Autore: Luigi Michele Perri

  • Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Nel primo volume della sua autobiografia, Chronicles (Feltrinelli, 2005), Bob Dylan ricorda con riconoscente affetto Mike Porco, colui che gli spianò la strada del debutto fino alle porte del successo. «Mike was the sicilian father – scrive – that I never had», Mike è stato il padre siciliano che non ho mai avuto. In realtà Michele “Mike” Porco, non era siciliano, come il senso comune americano definiva l’italiano meridionale. Era calabrese, cosentino di Domanico, figlio d’un emigrato in America, preso dal sogno del ricongiungimento della famiglia a New York, dove faceva il muratore.

    Dalle Serre cosentine a New York

    Quando cominciò a profilarsi la ripresa delle attività edilizie, che la Grande depressione del 1929 aveva bloccato, Michele s’imbarcò a Napoli per raggiungere il padre e aiutarlo a realizzare, prima possibile, la trepida aspirazione familiare. Dopo tre settimane di viaggio, l’approdo ad Ellis Island, nell’incanto della Statua della Libertà, all’accesso del nuovo mondo, aperto alla speranza di una nuova vita.

    Sulla banchina, ad attenderlo, c’era un gruppo di compaesani. Ma non il padre. La morte lo aveva stroncato, all’improvviso, qualche giorno prima. Mike, disperato, si sentì perso. Trovò per sua fortuna ospitalità da alcuni parenti, che lo avviarono al lavoro in uno dei loro ristoranti, il Gerde’s club, al centro del Greenwich Village, quartiere in crescita nel cuore della Grande Mela. Da lavapiatti a cameriere, a gestore di fiducia, Mike riuscì, gruzzolo su gruzzolo, ad acquistare il locale.

    Il Village e la Beat generation

    Il Village era un borgo di irresistibile richiamo per intellettuali e bohémien, un composito microcosmo di cultura alternativa, sintesi newyorchese tra Montmartre e Montparnasse, pullulante di pub e bistrot. Era la meta preferita dei folksinger, pionieri del movimento beat. Li ispiravano il romanzo autobiografico On the road di Jack Kerouac, le opere letterarie di Allen Ginsberg, che ne era il guru, e le canzoni di Woody Guthrie, mito del nuovo corso musicale, rivoluzionario cantore dell’Altra America, poeta della protesta sociale radicalizzato nel comunismo, un hobo solitario monumentato in vita dal suo popoloso seguito.

    Kerouac, nel suo girovagare, elesse il Village, come luogo congeniale alla sua filosofia e al proprio coerente modo di vivere. Qui conobbe Neal Cassady, scrittore, che, come lui, in sregolatezza esistenziale, ispirò la figura del coprotagonista del suo romanzo autobiografico per la comune vana ricerca di un indistinto padre perduto, patiti com’erano, il primo, per la morte del genitore naturale, l’altro, per averlo avuto alcolizzato cronico, motivi questi, per loro, di squilibrio interiore e di crisi esistenziale. Qui, nel Village, Woody, anche lui orfano di padre, in fuga dalla sua sventurata adolescenza, trovò la destinazione ideale del suo inquieto nomadismo, l’atmosfera giusta per fissare il suo definitivo domicilio lungo la Hudson Street, un vialone alberato tra l’omonimo fiume e la centralissima Washington Square.

    woody-guthrie-bob-dylan
    Woody Guthrie e un giovane Bob Dylan

    Sospinto dal coinvolgente messaggio di Kerouac, dagli impulsi poetici di Ginsberg e – di più, molto di più – dalla irrefrenabile voglia di incontrare il suo idolo Woody, Bob Dylan (nato nel 1941), non ancora ventenne, regolarmente squattrinato, chitarra in spalla – suo unico capitale disponibile con qualche brano da lui composto – abbandonò, in rotta col padre, la famiglia per raggiungere, on the road, il mitico Village, alla ricerca del padre della propria formazione artistica e della temperie adatta ai suoi versamenti culturali, affinati dai romanzi di Edgar Allan Poe e di Mark Twain, scrittori di rottura nei loro generi e messaggi letterari.

    Il Gerde’s Folk City

    Mike, oramai addestrato all’arte del ristoratore, fiutò l’emersione del genere folk nei gusti, sì, dei giovani, ma anche di quegli intellettuali, di quegli imprenditori e dei tanti newyorchesi, che, danarosi, si riversavano, in evasione dal tran tran metropolitano, nel quartiere per viverne il clima e, preferibilmente, la vita notturna. La sua intuizione lo portò a rinnovare il locale, dove allestì un palchetto al posto del vecchio pianobar per offrire alla clientela un tono musicale, d’accompagnamento alle cene, diverso dal solito.

    gerdes-folk-city-nyc
    L’ingresso del Gerde’s Folk City su 4th Street. Negli anni ’70 il locale si trasferirà al 130 West di 3rd Street, per poi chiudere nel 1987. Mike Porco lo aveva ceduto sette anni prima a Robbie Woliver, Marilyn Lash e Joseph Hillesum

    Il Gerde’s diventò Gerde’s Folk City. Egli stesso si convertì da ristoratore – ruolo che affidò al fratello Giovanni che, intanto, lo aveva raggiunto – a talent scout di band e cantanti solisti, che, per sbarcare il lunario, di giorno, si esibivano per strada, confidando nelle offerte dei passanti, e, a sera, facevano il giro dei locali che li sfruttavano, volta per volta, per un dollaro più una bevuta al bar. Lui prima li faceva provare, poi li selezionava sulla base del gradimento della clientela. Se funzionavano, li faceva ruotare a turno, raddoppiando la paga con consumazione e cena.

    mike-porco-gerdes
    Il Gerde’s gremito durante un concerto

    Bob Dylan e Mike Porco

    Gli capitò Bob Dylan. Gli concesse la ribalta per una sera. Il pubblico applaudì. Lui, invece, fu sul punto di bocciarlo: «Ha la voce di una cornacchia», disse agli amici al suo tavolo – nientemeno che Ginsberg e Robert Shelton, primo critico musicale del New York Times – che, da habitué del locale, non gli risparmiavano giuste imbeccate. I due gli certificarono il talento del ragazzo. E dovettero insistere per convincerlo ad inserire Bob nel programma delle serate hootenanny del lunedì. Fu un boom.

    bob-dylan-mike-porco-gerdes
    Settembre 1961, Bob Dylan sul palco del Gerde’s nel concerto che lo consacrerà, ancora giovanissimo, lanciandolo verso un successo che lo porterà fino al Premio Nobel. Incollata alla chitarra, la scaletta delle canzoni di quella sera

    Bob Dylan diventò il pupillo di Mike Porco, che, a quel punto, gli propose un contratto. Essendo ancora minorenne, Bob avrebbe dovuto avere il nulla osta del sindacato. L’impiegato della Musicians Union, cui si rivolse, gli oppose la necessità della firma consensuale di uno dei genitori. Inutilmente, Bob, che non aveva più contatti con la sua famiglia in Minnesota, replicò d’essere orfano e solo al mondo. A risolvergli il problema fu Mike, che firmò come tutore.

    https://youtu.be/A8pqKnZshpw

    Alcuni spezzoni tratti da “Positively Porco”, docufilm su Mike e il suo locale: al minuto 4’05” è lui stesso a raccontare come abbia fatto da garante per Bob Dylan

    Da allora in poi, il rapporto tra i due fu quello di padre e figlio. Padre premuroso e figlio riconoscente, non più ribelle come lo era stato con il suo genitore vero. Bob trovò il padre che cercava, al contrario dei suoi idoli che, non rinvenendo il senso della vita nella umanità circostante, rincorsero la beatitudine consumandosi nella droga e nell’alcol. Bob Dylan non ne ebbe bisogno, sia pure dopo averne provato il rischio. Prese la sua strada, per farne tanta, come si era ripromesso in Song to Woody.

    shelton-dylan-nyc
    La recensione con cui Robert Shelton esalta il giovane Dylan sul prestigioso New York Times: è nata una stella

    Shelton gli dedicò una esaltante recensione. John Hammond, leggendario produttore discografico, se lo accaparrò alla Columbia Records. Di qui il volo verso la celebrità, dopo aver fatto la fortuna dell’emigrato calabrese. Che, negli ultimi anni della sua vita, era solito raccontare ai suoi figli come la sua tenacia fosse valsa a riunire la famiglia nel benessere del nuovo mondo e a coronare, così, il sogno paterno.

    Un locale di culto

    Trent’anni fa, il 13 marzo 1992, dava l’addio al mondo Mike Porco, il calabrese che, negli anni Trenta, da Domanico, borgo rurale delle Serre cosentine, emigrò in America. E a New York fondò il Gerde’s Folk City – uno dei tre migliori locali musicali del mondo, secondo la rivista Rolling Stone, insieme al beatlesiano The Cavern di Liverpool e al newyorkese CBGB – e centro propulsore sempre all’avanguardia del folk, del rock, del folk rock e ritrovo degli intellettuali della controcultura in fermento nel Village.
    Alla sua scena si legano gli esordi e le carriere di innumerevoli celebrità: dal già citato Bob Dylan a Joan Baez, da Dave Van Ronk a Richie Havens, da John Lee Hooker a Jimi Hendrix, da Simon & Garfunkel a José Feliciano. Una vera e propria pista di lancio per tanti musicisti destinati ad entrare nella storia della musica.

    L’anniversario in mondovisione

    Sulla ribalta dei Newport Folk Festival, ciclicamente organizzati negli anniversari del locale, gli artisti promossi dal Gerde’s si esibivano in massa, in dichiarato omaggio al loro scopritore. In occasione del 25mo anniversario del Folk City, il concerto fu trasmesso in tutto il mondo dalla Pbs e dalla Bbc Tv. In quello del 1979, il sindaco di New York, Edward Koch, indirizzò al titolare del Gerde’s una lettera di calorose congratulazioni per la sua “benemerita attività”.

    Spesso, i media americani si occuparono di Mike Porco. Lui era pronto a narrare aneddoti inediti sulla sua singolare esperienza e sugli artisti di cui, pur senza capire un accidente di musica, aveva istintivamente colto il valore. Era diventato un personaggio gradito al grande pubblico, che lo aveva in simpatia anche per il suo inglese maccheronico. Gli stessi artisti parlavano di lui come una gran brava persona, una figura familiare, certo scaltrita dal fiuto per gli affari, ma sempre disponibile ad aiutare il prossimo.

    Non solo Bob Dylan: gli artisti come figli

    porco-cisco
    Mike Porco insieme al cantautore Cisco Houston

    In un’intervista per il libro Conclusions on the wall: new essays on Bob Dylan della esperta musicale del New York Times Magazine, Elizabeth Thomson (Thin man, 1980), Mike Porco raccontò la sua vicenda di emigrato, di proprietario del Gerde’s, di paterno sostenitore di Bob Dylan, in modo speciale, ma anche degli artisti che egli incamminò sulla strada del successo. «Sento come se questi ragazzi siano stati tutti miei figli. Li ho visti crescere – disse – come persone e come artisti. Tanti di loro sono andati avanti sino a diventare delle vere e proprie star. Vorrei che potessero tornare quei tempi, con Bobby, Janis Joplin, Steve Goodman, Phil Ochs. In occasione del mio sessantunesimo compleanno, li vidi arrivare un po’ tutti, Bobby con Joan Baez, Allen Ginsberg, Phil, Bobby Neuwirth, Roger MacGuinn, tutta la mia vecchia gente».

    Mike Porco, un affabile calabrese

    Robert Shelton nel suo libro biografico su Bob Dylan descrisse così Mike Porco: «Un affabile calabrese, con baffetti sottili, lenti spesse e un accento ancora più spesso delle lenti. A malapena distingueva una ballata da una mortadella. Ammassava profitti sulle consumazioni. Si affidava alle reazioni del pubblico per scegliere i cantanti, spesso ascoltando non la musica, ma gli applausi. La simpatia che Mike suscitava era dovuta anche al fatto che non aveva mai imparato bene l’inglese.

    mike-porco
    Michele “Mike” Porco

    Chiamava il suo club “a Folk a City”. Una volta dettò al telefono un annuncio pubblicitario al Village Voice, che fu ripetuto per due settimane di fila, presentando Anita Sheer come una cantante di flamingo (l’equivalente inglese dell’italiano “fenicottero”, ndr), invece che di flamenco. Di un altro che cantava in diverse lingue disse che si trattava di un cantante linguistico. Era, però, molto ben disposto verso i nuovi talenti. “Diamogli una possibilità”, era il suo motto, mentre la sua politica gestionale si basava sul “più è nuovo e meno costa”».

    Un cappotto che non si dimentica

    José Feliciano dichiarò: «Mike fu per me come un secondo padre. Mi ha aiutato in ogni modo a superare i momenti di difficoltà, facendomi guadagnare. Da uomo buono e generoso qual era, visto che non lo avevo, mi regalò un cappotto nuovo, perché il freddo a New York si sente, eccome. Io non ne avevo uno che potesse definirsi tale. Sono cose che non potrò mai dimenticare». Dello stesso tono riconoscente, decine e decine di altre testimonianze su un uomo che, evidentemente, non dimenticò mai le sue origini e il senso dei suoi sacrifici.

    1962, Suze Rotolo e José Feliciano al Gerde’s Folk City

    All’America seppe restituire il capitale che gli aveva dato in banconote con il capitale invisibile, eppure concreto, del suo altruismo e della sua intelligenza intuitiva. Se New York non è stata la capitale dell’America, lo è diventata del mondo per quella ribalta musicale nata nel Village e ideata – chi l’avrebbe mai immaginato – da un calabrese.

  • Il partigiano della Sila che liberò Tirana

    Il partigiano della Sila che liberò Tirana

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Se nessuno può cancellare le responsabilità dell’Italia fascista per la sua entrata in guerra nel 1940, nessuno può consentire che scenda l’oblio sul contributo eroico che, dopo l’8 settembre 1943, giorno della resa del Regio Esercito agli Alleati anglo-americani, i soldati italiani diedero alla liberazione di gran parte dei Paesi balcanici (Jugoslavia, Albania, Grecia) dalla occupazione nazista. A serbarne memoria concorre la vicenda di Giovanni Laurito, roglianese, nato un secolo fa (9 febbraio 1922) nella frazione silana di Saliano, combattente partigiano in Albania, che non volle arrendersi ai tedeschi e che, anzi, li combatté associandosi alle formazioni della Resistenza di quel Paese, dov’era giunto come militare di leva in forza alle truppe di invasione coloniale.

    Cent’anni da romanzo

    Un centenario, una vita da romanzo. Uno di quegli eroi, sin qui, anonimi che pure testimoniano i drammi della Seconda guerra mondiale e che, con aurea iscrizione, meritano di entrare negli annali con la forza del loro passato. Del partigiano Laurito non è solo la vicenda bellica del soldato a suscitare interesse e ammirazione, ma è anche la storia singolare dell’uomo, il vissuto del suo personale dopoguerra, che, dalla condizione di analfabeta e di autodidatta, lo portò, grazie alla sua alfieriana (nel senso del volli, e sempre volli, e fortissimamente volli) tenacia, alla irrefrenabile passione per la lettura, con risultati sorprendenti.

    Le rappresaglie dei nazisti

    Soldati del Reich in Grecia

    Tra l’8 settembre del 1943 e l’estate dell’anno successivo le truppe hitleriane, che avevano fiancheggiato quelle italiane di occupazione, in Albania, come in Jugoslavia e in Grecia, nella frustrazione della loro sconfitta, oramai ineluttabile, e della rottura dell’alleanza da parte dell’Italia, oramai irreversibile, scatenarono inaudite violenze contro le popolazioni locali e feroci rappresaglie contro i militari italiani in totale sbandamento. Che, pur decimati da deportazioni e da eccidi, come quello di Cefalonia, non mancarono di reagire.

    Partigiani all’estero

    Il loro coraggio, spinto in ardite controffensive, valse a indebolire le forze tedesche. In Grecia, tra i furiosi combattimenti ingaggiati tra ex alleati nelle isole dell’Egeo, a Corfù, a Cefalonia, i resti della Divisione Pinerolo, in azione nella Tessaglia, si unirono alle formazioni partigiane dell’Elas. Nel Montenegro, quelli delle Divisioni Venezia e Taurianense alimentarono le brigate della Divisione Garibaldi, che recarono un poderoso contributo alla guerra di liberazione.

    A Belgrado, si stagliò il valore dei battaglioni partigiani Garibaldi e Matteotti, nuclei della Divisione Italia, che, a fianco degli eserciti jugoslavo e russo, diede riconosciuto vigore alle operazioni in Slavonia fino al maggio del 1945 e alla liberazione di quelle terre. Dappertutto, fu versato sangue italiano. Come in Albania, dove le Divisioni Firenze, Arezzo e Perugia e i cavalleggeri della Monferrato sostennero aspri combattimenti contro i tedeschi per poi dar vita alla Divisione Antonio Gramsci, fornendo alla insurrezione albanese determinanti rinforzi.

    La Divisione Garibaldi in Montenegro

    La liberazione dell’Albania

    Tirana, 17 novembre: la parata nel giorno della liberazione

    Nell’agosto del 1944, l’anonimo soldato di Saliano, con l’esercito in rotta, fu tra quelli che rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi, rischiando così, se non la fucilazione, la deportazione nell’orrore dei lager nazisti. Con altri riuscì a sfuggire alla cattura e a rifugiarsi nelle boscaglie a monte del fiume Erzen, nei pressi di Tirana, sino a raggiungere il comando clandestino della Gramsci, chiedendo d’essere aggregato e di combattere dalla parte dell’Esercito albanese di Liberazione nazionale. Inquadrato come partigiano, non si tirò indietro dalle tempeste di fuoco fino al vittorioso epilogo. Il successivo 17 novembre, a conclusione delle ultime tre settimane di continui, durissimi combattimenti, Tirana fu definitivamente liberata.

    Un sagrestano comunista

    Tornato in patria, riconosciuto ufficialmente come “Partigiano per gli Italiani” combattente all’estero dal ministero dell’Assistenza postbellica (con nota del 16 ottobre 1948 inviata al Comitato provinciale dell’Anpi di Cosenza), il reduce di guerra (ri)costruì la sua vita, con l’aiuto del parroco, che lo applicò come sagrestano nella chiesa della Madonna del Rosario. Si iscrisse al Partito comunista (Pci).

    partigiano-laurito
    La lettera che certifica l’impegno da partigiano di Laurito in Albania

    Lettere al partito

    Si dedicò, febbrilmente, alla sua istruzione, divorando libri e giornali. Prediligeva testi di storia e filosofia, saggi di politica, biografie e autobiografie delle personalità storiche che maggiormente lo affascinavano. Maturò, via via, la sua acerba confessione politica di puro comunista sino a farne un credo integralista, una fideistica ragione di vita.

    La esprimeva in fluviali lettere, indirizzate ai leader del Pci, un po’ per complimentarsi quando sentiva di farlo, un po’ per dispensare consigli e proposte, molto per richiamarli alla coerenza con i dettami del marxismo. Non pare ricevesse risposte, ma lui si sentiva appagato per il semplice fatto di aver detto la sua e di avere assolto i canoni della sua ortodossia.

    La biblioteca di un ex analfabeta

    Di frequente, nei pomeriggi d’estate, i paesani lo vedevano seduto sui gradini esterni all’ombra di qualche casa, al centro del borgo, con la testa china, concentrato nella lettura e pronto a compulsare uno dei vocabolari della sua ricca collezione, alla quale non mancavano dizionari dei sinonimi e contrari.

    Alcuni libri della biblioteca personale di Giovanni Laurito

    Nella biblioteca domestica dell’anziano partigiano tuttora campeggiano, tra i tanti altri, libri su Marx, su Lenin e sulla Rivoluzione d’ottobre, sul Risorgimento e, persino, un testo della Costituzione cinese; scritti di Rousseau (Origini della disuguaglianza), Stuart Mill (“Saggi sulla religione”), Antonio Labriola (“Lettere a Engels”), Antonio Gramsci (“Americanismo e fordismo”), Aleksandr Sergeevic Puskin (“Storia di Pugaciov”); Cesare Beccaria (“Dei delitti e delle pene”), Giuseppe Garibaldi (“Lettere”).

    Non mancano ritagli di giornale, tra i tanti, tutti significativi dei suoi interessi e della sua sensibilità politica: “La discussa eredità di Mao” (L’Unità, 23 settembre 1979); “Tartassati da uno Stato spendaccione” (Gazzetta del Sud, 14 febbraio 1988); “La ritardata notifica di provvedimenti cautelari provocherà l’esodo dei boss del maxiprocesso” (Gazzetta del sud, 3 giugno 1988).

    Il compleanno di Giovanni Laurito festeggiato con gli altri ospiti della casa di riposo di Malito

    Piuttosto restìo a raccontare il suo passato, Laurito ha dovuto compiere cent’anni (festeggiatissimi nella casa di riposo di Malito, dove da anni si trova), perché venisse fuori la trama d’una esistenza, la sua, votata alla più ferma aderenza alle proprie idee e battagliata, su più fronti, sempre in lotta di liberazione, prima, dalla tirannia, poi, dalla ignoranza. Del Partito comunista continua a sentirsi «militante e portabandiera». Nella sua quadratura culturale, gli viene facile conciliare cattolicesimo e marxismo, con radicale persuasione. «La mia idea – taglia corto – è stata ed è questa. Non la cambio proprio ora, no!».