Autore: Luca Irwin Fragale

  • STRADE PERDUTE|  Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

    STRADE PERDUTE| Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

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    Ci sono dei luoghi precisi che hanno il potere di evocare molto più di altri l’incalzare del tempo, l’abbandono speranzoso ma in fondo colpevole, e il rimpianto per un passato non necessariamente idilliaco ma certamente fatto di equilibri più naturali. Uno di questi è Campo del Monaco, a 200mt sul livello del mare, tra il burrone Marianna e il fosso Bambagia: non cercatelo su Google, non è quello che troverete. È un pendio, piuttosto ripido, affacciato sul mare e punteggiato non tanto da ruderi di edifici rurali modesti ma da resti di masserie padronali di ordine superiore, la cui magnificenza doveva splendere su queste colline fino a molto meno di cento anni fa.

    Il bivio per Bonifati

    Su queste colline si arriva facilmente, procedendo sulla SS 18 verso Nord e prendendo il penultimo bivio per Bonifati. Lo ripeto, appena si lascia una strada principale si fa cronologicamente un passo indietro: fuori da un’officina, subito infilato il bivio, un paio di anni fa faceva splendida mostra di sé una vecchia e gloriosa BMW 3.0 csi. Direte «che c’entra?». C’entra, perché se si parla di strade bisogna ogni tanto omaggiare anche chi le strade le batte, le copre e le setaccia materialmente. Omaggio per omaggio, due o tre tornanti più su, un muretto inneggia “Viva il giro”. Era il 2016, e il Giro d’Italia davvero passò faticosamente da qui.

    Finocchietto, mare e monti

    Di fianco, una masseria è stata ristrutturata recentemente, e per fortuna. Forse il nuovo colore non è troppo sobrio ma, considerato tutto il sole che la schiaffeggia, stingerà presto. Ancora un paio di tornanti e si passa tutt’intorno ad una casa-torre, quasi spaccata in due. Dietro di lei, un incomprensibile ponte sul nulla. Anzi, sul crinale: da un lato il suddetto burrone Marianna, dall’altro il suddetto fosso Bambagia (che è molto più “burrone” dell’altro, a dire il vero, e molto più inquietante). Per il resto, nulla: una distesa di finocchio selvatico (ottimo, se distillato…), un panorama a perdita d’occhio (da un lato il mare, fin dove visibilità permette; dall’altro i monti) e nient’altro. Però non è finita qui.

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    Rudere presso Campo del Monaco, in agro di Bonifati (foto L.I. Fragale)

    Un edificio straordinario

    Da un’altra curva si può infilare un sentiero. Procede in piano e continua zigzagando, obbligato dalle rientranze della collina. È un sentiero lungo, e oggi senza apparente funzione. A destra e a sinistra è costeggiato da piccoli poderi, campicelli recintati, ma niente di che, e non una voce. Il fatto è che questo sentiero è l’unica via di accesso (“accesso” per modo di dire…) ad un edificio straordinario. Sto parlando di ciò che resta dell’ex convento di San Nicola: un palazzotto sventrato, con tanto di cappella d’ordinanza, loggiato angolare e finestroni baroccheggianti decorati a stucchi.

    Il valore aggiunto di questo edificio, oltre a quello architettonico (e alla sua impenetrabilità dovuta all’essere circondato da rovi e vegetazione da foresta pluviale) è il fatto di essere anche scarsamente visibile. Il modo migliore per osservarlo è dalla spiaggia di Pietrabianca, con un buon binocolo o un teleobiettivo. O, al limite, procedendo ancora sui tornanti in salita, dall’unico incrocio che si trova appena più in alto (a destra per il centro storico, a sinistra per Aria delle Donne o Sangineto paese) ma da qui non si vedono gli scenografici finestroni sul mare.

    Bonifati, terra di conventi (e satanisti)

    Dalla spiaggia non va confuso con quell’altro edificio maestoso, un’altra masseria abbandonata, poco più a valle del convento, più o meno alle spalle dell’Hotel Sol Palace. L’ex convento di San Nicola è più imponente, più austero, più sofisticato nella struttura.
    Terra di conventi rurali, questa di Bonifati, se a pochissimi km da qui spicca l’altro, quello di San Francesco, ristrutturato una ventina d’anni fa e convertito ad albergo di lusso (quantomeno lo si è sottratto all’uso che abitualmente si faceva dei suoi ruderi, ovvero quello di improvvisati ‘templi’ per attività sataniste).

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    Bonifati, inizi Novecento

    Lunga vita a Bonifati

    E va bene il miraggio dell’industrializzazione, e va bene l’emigrazione amaramente necessaria per tanti… però vale la pena immaginarli, questi luoghi, quando brulicavano di esseri viventi, uomini e bestie, di attività, di rumori, di voci, di versi d’animali. Sembra impossibile ma tutta un’economia e tutta una vera e propria ‘vita’ animava queste campagne che ora restano desolate e mute. Ha resistito una contrada, non lontana da qui, Cirimarco, sulla collina appena sopra Cittadella del Capo.

    Parcheggio la macchina davanti all’unica chiesetta: mentre spengo il motore guardo davanti e l’occhio mi cade sui manifesti dei morti, le ‘mortaline’, come li chiamano da certe parti: 5 o 6 decessi recenti, ok. Ma tutti ultranovantenni. E ti credo: basta guardarsi intorno, e basta pensare al loro stile di vita (classe 1925 o giù di lì…) o alla loro alimentazione. Nota a margine: da qui si dipana una lunga mulattiera selciata, che scende dritta (no, dritta no) verso la marina di Cittadella, attraversando l’altra Contrada vicina, Greco: i Gradini San Vincenzo. Quindi mettiamoci anche l’esercizio fisico, quando i muli non fossero stati d’aiuto.

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    Chiesetta a San Candido di Bonifati

    La costa delle torri

    Da Cirimarco si arriva alle altre due frazioni provvidenzialmente sperdute nell’interno: San Candido e Pero. O, avendo coraggio, su una bretella che riporta all’ardimentosa e lunga dorsale che dalla frazione di Torrevecchia porta a Fagnano attraverso laghi e boschi abbastanza inaccessibili. Torrevecchia, appunto, detta così per la vecchia torre saracena d’avvistamento, costruita proprio lì sull’angolo del costone più ripido del promontorio sul mare: perché, non lo si può dimenticare, Bonifati è anche o forse soprattutto un luogo di mare e anzi, appunto, un Capo: quello spigolo che interrompe la continuità della costa da Capo Suvero a Capo Scalea. Non è un caso che qui si trovino altri relitti di torri o punti strategici (la torre del telegrafo, che ora dà il nome a una contrada; la torre di Capo Fella, la Torre Parise…).

    Dei confini sul litorale bonifatese ho già detto parlando di Cavinia e di Sangineto.
    Tutta la costa meridionale di Bonifati ha ancora i caratteri di quella cetrarese: strapiombi e grotte, insenature abbastanza incontaminate e non prese d’assalto dai turismi peggiori. Vi spuntano scogli, qua e là, che possono fungere da miniature di grandi isole, ottimi per progettarvi sopra altre strade che con minuscoli e arditi tornanti portino dalla base fino alle cime (un santuario? un mirador?).

    Cittadella del Capo (foto L.I. Fragale)

    Bonifati da cinema

    Bando alla fantasia, qui non serve. Dopo aver percorso il breve tracciato della ex SS 18 in contrada Santa Maria, si possono ammirare tre edifici che svettano su questa parte di spiaggia: un ex casello ferroviario equilibrista sulla cima di uno scoglio; un casino padronale semiabbandonato sulla scogliera della Zaccarella (era una residenza minore dei nobili De Aloe) dove Mimmo Calopresti ha girato alcune scene di uno dei suoi film (non il migliore, va detto: L’abbuffata); e poi il principale dei palazzi De Aloe, ovvero l’attuale albergo del Palazzo Ducale.

    Resto dell’idea che però il meglio stia nella parte più nascosta e meno battuta, ovvero lungo quelle due stradine parallele che costeggiano la ferrovia da qui in poi, verso Nord: via Magellano e via Amerigo Vespucci raccolgono la parte forse più amena e riservata di buona parte della costa, benché poste immediatamente sotto la Stazione ferroviaria di Capo Bonifati. E segnano anche uno spartiacque: da qui in poi, solo ed esclusivamente spiaggia, spiaggia, spiaggia, sotto lo sguardo magnanimo della cinquecentesca Torre Parise.

    La scogliera della Zaccarella (foto L.I. Fragale)
  • Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

    Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

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    Perché complicarsi la vita? Riformulo: perché considerare che certe scelte significhino necessariamente complicarsela? Ovviamente anche stavolta il riferimento non è ai massimi sistemi ma alle strade. È una questione di forma mentale, quella che induce a recepire pigramente la geografia delle rotte in compartimenti stagni: “i paesi della costa” vs. “i paesi dell’interno”, come se i due gruppi fossero a sé stanti, quasi senza possibili vie di comunicazioni in mezzo, neppure metaforiche.
    Allora vediamo che succede se si prova ad andare da Laino Castello fin sulla costa tirrenica senza toccare autostrade e, per quanto possibile, strade statali.

    Laino Castello, il paese degli zampognari

    Laino Castello – il paese che fu – è ricordato più che altro per essere la patria di quegli zampognari (forse meno noti di quelli abruzzesi) che scendevano a Natale in città e paesi di tutta la provincia. Nel frattempo, recentemente vi è stato un tentativo di farlo diventare una sorta di “albergo diffuso”, sullo stile di Santo Stefano di Sessanio, anche questo in Abruzzo. Coincidenze. La mia visita risale a qualche anno prima, quando il centro storico – abbandonato decenni fa per i motivi più vari, ma ufficialmente per via di un sisma – non lasciava più molto da ammirare, se non una desolazione piuttosto evocativa (e, nella desolazione, vi incrocio – fantasma? – il poeta e amico Dante Maffìa, fuggiasco per un giorno dalla sua amata costa ionica).

    Molto di transennato, tutto lasciato all’incuria. Lavori iniziati e lasciati a metà. Erba altissima nei vicoli. La chiesa, integra ma svuotata, faceva ancora una certa impressione (nulla di nuovo, per chi conosce la Chiesa dei Cappuccini, in cima al centro storico di Cosenza, che versa nelle medesime condizioni). E da lì il panorama violento del Viadotto Italia con cui l’autostrada taglia in due il Massiccio del Pollino. Beffarda, poi, colpisce l’occhio una vecchia stella cometa di ferro arrugginito, piazzata in cima all’edificio più in cima del paese fantasma. Chissà da quanti anni sta lì. Dalla Natività alla mortalità.

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    La Grotta del Romito

    Papasidero e la Grotta del Romito

    Lasciamo Laino Castello al suo destino, incrociando le dita per lui, e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito: non è solo testimonianza degli insediamenti preistorici in Calabria, quanto pure la dimostrazione della sopravvivenza di piccoli paradisi naturali. Mica scemo, st’Homo Sapiens… Il più solerte guardiano della zona archeologica è un docile cagnolino che scorta attentamente ogni gruppo di visitatori, dal parcheggio alla grotta e viceversa, senza distogliere lo sguardo nemmeno un attimo. Dalla grotta bisogna risalire di quota, un bel po’, per tornare sulla strada principale (principale, si fa per dire) e non invidio quella coppietta di giovanissimi ciclisti nordeuropei, stremati a mezzogiorno da una salita disumana.

    Avena, la frazione evacuata (?)

    Non lontano dal Romito vale assolutamente la pena (ma quale pena, poi?) allungarsi fino ad Avena, frazione di Papasidero. Non è lontana ma, intendiamoci, mi riferisco sempre a distanze in linea d’aria. Perché visitare Avena? Per fare il paio con Laino Castello: anche Avena è abbandonata, ma in compenso alcuni scorci riescono a ricordare – parola di un affidabilissimo e appassionatissimo gallerista e antiquario bolognese, mica mia – certi quadri di Telemaco Signorini. Un cartello ufficiale all’inizio dell’abitato (o, meglio anche in questo caso, del “disabitato”) parla di zona evacuata ex lege, più o meno nei primi anni Ottanta.

    Nelle case sventrate trovi soltanto bottiglie, bottiglie, bottiglie. Televisori di quarant’anni fa, reti da letto e scarpe spaiate. Eppure nel primo edificio all’ingresso dell’agglomerato – poco prima di quella piazzetta che, non so perché, mi fa pensare a Leopardi, al Sabato del villaggioqualcuno sembra abitare eccome, quantomeno saltuariamente. Con tanto di panni stesi al sole e grasticelle di peperoncino ben curate. E fa bene, chiunque egli sia.

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    Scorcio della frazione Avena di Papasidero (foto L.I. Fragale)

    Abruzzo e Golf

    Papasidero decido invece di attraversarla senza sostare. Diretti verso la costa, subito dopo il paese si passa su un ponte dal nome curioso: il Ponte Golf. Proprio così, un vecchio ponticello su una forra, che ben poco può avere a che fare con attività golfistiche: e infatti è stato denominato in questo modo, in maniera ufficiale, soltanto a causa di una modesta deformazione – ipercorrettismo nell’italianizzazione maccheronica – del più antico idronimo Orfo (‘u g’Orf), ovvero il torrente che vi passa sotto.

    Mi starò suggestionando ma è la terza volta che mi viene da citare l’Abruzzo: la strada tra Papasidero e Santa Domenica Talao mi ricorda enormemente, a tratti, quella che si inerpica da Anversa degli Abruzzi fino a Scanno, scavata nei costoni del meraviglioso canyon nella Gola del Sagittario. Ma è un miraggio frequente, che meriterebbe un pezzo a parte, “Strade che assomigliano ad altre strade”… e, a pensarci bene, altri tratti di questa via dalle montagne al mare mi ricordano invece alcune specifiche curve nella zona del Cippo Pisacane, a Sanza. Ma lasciamo perdere certe stratificazioni della memoria fotografica…

    Restiamo con gli occhi qui: è il luogo ideale per quello che ho sempre ritenuto il più ambiguo, imbarazzante, incoerente dei segnali stradali: Pericolo caduta massi. Ché non si capisce uno cosa dovrebbe fare… rallentare? Peggio, si allunga l’esposizione al pericolo. Accelerare? Meglio di no, vuoi mai che le vibrazioni sveglino il mazzacane che dorme? Fare inversione ad U, se possibile? Ma allora perché non chiudere la circolazione? Il significato di quel segnale è semplicemente: «continuate a vostro rischio e pericolo, noi ce ne laviamo le mani». Ciance bandite, proseguiamo.

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    Il fiume Lao (fonte web)

    Rafting e il brutto che avanza

    Sulla destra, scendendo verso la costa, mi incuriosisce quella lunghissima, vistosissima tubatura che scende orrenda, a precipizio, dritta dalla cima di un monte giù lungo i dirupi del Ciminnito, costeggiando ciò che resta dell’antica Torre dello Scirro. Non è altro che la condotta che mette in collegamento la poco poetica “Camera Valvola” dell’Enel, sul monte Rininella (in agro di Orsomarso), con la centrale idroelettrica giù sulla riva del fiume Lao (e sì, siamo nella Riserva Statale del Lao, delizia per chi fa rafting, e non solo per loro). Ma la centrale e la tubatura annessa preannunciano il brutto che si fa vivo, inevitabilmente, quando ci si avvicina agli insediamenti più intensivi.

    E pensare che dietro quel monte, proprio a un passo e mezzo dalla “Camera Valvola”, cade a pezzi l’antico convento di Santa Maria di Scòrpano, avvolto da erbe infestanti e rovi. Si è deformato, col tempo, finanche il toponimo (ora Scorpari). E anche lassù, ve ne parlerò, mi pare di stare in Abruzzo, ad esempio sui pianori di Campo Imperatore o sulla strada per Roccamorice. E siamo a quattro ricorrenze aprutine.

    Papasidero

    Da qui al mare, sotto un tramonto settembrino, è una bella discesa dolce, lunga e panoramica: ritrovo i due ciclisti che all’ora di pranzo erano boccheggianti sulla salita della Grotta del Romito. Adesso posso invidiarli.
    Ancora più giù, a luccicare sono le foglie di vere e proprie piantagioni di giovani eucalipti che preannunciano la calura della costa. Li avevo presi per piccoli pioppi, per via di questo luccichio alternato e invece no, qui nemmeno il populus tremula, sebbene – che confusione! – la frazioncina appena superata sia, proprio come un piccolo pueblo, Tremoli. Perché semplificarsi la vita?

  • STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

    STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

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    Calabria Ulteriore, oppure Calabria Ultra: per secoli è stata definita così la metà meridionale della Calabria, in contrapposizione a quella Calabria Citeriore – o Citra – che corrisponde grosso modo all’attuale provincia di Cosenza. La Calabria Ultra è tanta, e ci vuole coraggio a percorrerla tutta, e ci vuole senza dubbio un’automobile. Anche qui, lasciamo perdere l’autostrada. Lasciamo perdere i viadotti verso San Mango d’Aquino, Martirano e Martirano Lombardo. Sopportando partenze all’alba, ci si può studiare la strada più tranquilla per raggiungere da Cosenza la costiera attraverso strade secondarie.

    Viadotti e antiche (ma non troppo) macine

    Ed ecco che a Potame si vede già il mare: ai gefirofobi si dovrebbe consigliare di evitare due viadotti sul Catocastro passando dentro Lago e in quel posto meravigliosamente denominato “Aria di Lupi” (attenzione però a non impelagarsi poi in un’insidiosa sterrata a fondo cieco, verso Terrati). Si esce così nei pressi dell’antica tonnara di Amantea: un chioschetto a gestione più che familiare, su una spiaggia, dà il via al viaggio tirrenico sulla vecchia borbonica. Da qui, dopo una lunga galleria sopra Còreca, si corre abbastanza spediti, dritti verso le desolate e assolate aperture di Falerna e oltre: Lamezia, Pizzo e poi, ancora più giù, Gioia Tauro, con le sue barbarie semi-industriali.

    Bivio per Aria di Lupi

    Mi fa ridere – amaramente – notare anche qui quanti ristoranti, come in tutta Italia, si chiamino L’antica macina. Che fantasia, li trovi ovunque dalle Alpi all’agrigentino, magari ubicati in edifici che non avranno più di trent’anni, quelli che per darsi un tono – quando non sono classici esempi di ‘incompiuto calabrese’ o ‘non finito calabrese’ – finiscono col dimostrarsi più pacchiani di quanto già sono, utilizzando inevitabilmente piatti quadrati e decorazioni da haute cuisine. Passa la fame già solo a vedere quelle linee, molto parvenu, di aceto balsamico o di cioccolato gettate con fintissima casualità sulle parti intonse del piatto. Invece, quanta frutta a Bagnara, quanti fruttivendoli improvvisati lungo i tornanti che portano giù al paese… E in men che non si pensi si può già essere all’imbarco per la Sicilia, provare per credere, anche senza autostrada.

    Un classico episodio di “non finito calabrese”

    Calabria Ultra, un passato da capire

    Ma l’idea è quella di raggiungere la Calabria grecanica, benché il braccio sinistro, tenuto fuori dal finestrino, possa essere già quasi ustionato: e allora Pentedattilo, Roghudi, Africo, luoghi rimasti ancorati, appiccicati ad un passato fin troppo remoto, un passato a perdere che non interessa più a nessuno. E così è: certe tracce del nostro esser stati altro finiscono per scomparire nell’indifferenza, una parte del ‘nostro’ dna culturale e sociale viene costantemente silenziato senza appello. Non devo cadere nella retorica sociologica, non devo cadere nell’elogio pittorico, antropologico. In quei posti bisogna andarci e capire.

    Paolo Rumiz scrive, in un bel libro dei suoi, di un rifugio in Aspromonte, e voglio andarci anch’io: la strada è molto più lunga del previsto, qualche giovane escursionista suggerisce di dormire in tenda vicino a una pineta. Ma siamo a due passi dalla strada per Polsi, e non so perché, o forse sì, ciò incute timore: in più si avvicinano grossi cani inselvatichiti. Procedo per Gambarie, Delianuova, Piani di Carmelìa. Le indicazioni, da parte di diverse persone, prendono tutte come punto di riferimento certi cassonetti di spazzatura bruciati… est modus in rebus, ma almeno si arriva.

    Aspromonte puro

    L’amico di Rumiz mi spiega che è scomodo, con questo buio, montare la tenda, e mi indica una casetta vicina: manca la luce ma almeno c’è meno freddo e comunque c’è l’acqua e pure i servizi. Fa un freddo cane, bisogna accendere le candele, e chi mi accompagna accende pure il camino, vi cuoce sopra la carne e apre una bottiglia di vino. Con i sacchi a pelo adagiati sopra due divani, il tempo passa davanti al fuoco, scandito da racconti di nonni e caldarroste, condito da un rumore ormai quasi rassicurante: i tarli nel solaio. Anche Rumiz sentì gli stessi tarli.
    Al risveglio, piovoso, si prende la strada, ufficialmente chiusa, che porta verso l’ex sanatorio antitubercolare di Zervò: un filmato dell’Istituto Luce ne testimonia l’inaugurazione, nel 1929, alla presenza del duca d’Aosta.

    Poco oltre si giunge al pittoresco bivio per Piminoro, una biforcazione piena di zeppa di muli abbarbicati tra le rocce, davanti ad un panorama splendido: Aspromonte puro, ecco com’è.
    Si può procedere verso Trepitò – i suoni di questi toponimi ci ricordano che abbiamo lasciato la zona grecanica ma non quella magnogreca – e bisogna lasciare il passo a mandrie di vacche che procedono verso il laghetto di Zòmaro: è la prima volta che in coda a una mandria vedo un maiale. Un mansueto maiale al pascolo, un bel ‘nero’ di Calabria. Siamo appena più su del paese di Ardore, la patria del dimenticato Francesco Misiano, il poco ricordato martire civile di quella rara Calabria antifascista.

    Francesco Misiano, dalla Calabria Ultra a Stalin

    Due parole su di lui vanno dette: nato nel 1884, nell’umile famiglia di un ferroviere, diventa ragioniere e a Napoli sposa prestissimo la causa del Partito Socialista Italiano. Sindacalista, disertore in Svizzera di fronte a quella Grande Guerra che non condivideva, viene condannato alla fucilazione, commutata poi in ergastolo. In Svizzera stringe rapporti con gli anarchici e con Lenin, con Angelica Balabanoff e Rosa Luxemburg: da Ardore all’ardore. Da lì si trasferisce in Russia, poi a Fiume, e infine aderisce al neonato Partito Comunista d’Italia.

    Eletto alla Camera nel 1919 e nel 1921, proprio nell’aula di Montecitorio viene malmenato da una trentina di deputati fascisti proprio in quanto ex-disertore e perciò non degno della carica parlamentare. Viene trascinato in strada, la testa parzialmente rasata, imbrattato di vernice, tra sputi e cartelli di dileggio. E vi risparmio le foto.

    Francesco Misiano

    Ripara nuovamente a Berlino e a Mosca, dove presiede una casa di produzione cinematografica (distribuisce lui, in Germania, La corazzata Potëmkin…). Accusato da Stalin di trotskismo, muore in un sanatorio di Mosca per cause ‘incerte’ ma in tempi ben sospetti (ovvero nel periodo delle purghe staliniane, altro che il Sanatorio di Zervò…), e nell’indifferenza dello stato maggiore del comunismo italiano (in particolare, di quell’ala togliattiana che già lo aveva messo alla gogna). Vista in quest’ottica, la vicenda apparirebbe come il primo degli episodi di malasorte politica e personale del comunista meridionale. Malasorte dolorosamente fantozziana, per tornare alla Potëmkin …

    La pace tra i monti

    Meglio lasciare le corazzate e le guerre, restare tra i monti, procedendo sul crinale che, attraverso le foreste di Mongiana – quella delle Reali Ferriere borboniche –, portano alla più quieta Certosa di Serra San Bruno. Laddove altro tipo di silenzio regna necessariamente, anzi obbligatoriamente, con buona pace dei lati oscuri della Calabria Ultra, e pure di Misiano: bisogna pur avere santi in paradiso, più che in terra.

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    La Certosa di Serra San Bruno
  • STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    Ancora sul nostro Nord-Est… Perché visitare Canna? Perché è un involontario set cinematografico fatto di pietra, o perché è un pezzo di Sette-Ottocento arrivato sano sano fino a noi. Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: il femminile, messo inavvertitamente, si giustifica in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la bibliografia locale è muta, non esistendo neppure un solo libro sulla storia generale del paese, e sì che meriterebbe. Vi si stava accingendo il compianto Salvatore Lizzano e dispiace che il suo decesso prematuro non gli abbia consentito di ripetere i risultati già ottenuti nell’altra sua opera, quella su Roseto Capo Spulico.

    Canna, il paese dei portali

    Altra ragione per scegliere di addentrarsi tra i vicoli di Canna sta nel fatto che il suo patrimonio araldico è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese dello stesso circondario, se non di tutta la Calabria: tra le quinte di una ridottissima manciata di stradine si accalcano infatti ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quindici stemmi. Questa densità non si spiega in altro modo, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso una sola interpretazione: la storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara.

    Ma mentre Rocca Imperiale restituisce visivamente l’impianto medievale, col castello posto in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare, Nocara rimanda, al contrario, all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, diventato poi stanziale sulla cima della sua scarpata inospitale. In mezzo a questi luoghi – e dunque, volendo, tra autorità, popolo e difesa – si piazza Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale.

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    La rampa di accesso al Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Status symbol di una volta

    Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando possedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario. Aggiungo: una cappelletta privata, eventualmente annessa al proprio palazzo nobiliare, e con campana propria, era un valore aggiunto. Un po’ come oggi la piscina per le ville. Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse:

    • Toscani,
    • Ricciardulli,
    • Campolongo,
    • Troncellito (poi Bruni),
    • Crivelli (poi Favoino)
    • Crivelli bis (poi Pitrelli).
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    Verso di Catone sul Palazzo Rinaldi di Canna (foto L.I. Fragale)

    Scripta manent

    E poi c’è qualcosa di anche più antico, e sempre scolpito nella pietra (evidentemente a Canna o si scrive per sempre o non si scrive): un’iscrizione rozza e piccola, apposta nel 1605 in cima alla parete esterna di Palazzo Rinaldi, si palesa nientemeno come frammento di un distico di Catone (I, 5): NEMO SI/NE CRIMI/NE VIVIT, inno a un’indulgenza fatalista che mi richiama alla mente due cose. Innanziuttto l’adagio napoletano “e si tiene figli mascule, nun chiammà mariuolo, e si tiene figlie femmene ecc. ecc.”, e poi quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “IMPAVIDU[M] / FERIENT / RUIN[A]E” che il poeta riferiva all’inattaccabile rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente cosentino deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638.

    Iscrizione sacra risalente al Cinquecento (foto L.I. Fragale)

    Ma restiamo “sulla” Canna: un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta, è quella di una lapide cinquecentesca poggiata oggi su un muretto di pietra a secco, che credo possa essere sciolta così: HA[N]C ECCL[ESI]AM F[IERI] FECER[UN]T PLURES [CON]FRAT[RES] / […]CO TARENTINO DE CANNA A[…] / [SANC]TISSIMI ROCCHI S[TATUERUNT] A[NNO] D[OMINI] 1529. Delizia per i paleografi, questa lapide potrebbe essere proposta all’esame di archivistica, visto che si presenta come spaventoso compendio delle più svariate brachigrafie (abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta, per troncamento finale con lettere sovrapposte e finanche con segni abbreviativi propri… ma non mi dilungo).

    Portale di Palazzo Melazzi (foto L.I. Fragale)

    Non solo Canna

    E dicevamo dei portali… la loro presenza così fitta mi aveva spinto, qualche tempo fa, a svolgere una ricerca mirata ad una specie di improbabile censimento di quelli del circondario altoionico calabro-lucano, e almeno di quelli che avessero caratteristiche comuni ai tanti portali cannesi. Finii per impelagarmi invece in una sorta di genealogia delle maestranze artigiane locali, che però la dice lunga, anzi lunghissima, proprio in termini geografici. I portali ‘alla cannese’ – con o senza stemma – hanno valicato i confini calabri pur essendo scolpiti senza alcun dubbio dalla stessa mano (o dallo stesso paio di mani) e sono decisamente più di quelli che ci si potrebbe aspettare. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze.
    Provare per credere, confrontando – se solo si avesse la pazienza – i palazzi:

    • Mazzario, a Roseto Capo Spulico (1821);
    • De Pirro, a Nocara (1825);
    • Carlomagno, a San Giorgio Lucano (1826);
    • Tarsia (poi Troncellito, ora Bruni), a Canna (1845);
    • Rinaldi, a Noepoli (1845);
    • Mesce o Morano (ora Rago), a Canna (1846);
    • Crivelli (poi Pitrelli), a Canna (1848);
    • Pignone (poi Minieri, ora Solano), a Montegiordano (1860);
    • Troncellito (ora Marcone), a Senise;
    • Donnaperna, a Senise;
    • Guida, a Tursi;
    • Giannettasio, a Oriolo Calabro;
    • Tarsia-Sanseverino (poi Toscani), a Canna;
    • Melazzi, a Canna;
    • Silvestri, a San Giorgio Lucano;
    • Camodeca, a Castroregio;
    • Pace, a San Costantino Albanese;
    • Ricciardulli, ancora a Canna.
    Stemma di Palazzo Pace, a San Costantino Albanese

    Fermiamoci un attimo: intanto, giusto per rimanere in tema di citazioni classiche, non mi va di tralasciare altri due motti, ovvero quello del Palazzo Rinaldi di Noepoli (VIS UNITA FORTIOR) e poi il motto sullo stemma del penultimo dei palazzi citati, nientemeno ΚΑΤΕΦΙΛΗΣΑΝ ΔΙΚΑΙΟΣΥΝΗ ΚΑΙ ΕΙΡΗΝΗ, deformazione della traduzione greca del salmo 84.11 (ελεος και αληθεια συνηντησαν δικαιοσυνη και ειρηνη κατεφιλησαν): “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Poi va annotato da qualche parte, a futura memoria, che lo stemma di Palazzo Melazzi di Canna – di cui resta ora, solitario e allusivo, il gancio – è da individuare senza alcun dubbio nello stemma che oggi campeggia – in linea con intricati passaggi ereditari – sul Palazzo Blefari Melazzi di Amendolara, il cui portale fu realizzato in tutt’altro stile e materiale.

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    Palazzo Crivelli, poi Pitrelli (foto L.I. Fragale)

    I fratelli Calienno

    E fin qui si tratta di proprietari bizzarri. Ma, per non allontanarci dalla genealogia delle maestranze, bisogna notare altre due “firme”: il primo di questi palazzi riporta, sotto la chiave di volta, la dicitura M. RAFAE. E / PASCA. CALIE., mentre il Palazzo Crivelli (poi Pitrelli) di Canna porta sull’architrave la dicitura PASCALIS CALIENNO FECIT. L’enigma è fin qui parzialmente risolto. Ora, senza addentrarmi nella descrizione di tutte le peripezie della ricerca storica, si viene a scoprire che Raffaele e Pasquale Calienno erano due fratelli evidentemente attivissimi tra Calabria e Lucania almeno nella prima metà dell’Ottocento.

    Di più, a questo punto dobbiamo attribuire loro il copyright di un vero e proprio stile inconfondibile, perché il loro portale è sempre uguale, quale che fosse il committente. Andrebbe definito, volendo dargli vera e propria dignità di tipo architettonico, “modulo Calienno”. Confrontiamo un leone scolpito dai Calienno e uno dei leoni sui portali a loro solamente attribuibili: la mano è assolutamente la stessa, è quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltremodo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori.

    Stemma su Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Scarpari, cappellari, falegnami ed ebanisti

    Ma la farina è tutta del loro sacco? Proprio per niente. Cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara (le tracce sono più lì che altrove), Pasquale è meno rintracciabile, mentre il nucleo familiare di Raffaele è abbastanza completo: “scalpellino e marmoraro”, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara nel 1869. Ma si scopre anche, con qualche triplo carpiato con avvitamento, presso quale scuola artigiana avessero appreso l’arte.

    Se si ficca il naso tra gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli, si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami generici, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti. Ma nessuno scalpellino. La pietra, insomma, non è cosa loro e l’arte deve essere stata appresa altrove e forse proprio in Calabria.

    Scalpellini da generazioni

    E, come volevasi dimostrare, si scopre che Raffaele Calienno sposa una giovane amendolarese nata in una vera e propria stirpe di scalpellini e mastri fabbricatori, strettamente legati da generazioni a questo mestiere: scalpellino il suocero, il fratello e il padre di questi, il loro nonno castrovillarese e gli antenati di quest’ultimo, provenienti da Cetraro (dove erano stati addirittura incaricati, nel 1761, della ristrutturazione della Torre di Rienzo) e, prima ancora, da Rogliano.

    E, si sa, quello delle stirpi artigiane roglianesi ha sempre costituito un vero e proprio monopolio artistico (proprio la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto di abbellimenti da parte di maestranze roglianesi), la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri sia in ambito scultoreo che architettonico. C’è poco da fare, quindi: per una volta si può dare a Cesare quel che è di Cesare: il “modulo cannese” è tutto, essenzialmente e orgogliosamente, calabro: peregrinato dal Savuto al Tirreno e poi allo Ionio, oltre la Lucania non s’è azzardato a metter piede. Dicesi autoctonia.

    Il ‘modulo cannese’ su Palazzo Tarsia, poi Troncellito, poi Bruni
  • STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

    STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

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    Fu nella sua casa-museo che Giampiero Mughini mi raccontava, pochi anni fa, come la pensasse in fatto di Mezzogiorno, origini e appartenenze. E ricordo, in particolare, la sua contrarietà rispetto a quella che definiva «la retorica del ficodindia»: inutile, anzi nociva. Dalla parte opposta, Franco Arminio ad Aliano mi parlava di decrescita, ritorno ai paesi, tutela dell’Italia interna, quella «arresa».

    Darwin a Belvedere

    Personalmente temo più la retorica dell’urbanesimo spinto a tutti i costi: poteva andare bene cento anni fa, quando il Futurismo aveva un senso, e che senso! Ma, ad un secolo di distanza, cosa ne è diventato delle nostre città?
    Vi chiederete cosa c’entri questa premessa con Belvedere Marittimo… la questione è buffa, a Belvedere resiste un cognome la cui origine deve essere stata necessariamente recente: Evoluzionista. Dunque, retorica del ficodindia vs evoluzionismo: come conciliare le cose? Incamminiamoci.

    Un Belvedere anche senza mare

    Come ci arriviamo a Belvedere? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma anche stavolta voglio arrivarci dai monti, dall’interno, a scongiurare la visione balneare del paese. La strada, anzi La Strada – ché merita tutte le maiuscole del caso – è quella che proviene da Sant’Agata d’Esaro, dalle frazioni Gadurso e Gadursello, dove cinghialesse con cuccioli hanno indiscutibile precedenza sul traffico. È una strada da fare dieci volte all’anno, anche a notte fonda (conosco addirittura chi l’ha percorsa a fari spenti con la luna piena, e un po’ vorrei poterlo invidiare).

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    Belvedere Marittimo e la sua spiaggia

    D’estate vi ripara egregiamente dal caldo, d’inverno offre paesaggi ripetibilissimi: neve sulle cime laterali, rami spezzati sulla careggiata, aghi e foglie ovunque, come se fosse passato un tornado. Si supera l’antica Masseria Pisani, una vecchia fontana, si passa in mezzo a Sant’Agata e, subito dopo il cimitero, si comincia a salire, dicendo addio ad ogni possibilità di inversione a U, di sorpasso e di uscita verso altre strade: così per circa 20 km, se si eccettuano la stradina sconsigliabile per il Lago La Penna, quella vicinale per Contrada Pantana e tre strade a fondo cieco.

    “La Carrera del Diavolo”

    Di questa meravigliosa strada panoramica ho già scritto a proposito di Sangineto e quindi non mi ripeterò. Mi limito a qualche aggiunta: appena si lascia Sant’Agata si sale lungo quella che, in maniera inquietante, nelle vecchie carte geografiche era definita “la Carrera del Diavolo”. Invitante. Un ripido rettilineo (l’ultimo da qui al mare) che si insinua lungo un costone a strapiombo su un canyon. Rocce da un lato, burrone dall’altro. Ma vale la pena buttare l’occhio sulla parete dell’altro fianco del canyon, un po’ in alto, e si scorgerà l’ingresso della Grotta della Monaca, sito minerario (e funerario) della nostra preistoria.

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    L’ingresso della Grotta della monaca

    Di fianco a noi, invece, a pochi metri, nascosta dietro un muro di contenimento della rupe che ci sovrasta, c’è la Grotta del Tesauro, altro insediamento preistorico. Poi si lascia lo spazio a istrici, volpi, a un boscaiolo con l’ascia alla cintola che ho visto decine di volte camminare sul ciglio della strada col suo cane bianco, e – più pericolose – a vacche placidamente accoccolate in mezzo alla strada, anche in piena notte.

    Fantasmi a Belvedere

    Si sale ancora, tra tornanti, burroni e selve decisamente oscure (sadicamente, ai passeggeri che per la prima volta portavo su queste strade propinavo contemporaneamente la sigla di Twin Peaks): da ragazzino, un mio coetaneo mi raccontava storie spaventose sui fantasmi che la gente del luogo dice di aver visto spesso presso queste curve. Oggi fa il parroco.
    A pochi metri da un bel ristorante due volte abbandonato, di cui restano i tavoli di legno in mezzo ai pini, finalmente si scollina: da qui partono due sterrate per gli escursionisti (è l’ingresso sud del Parco del Pollino) e si valica il Passo dello Scalone. Poi, ovviamente, tutta discesa, a zig zag indecisi sul confine tra Belvedere e Sangineto.

    Le masserie abbandonate

    Man mano che si scende, cominciano a intravedersi le prime masserie, quasi tutte abbandonate, alcune egregiamente riprese e in piena attività. Una di esse, evidentemente un’ex torre di avvistamento, è poggiata serenamente su un colle pietroso che guarda il mare, accompagnata da un vigneto su un lato, e da una cappelletta bianca sull’altro. Poco più giù, un’altra cappelletta bianca resta invece irraggiungibile, ed era la cappella annessa ad una lunga e imponente masseria ora diruta, sul ciglio di un poggio più scosceso.

    Sono le pittoresche contrade di Campominore Alto e Basso, poco più giù di contrada Olivella, da dove invece fa capolino una minuscola stradina in salita tra alcune case, che timidamente non dirà nulla: fino a circa un secolo fa era l’unica strada per il centro storico di Sangineto. Oggi è chiusa per sicurezza, appena dopo le ultime case abitate.

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    Calabaia, all’inizio della speculazione edilizia

    Pochi metri più a valle, ormai quasi sulla SS18, resta qualche traccia del vecchio tratturo scavato nel tufo. Da qui, poco più a sud del miglior forno locale, è molto più soddisfacente prendere il vecchio tracciato della SS18, ignorando i brevi viadotti della nuova. Ci si porta così a uno dei chilometri più pacifici di questa vecchia strada: due curve e un rettilineo tra i canneti e il finocchio, il mare a portata di mano e infine il bivio che riporta sulla nuova SS oppure verso le alture amene di Contrada Palazza. Invece noi prendiamo la minuscola stradina che porta verso la spiaggia, e che passa sotto a un ponticello ferroviario, sul quale ancora resiste la traccia di un desueto fascio littorio. A sinistra per Sangineto, a destra per la Marina di Belvedere.

    Le villette col pianoforte in giardino

    C’era una grande barca, in costruzione per anni su questi prati vicini alla spiaggia, una costelliana Shipbuilding. Poi caseggiati vecchi e nuovi verso Serluca e Calabaia. Ville e villette, le prime costruite negli anni ’70, quando queste spiagge sono state considerate edificabili a tutto spiano, quando queste seconde case si riempivano – chissà perché – di ritratti tragici di donne bellissime, specie su carta grigia. O, nelle stanze dei bambini, di quadri con cani e gattini a rilievo. Poi c’era chi metteva il pianoforte a coda in giardino. Con buona pace delle corde martoriate dalla salsedine.

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    Palazzo De Novellis, presso Capo Tirone

    La stradina, sterrata e a tratti pietrosa, arriva faticosamente ad un’estremità del lungomare di Belvedere. Sull’altra estremità fa da guardia il cupo Palazzo De Novellis, a picco sulla non rassicurante scogliera di Capo Tirone. In questo palazzo svernava, a cavallo tra Otto e Novecento, il senatore Fedele De Novellis, ambasciatore a Belgrado, Lisbona, Costantinopoli, Berlino e Oslo. Ma sono certamente più note le discoteche della zona e le granite del centro storico, il borgo delle cliniche private, il più tipico prodotto locale. Meglio girarci intorno, ché le contrade qui meritano tantissimo.

    Stracalabria tra porcili, vacche e vino 

    Basta prendere una stradina a caso e lasciarsi portare: sono di gran lunga preferibili le colline, le montagne, le masserie più o meno abbandonate, rupi, strapiombi, macchie; meglio scandagliare stradine di campagna, sterrate, mezze franate, quelle private in cemento, ripidissime, gli ex tratturi, quelle preistoriche, magnogreche, medievali, borboniche, tutte ugualmente dimenticate e ugualmente immerse nell’odore di fichi, angurie, pomodori, finocchio, porcili, ovili e plenarie padellate di vacca. Ci si può rimediare una bottiglia di vino dalla gradazione illegale, una pezza di formaggio o una salsiccia in via d’estinzione Più che uno Strapaese, una Stracalabria.

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    L’Alimentari nel nulla, Contrada S. Andrea (foto L.I. Fragale)

    Dalla cima del paese si può scendere verso Contrada Oracchio e risalire verso Sant’Andrea, dove un’anziana signora resiste tenace nella gestione di un minuscolo negozio d’alimentari rimasto com’era circa 70 anni fa, e vende fichi secchi, neri e bianchi fatti in casa, rari come pepite. Da qui si può risalire verso i monti di Contrada Pantana, Piano La Poma, Case Chienchiero, ma perché non tornare al quadrivio in cima al paese e salire, superata la Torre Paolo Emilio, verso la frazione di Laise? È un paese nel paese, un abitato di montagna che a fine agosto gravita intorno ad una bucolica sagra della “crespella”, che si tiene davanti al sagrato dell’unica chiesetta.

    Neve a Belvedere

    Da qui si può e si deve risalire – rigorosamente in prima – lungo i ripidissimi tornanti che portano alla frazione più alta, Trìfari, giusto ai piedi della prime cime del Parco: Monte Cannitello e Monte La Caccia. Poche case sparse – là dove pure emersero reperti archeologici – e l’imbocco di un altro sentiero escursionistico (4 ore di salita incessante, senza sorgenti lungo il percorso) che porta al Rifugio e alla Cappelletta di Serra La Croce, già in mezzo ai primi pini loricati.

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    Un pino loricato lungo il sentiero per Serra La Croce (foto L.I. Fragale)

    Il Rifugio è uno dei pochi della zona, il più vicino è quello dietro i monti, presso Fontana di Cornìa (coincidenza a margine: Trìfari e Cornìa sono anche i nomi di due storiche case d’oreficeria, una napoletana e una bolognese). Per arrivarci si passa, tra un capriolo e l’altro, dal luogo detto Gàfaro a Neve, dove ancora nell’Ottocento i belvederesi andavano a rifornirsi della neve migliore. Il Gàfaro a Mare è invece il torrente che ne nasce, e che a valle compete con i più ricchi Soleo e Cozzandrone. Da Trìfari si può proseguire verso nord, verso le contrade Previtelìo, Santoianni, Sabatara, Malafarina, Fontanelle e Piano delle Donne.

    La prima conduce, ostica, a Buonvicino, le altre riportano giù, vertiginosamente verso la SS18 in direzione Diamante. Proprio sull’altura di Contrada Santoianni fa sfoggio di sé, lo scempio – inevitabile alla vista, come un faro indesiderato – di un’orrenda struttura in mattoni e cemento, rimasta incompiuta da decenni (doveva essere il pretenzioso Santuario dell’Emmanuele). Al Piano delle Donne, invece, si è appollaiato un ingombrante e antiestetico complesso turistico.

    Progetto del Santuario incompiuto, presso contrada Trìfari

    Monte Cannitello brucia

    E anche il Monte Cannitello, il mio preferito, brucia. Spesso e malvolentieri. Anno dopo anno, le solite manine laboriose rovinano tutto, con una curiosa precisione nel rispettare i confini comunali. E mi ritorna in mente che l’unica prevenzione è quella utopistica di suddividere il territorio in microporzioni la cui salvaguardia sia responsabilità individuale di una singola guardia forestale aut similia e non di un intero nucleo. Finché la responsabilità sarà di troppi, non sarà di nessuno. E “ti saluto, piede di fico”, in tutti i sensi. Ora potremmo risponderci: meglio la retorica del ficodindia, o l’evoluzionismo tout court?

     

  • Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

    Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

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    Si potrebbe parafrasare la lapide posta 75 anni prima su un lato dell’ingresso del Teatro Rendano, modificandone i versi di Giovanni Bovio – ispirati alla celebrazione della Breccia di Porta Pia – e rendendoli così: “Questa data politica dice finito il nazifascismo negli ordinamenti civili. Il dì che lo dirà finito moralmente sarà la data umana”. Dico questo dal momento che in questo 25 aprile, dopo quasi 80 anni, sembra ahimè piuttosto evidente che la fine morale non è ancora avvenuta. E non parlo tanto delle recrudescenze, non parlo solo di certe nostalgie estremistiche. Parlo di qualcosa di ben più generale, di altrettanto preoccupante, e soprattutto strisciante: di quella sorta di metastasi culturale che, senza neppure sgomitare tanto, si fa strada per inerzia e con molta comodità. Potrei chiamarla semplicemente ignoranza ma credo sia qualcosa di diverso.

    Il 25 aprile inconsapevole

    Il 25 aprile (giusto, desiderato, ottenuto, sofferto e quindi sacrosanto) è diventato per troppi un espediente per la celebrazione tout court. Vero è che non c’è da stupirsi molto, in un Paese che – se pur formalmente a maggioranza cattolica, e talvolta profondamente osservante – festeggia pure le ricorrenze religiose con ben scarsa consapevolezza di cosa si celi dietro una precisa data. Ma quando si parla di date civili, appunto, il problema potrebbe e dovrebbe irritare di più.
    Era il 2015 quando Ballarò mandava in onda questo servizio, a dir poco mortificante:

    Giovani e meno giovani assolutamente ignari di cosa sia la Liberazione, di quando abbia avuto luogo, e da cosa ci abbia liberato.

    Nei giorni tra il 25 aprile e il 1° maggio di ogni anno, definibili bassa marea dialettica, il già dilagante analfabetismo funzionale sui social dà un’accelerata alle proprie rotative, in cui troppi ripetono a vanvera le stesse due o tre nozioncine imparate – se va benissimo – su qualche bignamino. Il problema risiede anche – non solo – nel fatto che gli accadimenti vengono spesso raccontati male, forse pure in buona fede, in un guazzabuglio di concetti e in un affastellamento di micro-periodi storici che si susseguono e si accavallano l’uno all’altro in una narrazione approssimativa.

    Le bombe alleate

    Voglio fare un esempio, o più d’uno. E comincerei da questa foto cosentina. È la foto che ormai funge da testimonianza dei tragici bombardamenti che colpirono Cosenza il 12 aprile 1943. Bene: questa fotografia dovrebbe considerarsi un simbolo sì, ma non una testimonianza, in quanto col 12 aprile non ha nulla a che vedere.
    Per fatto personale: questa istantanea fotografa infatti il momento forse più tragico nella storia del mio ramo paterno, ovvero l’istante esatto in cui una bomba colpisce il palazzo di famiglia in cui in tre piani e mezzo vivevano i miei nonni, la mia bisnonna con altri tre figli, altra nuora e un nipotino (fortunatamente tutti già al riparo nella località in cui erano sfollati per precauzione). È la nuvoletta più a sinistra nella foto, a mezza altezza, ad indicare il preciso momento in cui tutto un patrimonio familiare, morale e simbolico, non solo materiale, va letteralmente – è il caso di dirlo – in fumo.

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    Cosenza sotto i bombardamenti di fine estate 1943

    Ma non è il 12 aprile: dalla documentazione relativa ai Danni Bellici, redatta dal Genio Civile e oggi custoditi presso l’Archivio di Stato di Cosenza, il quartiere delle Paparelle – o, meglio, via Alfonso Salfi – risulterebbe essere stato bombardato il 28 agosto. Mia nonna ricordava invece la mattina dello stesso 8 settembre, in extremis, ma l’ultimo bombardamento su Cosenza risale in verità al 7 settembre (per la cronaca, Cosenza è stata bombardata – oltre all’ormai arcinota data del 12 aprile e alle altre due appena dette – anche il 6 e il 31 agosto, nonché il 3 e il 4 settembre).

    Liberata e stuprata

    Ora, facciamo due più due: considerato il tenore delle risposte date dai passanti nel servizio del link qui sopra, quanti saprebbero dire chi ha sganciato quelle bombe? Non molti, temo. A futura memoria è forse bene ricordarlo: i bombardamenti del ’43 su Cosenza (e purtroppo non solo su Cosenza) furono opera degli Alleati angloamericani. E ciò va detto per chiarezza storica, e poi per un altro motivo: per tenere sempre a mente il fatto che nessuna Liberazione è priva di costi, nessuna è candida e senza macchia.

    A pensarci bene, la questione non è poi tanto diversa da analoghe situazioni odierne, in cui alcuni protagonisti vengono stigmatizzati per la loro discutibile “esportazione di democrazia” in Paesi già piagati da questioni tutte loro. Ed è quindi giustissimo, credo, che assieme alla celebrazione si affianchi anche un momento di orgoglio di segno diverso: Italia liberata, sì, ma pure stuprata purché si liberasse.

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    Militari marocchini inquadrati nell’esercito francese, accampati nei pressi di Monte Cassino

    Le marocchinate

    Stuprata, dicevo: giusto per ricordare quanto a troppe donne (e non solo) sia costata la Liberazione per mano di alcuni ‘lealissimi’ alleati (e sempre al netto dei ‘misericordiosi’ bombardamenti tattici), basterebbe pensare al capitolo dolorosissimo, e ancora di dominio meno pubblico di quanto dovrebbe essere, delle marocchinate, ovvero le violenze perpetrate dai goumiers nel Lazio (ma anche in Toscana, Sicilia, e probabilmente anche in altri luoghi in cui si preferì per vergogna insabbiare anche il dolore delle vittime e dei sopravvissuti). Immaginatevelo voi, un esercito di 120.000 uomini – nordafricani in forza all’esercito francese – colpevoli di oltre 7.000 stupri ai danni di donne, bambine, vecchi e vecchie.

    Sono convinto che, se certi eventi storici fossero meglio conosciuti, quantomeno il giudizio di non poche donne sulla Liberazione sarebbe meno entusiasta. Vittorio De Sica nel film La Ciociara ne dipinse il quadro tragico, e ancora di più Curzio Malaparte nello scabroso e magnifico romanzo La Pelle. Sono gli stessi goumiers della pagina in cui trattano con alcune mamme napoletane intorno al prezzo dei bambini offerti sul libero mercato dei vicoli.

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    Manifesto della propaganda bellica contro i bombardamenti delle Nazioni Unite del 1943

    Gramsci, il partigiano postdatato

    Sempre nei giorni della ‘bassa marea’ dei luoghi comuni celebrativi e/o retorici, fa capolino, puntuale, una citazione gramsciana: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Tutto molto bello e condivisibile. Ma questa frase fu scritta dal Gramsci socialista e crociano del 1917 sul giornale La città futura, testata altrettanto socialista, in tutt’altro contesto e riferendosi alla Russia e a ben altro concetto di ‘partigiano’.

    È validissima lo stesso, per carità (e per fortuna) ma, diamine, questa frase fu scritta quando qui non solo non c’era ancora nessuna Resistenza né alcun partigiano. Quando non solo non c’era una dittatura, ma quando non esisteva nemmeno un partito fascista, nemmeno i primi fasci. E quando il giovane Mussolini era ancora direttore del Popolo d’Italia, col sottotitolo Quotidiano socialista. Socialista, appunto, al pari dello stesso Gramsci. Odio gli indifferenti anch’io, dunque. Ma certe volte c’è addirittura molta più indifferenza nella partecipazione acritica, inconsapevole. E un certo antifascismo autoincoronato – dico “un certo” – che pure esiste, mi pare vada in vacanza e ritorni a scadenze precise.

    Fascisti e antifascisti

    Altro esempio: a Bologna, per ricordare la caduta del governo fascista si mettono le corone ai caduti di un movimento nato successivamente e a quelli di un fatto precedente alla nascita del suddetto governo.
    Nel frattempo il piucchefascista Dino Grandi (due volte ministro, ambasciatore a Londra) concluse la sua carriera politica con l’ordine del giorno del 25 luglio 1943 che porta il suo nome, determinando per primo la caduta del regime fascista (e venendo perciò dagli stessi fascisti condannato a morte, pur riuscendo a scamparla). Ripudiato da gran parte della destra in quanto ‘traditore’ del fascismo, dalla sinistra in quanto ex fascista tra i primi e maggiori, il suo funerale passò in sordina e la sua tomba resta oggi pressoché dimenticata, con due fiori appena nel cimitero della stessa Bologna, dove all’ufficio informazioni vi chiedono se fosse un partigiano.

    Bisognerebbe domandarsi – e rispondersi correttamente – quanto merito abbia avuto lui, nella Liberazione dell’Italia dal Fascismo. Ecco, mettiamocelo in testa: senza il fascista Grandi, la Liberazione di due anni dopo ce la sognavamo, con e senza quella Resistenza che – come scrisse l’esule Mario Bergamo (mica uno qualunque) – «non deviò d’un centesimo (…) il corso della guerra. Giovò alla liberazione militare dell’Italia quanto il fuoriuscitismo alla sua liberazione civile».

    La Calabria e l’Italia dopo il 25 aprile

    E da noi, in Calabria? Poco e niente, siamo la Calabria di Michele Bianchi, da una parte, e del martire civile Francesco Misiano, dall’altra. Domandatevi chi meriterebbe d’essere conosciuto più e meglio. La prendo alla larga ma è un discorso molto, molto generale, che ha a che fare anche con i fallimenti dell’epurazione. Per farla molto breve: Churchill aveva ragione da vendere quando notava che l’Italia era passata dall’avere 45 milioni di fascisti ad avere il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani, pur non avendo mai contato 90 milioni di abitanti.

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    Il calabrese Francesco Misiano, deputato comunista. Malmenato ripetutamente dai fascisti, morto in Russia sotto le purghe staliniane, dimenticato in Italia dai comunisti di Togliatti

    Insomma, teniamocela strettissima, questa Liberazione. Ma teniamoci stretto anche il coraggio di chiederci se sulle sue braci – ché di braci si è comunque trattato, e non soltanto dei sorrisi e degli abbracci del 25 aprile 1945 – si sia riusciti a costruire l’Italia meritata e sperata e non invece qualcosa di maldestro, ancora diviso tra bianchi e neri, buoni e cattivi, e con la solita corsa all’oro di ogni tempo, le solite sperequazioni e gli stessi voltagabbana ai posti più o meno di comando.

    Guerra e pace

    Due ultime citazioni per concludere: ve lo ricordate quel film di Scola, C’eravamo tanto amati? La frase, in apertura, «finita la guerra, è scoppiato il dopoguerra» è di Suso Cecchi d’Amico (non di Flaiano – che si espresse, poi, in modo analogo – né di Scola, né degli sceneggiatori Age o Scarpelli). Vent’anni prima ne scrisse una simile proprio Mario Bergamo: «Il Fascismo ha perduto la guerra, l’Antifascismo ha perduto la pace». Intelligenti pauca.

    Cosenza, il quartiere delle Paparelle e di Colle Triglio negli anni ‘20/’30 del Novecento (da L.I. Fragale, Microstoria di Calabria Citeriore e di Cosenza, 2016)

     

  • STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

    STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

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    Ursulus, Orgilus, Ordeolus, Oriolo Calabro è l’unico comune calabrese a confinare con entrambe le province della Basilicata. L’incrocio in cui i tre confini si incontrano è un innocuo punto in cui un torrente calabrese diventa fiumara lucana: a sinistra Cersosimo (PZ) e a destra San Giorgio Lucano (MT). Il luogo è così anonimo da non essere raggiungibile nemmeno attraverso sentieri o mulattiere. E, del resto, sarebbe anche interessante capire cosa abbia decretato che il Comune di San Giorgio Lucano diventasse materano pur essendo storicamente nato da una costola della potentina Noepoli. Ma tralasciamo…

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    Confini…

    L’exclave stritolata da tre paesi 

    C’è un’altra curiosità legata ai confini amministrativi di Oriolo (peraltro neppure registrata da Wikipedia): è uno dei pochi Comuni calabresi a possedere un’exclave intercomunale. Una propria minuscola zona di montagna, dalle parti del Timpone della Foresta, di chissà quale insondabile importanza, è infatti tutta chiusa tra i comuni di Alessandria del Carretto, Albidona e Castroregio. Misteri…

    La cosa è ancora più bizzarra se si pensa che la stessa Castroregio, a sua volta, ha un’exclave (l’intera frazione di Farneta) completamente circondata dai Comuni di Oriolo, di Alessandria e dalla Basilicata. Scambievoli partite di giro? Exclavi culturali, a pensarci bene, più che geopolitiche.

    Terra di exclavi

    Non vorrei mettermi a fare una lista di tutte le exclavi calabresi, ma me ne vengono in mente almeno altre tre, in provincia di Cosenza. Cerchiara ne ha una lontanissima, confinante con la Basilicata proprio sulla cima del Pollino, anzi, più esattamente sulla cima più alta del massiccio, ovvero la Serra Dolcedorme, mentre sul lato calabrese è chiusa dai Comuni di Castrovillari e di San Lorenzo Bellizzi.

    Mormanno ha una propria zona di montagna chiusa tra i comuni di Laino Castello e di Papasidero. E infine Acquappesa possiede, a notevole altezza, quel piccolo territorio – che racchiude il Monte Pistuolo e due case cantoniere – inserito tra i Comuni di Cetraro, Fagnano, Mongrassano e Guardia Piemontese. Ve ne sono sicuramente altre che mi sfuggono, ma conviene tornare ad Oriolo.

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    La chiesa madre di Oriolo

    Alla base della rupe su cui sorge il centro storico, vicino alla fenditura che lo separa dalla collina adiacente, hanno (ri)visto recentemente la luce i ruderi del convento quattrocentesco di San Francesco d’Assisi. La notizia è passata come una poderosa scoperta, ma in realtà l’ubicazione era nota, i ruderi – e finanche gli affreschiin parte visibili; le fonti confermavano, i vecchi contadini del luogo pure.

    Il fatto è che trent’anni fa erano stati chiusi due occhi per farci passare sopra un ponte. Nel frattempo l’altro convento, quello dei Cappuccini, fa mostra dei suoi ruderi in cima al paese e delle sue suppellettili più preziose nella Chiesa madre di San Giorgio martire, che vale la pena d’essere visitata.

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    Particolare dell’affresco trovato nel sito del convento di San Francesco d’Assisi

    Il dito di San Francesco di Paola

    Altri trasferimenti di reliquie stanno invece alla base di una leggenda che sarebbe l’ora di sfatare. Ovvero quella legata al toponimo “Rivolta del Monaco”, una zona di Oriolo, dalle parti del Ponte Giambardino e di contrada Donnangelo, lungo la vecchia strada che porterebbe ancora al centro storico di Amendolara se non fosse franata anni fa. La tradizione orale e le non meno fantasiose memorie scritte intorno ad alcuni avvenimenti che interessarono le reliquie di S. Francesco di Paola, narrano – e ci si mise anche Vincenzo Padula! – di un monaco recatosi nottetempo nella chiesa del convento per rubare il sacro oggetto (un dito del santo).

    Durante la fuga si sarebbe alzato un vento minaccioso e, giunto il monaco all’altezza dell’attuale accesso alla strada vicinale per le Destre di Pizzi, una pioggia torrenziale avrebbe ingrossato la fiumara del Ferro, rendendone impossibile il guado, cosicché il poveretto avrebbe dovuto (ri)voltarsi indietro nel luogo poi denominato, appunto, Rivolta del Monaco. Peccato che però rivùtu e rivóta significhino ben altro, nel lessico contadino; e che nel Settecento il luogo fosse registrato anche, e più comprensibilmente, come Raccolta del Monaco.

    Tombe e reperti

    E cosa si trova se si risale dalle suddette Destre di Pizzi verso le colline boscose della Rùscola, oramai paradiso dei cinghiali? Tombe “alla cappuccina” venute alla luce durante le campagne archeologiche in contrada Gattuzzo. A due passi da lì, vale la pena soffermarsi ad osservare un altro tipo di reperto “archeologico”: se c’è una riverita archeologia industriale, è il caso di apprezzare anche quella agricola, come appunto un raro esempio di “jazzo” semicircolare per le pecore. Se ne trovano ancora pochissimi, sperduti in qualche campagna più o meno raggiungibile (uno, più integro, si trova presso l’antica Masseria Acciardi, ad Amendolara).

    Peste e rivoluzione ad Oriolo

    E in fondo c’è solo un modo per capire a fondo questo paese: leggerne le cronache seicentesche scritte da Giorgio Toscano. Se ne capisce così l’anima variopinta, la stratificazione sociale e storica. Per farla breve: Toscano, nato intorno al 1630, era un benestante, nobile, e anche un coltissimo giurista. Ad un certo punto della sua vita si mette a scrivere la storia del suo paese, con una dovizia di particolari al limite dell’ossessivo, compreso un intricatissimo resoconto genealogico su tutte le famiglie più in vista: circa 250 anni di storie familiari, ascese, declini, doppi, tripli, quadrupli matrimoni quasi al limite dell’incesto.

    I suoi manoscritti sono stati trascritti e pubblicati intorno al 1996 e meriterebbero maggiore diffusione. Vi è il racconto della rivoluzione del 1647, arrivata fin lì dalla Napoli di Masaniello; della peste che colpì Oriolo nel 1656, quando si seppellirono gli appestati nell’odierna contrada Carfizi; del lago prosciugato dove l’autore, da bambino, andava a pescare; dell’invasione delle cavallette, quando una famiglia si ridusse a cibarsi di un asino morto per malattia; di qualche omicidio “eccellente” nella buona società del borgo. Il tutto cesellato con un linguaggio barocco ma anche alla mano, che non annoia e anzi riesce finanche a divertire.

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    Gli effetti della frana che alcuni anni fa ha interessato parte del territorio di Oriolo

    Caduta libera

    Purtroppo la Oriolo di Toscano è oggi in caduta libera. E “caduta” è il termine più esatto, tenuto presente che la maggior parte delle case più antiche, quelle nel borgo medievale arrampicato sulla roccia, implodono progressivamente a causa dell’abbandono prolungato. Quelle più sfortunate, poste ai bordi dell’abitato – o, meglio, del “disabitato” – franano direttamente a valle, cadendo nel dirupo (“lo garambone sicco” – come lo chiamava Toscano – dall’arabo gharraf, “precipizio con scolo”). È un’erosione lenta, che sgrana i confini del “burgo”, decennio dopo decennio.

    Un vicolo di Oriolo (foto L. I. Fragale)

    E le frane, qui ad Oriolo, hanno lasciato ricordi recenti anche più raccapriccianti: fu il 1° aprile 1973 che a franare a valle fu addirittura il cimitero, con tutte le conseguenze che lascio all’immaginazione di chi legge. No, stavolta l’assenza del trittico giuridico diligenza-prudenza-perizia non c’entra, né è una faccenda solo calabrese. Mi viene in mente l’analogo episodio accaduto appena un anno fa a Camogli, con duecento bare finite in mare; e l’altro, analogo, anni prima, a Fiorenzuola di Focara.

    Oriolo e i cimiteri

    Il vecchio cimitero di Oriolo resta lì, con una grossa catena al cancello. Dal novembre 2018 si può visitare su prenotazione, ma all’interno non resta nulla, se non qualche rudere di cappella che non aveva neppure cent’anni di vita, alcune anche di pregio, e un tappeto decennale di aghi di pino. Il nuovo cimitero è stato costruito in piano (nel punto dove confluiscono due fiumare…), a due passi da quel meraviglioso maniero rinascimentale nascosto tra gli ulivi della valle, ovvero l’ex casino di caccia di Palazzo Santo Stefano.

    Prima che il nuovo cimitero fosse pronto, Oriolo si servì di una sorta di “cimitero temporaneo” di cui resta qualche traccia, da poco recintata, senza alcuna indicazione. Non si spaventi quindi chi dovesse giungere ad Oriolo dalla strada interna che unisce a Montegiordano: è su un prato fuori da un tornante di questa S.P. 147 che a un certo punto vedrà spuntare dal nulla alcune croci di ferro, alcune lapidi, fotografie, date e qualche fiore finto.

    Una piccola Sila jonica

    Alle spalle del paese, si risale invece verso le ben più amene colline e poi verso le montagne del confine. Faccio un paragone azzardatissimo eppure non del tutto campato in aria: quasi non è un pre-Pollino ma piuttosto una piccola Sila jonica, con le sue ville e villette di montagna, alcune anche piuttosto antiche, costruite da e per la borghesia e la nobiltà oriolana. Bisogna perdercisi, perlustrare questi boschi e queste campagne senza una meta precisa.

    E il mio consiglio è quello di farlo confrontando, ancora una volta, due fonti inconsuete: ancora gli scritti seicenteschi di Toscano, e poi le mappe 1:10.000 dell’Istituto Geografico Militare non più recenti degli anni Cinquanta. Solo lì si può ancora trovare una corrispondenza quasi piena con i toponimi antichi. E allora vi sembrerà di poter incontrare realmente i personaggi narrati da Toscano. E quantomeno troverete davvero quei luoghi dai nomi bizzarri: la fontana dell’Azzoppaturo, il pozzo di Popa Battarina, le cime delle minacciose Armi di Lettieri
    Meglio guardare, da qui in alto, giù verso il paese: pittoresco, scenografico, credo uno dei più belli della Calabria. Per quanto ancora?

     

  • STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

    STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

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    Dov’è Cirella? A monte, a riva, in mezzo al mare? Cos’è, Cirella? Un luogo a sé stante, mi pare, un punto che si separa dal resto senza spocchia ma con un’aria quasi offesa, impermalosita. Formalmente frazione di Diamantela chiassosa Diamante, la mondana Diamante estiva, coi suoi cliché logori altalenanti tra murales, peperoncino e inezie di recentissimo parto – Cirella ne conserva forse l’anima più eletta, più regale, mantenendo con grazia un basso profilo che altrove s’è dimenticato (ammesso che vi sia mai stato).

    Cirella nuova sta giù, lungo la riva del mare. Tra lei e la vecchia, sta il taglio feroce della SS18 (intendo il tratto nuovo, perché un tempo si passava in mezzo a Cirella nuova), che ha lasciato miracolosamente incolume una tomba romana. Un ponticello porta le scuse del taglio e conduce alle rovine di Cirella vecchia – ahimè fin troppo immortalate – che fanno da guardia dalla cima della collina. E questo tutti lo sanno.

    Ci torno per guardare a 360° quel cortometraggio naturale che la postazione offre. Una sorta di balconata su una piccola porzione di Magna Grecia: a nord la pianura, fino a Scalea, dove la cementificazione selvaggia ha messo a tacere per sempre chissà quanti reperti archeologici. Restano ancora alcuni spazi coltivati, nemmeno piccoli. Non so se sperare che restino così o che vi si faccia più attenzione (quell’attenzione che dalle nostre parti è poi spesso controproducente).

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    I ruderi di Cirella vecchia e, a destra, il Convento dei Minimi

    I ruderi di Cirella vecchia e il Convento dei Minimi

    E poi non solo la pianura, ma anche tutta la teoria di varchi tra le montagne, che millenni fa portavano – non proprio dritti dritti – a Sibari. Sono le cosiddette vie istmiche. E da queste parti ne arrivavano almeno tre, alla faccia della viabilità attuale: la più certa è quella che da San Sosti si inerpicava nella gola del Torrente Rosa (dove oggi sorge il santuario della Madonna del Pettoruto, già tempio dedicato ad Hera) fino a raggiungere il Valico del Palombaro (tra il Monte Alto e la Montéa) e ridiscendere verso la località Pantanelli (ancora oggi meta di scampagnate per gli abitanti di Grisolia e Maierà) e da qui finalmente a Cirella vecchia attraverso Grisolia.

    Altra via istmica era una semplice variante della suddetta: arrivati al Valico del Palombaro procedeva ad ovest anziché a nord, aggirando il Monte Carpinoso (quella sorta di grande carapace brullo alle spalle di Maierà) lambendone le pendici, per giungere ugualmente a Cirella vecchia, attraverso quella bellissima stradina che ancora oggi conduce ripida dai ruderi fino a Vrasi, passando vicino all’antico al Convento dei Minimi e a qualche vacca placida.

    La terza via costituiva ancora un’altra variante: sempre arrivati al suddetto Valico si scendeva a sud-ovest verso la località Serrapodolo, nell’entroterra di Buonvicino, e da qui si raggiungeva la costa di Diamante.
    Che poi perché “del Palombaro”? Vi si rifugiavano i colombi, ad un’altitudine del genere? Dubito. Vi era stata costruita una colombaia, in mezzo al nulla? Idem. E dubito pure che c’entri qualcosa col significato dialettale, anzi gergale, del verbo derivato dal palummo (digressione impercettibile: in proposito penso sempre a come la rondine, in inglese, possa significare esattamente il contrario: insomma: si può “colombare” solo ciò che si è prima “rondinato”). Ma torniamo a noi.

    Ovviamente non dovete immaginare delle strade rotabili: si tratta e si è sempre trattato di sentieri, a tratti anche scomodi e ripidi, buoni da fare a dorso di mulo o, più probabile, a piedi di fianco al mulo già oberato. Lungo queste vie si trasportava di tutto, a seconda del periodo storico: il ferro, il sale, l’olio, il vino, eccetera. Il vino, appunto. Mica vero – come qualcuno ha pur scritto – che il vino calabrese dei secoli passati fosse poi così cattivo. Anzi, esattamente il contrario. E almeno in un’eccezione che coinvolge proprio Cirella, i cui vini hanno goduto da sempre di fama indiscussa (e meritata).

    Il Chiarello era il vino di Papi e cardinali

    Chiarello, il vino dei Papi

    Questa faccenda mi va di spiegarla un po’ meglio, perché merita. Una traccia sta tra le celebri pagine degli almanacchi editi nell’Ottocento da Borel e Bompard, quando dicono che «gli zibibbi o uve passe (…) di Calabria sono i migliori del regno e di tutto il resto dell’Italia. Quelli delle isole di Cirella e di Dino sono eccellenti».
    Ma l’eccellenza è il Chiarello: addirittura Strabone (†23 d.C.), ricordò «il borgo di Cirella (…) nel contado del quale si producono due qualità di vino (…) chiaro e rosso. Il primo è detto Chiaretto per il suo splendore e per il suo corpo e perché, quanto a chiarezza, potrebbe gareggiare con l’oro. (…). Si conserva per due o tre anni e merita di essere detto il modello unico d’ogni vino più eletto; (…) è gradevolissimo al palato e allo stomaco, scende rapidamente nelle prime vene e fino ai reni, è molto nutriente, genera sangue buono e sottile, conduce alle loro vie naturali i residui degli umori, provoca il sudore e l’urina e scaccia la renella. Non prende alla testa, bensì vivifica tutti quanti i sensi e meravigliosamente spinge a profonde speculazioni l’ingegno dei vecchi e anche di coloro che hanno la mente intorpidita. Rallegra il cuore e l’animo».

    Praticamente una teriaca, più che un vino. E se faceva miracoli non poteva non interessare chi di miracoli se ne intende: divenne infatti oggetto di particolare riguardo nei palazzi vaticani. Nel 1492 il re Ferdinando d’Aragona scrisse al poeta Pontano di aver inviato in dono – al pontefice appena salito al soglio – 24 botti di vino tra cui 9 del Chiarello di Cirella. Una cinquantina d’anni dopo Sante Lancerio – “bottigliere” di papa Paolo III (Alessandro Farnese, †1549) – inviava una lettera al cardinale Guido Ascanio Sforza, in cui faceva cenni di plauso a “La Centula”, al “vino di Ciragio”, a quello “di Pesciotta” ma soprattutto al “vino Chiarello“.

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    La scogliera di Cirella

    Il preferito di Sua Santità

    Attenzione, papa Farnese e Lancerio non erano degli sprovveduti: giudicarono ben 53 vini e il secondo disse del Chiarello: «È molto buono et era stimato da Sua Santità e da tutti li prelati della corte (…). Bisogna che sia di colore acceso più che l’oro et odorifero assai, ché non odorando sarebbe di Grisolia od Orsomazzo [sic]. E non ha bevanda pari, ma volendolo salvare alla stagione d’autunno, bisogna si pigli alla barca nella primavera e mettisi in luogo fresco e che non senta travaglio, e pigliarlo crudo, odorifero e grande, che il caldo lo maturerà».

    Superiore ai vini di Francia per Torquato Tasso

    Ad elogiarlo ci si misero pure lo storico Gabriele Barrio, l’abate Pacichelli e addirittura Torquato Tasso (†1595), il quale dichiarò che il vino di Cirella era «uno degli onori d’Italia, superiore ai vini di Francia».
    Insomma, il “chiaretto” a Roma cominciava a pagarsi «a grandissimo prezzo» ed era divenuto distintivo di un certo privilegio sociale, tanto che veniva definito quale vino “da signori” e non “da famiglie”. I maggiori consumatori di questi vini calabresi restano dunque le alte gerarchie ecclesiastiche: la corte pontificia consuma da mille a milleduecento botti di vino calabrese.
    E insomma fu proprio lo Stato Pontificio, dal Rinascimento in avanti, a emanare molte delle norme inerenti alla produzione e alla vendita di questo vino. Tuttavia né gli storici locali, né i vaticanisti, né gli storici dell’enologia si erano mai imbattuti in un certo documento che incrociai anni fa tra le carte della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

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    Il bando pontificio cinquecentesco a tutela dei vini di Cirella, custodito presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma

    Si tratta del Bando contra quelli che adulterano o misticano vini & vendono per chiarelli altri vini che quelli del loco di Cirella, emanato nel 1589 dalla Camera apostolica: già durante il trasporto dei vini via mare avvenivano troppe mistificazioni al fine di “vendere per Chiarelli altra sorte di Vini, che quelli, che realmente si raccogliono (sic) nella Terra di Cirella & suo Territorio e distretto, quali ab antiquo, se sogliono chiamare Chiarelli”. La cosa più curiosa è l’incredibile severità delle pene previste, tenendo presente che si tratta pur sempre di vino: «cento scudi d’oro, perdita delli Vini & barche & altri vascelli (…) altre pene corporali, da imporsi, & moderarsi à nostro arbitrio». C’è da credere che facilmente si addivenisse a forme di compromessi e a corruzioni diverse.

    Il declino del Chiarello

    Tutto ciò può probabilmente esser letto come motivo del declino dei vini cirellesi: una attenzione eccessiva verso di essi da parte delle autorità avrà convinto commercianti e produttori a rinunciare all’esportazione di questi vini. Fine del Chiarello?
    Davanti alla vera e propria isola di Cirella e dopo la scenografica scogliera, incredibilmente preservatasi (il basso profilo…), sono tuttora visibili i resti delle celle e delle tubature di cui scrisse Ferdinando Ughelli nel 1722: «Vi erano duecento tubature nei campi e anche di più erano le celle vinarie presso il mare, alle quali attraverso le tubature i vini venivano condotti».

    Fino a qualche anno fa il vino locale – e che vino – si trovava nella piccola cantina della signora, lungo la strada che porta all’antica chiesetta in mezzo al borgo. Oggi la cantina è chiusa, e ne resta traccia solo per la fatidica esortazione dipinta sul muro esterno (cito a memoria) «Vuota il bicchier che è pieno, riempi il bicchier che è vuoto. Non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto».
    Oggi può chiacchierarsi però con un anziano (e bravissimo) cuoco, quando chiude la cucina e si mette a fumare in sala, guardando la tv, davanti agli ultimi clienti (tutti talmente soddisfatti da non essere minimamente infastiditi dal fumo). E ti racconta che mette le favette nere per cambiare il terreno e dargli più azoto, così da far venire le verze più buone. E che i cinghiali si sono rotti il muso nel suo orto pur di scavare per cercare l’acqua vicino ai paletti di cemento.
    Ecco cosa succede, a cercare acqua e non vino a Cirella…

  • STRADE PERDUTE| Rocca Imperiale: Totò, limoni e nobiltà

    STRADE PERDUTE| Rocca Imperiale: Totò, limoni e nobiltà

    Chi se lo ricorda Totò in Destinazione Piovarolo? Umile ferroviere, vi veniva spedito a fare il capostazione: il luogo era dimenticato da Dio e chi poteva se ne andava. Poi un giorno arrivava la sospirata notizia: Totò veniva distaccato a Rocca Imperiale. Ma era una pura formalità: era solo successo che le autorità fasciste avevano cambiato nome al paese.
    Pare che gli sceneggiatori nemmeno sapessero che la nostra Rocca Imperiale esistesse realmente.

    Tante sovranità e un primato

    Del resto, come ho già detto, Rocca ha storicamente altalenato nella sua appartenenza amministrativa: un territorio, se non conteso, quantomeno condiviso e quasi mercanteggiato dalle diverse sovranità territoriali che vi si sono succedute, passando addirittura da essere pertinenza del Principato di Benevento ad esserlo poi della Terra d’Otranto, e successivamente assegnato alla Basilicata, alla Calabria e nuovamente alla Basilicata (prima sotto Matera, poi sotto Potenza). E, ancora, al distretto di Lagonegro, di Castrovillari, al mandamento di Rotondella, di Oriolo Calabro e infine, solo dal 1817, alla provincia di Cosenza.
    Rocca Imperiale ha pure un primato: è il capoluogo di Comune più settentrionale della Calabria (mentre appartiene al Comune di Nocara il lembo di terra più a nord della Regione).

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    Un frame da “Destinazione Piovarolo” (1955)

    Come di consueto, mi tengo lontano dall’enumerare attrazioni turistiche e culturali. Del resto sono chiuse in pieno agosto, com’è altrettanto consueto che sia, dalle nostre parti, nelle località balneari, per via delle illuminatissime gestioni locali. Però non posso evitare di menzionare quel manifesto dove si elencavano le principali opere custodite presso il Museo delle Cere. Tra i tanti personaggi dell’elenco spiccava (con tanto di foto, a scanso di equivoci) la laconica definizione di “Calcutta”. Da intendere, ovviamente come “Madre Teresa di” e non nel senso del cantante. Tutto molto analitico, insomma. Con buona pace del senso del ridicolo.

    Rocca Imperiale: presepe e limoni

    Dicevo quindi che non è il caso di cadere – come si fa sempre anche per Morano Calabro – nel solito luogo comune del paese che «uh, che bello, sembra un presepe». Anche perché, a rigor di logica, sono i presepi a voler assomigliare ai paesi. Semplice questione di uova e galline, precedenza anagrafica nell’esser fatti a immagine e somiglianza d’altro.

    Del resto, anche al meraviglioso castello ho già accennato e allora andiamo semmai a cercare quello che si vede meno: il Comune di Rocca Imperiale non è nemmeno particolarmente esteso ma i suoi talenti nascosti li ha. Non dico le arcinote e vastissime piantagioni di limone – che chi di dovere e potere protegga – ma dico piuttosto i pianori disabitati di Santa Venere.

    Vi si arriva ignorando ovviamente la nuova 106 e infilando la vecchia, oggi relegata a funzione di complanare. Da qui, si possono scegliere due diverse uscite – l’una vale l’altra – e dopo aver macinato un po’ di tornanti e un pezzo di bosco fittissimo e pietroso, si arriva sulla sommità della collina: a un tratto sparisce ogni traccia di albero e restano solo prati e vento. Anche qui l’archeologo Lorenzo Quilici setacciò palmo a palmo ogni podere trovando e catalogando con zelo ogni possibile coccio. Fu luogo abitato, infatti, secoli e secoli fa. E non di poco conto. Nulla rimane, neppure qui.

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    Piantagioni di limone a Rocca Imperiale

    Lo scoglio degli scrittori

    Altra strada interessante, se non fosse interrotta da numerose frane (almeno all’epoca in cui la perlustrò il sottoscritto) è la vecchia comunale che portava da Rocca a Canna, del resto oggi definitivamente surclassata dalla comodissima provinciale costruita su un fianco dell’ormai innocua fiumara del torrente Canna.
    E il mare dov’è? Là, dietro la ferrovia, una striscia di pini e sassi davanti a quello scoglio del Cervaro dove si incontravano scrittori del calibro di Dario Bellezza ed Enrico Panunzio . Poeta maledetto, romano, il primo, pupillo di Pasolini, seminatore di ricordi non sempre graditi tra i rocchesi; scrittore sopraffino, pugliese e poi parigino d’adozione, il secondo, incompreso, sottovalutato e sconosciutissimo cesellatore del suo ‘barocco appestato’ (rubo però la definizione data da altri, e giustamente, al genio di Enzo Moscato). Paragonato a Gadda, Landolfi, Pizzuto (ma io direi anche Bufalino o addirittura Imbriani, per la ricercatezza della lingua). Due maestri d’“oltrecalabria” che amarono risciacquare i panni in Ionio.

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    Lo scoglio del Cervarolo

    La marina di Rocca Imperiale resta in gran parte chiusa tra la nuova e la vecchia 106: si biforcano, a un certo punto, separandosi come due amanti. Congestionata, rumorosa e frenetica, l’una. Serena, placida e decorata dalle file dei suoi vecchi pini svettanti, l’altra. Su un fianco di questa sopravvive una torre d’avvistamento medievale, diventata nel corso del tempo un’abitazione privata.

    Un gioiello dimenticato

    E poi un gioiello dimenticato. Così ampio da sembrare più basso di quanto in realtà non sia; costruito in piano, e oggi quasi soffocato dagli altri edifici, qui alla marina non svetta – come meriterebbe – il Magazzino del Grano. Neppure gli storici e cultori dell’architettura settecentesca si sono particolarmente curati delle vicende di questo fabbricato.

    A farlo costruire fu il duca Fabio Crivelli, nel 1731, secondo direttive molto complesse. Era munito di buche sotterranee per le diverse qualità di grano, ciascuna della capacità di circa 500 quintali e rivestita a calce. Non deve stupire che da Rocca passasse tanto grano: qui c’era una dogana del Governo, e il traffico marittimo che vi faceva capo era addirittura superiore a quello di Gaeta.

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    Facciata del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale (foto L.I. Fragale, aprile 2010)

    Nel 1855 il barone Giuseppe Mazzario di Roseto Capo Spulico incaricò suo figlio Pietro di acquistare dal duca Nicola Crivelli alcuni latifondi nonché proprio il Magazzino “sito in rivo della Marina di Rocca Imperiale”. Con quel tanto di avarizia inevitabile agli affaristi del nuovo notabilato meridionale, cinque anni dopo venne stilato un curioso contratto di deposito in base al quale l’uso dei locali dell’enorme Magazzino venne concesso al Real Governo, a causa di un’emergenza (“avendo investita questa spiaggia due Legni carichi di grani del Real Governo”).

    Il tutto a particolarissime condizioni favorevoli a Mazzario, tra cui quella di poter eventualmente “ricacciare sulla spiaggia” tutto il grano in caso di inadempimenti, ovviamente a spese della controparte e sollevandosi dalla responsabilità del deperimento e finanche della “perdita” del grano stesso, messo così alla mercé di chiunque, compresi – è facilmente intuibile – i primi ad esserne informati, ovvero gli stessi uomini di fiducia del proprietario.

    Dal grano alla cultura

    Il Magazzino passò poi sotto le cure dei nobili Toscano di Rocca Imperiale, prima di diventare di proprietà pubblica, restando inutilizzato. Abbandonato così per anni, è diventa-to semplice deposito di materiali deperibili. Non troppo tempo fa si progettò un possibile recupero dell’edificio, prendendo ad esempio il recupero della Sala Borsa di Bologna, dimostrando cioè come – da struttura abbandonata – il Magazzino avrebbe avuto le qualità per diventare luogo di aggregazione in cui far confluire attività culturali (potendo disporre, peraltro, di una superficie di circa 980 mq potenzialmente raddoppiabile con la predisposizione di un ballatoio).

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    Interno del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale ((foto L.I. Fragale, aprile 2010)

    I Toscano, dicevo: e allora torniamo allo svincolo della Statale, prima di andarcene via. È proprio sul poggio qui di fianco che si riescono a scorgere alcune delle strutture dell’antica Masseria di contrada Saliva, dei baroni Toscano/i (dopo secolari indecisioni, col tempo il cognome ha preso definitivamente il plurale). Ancora una volta mi viene in mente il Gattopardo: un palazzotto nobiliare avvolto dalle piante (qualche palma stravecchia, eucalipti, chiome a ombrello di pini secolari), una cappelletta privata, un’antica dependance. Il tutto affacciato da lontano sul mare, da prima che vi fossero le strade, da prima che vi fosse la ferrovia. Sul retro, un lunghissimo viale d’ingresso, alberato, in mezzo a interminabili filari e piantagioni ordinatissime sul pianoro di contrada Maddalena.

    Voci da un altro tempo

    È forse una delle ultime residenze nobiliari, in questo lembo di Calabria, a poter conservare memorie storiche di qualche consistenza, e uno dei pochissimi casati locali sopravvissuti al Novecento. Lo guardo con malinconia, quest’edificio, un tempo elegante, ora dall’intonaco malmesso e qualche infisso esasperato dopo duecento anni di sole, vento e salsedine. Ci potevi mettere forse due minuti, a cavallo, per raggiungere la sponda del mare in mezzo agli agrumeti. Ora c’è tutta una ferita di svincoli, rotonde con in mezzo i gesucristi di cemento a braccia aperte, manco dovessero dirigere il traffico. Ah, il buon gusto!

    La vecchia nobiltà s’è ritirata (e ha fatto bene). E mi verrebbe da tornare a Panunzio e al titolo del suo primo romanzo, I signori scaduti. Ricordo una telefonata, una decina d’anni fa, con l’ultranovantenne barone Lucio Toscani che, a un certo punto, lucidissimo, mi disse con voce flebile «e questo è tutto. E ora non so come passare il tempo. E vivo completamente solo… in questo enorme palazzo». Tarda voce da un altro tempo.

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    Rocca Imperiale nel Settecento (Jean Louis Desprez per il Voyage pittoresque ou Descrip-tion des royaumes de Naples et de Sicile di Richard de Saint-Non, Parigi 1781)
  • STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

    STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

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    A Buonvicino si arriva in 15 minuti da Diamante. Basta volersi fare questa cortesia e sopportare qualche curva. Quella per arrivarci non è una “strada perduta” ma è una strada che, per chissà quale ragione, ancora troppi si ostinano a non percorrere. Eppure Buonvicino ha ottime carte da giocare e basterebbe farsi guidare da appetiti – è il caso di dire – molto ruspanti, senza arzigogolare troppo di fantasia. Perché c’è poco da girarci intorno: a Buonvicino tanto per cominciare si mangia in maniera straordinaria. E questo è un primo dato di fatto inconfutabile.

    Qui si mangia e si beve bene

    Se c’è una cosa per cui i turisti ricordano la Calabria con ammirazione stupita, questa è solitamente la quantità di portate che si nascondono dietro la vaga dicitura di “antipasto misto della casa”. Bene: a Buonvicino, generalmente, dovete moltiplicare per 2 la quantità già ipertrofica e almeno per 5 la qualità rispetto alla media regionale (e giuro di non essere al soldo della pro-loco locale).

    Non è finita qui: i vini locali hanno sapore, corpo e gradazione che francamente non ho mai trovato altrove (gusti personali, ovviamente ma c’è anche una ragione storica di cui parlerò un’altra volta). I ristoranti disseminati lungo i tornanti che portano al paese possono provarlo con fierezza (e qui mi taccio), qualora a provarlo non bastasse la toponomastica con le contrade Vignali, Ficobianco e Puma: tutto intorno al “food”, insomma. Ma mica da ora…

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    Frontespizio della prima edizione della Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837)

     

    Il duca Cavalcanti con la passione per la cucina

    Il caso – anzi – la storia vuole che, ad un certo punto, a fregiarsi del titolo di duca di Buonvicino fosse quell’Ippolito Cavalcanti che nel 1837 fu anzitutto autore di quel libro – la Cucina teorico-pratica – che fu il più celebre ricettario d’Italia per almeno 54 anni (nonché il primo a menzionare la ricetta della pasta al pomodoro), ovvero quando fu soppiantato dall’ormai più inclusivo e ‘unitario’ Pellegrino Artusi (col fin troppo popolare La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene).

     

    Ora, parliamoci chiaro, il ‘buonvicinato’ c’entra poco, in quanto Ippolito era tutto campano: di madre, di nascita, formazione e decesso (e lo stesso libro è scritto in due lingue: napoletano e italiano). Vero, al suo bisnonno Lucio era stato conferito da Carlo VI il titolo di primo duca di Buonvicino già nel 1720, e l’omonimo nonno di quest’ultimo ne era già barone ancora prima, ma va anche considerato il fatto che, lasciata la Toscana, i Cavalcanti tra Napoli e la Calabria proliferarono enormemente, ed è quindi difficile stabilire quanto davvero Ippolito abbia solcato i vicoli di Buonvicino.

    I vicoli forse no. I campi e i vigneti forse di più, perché una cosa certa c’è: ai Cavalcanti appartenne il gattopardesco Casino di Contrada Lago, oggi abbandonato dopo un primo tentativo di ristrutturazione e ampliamento da parte di privati. L’imponente portale, sempre chiuso, cela dietro al suo muro di cinta semicircolare diversi corpi di fabbrica, tra cui una cappella intitolata a San Giacomo, che certamente potrebbe dire qualcosa di più anche sulla storia di Ippolito e dei suoi.

     

    L’albero genealogico

    Non c’entra ma c’entra: un piccolo dato genealogico che solitamente sfugge e va invece fissato da qualche parte è che la nonna paterna di Ippolito era Marianna Andreassi de Consiliis – originaria di Oriolo Calabro – il cui nonno Francescantonio era, a fine Seicento, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e i cui avi De Georgis furono committenti, nel Cinquecento, dello splendido presepe in pietra di Tursi. Chiusa parentesi.

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    Cartiglio lapideo nella chiesa di San Ciriaco Abate, con voto di Ippolito Cavalcanti (senior) e consorte

     

    Buonvicino è un po’ Napoli

    Buonvicino e Napoli, dunque, e il nesso torna quando intravedi nel centro storico un “vico Speranzella”, che riporta dritto ai Quartieri Spagnoli e alla pizza fritta di Donna Fernanda. Ancora una volta, testa e pancia. Nel bar della piazza mi ero fermato a parlare con due anziani – forse nemmeno tanto – che si contendevano la scena mentre il numero di bicchieri di vino reciprocamente offerti diventava sempre più incerto.

    Gerardo e Angelo mi raccontavano così del maestro d’ascia Francesco Martorello, classe 1906, che batteva i boschi dormendo all’addiaccio in sacchi a pelo fatti di foglie d’albero; della grotta del diavolo, di quella d’u sìettu, della zona della scivulenta detta così perché ci si facevano scivolare i tronchi degli ontani appena tagliati, della grotta di Maladurmì che col suo nome confermava tutto il mio scetticismo di quando altri mi raccontarono l’improbabile etimologia che riconduceva a questa stessa parola il nome della contrada Maladrumi in Sardegna, verso Porto Istana.

    Ma torniamo agli anziani del luogo, meno fantasiosi (forse): mi parlavano dei feudatari della prima metà del Seicento, i De Paula di Malvito (pure avi del gastronomo Cavalcanti), contro i quali la popolazione di Buonvicino si sarebbe armata ferocemente non soltanto per opporsi all’aumento dei balzelli ma anche – immancabile in ogni leggenda che si rispetti – allo ius primae noctis.

    Sanzioni economiche 

    Buonvicino e l’Impero fascista: appena si entra nel centro storico ci si imbatte in una lapide che, lì per lì, dice poco e che invece ha anch’essa un suo primato ben preciso: è tra le meglio conservate delle circa 40 colleghe superstiti in Italia. Risale alla fine del 1935 e ricorda le sanzioni economiche comminate all’Italia da parte della Società delle Nazioni in occasione delle conquiste in Africa Orientale.

    Lapide fascista contro le sanzioni inflitte all’Italia dalla Società della Nazioni (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per disposizione dello stesso Mussolini, tale lapide doveva essere affissa presso tutte le sedi municipali italiane. Dopodiché furono rimosse, abrase, riutilizzate, distrutte e, appunto, ne rimangono oggi pochissimi esemplari. Quella di Buonvicino è tra le più intatte, neppure le lame dei fasci sono state intaccate (solitamente era l’intervento “minimo”): potere della perifericità.

    Non trasferire mai la statua del Santo

    Buonvicino e l’imperscrutabile. Il 17 settembre 2006, festa di San Ciriaco (guaritore ed esorcista vissuto a cavallo dell’anno 1000, patrono di Buonvicino), un masso si stacca dal costone di roccia che sovrasta il paese. Rimbalza da un angolo all’altro del dirupo, ignora il centro storico e si dirige verso la piazza alle porte del paese, laddove è in corso il mercato per la festa.

    Tradotto: persone, bancarelle, automobili. Risultato: nessun danno a persone o cose (e le persone, ok, possono darsela a gambe con una certa prontezza; bancarelle e auto parcheggiate, un po’ meno). Mi fermo ad ascoltare il racconto un po’ più attentamente perché, man mano che i dettagli aumentano, mi ricorda sempre più la trama di altri due o tre racconti analoghi.

    Le chiavi della città donate a San Ciriaco Abate, patrono di Buonvicino

    Pare insomma che la sacra effige del santo fosse stata portata anche quell’anno in processione dalla Chiesa di San Ciriaco Abate fino alla chiesetta costruita nei pressi della grotta che il santo adoperò come eremo, in fondo al vallone nei pressi del paese. Fin lì tutto normale. Se non fosse che quella volta fu deliberatamente lasciata lì e non riportata “a casa sua”. Da qui l’ammonimento del Santo: ira e salvazione, mazze e panelle. Tutti questi dettagli, insomma, m’hanno ricordato la storia di un’immagine sacra, rinvenuta in un bosco, poi trasferita in una chiesa, poi sparita e ritrovata esattamente nel luogo originario, laddove si decise infine di fondare il monastero del Sagittario, in Basilicata.

    La stessa ‘cocciutaggine’ delle statue sacre mi è nota, per il pochissimo che ne so, almeno in due altri casi: a San Bartolomeo ad Alicudi, e alla Madonna del Càfaro ad Albidona (portata in una nuova chiesa e puntualmente ritrovata nella chiesa precedente, e puntualmente riportata nella nuova fino alla frana definitiva di quest’ultima, in cui si salvò solo la statua). Sarà per questo che al bivio della sterrata che conduce alla grotta di San Ciriaco un cartello invita religiosamente a non bestemmiare per le buche, perché “Dio ti sente, il Comune no”.

    Sacro e profano sull’antica via istmica (foto L.I. Fragale, 21.09.2021)

    Enogastronomia e misticismo

    Va detto, Buonvicino riesce a unire sacro e profano, sensi e spirito. Enogastronomia e misticismo, forse, per giunta, tutto in chiave naturalistica: l’enorme statua di San Ciriaco che incombe – protettiva e minacciosa – sul paese, sta fuori da una delle prime curve della martoriata strada che porta alla chiesa della Madonna della Neve, 720 metri s.l.m. (ovvero un dislivello di 320 in pochi tornanti). Ma, quando si arriva lì, si è presi dal guardare a tutto fuorché alla chiesa, trovandosi su un terrazzo naturale a metà tra cielo e montagne dell’Orsomarso. A fare da guardia, due cagnolini, ma proprio cuccioli, che vi seguiranno imploranti (benché non randagi) fino a quando non rimetterete piede in macchina.

    Panorama dalla Madonna della Neve (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Ventisei famiglie senza luce e acqua corrente

    Dall’altra parte del bivio “delle bestemmie” si prende invece la strada sterrata, ma abbastanza in piano, per la contrada abbandonata di Serrapodolo, a circa 5 km dal centro storico. È ciò che resta di una delle antiche vie istmiche calabresi: questa si insinua subito fuori dal paese, in mezzo ad un canyon, e procede fino al Varco del Palombaro (quello che portava al santuario di Artemisia, in seguito a quello del Pettoruto, e da sempre alla Piana di Sibari).

    Le poche case abbandonate di contrada Serrapodolo (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per arrivare a Serrapodolo bisogna bagnarsi i piedi un paio di volte e ne vale la pena: oggi ci si incontra al massimo qualche gruppo composto da bue, vacca e vitellino, ma fino al 1968 qui vivevano ben 26 famiglie, mi dicono. Non erano mai state raggiunte dall’acqua corrente e dalla luce elettrica, e lentamente abbandonarono questa vallata e questi paradisi, restituendoli alla loro eternità.

    Lo Stretto, strozzatura del canyon sulla via istmica (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)