Autore: Luca Irwin Fragale

  • STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

    STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

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    Strade perdute sono pure quelle del mare, ammettendo che possano chiamarsi così. Del resto, sempre di mappe si tratta. E allora c’è una storia da raccontare in merito ad un’isola-non-isola, che sarebbe sorta a metà strada tra il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara. Assomiglia un po’ alla storia tutta siciliana (o quasi) dell’Isola Ferdinandea. Nel nostro caso, però, si tratta di una faccenda che ancora oggi resta in bilico tra leggenda e scienza.

    I più scettici vi parleranno di un errore cartografico, e basta; o, al limite, di una coincidenza. I più fantasiosi vi parleranno di un’isola, magari pure temporaneamente abitata, e poi scomparsa per chissà quale motivo. Io mi metto in mezzo e provo a stemperare le due diverse anime, una più rigida dell’altra, aggiungendo un dettaglio abbastanza sorprendente, che non deve passare inosservato.

    L’allegoria del mostro marino in prossimità del vortice di Albidona (G.A. Magini, Italia, 1620)

    Il mostro e il Vortice

    Un’edizione del 1620 della Carta d’Italia di Giovanni Antonio Magini mostra un’interessante allegoria del mostro marino nelle sue prossimità. Nel 1785 la Marina Borbonica si spinse invece nello specchio di mare limitrofo alla Torre di Albidona. Lì riscontrò una sorgente subacquea e “il grandioso vortice marino sinistrorso, alla profondità di m. 32,20, a km 1,3 dalla Torre”.

    Il tiranno nella Secca

    Nel Banco di Amendolara si incagliarono nel 379 a.C. le flotte inviate da Dioniso il Vecchio, tiranno di Siracusa, per distruggere Thurio. Nel Libro Rosso di Taranto del 1463 si regolamenta l’esercizio della pesca nel Banco, inaugurando una serie di provvedimenti dei Viceré spagnoli, i quali riconoscevano diritti esclusivi di pesca a favore dei tarantini. La Commissione di Studi sul regime dei litorali del Regno vi recuperò nel 1936 un’àncora lignea con chiodatura bronzea, rivestita di piombo, e risalente al IV secolo a. C. (nonché identica a quelle recuperate al Porto di Siracusa). Si fecero avanti ipotesi sul passato morfologico della Secca: residuo di un’isola o addirittura di una penisola? Qualcuno si spinse prudentemente a dichiarare che la Secca fosse in passato emersa, sì, dall’acqua… ma non meno di 8.000 anni fa.

    Il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara nella Carta batilitologica del Sinus Thurinus, su fondo rilevato dall’Istituto Idrografico della Marina

    Oggi è una notissima secca di 31 km², a forma di ferro di cavallo con la concavità rivolta in direzione sud-ovest, adiacente al Vortice di Albidona e prospiciente la marina di Amendolara ad una distanza di circa 10 miglia dalla costa. Pescosa e pericolosa per le imbarcazioni, si erge infatti dai 200 ai soli 20 metri di profondità (addirittura solo 14 nel 1891).

    Isola o arcipelago?

    I latini registravano la presenza di un’isola Elèctoris (ma più corretto sembrerebbe Electris e poi Electra), detta anche Febra da Servio. Altri scrittori, sulla scorta di Plinio, hanno affermato l’esistenza di una o più isole nella zona, credute sommerse a causa di cataclismi “o che sian tanto piccole che appena si vedono, o le suppongono scogli, o che da cinque sian ridotte a due, a tre, e che l’arcipelago nel secolo XV più non era”.

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    L’Electris, sive Febra insula nell’Italia di Georg Horn (1595)

    Leandro Alberti, nei primi del Cinquecento ne avrebbe viste però ancora due seguendo la via lungo l’Esaro.
    Non è finita qui: è proprio una Electris, sive Febra insula, quella che nel 1595 i cartografi Ortelio e Horn registrano nelle loro opere Magna Graecia e Italia nam Tellus/Graecia Maior.
    A rendere la questione più confusionaria è poi la presenza delle piccole isole Cheradi, di fronte al porto di Taranto: nelle mappe geografiche più datate, infatti, alcune di esse vengono spinte fin quasi nel mezzo del golfo, assumendo nomi non sempre omogenei tra loro.

    Il grande equivoco

    Nel 1608 Magini diede alle stampe la sua prima Carta d’Italia, ponendo nel bel mezzo del Golfo di Taranto un’isola mai sentita prima: Monte Sardo. Egli stesso se ne accorse e corresse la svista nella successiva edizione del 1620. Troppo tardi: la diffusione della prima mappa era ormai irrimediabile. Se ciò sembra poco bisogna pensare non tanto al valore economico di quelle mappe, ma alla loro funzione di fonte per le mappe successive. Le carte che presentano quest’isola coprono la bellezza di due secoli di produzione cartografica, in cui sono coinvolte le firme dei più grossi nomi della cartografia europea.

    Ora, la tesi della svista sarebbe inconfutabile se non fosse che, appunto, l’Isola di Monte Sardo coincide spesso con quella già denominata Electra vel Febra Insula, proprio alla maniera latina, in modo molto più suggestivo ed allusivo. E allora torniamo a Magini e al suo errore. Anche lui utilizzava una fonte, e si trattava dell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Stigliola (1582). Bene: una copia di quest’atlante riporta a sud-ovest di Taranto un appunto di mano dell’autore, che raffigura un profilo di collina con la sottostante denominazione Monte Sardo.

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    La prima apparizione di Monte Sardo, nell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Nicola Antonio Stigliola, 1595

    L’isola c’è o non c’è?

    Per alcuni, questo disegno non si riferirebbe ad un’isola ma ad un rimando “fuori mappa” all’altura sulla quale sorge il comune di Montesardo, situato in Terra d’Otranto a 186m sul livello del mare, pochi chilometri a sud di Alessano, uno dei paesi più elevati delle Murge Salentine, e perciò importante da segnalare ai navigatori. Non si capisce però il motivo d’aver segnalato ciò proprio in mezzo al mare, e proprio dove un’isola – con tutti i “forse” del mondo – c’era o c’era stata.

    E resta poi il nodo cruciale delle fonti che riportano l’Electra o la Febra: da dove l’avrebbero tirata fuori? Se sempre da Stigliola, perché allora attribuirle un altro nome? Altra cosa buffa ma indicativa: i toponimi Electra o Febra non si riscontrano mai contemporaneamente a quello di Monte Sardo. Insomma: è stato certamente un errore utilizzare la denominazione di Monte Sardo ma… è stato anche un errore indicare l’esistenza dell’isola? Non ne sarei per niente sicuro.

    Un ultimo indizio

    Pare abbastanza ovvio, a un certo punto, che la Secca e l’Isola (o pseudo-isola) coincidano. Esperti di geologia marina hanno chiarito che se il fenomeno di subsidenza fosse stato costante negli ultimi tre secoli, la Secca poteva ben essere rappresentabile come un’isola all’inizio del Seicento. Detto più chiaramente: se l’inabissarsi dei rilievi subacquei fosse stato uniformemente costante, ne deriverebbe che già soltanto sul finire del Settecento questi avrebbero fatto capolino attraverso il pelo dell’acqua.

    Ma resta ancora il dato più sorprendente, e peraltro assai poco noto: nella mappa denominata Magna Graecia etc., realizzata da Bertin nel 1699, l’Electris Ins. possiede l’esatta forma a ferro di cavallo con concavità rivolta a sud-ovest, così come è stata descritta in tempi recenti grazie alle attuali tecniche idrografiche e batimetriche. Come la mettiamo?

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    L’Electris Ins. nella Magna Graecia di Francesco Bertin (Padova, 1699)

    Due possibili ipotesi

    Ricapitolando, restano possibili due ipotesi. L’isola è esistita prima dell’incidente delle flotte di Dionisio il Vecchio. Deve esserne poi rimasto ricordo – in seguito alla sua scomparsa – presso i latini e le successive popolazioni indigene, fino al sopraggiungere dei più moderni mezzi cartografici che hanno decretato la giusta cancellazione di questo rilievo dal Golfo di Taranto.

    Oppure, più probabilmente, l’azione erosiva deve essere stata – dall’epoca di Thurio in poi – non del tutto progressiva ed ininterrotta e, tra l’altro, alternata forse a riemersioni sporadiche dell’isola, soprattutto nel periodo di compilazione delle carte geografiche storiche. I motivi di una scomparsa del genere possono essere molteplici. Da una semplice azione erosiva marina alla subsidenza dei fondali e alla convulsione tellurica della costa, fino a qualche evento eccezionale, non ultimo un maremoto.

    L’isola gemella (eterozigote)

    A differenza della sicula gemella eterozigote Ferdinandea, l’isola Febra, Electra o di Monte Sardo, non provocherebbe mai – qualora rinascesse – conflitti internazionali, innocua com’è e inglobata com’è all’interno delle acque territoriali del Golfo di Taranto, tutto italiano, senza perciò poter dar adito a polemiche sul suo assorbimento o meno nella piattaforma continentale. Al più potrebbero sorgere dissidi tra gli enti locali costieri per aggiudicarsene l’amministrazione o, più probabilmente, per liberarsi da inattese incombenze. Che resti, allora, a sonnecchiare tranquilla…

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    L’Isola Ferdinandea, in un dipinto del 1831 (fonte Wikipedia)

     

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    Certe strade le puoi evitare, altre no. Spesso si fa fatica ad accorgersene, ma esistono tratti di strade insostituibili o quantomeno insostituiti per varie ragioni, innanzitutto per problemi oro – ovvero idro – grafici. Uno di questi lo avete percorso chissà quante volte, senza sapere di questa caratteristica: è un minuto scarso d’auto, un chilometrino e mezzo della SS 18 nel Comune di Cetraro. Non può essere aggirato in nessuno modo, a patto di non voler trasformare 1 minuto in una deviazione di 1 ora e 40’ (provare per credere, interrogate Google Maps). Sto parlando di quel breve tratto tra l’ospedale di Cetraro e “Cavinia”. Anzi, ad essere più precisi, tra il bivio per la contrada Bosco che sale su per le colline – dopo aver lambito l’imponente Casino De Caro con la sua cappelletta – e i tornanti che scendono, appunto, a “Cavinia”.

    Tra Cetraro e Cavinia

    Tutto ciò perché? Perché da una parte c’è la monumentale scogliera dei Rizzi mentre, dall’altra, a dividere a nord il Comune di Cetraro da quello di Bonifati c’è una vallata abbastanza feroce, decisamente invalicabile (il Fosso S. Tommaso), che si insinua con queste fattezze per un bel po’ di chilometri nel mezzo delle montagne, sconfinando nel Comune di Fagnano, nella zona del Lago della Paglia e di quello dei Due Uomini. Quindi, niente da fare: ci si è messa probabilmente anche una storica inespropriabilità dei possedimenti annessi all’antico Casino Falcone (oggi Grand Hotel San Michele), attraverso i quali forse qualche via di comunicazione d’emergenza avrebbe potuto infilarsi. Roba da poco comunque.

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    Cavinia vista dall’alto

    Ho messo Cavinia tra virgolette perché Cavinia non esiste. È nome di fantasia dovuto al fatto che il complesso residenziale piazzato nel mezzo di quella caletta fu costruito dall’architetto Cava. Piccola digressione storica: Cavinia non è altro che “l’infame renajo di Santa Maria l’Ascosa” (Leopoldo Pagano, Natura, economia, storia in Calabria: studi sulla Calabria, 1892), “ov’era una chiesetta greca, ed ove è ora un fiumicello, ch’è principio del Cedrarese”. Esatto: ancora oggi, l’infame renaio di Cavinia è diviso esso stesso in due, la metà settentrionale, con il lido, a Bonifati e quella meridionale – un concentrato di palazzine da villeggiatura, ficcate in mezzo a due binari, sotto a un viadotto e di fianco al riverbero bollente della scogliera – a Cetraro. In mezzo al confine, 2022, un ponticello malsicuro, alla faccia dell’ingegneria idraulica ‘i nuàutri.

    Le torri sulla scogliera

    Sopra la scogliera, deturpata dall’ascensore per il mare, la Torre di Rienzo, infine la foce del torrente Triolo, “luogo anche infame per assassini” – scriveva sempre Leopoldo Pagano – e l’antichissimo Casino Del Trono (un nobile Giovanni Del Trono viveva a Cetraro già nel 1323), oggi soffocato dall’Ospedale. Diciamone anche un’altra: la romanticheggiante Torre di Rienzo non è altro che la vecchia Torre dell’Acqua Perropata o Derupata (com’è registrata nell’elenco di Acton), dal nome della piccola cascata a mare posta lungo lo strapiombo della ‘Ncramata.

    Rienzo, o Renzo, proviene probabilmente da quel tale Lorenzo Daniele che ne fu torriere tra il 1668 e il 1669. Della sua stalla annessa, anch’essa seicentesca, non resta che qualche traccia. La torre, invece, fu rimessa in sesto nel 1761 da tre mastri architetti di stanza a Cetraro (un cetrarese e due fratelli originari di Rogliano, vedi ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, f. 33v).

    Cetraro e i suoi toponimi

    Anche Cetraro, insomma, parla del passato se la si ascolta sulle strade secondarie, con i suoi toponimi e idronimi che tradiscono origini abbastanza chiare e mescolate: il fiume Aron (da cui appunto Citra-Aron, che nulla ha che vedere con i cedri), il ponte Caprovini, le contrade Arvàra, Caparrùa (caput ad ruam), Dattilo, Sopralirto, Acquicella, Aramaticòie, poi divenuta Rammaticò, San Milanone. Discorso diverso va fatto per la lontana contrada Sant’Angelo, una sorta di zona franca perduta in mezzo alle colline, a 9 km dal centro storico: un piccolo paradiso semiabbandonato, gli abitanti recidivi vi costruiscono ancora palazzine per rimanervi.

    Spicca una casa che doveva essere la più importante della contrada, un centinaio d’anni fa, baciata dal sole di sud-ovest anche in pieno inverno, poi la gloriosa scuola elementare “Torino”, chiaramente in disuso, esempio raro di volontariato belle époque (oggi da queste parti è più in voga tramandare una ferocissima morra), una lapide all’educatore Arcangelo Verta, la fredda chiesetta di San Michele Arcangelo, qualche albero di arance, zucche magrissime vicino al cimitero: chiedo a un contadino come mai siano così avvizzite e mi fa «non ha piovuto, povere bestie». Zoomorfia allo stato embrionale, anzi, brado. Forse in onore del leggendario montone che venne risucchiato dalla locale grotta-inghiottitoio dell’Avìsu (l’Abisso, e non ÀvisLavis come troppo spesso viene travisato) e poi ritrovato a mare qualche giorno dopo. Quann’allampa aru Citraru, vat’ammuccia aru pagliaru, ok, ma facendo attenzione a non cadere in buche insondabili.

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    Ruderi a contrada Sant’Angelo (foto L.I. Fragale, 15-8-2011)

    Verso il centro storico

    Da Sant’Angelo si potrebbe tornare direttamente sulla Statale senza passare dal centro storico. Ma occorrerebbe un 4×4 di quelli buoni, piccoli e agili, perché il primo pezzo è sterratissimo, anzi pietroso, e fortemente in pendenza. Ma vale la pena. Vale la pena raggiungere, in fondo al Vallone di Lappe, i meravigliosi ruderi del mulino sul torrente. E, a metà strada, passare per l’abitato (si fa per dire) di contrada Difesa e per quella magnifica masseria abbandonata con cappella annessa, un paio di tornanti più giù, sotto la rupe rossiccia.

    Nel centro storico è tutto categoricamente diverso: Cetraro ha un’impronta aristocratica e non la nasconde. Il corso principale assomiglia a qualche scorcio di Napoli, con le volumetrie imponenti dei suoi palazzi nobiliari: i De Caro, i due Del Trono, e ancora i Militerni, Giordanelli, Ranieri; la piazza affacciata sul mare sfoggia un discutibile Nettuno. A me pare più un efebo: barbuto sì ma con cosce e seni da ragazzetta. La cappelletta della Madonna del Pettoruto, paleo-franchising dell’omonimo santuario di San Sosti, riporta una lapide di cui il prelato estensore mi deliziò, anni fa, con la roboante recitazione di un Salve Regina riveduto di proprio pugno, fiero dell’assolutissimo ablativo di un “probante populo” fuori tempo massimo. Microcosmi e diversità, minuscoli habitat.

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    Ruderi del mulino del Vallone di Lappe (foto L.I. Fragale, 30-12-2021)

    1749, fuga da Cetraro

    Torno con la mente all’infame renaio di “Cavinia” e ricordo un atto d’archivio che incrociai anni fa: nel novembre del 1749 le autorità locali e centrali del Regno dovettero cercare di dirimere una questione resa spinosa dalla loro stessa burocrazia. Proprio a “Cavinia” si arenò infatti un’imbarcazione di marinai liparoti, di quelle che arrivavano in Calabria per venire a caricare uva passa, fichi secchi, vino e formaggi anche specialmente nei pressi di Capo Bonifati. L’equipaggio sbarcò per scampare i pericoli di un mare poco promettente. Ma le forze dell’ordine cetraresi lo ricacciarono in acqua, a seguito di un’ordinanza che vietava proprio ai liparoti di approdare nel territorio di Cetraro, in quanto usi al contrabbando e al furto.

    Il giorno seguente, l’imbarcazione naufragò e i marinai raggiunsero fortunosamente la riva. Lo zelante luogotenente pose in fermo i naufraghi evitando – a fini sanitari – il contatto di questi tanto con la gente del luogo quanto tra loro stessi. Nel frattempo chiese lumi al Governo centrale. Dopo ben nove giorni, da Napoli si dissero assai poco soddisfatti del resoconto ricevuto. Chiesero perciò che venissero fornite informazioni più dettagliate, con buona pace dei disgraziati che già da due settimane si trovavano confinati sulla spiaggia.

     

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    Contrada Acquicella di Cetraro, edilizia rurale (foto L.I. Fragale, 16-8-2007)

    La corrispondenza continuò così, con cavillose questione di lana caprina tra le due amministrazioni. Tanto che, nel frattempo, dopo circa 15 giorni trascorsi all’addiaccio, i naufraghi comprensibilmente esausti approfittarono delle condizioni metereologiche favorevoli e si rimisero in mare senza vela e a forza di soli remi (ASCS, Regia Udienza Provinciale, busta 28, fasc. 255). Lavoratori del mare e figli del mare, sulle sue acque si sarebbero nuovamente diretti per ritrovare, con un po’ di fortuna e molta fatica, le proprie dimore, con buona pace della burocrazia borbonica e pure del tirrenico santo calabrese, protettore di pescatori, sì, ma anche di marinai. Ancora una volta: benvenuti in Calabria?

     

  • STRADE PERDUTE| Si fa presto a dire “Calabria”: a ciascuno il suo Nord-Est

    STRADE PERDUTE| Si fa presto a dire “Calabria”: a ciascuno il suo Nord-Est

    Stavolta proviamo a entrare in Calabria dall’angolo in alto a destra. Una strada oggi ancora pericolosa, ma antica e in perenne via di ammodernamento, scende lungo tutta la costa altoionica pugliese, lucana e ca­labrese. Il tratto lucano, dritto, monotono e trafficato non meno degli altri, è battuto spesso da un sole impietoso, allontanato ogni tanto da qualche filare di eucalipti. Ad est il mare, in lontananza la costa salentina o quasi. Ad ovest le campagne: vite e grano in prevalenza. Anche questa strada, sebbene priva di dislivelli e di particolari asperità, era piuttosto sconsigliata fino a tutto l’Ottocento. Figurarsi – ho le prove – che quando nel 1865 una giovane di Roseto Capo Spulico dovette sposare un nobile di Pisticci, la famiglia di lei vi si recò in barca, facendo scalo a Metaponto. E non certo per diletto.

    La Calabria che non c’è

    Benvenuti in Calabria? Nemmeno stavolta. Non del tutto, almeno. Mettiamo piede in quest’isola nell’isola, nell’Alto Ionio Cosentino, appunto. Un recinto di cui non si capisce ancora bene dove stia l’inizio e dove la fine. Vada per i confini geografici (una fiumara o l’altra, a sud o a nord, poco cambia; qualche crinale che fa da spartiacque ad ovest; il mare, indiscutibilmente, ad est); vada per i confini linguistici (la famosa – davvero? – Area Lausberg), vada per quelli ufficiali (la Comunità montana?); ma io mi attengo ai confini “umani”. Non siamo forse più in Basilicata (e dico forse), ma col cavolo che siamo davvero in Calabria. Targhe a parte, prefissi telefonici e codici di avviamento postale a parte, non c’è proprio niente che possa suggerire d’essere entrati in provincia di Cosenza.

    La zona altoionica nell’Italia di Giovanni Antonio Magini (1620)

    Chi vive qui ha come punto di riferimento nemmeno Matera, no, ma addirittura Taranto (due Regioni più in là, come se niente fosse). Il suo ospedale, ad esempio, o i centri commerciali lucani. A Cosenza, proprio, nemmeno ci pensano. In comune neppure l’accento e, soprattutto, nemmeno gli atteggiamenti o l’umorismo, lo spirito. E del resto si tratta di un brandello di territorio che storicamente ha altalenato nella sua pertinenza ora alla Calabria ora alla Basilicata. E non solo: periodicamente, numerosi gruppi di cittadini di queste zone si uniscono proprio per chiedere l’annessione alla Basilicata.

    Perché se l’attuale territorio della provincia di Cosenza corrisponde pressoché fedelmente a quello della plurisecolare Provincia di Calabria Citeriore, è pur vero che il suo ultimo lembo nordorientale si trova attualmente al di là di quella Petra Roseti che per lunghissimo tempo ha segnato il confine fra la Val di Crati e la Terra Giordana, indicando perciò l’ingresso in Lucania. Come a dire che nel Cosentino c’è un Alto Jonio, sì, ma pure un Altissimo Jonio dall’anima ancora più estranea: Rocca Imperiale, Canna, Nocara.

    Nocara, Armi S. Angelo, rupe ovest

    Lasciando la SS 106

    Anche qui, come sull’altra costa, tanti paesi hanno voltato le spalle ai monti e alle campagne per mascherarsi in chiave balneare finché si può. E allora anche qui, per non farmi ingannare, provo per una volta a bypassare la 106 e a inerpicarmi per una strada che non conosco. La prima strada che valichi il confine più all’interno rispetto a quest’ultima. La prima non sterrata, intendo; la prima che porti da qualche parte, manco si trattasse del confine USA-Messico, Serbia-Montenegro (e chi più ne ha più ne metta), da controllare a vista attraverso pochi varchi e troppi doganieri nevrotici. E allora parto da Valsinni (MT) e prendo una stradina fortunosamente asfaltata.

    I miei appunti sul cruscotto parlano chiaro, non c’è che dire (mi rifiuto di usare i navigatori e suggerisco di fare altrettanto): “a sinistra al bivio per Rotondella / al cippo a sinistra / al bivio dopo il cippo: a destra per Nocara / al bivio tra i faggi: a destra”. Più chiaro di così… Dopo vari tornanti su pendenze discutibili su per il Monte Coppolo e qualche bivio enigmatico, da testa o croce, la stradina mi porta esattamente dove volevo. Diciamo in Calabria. Ma sarebbe meglio dire nel pieno dell’Alto Medioevo, a Serra Maiori, giusto ai piedi dei resti della cittadella di Presinace. Un po’ come a Frittole.

    Un angolo della zona archeologica di Presinace

    Riti e palazzi

    Da qui posso continuare a occhi chiusi, quindi mi fermo e invece li apro, perché in pochi posti vale la pena farlo come in questo. Ci sono già stato e ci sono tornato almeno altre tre volte: 10 minuti (a piedi) dal bivio per l’area archeologica e si arriva nel punto in cui la stradina passa in mezzo alla fenditura tra due magnifiche rocce: è l’Arma dei Gatti, o le Armi S. Angelo (‘armi’ alla greca, nel senso di ‘grotte’). Un giovanissimo Lorenzo Quilici (Siris-Heraclea, Roma, 1967) vi trovò sulla sommità vasellame magnogreco e indizi della remota presenza di un luogo di culto.

    Da qui veniva poi la pietra utilizzata un paio di secoli fa per i portali dei palazzi nobiliari di mezza Calabro-Lucania, qui leggenda vuole che si facessero – ancora in tempi non lontanissimi – riti pagani per supplicare fertilità. Di certo non è un sito che possa lasciare indifferenti: vento costante, anche ad agosto può esserci nebbia (vi assicuro), si cammina su un crinale stretto, ad ovest lo sguardo scivola verso le campagne lucane, giù per la valle del Sinni, e sconfina fino a chissà dove, cime dopo cime, abbracciando mezza Basilicata.

    Armi S. Angelo, le rupi viste da nord (foto L.I. Fragale, 5.8.20)

    Fuori dal contemporaneo

    Ad est lo sguardo rotola in Calabria verso le campagne di Rocca Imperiale e il mare. Anzi, da qui si gode una prospettiva del tutto inusuale: il castello di Rocca Imperiale lontano, minuscolo, giù in basso, mostra i suoi bastioni posteriori sulle rupi spoglie, senza il paese a fargli da solita cartolina presepiale ai suoi piedi. Sembra di intravedere Adso e Guglielmo da Baskerville, avvolti nei loro mantelli, Brunello che si gettava felice nelle feci umane sotto la torre. Ma che bestia! Che cavallo! E invece c’è solo rumore di vento, campanacci di vacche, un toro che se le controlla, una minuscola sorgiva in mezzo all’asfalto (è una sorgiva, è una sorgiva, niente tubature a quest’altezza).

    Il castello di Rocca Imperiale, visto da ovest

    “Da qui, messere, si domina la valle…”, diceva Astolfo. E invece no, è soltanto un’oasi che resta tagliata fuori dal contemporaneo: il capoluogo della provincia a due passi da qui è stato Capitale Europea della Cultura nel 2019 (che sembra già un decennio fa). Ma di quale Cultura, l’abbiamo notato? Queste erano le categorie di classificazione dei vari eventi: Digital / Sport / Design and architecture education / Circus / Food / Dance / Street art / Contemporary art / Classical art / Theater / Photography / Cinema / Music / Literature (quest’ultima categoria è stata confinata in altri paesi fuori dal capoluogo).

    Nessun evento a Matera ma ben 4 letture di brani a Melfi e Rapolla, una delle quali alle 10:00 di mattina del 30 marzo: come non esserci?; uno a Villa d’Agri; uno addirittura nella lucanissima Brescia; un contest di poesia a Muro Lucano – ma perché poi la poesia si presta tanto alle competizioni? boh – e ben 9 a Policoro, di cui 5 sul ‘giallo’ lucano, nuovo genere di cui non s’aveva notizia. E nessuna menzione di Albino Pierro, di Rocco Scotellaro, di Isabella Morra (e chi se li ricorda più? anzi, chi li ha mai letti?). Ma, soprattutto, mancano alcune paroline: History, Anthropology, Nature, Landscape/Environment e magari qualcosa d’affine, che in un programma del genere ci si aspetterebbe pure (perché mica in queste terre c’è mezzo Parco del Pollino, mica è un pezzo di Magna Grecia, mica Alan Lomax o Ernesto De Martino ci hanno messo mai piede, no).

    Armi S. Angelo, rupe est (foto L.I. Fragale, 5.9.17)

    Tutto il paese è mondo

    Tutto insomma è declinato alla subcultura d’evasione. O a quella della fuffa del primo che si sveglia la mattina e si autoincorona fotografo o street artist quando non entrambe le cose o, peggio, curatore degli stivali dei suddetti. Tutto in sintonia con i gusti personali del discutibile direttore artistico di turno (artistico, appunto, eppure ben poco culturale). L’indirizzo, anzi, l’obiettivo mi pare chiaro e perfettamente in via di conseguimento. Continuiamo così, barattiamo ciò che abbiamo con ciò che non ci serve affatto.

    Tutta l’Italia è paese. Anzi, tutto il paese s’atteggia a mondo. Cade a pennello il modo di dire delle nostre parti, “ni tìani munnu!”, che si rivolge di solito a chi ostenta ricercatezze, fisime o vittimismi smisurati. Nel frattempo, e prima che sia tardi, fatevi un regalo: andateci, a Nocara. Godetevi con estrema lentezza i tornanti che scendono giù per i suoi dirupi, in direzione Oriolo-Montegiordano, mentre qualche rapace vi volteggia in testa. State tranquilli, non ce l’ha con voi.

    Nocara, vista da sud

     

  • STRADE PERDUTE| Calabria: un’isola ai piedi del Pollino

    STRADE PERDUTE| Calabria: un’isola ai piedi del Pollino

    “Qui non si gode immunità”. Così recita una lapidetta ottocentesca sulla facciata di una chiesa a Morano Calabro. A pensarci bene, messa lì, sulla metaforica porta d’ingresso della regione, oggi suona quasi come un monito: “benvenuti in Calabria, a vostro rischio e pericolo”. Si scherza, ovviamente, ma, d’altro canto, a poche centinaia di metri da lì non venivano esposte le teste dei briganti infilate sulle colonnette ai margini della strada? Senza farla lunga, il fatto è che a cavallo tra Sette e Ottocento la Chiesa e il Regno di Napoli concordarono che taluni luoghi di culto fossero esenti dal dover garantire il rifugio ai colpevoli della maggior parte dei reati.

    Morano Calabro. Iscrizione ottocentesca sulla facciata di una chiesa (Foto L.I. Fragale)

    La Calabria come un’isola

    E però oggi, in tempi di ambite immunità di gregge, questa iscrizione suscita pure qualche riflessione in più. Lo annotavo due anni fa, all’alba del lockdown: «La Sicilia chiude. La Sardegna chiude. La Val d’Aosta idem. Se si escludono due spiagge, due fiumare, due linee ferroviarie, porti e aeroporti, un numero indefinibile di sentieri escursionistici, fiumiciattoli e strade sterrate, gli unici accessi alla Calabria sono 1 autostrada, 3 strade provinciali, 4 statali e circa 14 comunali. Una ventina di strade. Quest’è tutto. Intelligenti pauca».

    E, di riflessione in riflessione, viene pure da pensare a quanto in realtà la Calabria sia, sì, geograficamente peninsulare, ma forse assai più intimamente insulare: una metaforica isola vera e propria, tagliata fuori dal resto d’Italia da quell’enorme sipario roccioso del Pollino, che per secoli deve essere stato un discreto deterrente rispetto alla possibilità di fare due passi più a Nord. Lo guardavi da Sud e probabilmente ti passava la voglia di valicarlo. Volendo esagerare si potrebbe dire che è molto più insulare lei che una stessa Sicilia, appiccicata com’è questa a Villa San Giovanni e quindi al ‘continente’ (ponte o non ponte, visto che qualcuno attraversò lo Stretto a nuoto, e ahilui non in omaggio all’Horcynus Orca).

    Il massiccio del Pollino visto da Sud

    Ancora una riflessione, alla quarta potenza: mi pare che la perifericità del Sud (tutto) faccia sì che involontariamente, inconsapevolmente, i suoi abitanti abbiano maggiore conoscenza della geografia rispetto ai settentrionali. Un paradosso, ma come a dire: necessità fa virtù. Se non fosse che resta molto spesso una conoscenza, appunto, confinata al bisogno: meramente istintiva e perciò acritica.

    La prima grande strada della Calabria

    Ma, dicevo, il sipario roccioso: se ne riconoscono a memoria, da sinistra a destra, le cime principali. La rotondità di Serra del Prete, la piramide del Pollino, il triangolo isoscele della Serra Dolcedorme, la linea lunga della Manfriana e poi le rupi sopra Frascineto, e ancora più a destra le obliquità taglienti del Monte Sèllaro

    Eppure a valicare questo massiccio ci riuscirono – ovviamente prima di Cristo (a quei tempi non servivano i miracoli. Nemmeno per i Lavori Pubblici) – con la Via ab Regio ad Capuam, o Popilia, la prima (e ultima?) grande strada calabrese, di cui oggi l’autostrada ricalca paro paro (o giù di lì) tutto il percorso, quantomeno dallo “svincolo” di Nerulum (…), addirittura più di quanto l’avesse ricalcato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) che, a differenza della Popilia, oggi sopravvive leggermente meglio e in più punti.

    Trattorie e McDonald’s

    L’ho voluta percorrere praticamente tutta, questa qui, da Salerno a Palermo, in due sole ed estenuanti tappe, perché lo dico spesso: l’autostrada sta alle vecchie strade come un McDonald’s sta a una trattoria. E mi pare sufficiente. Eppure anche nei luoghi più impensati non c’è verso di salvarsi da certe ovvietà, da certi appiattimenti subculturali inutili, se non altro: perché bisogna chiamare “via Posillipo” un pezzetto della vecchia Strada Regia, peraltro in piena montagna?

    Appena un pezzo di strada si infila in un tessuto urbano o, meglio, viceversa: appena un tessuto urbano cresce e ingloba un pezzo di strada antica e usurpa dignità di Comune sopra o sotto gli X abitanti, ecco tutto un fiorire di toponomastica e odonomastica da brivido. In Calabria come altrove. Ricordo, in un paesino nel mezzo del ridente Polesine (sì, certo che è ironico) una stradina intitolata a Eduardo De Filippo. Anzi: ovviamente ad Edoardo. Con la o. C’era da aspettarselo: ‘l male, ‘l malanno e ‘l danno all’uscio, direbbero nel senese.

    Non divaghiamo: questa vecchia strada, questa spina dorsale viaria (e scoliotica assai) c’è più o meno tutta, non è scomparsa. Basta cercarla e trovarla senza cascare nei tranelli (sfogliatelo almeno, vi prego, lo straordinario volume di Luca Esposito, La Strada Regia delle Calabrie. Ricostruzione storico-cartografica dell’itinerario postale tra fine Settecento e inizio Ottocento da Napoli a Castrovillari, st. Marostica, 2021).

    La Dirupata

    Certo, ricordo il tratto campano chiuso per frana (Petina-Polla), un brevissimo tratto lucano (ingresso da Nord nel centro abitato di Lagonegro) ufficialmente riservato ai residenti, e quindi tutto il tratto in Calabria da Laino a Mormanno, ufficialmente chiuso per frana ma regolarmente utilizzato dai locali (almeno al 2014). Poco più oltre si giunge a Campotenese, ignorando un incrocio per una sorta di sentiero dorato da Mago di Oz, che conduce verso luoghi di cui parlerò un’altra volta. E si arriva così alla famigerata Dirupata, a nord-ovest di Morano.

    La Dirupata nuova (in basso a sx) e ciò che resta della vecchia (a dx). In fondo, l’autostrada

    La Dirupata antica è però fuori uso da almeno 60 anni: se ne intravede qualche tratto dalla Dirupata nuova, che vale comunque la pena di percorrere come surrogato di un ‘battesimo stradale calabro’. Quella vecchia, che sopravvive zigzagando sterrata rispetto al tracciato della nuova, è stata invece l’incubo di generazioni di palafrenieri, postiglioni, viaggiatori di ogni specie.

    Il miglior modo di viaggiare in Calabria

    Ripidissima, quasi sempre innevata, quasi a strapiombo sulla vallata sottostante. La gente ci moriva, le ruote schizzavano fuori, le diligenze scivolavano a valle tirandosi dietro cavalli e passeggeri. C’è un quadro ispirato proprio a questo luogo. Lo dipinse il calabrese Andrea Cefaly, nel 1866, e lo intitolò Il miglior modo di viaggiare in Calabria. Con dedica (si fa per dire) al Ministro dei Lavori Pubblici (all’epoca il lombardo Jacini, conte di Casalbuttano…).

    Andrea Cefaly, “Il miglior modo di viaggiare in Calabria”, 1866

    Eppure su questa strada sono passati tutti. Tutti, fino alla costruzione dell’autostrada. Che, se ci pensate bene, tanto remota non è. Tutti ci sono passati ma nessuno più se la ricorda. È stata percorsa da briganti, truppe militari, addirittura da quei carcerati tradotti a piedi, da regnanti, dagli stranieri del Grand Tour, da tutti i giovani che per secoli sono andati a studiare a Napoli (compresi tutti i nomi nostrani più celebri) e da chiunque avesse voluto o dovuto per ogni ragione dirigersi da una capitale all’altra, da Palermo a Napoli e viceversa.

    Vita da nobili

    E tra questi quel danaroso viaggiatore calabrese che nel 1836, di ritorno da un lungo giro dell’Europa, si fece comodamente trasportare addirittura in lettiga, mica in carrozza, da Morano fino ad Amendolara perché, scriveva, “questo modo di viaggiare è molto comodo nei paesi in cui non vi sono strade carrozzabili”. Più che giusto, noblesse oblige, caro il mio Alessandro Mazzario. E si chiude il cerchio, tornando a parlare di pandemie ed epidemie, perché lo stesso giovane calabrese scampò il colera di quegli anni (il colera che non risparmiò Leopardi, per intenderci).

    Viaggiare in lettiga
    Viaggiare in lettiga

    Durante la quarantena dentro a un lazzaretto si invaghì prima della figlia del luogotenente di guarnigione. Quindi conobbe due gradevoli imprenditrici toscane che avevano appena inaugurato una loro cappelleria a Madrid. Poi conobbe Edward Leeves col quale scambiava libri. Infine, si invaghì di una cameriera russa: “[…] Vi son poi due cameriere piuttosto graziose, e bastantemente svegliate per essere Moscovite. L’una di esse mi sorride tutte le volte che la guardo, e par che abbia gran voglia di farmi ricominciare la quarantina […]”. Insomma: quando si dice “prenderla con filosofia”.

    Il guardiano dell’autostrada

    Poco più oltre vale la pena di lasciare un attimo la Strada Regia, e perdersi nelle campagne di Castrovillari – prima di raggiungere la zona delle Vigne, una sorta di miglio d’oro senza mare –, tra le masserie di contrada Cutura, per arrivare fino al convento di Colloreto che tra Sei e Settecento pare fungesse da copertura per ospitare non tanto dei monaci ma qualcosa di equivalente ai Servizi segreti d’oggi, intenti a controllare ogni tipo di traffico obbligato sulla Strada Regia.

    Masserie in contrada Cutura di Castrovillari (foto L.I. Fragale)

    Il convento-fortino, con torre di vedetta anziché consueto campanile, si è salvato – per modo di dire – dalla costruzione dell’autostrada e dal recente ampliamento della stessa. Rudere silenzioso, resta a guardia pure del traffico e del suo rumore costante. In una specie di mise en abyme cronologica, le gallerie dell’autostrada si possono scorgere, tristemente, attraverso brecce e finestre, tra le sue mura di pietra a secco. Una ferita sacrificata per quale progresso?

     

  • STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    […] Successivamente a Sangineto s’è parato davanti il teatro umano più interessante, le due anime principali di quelle invasioni estive: la borghesia professionale cosentina da una parte e un pot-pourri di ceto medio, medio-basso e basso tra il partenopeo e l’avellinese. Nel mezzo, qualche fioritura di ceto medio e piccola borghesia cosentina, pure. A fare da cuscinetto o, appunto, da spettatore divertito. Le due anime di cui sopra, infatti erano a compartimenti del tutto stagni. Se comunicazione c’è stata, fidatevi, era quasi sempre fasulla. Pregiudizi da una parte, pregiudizi dall’altra (e so bene quali gli uni e quali gli altri. Ma anche quali verità).

    Tra i due litiganti

    A un certo punto, non appartenere a nessuno dei due gruppi è stato anche un salvacondotto per barcamenarsi o, più semplicemente, farsi i fattacci propri. Certo è che qualcuno dei secondi cercava di imitare i primi, mentre non ho mai visto il fenomeno contrario. Ma senza dubbio spenderei di nuovo le mie controre dei 12/13 anni come feci allora, con i peggiori scugnizzi che mi insegnavano la combinazione di tasti (e me la ricordo ancora) per scaricare tutti gli spiccioli dai telefoni pubblici, come delle slot-machine a disposizione per innocentissimi gelati o per qualche giro ai videogiochi. O assieme ai quali si improvvisavano rally in fangosissimi campi abbandonati, con Grazielle arrugginite e di fortuna: gradi di libertà.

    E altrettanto senza dubbio mi facevano piuttosto ridere (e oggi, a distanza di tempo, più pena che altro) certe mode cosentinissime: il colletto della polo alzato, la fetta di limone in quella birra lì, e soprattutto quella moda, durata per fortuna poche estati, di scendere dall’auto a piedi scalzi calcando con disinvoltura asfalto rovente e fetente – poca la differenza – davanti alle spoglie della microgattopardesca Villa Giunti, laddove pernottavano (ma ben dopo l’alba) monumentali cubiste dell’Est. Lì dove una volta c’era un ponte in pietra, quasi inspiegabile, che tirava dritto dal fianco delle chiesetta di San Michele fino al casello ferroviario ormai abbandonato.

    Azzilio, Ferrari e Doc Martens

    Ricorderei eccome nomi, volti e anche frasi specifiche. Ma a che pro? Ricordo il figlio del giudice, che non avrebbe mai messo piede in una Fiat (roba per poveracci, diceva). La nipotina di, lasciamo perdere, che quando le rubarono lo Scarabeo nuovo di zecca gliene comprarono immediatamente un altro, se no chi la sentiva… Quello che in spiaggia andava con le Dr. Martens perché così faceva più punk (molto, molto molto prima che diventassero obbligatorie già tra le ragazzine di V elementare), quello che… basta. E chissà quante cose davvero non ricordo. Pettegolezzi di 25 anni fa di cui, per fortuna, non m’importava nulla allora, figuriamoci ora.

    Ricordo articoli dell’epoca su rampolli, protettissimi dall’anonimato, invischiati in brutti giri di prostituzione d’alto bordo; le Ferrari fuori luogo, guidate da 18enni ubriachi o parcheggiate rigorosamente in bella vista (se no perché comprarne una?) nei giardini delle ville con o senza piscina, i rampolli di seconda o terza generazione, inspiegabilmente biondi (o forse molto spiegabilmente); tutti i cognomi e qualche nome (con l’incredibile incidenza di Attilio – pronunciato Azzilio – forse dovuta a endorsement trisavoleschi delle gesta dei fratelli Bandiera, boh, se no non si spiega). Ma non pensiate a coloriture ideologiche. Di ideologie nemmeno una lontana ombra, né da una parte né dall’altra. Superficialità, invece, quanta ne cercavate.

    Il finto carnevale bruziopartenopeo

    Uno squarcio in questa tela periodicamente imbrattata a tinte bruziopartenopee fu, ricordo, nel pieno dell’estate del… ’90?, un funerale tutto sanginetese. Dal primo piano di una casa del Lido, la salma mosse giù per la scala esterna, e portata in processione per il lungomare, con tanto di banda al seguito, come piace a me. E i turisti zitti, finalmente. A cuccia. Davanti a certe faccende è doveroso che riemerga una tacita gerarchia naturale: territoriale, prima ancora che sociale. Ecco perché dico che se volete capire Sangineto dovete andarci quando sveste gli abiti estivi, di quel finto carnevale di eccessi e di divertimenti certamente più sbandierati che reali. Dopo che gli acquazzoni di fine agosto ripuliscono il marcio del turismo e scacciano finalmente i villeggianti in città, a meritati calci nel sedere assieme alle loro chiacchiere da spiaggia, alle loro incoerenze involontariamente militanti e al loro vuoto a perdere.

    La vecchia natura di Sangineto

    È allora che riemerge lentamente la vecchia natura del posto, anche dell’unica contrada che il Comune ha sul mare: quella Contrada Le Crete dove alla fine dell’Ottocento furono addirittura scoperti resti di mammut (e chi volete che lo sappia?). Qui, da metà settembre, nell’unico bar che resta aperto anche fuori stagione riaffiorano i volti locali, gli uomini che tornano ai tavoli che occupavano – direi di diritto – negli altri dieci mesi, con le loro birre e i loro mazzi di carte. E, nel periodo consentito, si può vedere uscire in barca don Pietro con le frasche per preparare i cannizzi per le lampughe.

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    Sangineto Lido, prima metà del ‘900

    Il bar, dicevo: niente pubblicità, per carità, tanto uno ce n’è. Quel bar che è praticamente un faro, unica lucina accesa sul lungomare d’inverno. Una sicurezza, un’istituzione. Da Patrimonio Unesco: lo troverete aperto fino a mezz’ora prima di cena, il 31 dicembre. E di nuovo aperto il 1° gennaio, con tanto di alberello di Natale sul marciapiede, provare per credere. Molto più di un bar: una garanzia, quasi un servizio sociale, un approdo per naufraghi (in senso molto lato), con la signora dall’occhio vigile che ha visto crescere generazioni di bambini e bambine, poi adolescenti, risate e pianti.

    La festa è finita

    Poi a un certo punto (ora non ricordo bene l’anno ma fu una cosa nettissima, da un’estate all’altra) i riflettori si spensero in modo drastico. Dove ad agosto faticavi letteralmente per fare due passi nella folla, ora a mezzanotte contavi le persone sulle dita delle mani. Ricordo che si erano spostati tutti a Diamante, mi pare. Sarò maligno io, ma mi pare che la festa finì – così come finì per il tentativo di rinascita di Cosenza vecchia – quando morì Mancini. E in fondo tutto tornerebbe. Nascita, apogeo e morte di un fenomeno sociale. E nonostante l’ex voto dell’intitolazione a Mancini di un bel pezzo di strada sanginetese, vi fu sì una ripresa, lenta, difficile, ma mai in grado di eguagliare i numeri di prima. Soltanto mera emulazione dell’emulazione dell’emulazione: i ventenni di oggi, per il poco che veda, sono enormemente diversi dai ventenni di vent’anni fa. Come lo eravamo noi rispetto a paninari, yuppie rampanti & coevi, come lo erano questi dai pionieri fortunati di quindici anni addietro.

    I disonori della cronaca

    Più di recente, Sangineto cadde pure temporaneamente nei disonori della cronaca: Angelo era un cane e fu ucciso a sassate da un gruppetto di giovani sciaguratelli del paese. Non so come sia finita la storia, mi auguro abbiano dovuto prestare servizio gratuito (e controllato) in qualche canile, come minimo. O costruire con le proprie mani un monumento al malcapitato. Ma ovviamente da questa faccenda sortì tutta una stupida stigmatizzazione generica: indirizzata ai paesani tutti, prima, poi ai calabresi tutti, poi ai meridionali, poi agli italiani, a seconda della voce narrante. Solita sindrome del giudizio facile.

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    La statua di Angelo nel rione Monteverde a Roma, vittima della stupidità umana come il cane a cui è dedicata

    Sangineto plurale

    È come se ci fossero due Sangineto: non il paese e la marina, no. Ma da una parte quella di luglio e agosto, e dall’altra quella degli altri dieci mesi. Nella prima non metto piede da una decina d’anni. Nella seconda torno appena posso. Perciò, sia chiaro, non c’è assolutamente nostalgia in ciò che leggete, anzi. Semmai un’autoaccusa, in un certo senso, sia della mia passata natura – seppur scettica – di villeggiante, sia del mio attuale (ab)uso di dimestichezza da finto residente.

    Torno nei momenti più impensabili, a perlustrare per controllare che sia ancora intatto l’abbandono totale di certi minuscoli paradisi rurali scampati alla cementificazione a suon di smottamenti e disoccupazione. Di frane ed emigrazione. E di una spolverata di colpevole ignoranza. Toponimi che non dicono più niente nemmeno ai figli di chi è rimasto. Nemmeno a chi è rimasto, a rimbambirsi per decenni davanti alla tv. Relitti di un equilibrio perduto, magari non magnifico ma funzionante.

    Varese, Venezia, Courmayeur

    I sanginetesi emigrati, che tornano per l’estate (se va bene), hanno accento di Varese, perché dagli anni ’60 in poi se ne sono andati lì a frotte. Ogni paese, al Sud, ha la sua testa di ponte al Nord. Per Sangineto è Varese. Per Belvedere fu Courmayeur (ebbene sì: fatevi un giro nelle campagne di Belvedere, contate quante vecchie auto vedete targate AO e non sorprendetevi. Le belle baite alpine e gli chalet in legno della Val d’Aosta sono opera dei boscaioli arrivati dai monti di Belvedere. Anche qui: farsene una ragione. Come gli ontani usati per le fondazioni di Venezia erano – anche – quelli di Buonvicino, sopra Diamante, ottimamente refrattari a infracidirsi).

    Il sentiero dei ricordi

    Ma torniamo a noi… Il signor Pasquale, per esempio, è emigrato a 15 anni. Ogni tanto torna giù. A marzo del 2020 c’è rimasto bloccato per la pandemia. Non sapendo cosa fare s’è messo a ripulire un sentiero che da bambino percorreva per andare alla cascata dentro la grotta, in mezzo al bosco, a due passi dal paese (la cascata del Vuglio delle Forge, ed ecco ancora i toponimi a indicare le attività artigiane di un tempo, come Le Crete, qualora non bastassero – sparsi per le campagne sanginetesi – sopravvivenze di qualche carcara o di carbonaie): il sentiero l’ha trovato abbandonato, infestato dai rovi.

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    La cascata del Vuglio delle Forge

    Oggi, falce in mano, alla cascata ci accompagna gli escursionisti (sii come il Signor Pasquale, verrebbe da dire). Mi racconta che tutto quel sentiero e quelle fattorie abbandonate erano, fino a 60 anni fa, un pullulare di famiglie, bambini, lavandaie al lavoro giù al torrente, contadini inerpicati su per i pendii. «La vedi quella casa lì?» – mi fa, indicandomi una meravigliosa masseria a mezza costa, che oggi mi pare un rudere raggiungibile solo da qualche capra acrobatica – «lì ci vivevano tre famiglie». Non di quattro componenti ciascuna, immagino. Ma di quelle otto/dieci unità dove per sfamarsi dovettero inventarsi pietanze come la “cieca”, d’una povertà agghiacciante: acqua calda e farina rappresa; o la ricotta fatta con latte tagliato col latticello dei fichi.

    Sangineto, terra di nessuno

    Sangineto fuori stagione ha l’aria di un set cinematografico abbandonato, terra di nessuno pur sapendo che di qualcuno è. Ridiventa simile a tanti certi posti magnificamente desolati che ho visto in Croazia come alle Canarie (con le dovute differenze, ovvio). O come Tristan da Cunha, dove non andrò mai: l’isola più isolata al mondo, ormai famosa proprio per questo. Si trova in mezzo al nulla, nell’Atlantico (non nel Pacifico, come si potrebbe pensare: lì ce ne sono troppe perché ognuna sia sufficientemente distante dall’altra).

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    Tristan da Cunha, indicazioni per raggiungere il resto del mondo dall’isola più sperduta del pianeta

    È un’isola fredda, non una di quelle isole tropicali da pubblicità. È un’isola ostile, con poche risorse e ben poco da fare. Un bar e, fino a poco tempo fa, un solo computer connesso a internet. La posta arriva poche volte all’anno e la città più vicina, Città del Capo, sta a tre giorni e tre notti di peschereccio, se non ricordo male. Vi abitano poche centinaia di persone, tutte discendenti di naufraghi. Anche di naufraghi italiani. Nei periodi storici in cui gli uomini da matrimonio scarseggiavano, le donne invocavano qualche nuovo naufragio. Ma quando arriva qualche mero curioso allora si barricano tutti dentro casa per paura delle malattie (hanno difese immunitarie debolissime).

    Silenzio

    Ecco, io preferisco interpretare Sangineto come una personale Tristan da Cunha, senza bisogno di dover viaggiare tanto. Atlantide, in un certo senso, esiste. Ed è in tutti i luoghi che dimentichiamo, o che non abbiamo mai neppure considerato. Magari dietro casa, quelli rimasti nel silenzio. Il silenzio, appunto. Una volta la signora del bar mi chiese «ma cos’è che ti piace tanto, di qua?”. «Il silenzio», risposi. E lei: «certe volte questo silenzio è così forte che non ti abitui mai». Muto, anch’io.

  • STRADE PERDUTE| La banalità del mare: la Sangineto tutta “pippibaudi” e cotillons

    STRADE PERDUTE| La banalità del mare: la Sangineto tutta “pippibaudi” e cotillons

    Sangineto è ciò che non si vede. E, di conseguenza, non è ciò che vedete. Tanto per cominciare non è un “posto di mare”, piaccia o non piaccia, ma semmai è un territorio pedemontano “prestato” al mare. Prestato e mai restituito, o restituito malamente e in parte, con gravi segni dell’uso. Il mare, insomma, non è nelle sue corde e per convincersene basterebbe osservare la brevità della costa sanginetese (meno di 2 km) rispetto a quelle dei Comuni immediatamente confinanti (i 5,5 km di Bonifati – per intenderci: Cittadella – o i ben 10 km di Belvedere Marittimo): una costa che sembra più il residuato di una servitù di passaggio dal paese antico verso il mare, alla foce del torrente omonimo. Ancor più se si tiene presente quella strozzatura della mappa comunale a metà tra il mare e il paese, dove la larghezza massima è di appena 500m in linea d’aria.

    Prova del nove del carattere poco balneare di Sangineto? Dal paese, in genere, il mare nemmeno si vede, se non da un paio di angoli panoramici o da qualche balcone fortunato. Non basta? Parte del territorio comunale ricade nel Parco Nazionale del Pollino. Anzi, ha il primato di esserne la punta più meridionale. Come a dire: a Sangineto crescono i pini loricati, bisogna farsene una ragione. Anzi, i loricati più meridionali d’Italia, e quindi – superando addirittura i colleghi greci – i più meridionali d’Europa (e quindi del mondo, visto che fuori d’Europa non ve ne sono). Ancora non basta? Il confine comunale orientale, quello con il Comune di Sant’Agata d’Esaro, è una linea in mezzo ai boschi lunga ben 8 km. Altro che spiagge.

    Dal re agli amici degli amici

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    Schema del sistema viario del Comune di Sangineto (1901).

    Una mappa del 1901 segnala su Sangineto un sistema viario degno di una metropoli, e pertanto difficile – ma non del tutto impossibile – da riconoscere nell’attuale teoria di strade rurali secondarie. Una cartolina degli anni ’40 mostra ben 6 vedutine del luogo: ce ne fosse una del mare, o delle spiagge… niente di niente, non se ne raffigura neppure il castello, benché in quegli anni venisse visitato finanche dal prossimo Re di maggio, con tanto di foto d’ordinanza (ben prima di diventare discoteca in libero crollo per il pubblico pagante).
    La Sangineto conosciuta è invece un’altra: è quella chiassosa – anche metaforicamente – che nacque all’indomani delle speculazioni edilizie della prima metà degli anni ’60, quando per particolari congiunture vi confluirono interessi di investitori, appaltatori e amici degli amici.

    Sangineto, fase n. 1:

    Ne nacquero prima un grande albergo con i suoi improbabili bungalow (ora smantellati, dopo anni d’abbandono) e tutto un complesso residenziale più pretenzioso che realmente elegante, chiuso tra la ferrovia, l’albergo, il torrente e il mare. E poi altre ville più su, verso la statale, su quel pianoro che la toponomastica inopportuna ha pomposamente intitolato a un antico popolo (come ad altro popolo una sua traversa) e che io continuo a chiamare così come era sempre stato indicato sulle mappe: Renga. Lì dove spuntava un piccolo casino gentilizio e ancora spunta, sebbene oggi soffocata, l’antica Torre della Finanza (in cima alla rupe sopra al vecchio mulino) diventata poi per qualche tempo una discoteca dal nome fatato. Altro che Finanza.

    Sangineto, fase n. 2:

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    Le “Costellazioni” di Sangineto in un vecchio depliant di un albergo del posto

    Dove già esisteva qualche sparuta casa di contadini nasce, a nord del suddetto albergo, tutta una teoria scriteriata di edifici privati, villini bi e quadrifamiliari, villette a schiera e residence di gusto non proprio eccellente che, lasciando incredibilmente sopravvivere qualche ulivo secolare, si arrampicano dalle spiagge (allora sconfinate e punteggiate di bunker bellici, ora ridotte all’osso le prime, ingoiati dal mare i secondi) fin sulla strada statale. Terreno buono per ex bambine, mie coetanee, che diventeranno mogli di comici napoletani e, oggi, per padri di calciatori in vista o finanche per il fu Coriolano, mosca bianca stufa di posarsi sulla solita cosentinità a vocali sguaiate per lui poco renzelliane.

    Di case vecchie, qui, ne resta una in particolare, nel bel mezzo della piazzetta: da almeno 30 anni imbavagliata e incatenata a un sequestro giudiziario. Fa la sua Resistenza.
    Un’altra stava sotto al curvone alla fine del lungomare: se la mangiò in pochi bocconi una mareggiata, dopo il ’66. Come tante cose qui, era dei nobili Spinelli di Belvedere, che ancora in quegli anni venivano a cavallo, spiaggia spiaggia, a riscuoterne pigione.

     

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    Sangineto Lido, danni di una mareggiata. 30 agosto 1991 (foto L.I. Fragale).

    Le mareggiate, ho detto: ammesso che Sangineto e i suoi ‘utilizzatori’ abbiano abusato del mare, è altrettanto vero che il mare, qui violentissimo, s’è vendicato a piene mani, negli ultimi decenni, distruggendo più volte case e lungomare (fotografai una mareggiata, a fine agosto di trent’anni fa che, per quanto esistessero già le massicciate a T, creò una voragine in pieno lungomare, a due passi da quella casa ora in totale abbandono ma che già allora meritava il soprannome di “casa di Beirut”, per quanto oggi sembri sul serio bombardata).

    Sangineto, fase n. 3 (abbastanza coeva alla seconda):

    Nasce Pietrabianca, straordinario esempio di quartiere-dormitorio balneare, che usurpa il nome della collina alle sue spalle. Solo villini, a due passi dalla Torre omonima, oggi abitazione privata, immersa nel bosco lungo il fiume. Per anni, ricordo, l’unico modo per raggiungere questo gruppo di case evitando la statale era una passerella di legno sul torrente, in mezzo al canneto. Al buio più totale (quel torrente che, leggenda vuole, un politico villeggiante negli immediatissimi paraggi avrebbe fatto addirittura deviare, novello proconsole imperiale).

    Mancini, pippibaudi e cotillons

    Fu così, insomma, che a Sangineto mise radici, anzi, fondamenta, prima di tutto la Cosenza manciniana: amici, collaboratori, parenti, e chi più ne ha più ne metta, si trovarono muro a muro, siepe a siepe tra di loro. Medici, farmacisti, imprenditori, avvocati, professionisti d’ogni risma acquistarono nella seconda metà degli anni ’60 quei primi cubi bianchi vagamente merlati alla moresca. Convenienza economica e sociale: spirito di gruppo, per non dire forse tribale. Perché comprare una villa molto più bella in un luogo molto più bello (per dire, in tratti di costa certamente più scenografici; in località con centri storici gradevoli), quando c’è la possibilità di essere vicini d’ombrellone di chi, alla fine dei conti, appunto “conta”? Perché andare in ferie quando in spiaggia si può parlare di affari mentre le mogli spettegolano in perfetto stile “Donna Pupetta”?

    Pasqualino-Settebellezze-omaggio-a-Lina-Wertmuller-Giannini
    Lina Wertmüller con Giancarlo GIannini sul set di “Pasqualino Settebellezze”

    Si aggiunsero, sulla collina, quelli che preferivano maggiore privacy o il nido più alto (la saga dei Gullo o Mario Misasi che qui morì), mentre Mancini restava nella sua villa defilata ma crocevia di personaggi dello spettacolo (tra cui la recentemente scomparsa Wertmüller, ma giusto per dirne una). Perché – panem et circenses – tra Mancini e l’altro villeggiante storico, Covello, la Sangineto dei tempi d’oro era anche passerella non irrilevante per il cinema, con tanto di festival, pippibaudi e cotillons.

    E forse funzionava ancora la stazione ferroviaria, che di sicuro nel ’55 c’era già (sebbene in ritardo rispetto ai caselli di cinquant’anni prima) ma personalmente ho sempre visto abbandonata e semmai utile a due cose: posizionare gli spiccioli sulle rotaie e sottoscrivere l’isolamento di Sangineto (benché qualcuno di mia conoscenza abbia talvolta preferito addirittura scendere a Capo Bonifati e raggiungere Sangineto via spiaggia o scendere a Belvedere e farsela in bici).

    Napoletani e cosentini

    A Sangineto si arriva in tre modi (escludendo dal mare e dal cielo e, volendo, dal sottosuolo). E già questo indica i tre diversi approcci caratteriali, per non dire “sentimentali”. I napoletani vi arrivano da Nord, a 200 all’ora, con vano spirito di conquista (parentesi: esistono molti, dico molti napoletani che vengono qui da quarant’anni e ritengono ancora Cosenza un paesino di montagna. Senza esservi ovviamente mai stati). I cosentini vi arrivano da Sud, pigramente comodi, con spirito domenicale o, peggio, dominicale. Chi, come me, non è né l’uno né più si sente l’altro, arriva dall’interno, già in polemica col resto, per spirito di contraddizione. Ovvero da una strada che è già un punto d’osservazione elevato e panoramico sul tutto. Quella strada-balconata che taglia con una riga netta l’ultimo fianco del Parco del Pollino.

    La si prende da Sant’Agata, per esser chiari, e porta fino ai piedi di Belvedere. Su questa strada interna si scollina al Passo dello Scalone e poi è tutta discesa con vista sul mare. Strada antica, senza ponti o gallerie. Una di quelle strade che definisco “a misura d’uomo”. Una volta vi si poteva deviare direttamente per Sangineto paese, qualche tornante più giù del Passo, a patto di non soffrire di vertigini. E vi sareste trovati nel bel mezzo di un paesaggio marziano, sulle rupi della zona archeologica di Timpa di Civita. Oggi quella strada è chiusa per motivi di sicurezza, addirittura da una cancellata, non essendo stato forse sufficiente il divieto di accesso che già da qualche anno campeggiava all’incrocio incustodito. Al sito suddetto si può arrivare da un’altra parte, ma il bello delle cose è soprattutto scoprirle da sé. Detto diplomaticamente.

    Verso Sangineto tra panorami e cartomanti

    C’è poi, più su, un altro bivio tutto sanginetese e conosciuto a pochi forestieri: quello che volta a Sud per l’impenetrabilissimo bosco lungo la stradina per il Lago La Penna. A continuarlo, dopo il lago, vi porterebbe sull’antica dorsale che corre da Torrevecchia di Bonifati fino a Fagnano Castello. Non roba per chi ama l’ombrellone, va detto. O c’è quello che gira a Nord per i panorami mozzafiato della Contrada Pantana, luoghi dove l’antropizzazione arriva piuttosto ad ogni tornante sotto le sembianze degli immancabili manifestini colorati di quei noti cartomanti monopolisti di un buon quarto di Tirreno (bravo Brunori ad averlo osservato, pur se omettendo – forse per metrica – la fu Madame Fifì, mica inferiore in fatto di marketing capillare).

    Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).
    Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).

    E sempre sulla strada-balconata incrociai, tempo fa, una coppia di sconosciuti motociclisti. S’erano fermati nel punto più panoramico. Felicemente d’accordo, lui fotografava lei – graziosa bionda vestita di un romper in denim – gioiosamente a braccia aperte e seno al vento. Sarà stata la strada? Sarà stato il primitivo e totale senso di libertà che quel panorama riesce a restituire?

    La Banalità del mare

    E anche questa è una metafora, appunto, dell’approccio: Sangineto è stato un ottimo punto d’osservazione, suo malgrado. Già da bambino, in spiaggia, sedevo con le spalle al mare, a guardare quant’era strano il profilo di quelle montagne, oppure a indovinare dal solo modo di gesticolare dei lontani passanti sul lungomare se erano cosentini o napoletani (facilissimo). Gli altri mi parevano tutti rimbambiti a guardare l’orizzonte, la piattezza dell’acqua. La Banalità del Mare. (CONTINUA…)