro Rossosimona va in scena infatti nella Sala Quintieri del teatro Rendano di Cosenza venerdì 8 dicembre alle 19. L’ingresso è gratuito.

  • Il brigante calabrese che stregò Camilleri

    Il brigante calabrese che stregò Camilleri

    Nel 1952 il giovane Andrea Camilleri, ventisettenne neodiplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, dove successivamente insegnerà regia, compra un libro di un autore calabrese a lui ancora sconosciuto. Ad attirare la sua attenzione fu il titolo Antonello capobrigante calabrese, dramma in cinque atti di Vincenzo Padula, scritto nel 1850. L’aneddoto è raccontato dallo stesso Camilleri nel docufilm La penna di Bruzio, una coproduzione dell’associazione Stato delle Persone, Fondazione Vincenzo Padula e dalla CineDue dei fratelli Aragona, distribuito da RAI Storia. Il film, nato nel 2016 da un’idea di Mattia Scaramuzzo, per la regia di Giulia Zanfino, ha visto la partecipazione, oltre che dello scrittore empedoclese, anche di Carlo Verdone e Riccardo Iacona.

    Un frame del film di Giulia Zanfino su Vincenzo Padula

    Briganti, una mistificazione storica

    Camilleri racconta di essere stato catturato dalla suggestione delle parole capobrigante e calabrese, questo a causa di una sua personale e radicata convinzione, relativa a una mistificazione storica, avvenuta subito dopo l’unità d’Italia, in merito al problema del brigantaggio. Un vecchio specchietto riassuntivo del Comando militare per la repressione di Capua, sempre secondo il racconto di Camilleri, riportava un consuntivo dei briganti uccisi e arrestati dal 1861 al 1863; si trattava di circa 3780 morti e oltre 4000 detenuti. Proprio intorno a questi numeri che nasce il dubbio attorno al quale Camilleri si chiede se tutti i meridionali erano diventati briganti o se si tacciava di brigantaggio la rivolta contadina di chi chiedeva nient’altro che pane e lavoro.

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    Una riflessione che ci spinge a parlare delle cause di fenomeni sociali violenti all’indomani di una unificazione nata su presupposti politici e amministrativi ideologicamente divisivi. Non bisogna dimenticare che il nuovo Regno d’Italia presentava un’enorme disparità tra Nord e Sud e per unificare veramente il Paese c’era bisogno di infrastrutture, di un esercito, di leggi, di alfabetizzazione, di riforme agrarie e industriali. C’era anche la necessità di adottare le stesse unità di misura, la stessa moneta e una lingua capace di parlare a tutti. La complessa questione meridionale, strettamente connessa al fenomeno del brigantaggio, trovò con l’attuazione della Legge Pica del 1863, la legittimazione della violenza repressiva di un fenomeno sociale determinato da povertà, diseguaglianza, ma anche da brutalità di contadini rozzi e ignoranti.

    Vicenzo Padula: un intellettuale profondo

    Proprio sulla causa dei problemi e sulle azioni repressive di un fenomeno di portata storica come il brigantaggio si concentra il pensiero dell’abate Vincenzo Padula di Acri che, attraverso le pagine del giornale Il Bruzio, richiama l’attenzione sulle complesse situazioni della Calabria e di tutto il meridione post unitario. Padula, lungimirante intellettuale, ma anche scrittore ironico, attento giornalista, è stato definito più volte un antropologo, ma lui non è stato solo un attento osservatore della cultura del suo tempo, quanto un sociologo, o meglio ancora possiamo definirlo un etnologo che ha saputo considerare fatti e circostanze nei loro processi di trasformazione.

    Padula, nonostante l’isolamento culturale della Calabria, pur vivendo la realtà dell’entroterra, affronta i temi del suo tempo in una produzione letteraria in grado di concretizzarsi anche nella scrittura teatrale, cosa non usuale in una realtà senza nessuna tradizione drammaturgica. Antonello capobrigante calabrese è ambientato tra i monti della Sila, precisamente a Macchia Sacra. È lo stesso Padula a scrivere che i briganti agiscono nella foresta e, siccome in ogni paese d’Italia, dopo che i Borboni se ne sono andati, c’è gente che ruba e che uccide, nelle altre città, come in quelle del Piemonte, della Lombardia e della Toscana, azioni ancora più gravi di quelle che accadono in Calabria si concretizzano nelle case.

    Una rara edizione del racconto di Vincenzo Padula

    Una questione privata? Non proprio

    Le vicende narrate nell’Antonello sono quelle di un gruppo di briganti nascosti nei boschi della Sila, impegnati nel preparare il rapimento del ricco galantuomo Brunetti e di suo figlio Luigino. La storia è quella della giovane Maria, moglie di Giuseppe, che dopo aver subito violenza da parte di Brunetti si ritrova ad assistere all’omicidio del figlio neonato, soffocato dallo stesso Brunetti. In preda alla disperazione Maria convince Giuseppe a farsi uccidere e a quel punto il giovane, decidendo di farsi brigante, è accolto dal capobrigante Antonello tra i boschi della Sila.

    La narrazione di una storia in apparenza privata, si trasforma in una rivendicazione collettiva contro i soprusi di un potere destinato, davanti alla legge, a rimanere impunito. Il dramma non si limita a raccontare di una storia d’amore finita in tragedia, ma parla della condizione sociale in cui versava la Calabria, oppressa dal potere legato alle logiche del latifondo e che, inevitabilmente, si riflette nella tracotanza del ricco Brunetti. Emerge chiara la sfiducia verso la giustizia, quasi come se Padula volesse giustificare la rabbia di un gruppo di persone che, per la loro stessa natura di briganti, sono destinati a rimanere poveri. I giorni durante i quali si svolge l’azione sono quelli che passano tra la cattura dei fratelli Bandiera, avvenuta sul Colle della Stragola, nel territorio di San Giovanni in Fiore, la loro detenzione nel carcere di Cosenza e la fucilazione, insieme ad altri sette compagni, per volere di re Ferdinando II di Borbone, nel Vallone di Rovito il 25 luglio 1844. È lo stesso Antonello a far recapitare una lettera ad Attilio ed Emilio Bandiera, offrendo, senza successo, l’aiuto dei briganti per farli scappare dalla prigione.

    La locandina della pièce teatrale tratta dal racconto di Padula

    Vincenzo Padula e Lord Byron

    La figura di Antonello capobrigante riveste il ruolo di un eroe moderno, tormentato davanti alle ingiustizie del suo tempo, in questo non è difficile cogliere gli aspetti romantici di un byronismo presente nella letteratura di quegli anni. George Byron, tra il 1818 e il 1823 è in Italia per il suo personale Grand tour, è la sua poetica penetra anche nella letteratura calabrese. I punti di convergenza tra Padula e Byron sono proprio quelli che si riflettono nel personaggio del capobrigante Antonello: il sentimento di ribellione verso un contesto sociale guardato con disprezzo a causa di quei privilegi riservati a pochi, l’imperfezione stessa dell’eroe agitato da una passione distruttiva e non ultimo l’incapacità di portare avanti lotte collettive, quanto piuttosto animato da un individualismo tipico di ogni disperato che lotta solo per se stesso.
    La fortuna di Antonello capobrigante è stata quella di aver varcato i confini regionali e di essere stato rappresentato in diverse riduzioni teatrali, televisive e in un adattamento radiofonico del 1960 di Ottavio Spadaro, nel quale Aroldo Tieri interpretava la parte del possidente Brunetti.

  • Capitano, mio capitano

    Capitano, mio capitano

    Matteo Garrone con il suo Io Capitano, dopo la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è arrivato anche a Cosenza per la decima edizione del Festival della Primavera del Cinema Italiano. Durante la proiezione della pellicola è giunta la notizia che il film avrebbe rappresentato l’Italia nella corsa agli Oscar. Magari, dopo il Nastro d’argento per la miglior regia, il Premio Mastroianni come miglior attore al giovane Seydou Sarr e il Green Drop Award, Garrone riuscirà a portare a casa la quindicesima statuetta del cinema italiano, assegnata l’ultima volta, nel 2014, a Paolo Sorrentino per La Grande Bellezza.

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    Il regista Matteo Garrone sul palco della “Primavera del cinema italiano” a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)

    Il viaggio

    Il tema, privo di quegli elementi di retorica paternalistica difficili da digerire, è quello dei migranti, il viaggio di milioni di persone verso la speranza di una vita nuova; verso quel sogno europeo che tanto ricorda il grande sogno americano inseguito da milioni di persone del vecchio continente. Come allora, spesso, il mare si trasforma in luogo di morte, oppure i sogni si infrangono davanti alle coste italiane, proprio quando, sembra di poter toccare Lampedusa solo stendendo il braccio, proprio come succedeva a Ellis Island, quando molte delle persone sbarcate venivano rimandate indietro.
    Seydou e Moussa sono cugini, vogliono raggiungere l’Europa partendo dal Senegal. Non fuggono dalla guerra e neanche dalla fame, vogliono solo partire, magari per fare successo e chi lo sa, un giorno firmare «autografi ai bianchi». L’Europa, per chi scappa dalla povertà, a causa del trattato di Schengen, operativo dagli anni novanta, è diventato un posto difficile da raggiungere, ce lo ricordano i continui naufragi e quello di Cutro è una ferita ancora aperta.

    L’odissea di Seydou

    Garrone racconta il viaggio dal punto di vista di chi parte, di chi non è un numero, ma ha un nome, una famiglia, un villaggio, un’identità.
    Per raccontare i drammi dei migranti dovrebbero essere usati più nomi, più storie personali e meno numeri, questi ultimi non definiscono mai individui, ed è proprio questo a fare la differenza tra ciò che consideriamo emergenza politica e quella che in realtà dovrebbe essere trattata sempre e solo come emergenza umanitaria.
    Seydou, il protagonista, è un ragazzo di sedici anni, uno come tanti che sogna la libertà di poter viaggiare; Garrone ha costruito il suo personaggio raccogliendo più storie, racconti di viaggi atroci in cui, ogni essere umano, diventa solo merce di scambio monetario e corpi sui quali accanirsi.

    Seydou è un ragazzo ingenuo che, nel corso del viaggio, diventerà un uomo capace di conservare il suo lato umano nonostante la bestialità e la crudeltà degli altri uomini. Anche questo significa salvarsi, indipendentemente dal riuscire a raggiungere le coste europee. Il film di Garrone è un racconto a lieto fine, per questo ricorda la struttura della favola. Fiaba per la sua modalità di racconto in cui compaiono figure antropomorfe che accompagnano voli onirici per un ritorno alle proprie radici, al mito che ha sempre a che fare con quella lotta fra la vita e la morte, agli archetipi della propria cultura, inseparabili dal proprio inconscio.

    Quasi un racconto-apologo che nelle sue allegorie persegue il fine pedagogico, quello di insegnare che il mondo è un posto pericoloso anche quando la comunicazione digitale racconta altro, una mistificazione che può trasformarsi in una trappola mortale. Lo stregone del villaggio e gli spiriti da interrogare prima di partire, fanno parte di quel mondo legato a una ritualità e ad un folklore di un universo non ancora contaminato totalmente dalle strutture del capitalismo, ma che, inevitabilmente, di questo subisce le conseguenze a causa di una marginalizzazione dovuta spesso ad uno sfruttamento economico indiscriminato.

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    “La passeggiata” di Marc Chagall

     

    Chagall nel deserto

    La dimensione onirica di alcune scene sottolinea il rapporto con la fiaba, con il mondo sovrannaturale e con la sfera delle emozioni. Nel deserto, accanto ai tanti corpi senza vita, Seydou sogna di prendere per mano una donna ormai in fin di vita, stremata dalla fatica e di farla volare, sostituendo così la gioia e l’amore ad una forza di gravità che attira i corpi verso una terra che troppe volte si rivela matrigna. Un’immagine che ricorda La passeggiata di Marc Chagall, il dipinto in cui due personaggi si tengono per mano, mentre la donna è libera di volare, in un contesto felice e luminoso.

    Di certo a Garrone non è sconosciuta la poetica del Fauvismo, il movimento pittorico nato in Francia agli inizi del ‘900, che esprimeva la sua poetica attraverso forme semplici e colori puri e vividi. Scene come pennellate pittoriche, colori che esprimono la forza dei corpi e delle emozioni e sogni che si aprono verso un mondo libero e immaginifico.

    Il film girato in lingua wolof, parlata in Senegal, diventa un linguaggio universale, perché l’umanità per essere raccontata non ha bisogno di traduzioni. La scelta di Garrone, di sottotitolare e di non doppiare, si rivela vincente per raccontare il punto di vista di una cultura che, solitamente, è interpretata secondo riferimenti culturali occidentali, disperdendo così l’essenza di una realtà che andrebbe raccontata con i propri codici linguistici e identitari.

    Una pellicola politica

    Garrone, nelle varie interviste e nel suo intervento al cinema Citrigno, afferma che Io Capitano non è un film politico, ma solo un racconto, una storia che lui ha voluto narrare. Dal mio punto di vista, invece, il film è politico nella misura in cui tratta un tema complesso a cui la politica internazionale non riesce a dare risposte dignitose. Il suo essere politico è nella percezione che ne deriva dello stesso fenomeno, nella sua capacità di far scaturire un’ideologia in grado di parlare e determinarsi.

    Per Hegel il motivo dell’arte è la coscienza dei bisogni, se questo è vero, e il film di Garrone può essere considerato sicuramente arte, le urgenze individuate nel suo racconto non possono che essere inserite in una dimensione storica che, collegata inevitabilmente alla storia del passato, cerca, per non rimanere nell’astrattezza, di risolvere ciò che per il momento rimane ancora irrisolto, investendo per questo sempre la sfera della percezione. Oltretutto è lo stesso Garrone a parlare di opera epica e questa è da intendere sempre come portatrice di necessità fortemente politiche. Alla base di un’opera epica c’è sempre un conflitto politico che, indubbiamente, si riversa anche in un tormento e in un processo di crescita interiore, ma che attraverso dei racconti di piccoli e grandi eroi, prendono corpo le avventure dei tanti Seydou, Moussa e di quanti attraversano il tempo della metastoria.

  • Mille giorni a Ferramonti

    Mille giorni a Ferramonti

    Quando, subito dopo la guerra, in una Germania sconfitta e divisa, Nina Weksler provò a far pubblicare il libro sulla sua personale esperienza di internata nel grande campo di internamento fascista di Ferramonti, si scontrò con il secco rifiuto del mondo dell’editoria tedesca perché, molto banalmente, il punto di vista delle case editrici era che nel lager di Tarsia non era successo niente, nessuno era stato ucciso o torturato, tutto era a dimensione umana.
    Ferramonti non era Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen e tanto meno Auschwitz, niente a che vedere con quanto succedeva nei campi di sterminio e di lavori forzati dell’Europa centro-orientale.

    Il campo di internamento di Ferramonti

    Mille giorni a Ferramonti 

    I mille giorni d’internamento di questa giovane donna ebrea non apparivano editorialmente seducenti, come se limitare la libertà delle persone, non fosse già, di per sé, un insulto a tutta l’umanità. Solo nel 1992, grazie alla casa editrice cosentina Progetto 2000, diretta da Demetrio Guzzardi, quei mille giorni raccontati da Nina diventano un libro, ripubblicato nuovamente nel 2020 per una seconda edizione.

    Il libro dal titolo Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento, per volontà dello stesso Demetrio Guzzardi, è diventato uno spettacolo teatrale dal titolo Nina. Guten Morgen Ferramonti, presentato in anteprima nazionale al Salone Internazionale del libro di Torino nel maggio scorso, nello stand della Regione Calabria. Dora Ricca ha curato la scrittura drammaturgica e la regia, riuscendo ad adattare il testo, con tutta la sua moltitudine di dettagli e la complessità di emozioni, nello spazio e nel tempo della messa in scena.

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    Lara Chiellino in “Nina, Guten morgen Ferramonti”

    Lara Chiellino diventa Nina Weksler

    Ricca è riuscita a restituire sentimenti individuali di un dramma generale, ma anche immagini paesaggistiche, poesia e malinconia, gesti e parole, di quanti hanno sùbito la più violenta e cieca persecuzione della storia. Il racconto del popolo ebraico parla anche di un pezzo di Calabria, di una zona malarica divenuta, per la sua condizione di isolamento geografico, una salvifica Arca di Noè, grazie alla quale, migliaia di persone hanno trovato la possibilità di sopravvivere al genocidio messo in atto dalla furia nazifascista, intenzionata a realizzare la follia di quegli ideali di pulizia etnica, razziale e politica.

    Lara Chiellino ha interpretato la protagonista Nina; un lungo monologo in prima persona il quale, attraverso digressioni che hanno consentito di andare avanti e indietro nel tempo del ricordo, ha saputo raccontare la moltitudine umana dei tanti internati, portatori di culture, lingue, religioni e costumi diversi. Il peso della storia è raccontato come un esercizio di equilibrio e di resistenza al dolore, la semplicità della gente di Calabria diventa elemento di somiglianza, quindi sentimento di empatia, da condividere con quel popolo perseguitato da secoli.

    Illustrazione tratta dal libro “Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” (edizioni Progetto 2000)

    Da Leningrado a Ferramonti, storia di Nina

    Nina, nata a Leningrado da genitori ebrei, si era trasferita con tutta la famiglia a Berlino dopo la rivoluzione bolscevica, a causa della guerra perde i contatti con la sua famiglia e, arrestata dalla polizia fascista a Milano, arriva a Ferramonti di Tarsia, il luogo in cui ha potuto imparare a guardare in faccia l’anima stessa delle persone, il loro comportamento e le relazioni umane, una università di vita in cui nulla è stato facile. Ricca ha portato in scena, grazie all’interpretazione di Lara Chiellino, una donna libera e indomita che, nonostante la sua condizione di internata, non ha consentito a nessuno di annientarla sul piano umano.

    Proprio per questo, Nina, nei suoi mille giorni di prigionia, fatti di fame, freddo e malattia, ha continuato a coltivare la sua personale passione per la scrittura, ad apprezzare i libri, le albe calabresi, ma anche i profumi, in quelle piccole boccette di vetro ormai difficili da trovare. Quei profumi, quasi dotati di vita propria, nella loro capacità di apparire chiari, scuri, tristi e allegri, si presentano quasi come una metafora dell’esistenza.
    Sono sempre le piccole azioni, i piccoli gesti, come quello di indossare una vestaglia, sistemare un cappotto sgualcito, rammendare un calzino, avvolgersi in una coperta, il movimento convulso nel letto cercando disperatamente di addormentarsi, le candele accese, a definire la tragicità della condizione umana.

    Lara Chiellino e Dora Ricca

    La regia attenta di Dora Ricca

    La regia di Dora Ricca punta a mettere in scena delle azioni, ma anche gestualità, ritmo e sonorità; il corpo di Lara Chiellino diventa la costante fluttuante tra un dentro e un fuori, tra interiorità ed esteriorità. Azioni che parlano, divenendo, allo stesso tempo, enunciati performativi, frasi che accompagnando movenze producono un nuovo stato di cose, una nuova realtà. Parole e azioni che portano con sé, grazie alla forza dell’autoreferenzialità, il potere di trasformare la percezione di un universo delimitato da un filo spinato.
    La Chiellino riesce, attraverso il suo sguardo e i suoi silenzi, a mostrare le espressioni degli altri internati, si riesce a far percepire la presenza di prigionieri in realtà assenti sulla scena, quasi come se il suo stesso sguardo divenisse lo specchio delle paure e delle trepidazioni di tutte le persone segregate e non solo a Ferramonti.

    Baracca 62

    Lara agisce in uno spazio definito dalla quarta parete, pochi oggetti di scena riescono ad evocare il senso di miseria, solitudine, freddo e sofferenza che si viveva nella baracca numero 62 così come in tutte le altre. Lo spettatore assiste allo sviluppo di una vicende in cui, i ricordi e gli incubi ricorrenti di Nina, accompagnati dalla sua stessa voce fuori campo, lo spingono ad interrogarsi sulla tragedia che sappiamo nascere sempre dalla perdita di Dio o dal sentimento di umanità. Dio non era ad Auschwitz, non era neanche in tutti gli altri campi di lavoro e di sterminio, sicuramente, anche se nascosto, era nel cuore di Nina che, indossato il suo tallit, assisteva alla preghiera del venerdì sera senza capire troppo il senso delle parole e, forse, non era neanche necessario capire, bastava la poetica delle parole stesse per sentire vicino una presenza sacra.

    Soldati all’esterno del campo

    Dove era Dio?

    Ricordava benissimo di un Dio implorato e pregato da sua madre nel giorno del Kippur, ma in quei racconti non rammentava un Dio iracondo, quanto un padre benevolo verso i suoi figli. Ma Dio ora forse era assente e per questo bisognava invocarlo, ma la tragedia intanto si stava consumando.
    Il suono del violoncello, i ronzii delle mosche, il rumore degli aerei diventano voce drammaturgica in grado di costruire immagini concrete, di una realtà interrotta solo quando la quarta parete si infrange. Lara Chiellino, spogliandosi dei panni di Nina e indossando i suoi, irrompe sulla scena, a quel punto non è più personaggio, ma un’attrice che narra quella storia che ha riguardato ognuno di noi, il nostro passato collettivo e, proprio per questo, parla del valore della memoria e soprattutto dell’umanità che non ha memoria, diversamente non si spiegherebbero le guerre e le persecuzioni alla quali assistiamo ancora oggi. Le ceneri dell’umanità non hanno insegnato nulla e rivolgendosi al pubblico, attraverso un dialogo diretto, lo costringe a prendere delle posizioni davanti alla crudeltà della storia e degli uomini.