Autore: Luca Irwin Fragale

  • STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    C’eravamo fermati a Torano Scalo e al cortometraggio di Wes Anderson “Castello Cavalcanti”, ora riprendiamo la vecchia strada regia per andare un po’ più a nord. L’inevitabile sosta al passaggio a livello di Mongrassano Scalo mi fa guardare le colline a destra e pensare a due cose: proprio lì, a Santa Sofia d’Epiro e dintorni – giusto sulla sponda opposta di quel Crati che d’inverno inondava le baracche dei deportati di Ferramonti – le SS appartenenti alla divisione Ahnenerbe (la “Società di ricerca dell’eredità ancestrale” fondata da Heinrich Himmler) si sarebbero cimentate in imperscrutabili scavi archeologici presso le sepolture dei nobili italo-albanesi Masci e Baffa-Trasci, proprietari dei vicini fondi Cavallo d’Oro, Grifone, Cozzo Rotondo e Suverano, legati alla leggenda della sepoltura del re Alarico, e dunque appetibili, agli occhi di certi retaggi, in termini di speculazione storico-antropologica.

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    Una lapide ebraica nel cimitero di Tarsia

    Meno dedizione, al contrario, è stata applicata negli ultimi decenni al cimitero di Tarsia. Restano pochissime lapidi – e in pessima condizione – di qualche deportato deceduto durante la prigionia a Ferramonti. Pare che qualcuna sia stata addirittura rimossa per far spazio a nuove cappelle private.
    Fa molta più scena, paradossalmente, quel cimelio automobilistico piazzato a pochi metri dall’ingresso del cimitero, allo svincolo che da una parte porta al paese e dall’altra alla diga: un’auto storica un po’ particolare, in quanto si tratta di un carro funebre. Esattamente: un vecchio carro funebre Fiat 2300 dei primissimi anni ’60 che fa mostra di sé in mezzo a un campo, stesso modello di quello ritrovato tempo fa nelle campagne laziali, altrettanto abbandonato e con tanto di bara (vuota) al suo interno.

    Roggiano, Malvito, notai e ricette

    La seconda cosa che mi sovviene sempre al passaggio a livello, lì a metà strada in linea d’aria fra Bisignano e Malvito, sono quelle due scivolate dello storico manuale di paleografia dei gesuiti De Lasala e Rabikauskas, dove bisunianensis diventava bisumanensis e Malveti diventava Malveci. Bazzecole? Mica tanto.
    Ho già parlato della strada che attraverso Contrada Cimino si spinge da Tarsia verso Roggiano e quindi non mi ripeterò. Qui però mi viene in mente un’altra stranezza: una curiosa ricetta contro la sterilità, ritrovata tra le carte di un certo notaio roggianese del Cinquecento, che recitava così: «Rimedio per fare che una donna sterile faccia figli. Piglia polipi picciolini, o siano polpi, sorte di pesce di mare, e falli arrostire senz’olio, e mangiali, che gioveranno; usando poi coll’uomo…».

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    Malvito. La vecchia chiesa di S. Michele Arcangelo agli inizi del Novecento (archivio L.I. Fragale)

    Chissà se a questo notaio si ricorreva pure per fatture. Chissà se la donna sterile era sua moglie. Oppure – vista la posizione della minuta a imperitura memoria – chissà che l’impotentia generandi non fosse proprio sua, e che il notaio tenesse a non farla passare per tale. Del resto, a proposito di impotenza, cento anni dopo un suo collega campano annotava tra i propri atti chella pecché lo meglio havea perduto / corze a scapezzacuollo a far lo vuto.
    Non sembri strano: i notai antichi si divertivano un sacco a imbrattare i registri (si possono trovare caricature cetraresi, disegni silani di uomini eleganti che brandiscono spade, scarabocchi, poesiole, proverbi).

    Un mondo scomparso

    E per strada la sensazione è sempre la stessa: che di tutto ciò non sia rimasto nulla. Perso, appunto, per strada. E forse era giusto così. Non è rimasto nulla di quella cultura contadina, che non era minimamente una cultura inferiore o un mero sapere “basso”. Né è rimasto alcunché – o è rimasto pochissimo – di certa aristocrazia, di certi cognomi, di certa economia, di tutta una società. Forse qualcosa è rimasto (il peggio) in certa mentalità.

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    La Riserva Naturale del Lago di Tarsia

    Nulla è rimasto persino dell’aspetto delle campagne, dei paesi e delle marine, mentre ci si bea che tutto sia stato sempre più o meno così e magari soltanto un po’ più poeticamente ricoperto da una patina di passato. No, anche il mero panorama era assai diverso: anche una campagna di due secoli fa era irriconoscibile rispetto a come la si vede oggi. Un mondo, fatto sta, è stato spazzato via. O s’è spazzato via da solo, a poco a poco, in virtù del fatale maggiorasco e di camaleontismi non sempre vantaggiosi.

    Boschi a perdita d’occhio

    Ma torniamo con le ruote per terra. Roggiano guarda le montagne: di qua la strada per Fagnano e Guardia, di là per Sant’Agata d’Esaro, dall’altra parte per San Sosti. Boschi, boschi, boschi. Una quantità di rami, di foglie, di tronchi a perdita d’occhio. Almeno fin quando non ci si mettono gli incendi: e penso alla leggenda urbana immortalata nel romanzo (e nel film) La versione di Barney, in cui un giovane scompare dopo aver fatto il bagno in un lago e il suo corpo viene riscoperto anni dopo, in costume, in mezzo a un bosco. Mentre faceva il bagno, infatti, un incendio cominciò a lambire la zona e i Canadair andarono a rifornirsi d’acqua proprio nel lago. D’acqua, e non solo…

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    Fagnano, primi del Novecento: lavorazione delle castagne (archivio U. Zanotti Bianco)

    E allora mi chiedo se i Canadair siano forniti di un sistema per non rovesciare sulle montagne incendiate i pesci – almeno quelli – imbarcati a mare e destinati alla grigliata dolosa. Tra migliaia di anni li scambieranno per fossili autentici? E i rifiuti galleggianti? Un po’ come scriveva André Leroi-Gourhan parlando delle religioni della preistoria, se tra diecimila anni resterà qualcosa (dubito) di una Barbie… penseranno al culto della bionda. E i dvd… piccoli mandala forati, recanti iscrizioni, spesso decorati… con un foro per essere appesi come ex-voto…

    San Sosti al British Museum

    Per fortuna, da queste parti, di ex voto ne abbiamo di ben più notevoli: l’ascia di San Sosti, ad esempio. Risale al 550 a.C., l’hanno ritrovata nel 1846 dalle parti di ciò che resta dell’antico abitato di Artemisia. Ora fa bella mostra di sé nientemeno al British Museum di Londra. Così, a memoria, mi pare che l’iscrizione sull’ascia recitasse «il vittimario Cinisco mi dedicò, come decima dei prodotti, al santuario di Hera che sta nel piano»: Hera, quindi: molto prima di rifarsi il maquillage come santuario della Madonna del Pettoruto. Votate alla fertilità, guardacaso, tutte e due le figure sacre.

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    L’ascia votiva di San Sosti

    Ma dicevamo dei boschi e degli incendi. Spettacolarizzati ormai anche quelli, specie se estivi, con bagnanti intenti a fotografarli, come i turisti che fotografavano l’attacco alle torri gemelle o gli abitanti di Chernobyl nelle prime scene della serie omonima.
    Poche ma meravigliose le strade attraverso queste selve: quella che lambisce il mini sistema lacustre dei Due Uomini (comune di Fagnano) e che è praticamente una strada gemella della più vecchia strada Fagnano-Cetraro. Solo che, camminando su un crinale ripidissimo, non finisce a Cetraro ma addirittura a Cavinia, passando per Torrevecchia di Bonifati, oppure a Cittadella del Capo attraversando le frazioni di San Candido, Pero, o la mulattiera di Cirimarco.

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    Guardia Piemontese: pomodori in siesta sotto l’antica torre di guardia (foto L.I. Fragale)

    Sant’Agata d’Esaro, premio alla serenità

    La stessa strada da Fagnano a Guardia, in cima ai monti, offre un bivio non meno splendido e inquietante al tempo stesso: quello che passando attraverso il Lago La Penna conduce a Sant’Agata d’Esaro, paese al quale offrirei un ipotetico premio alla serenità. In qualsiasi periodo dell’anno, a qualsiasi ora, la piazzetta in mezzo alla statale che lo taglia è piena di persone, di tutte le età, dalle carrozzine alle carrozzelle, tutte intente a chiacchierare placidamente o a passeggiare, d’estate, in fuga dai lidi torridi. Bravi.

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    Sant’Agata d’Esaro, il casino delle miniere

    Sant’Agata d’Esaro, con l’accento sulla e, anche se sulla cartografia storica sette-ottocentesca una delle montagne alle sue spalle, ricche di antiche grotte e miniere, è proprio indicata come Monte Isàuro. Toponimo che non ho mai più ritrovato. Monte Isauro… Qui siamo già però in terra di Pollino, siamo già in terra di pini loricati, i tormentati padroni di queste vette, con i loro tronchi contorti e straziati che farebbero la gioia di un Masahiko Kimura o di qualche altro maestro bonsaista dei più virtuosi. E non a caso, infatti, su una loro rivista specializzata trovai anni fa proprio un articolo sui loricati del Pollino: e il cerchio si chiudeva perfettamente. Estetiche di nicchia, fuori rotta.

  • Da ribelle a notabile: la parabola di Francescantonio Mazzario

    Da ribelle a notabile: la parabola di Francescantonio Mazzario

    Francescantonio Mazzario fu uno degli undici figli di Giuseppe, avvocato e possidente rosetano, e della nobildonna amendolarese Isabella Andreassi.
    Ebbe tra i suoi zii l’avvocato Alessandro Mazzario (diarista e protagonista del Grand Tour) e il giudice Domenico Andreassi. Un suo cugino-cognato fu il barone Lucio Toscani di Canna e Nocara.

    Rivoluzionario e poi avvocato

    Mazzario studiò Giurisprudenza all’Università di Napoli. Lì partecipò ai moti del 1848 che gli costarono il carcere.
    Laureatosi, esercitò l’avvocatura nel foro partenopeo. Si fece le ossa in via Medina 61, nello studio legale del celebre sandemetrese Cesare Marini (già giudice di pace nel Circondario di Spezzano Albanese, difensore – assieme ad altri – dei fratelli Bandiera, poi deputato nel Parlamento napoletano e futuro consigliere della Gran Corte dei Conti).
    Al 1851 risalgono due delle sue allegazioni difensive a stampa, pubblicate a Napoli e oggi al più rintracciabili in copie uniche presso la Biblioteca Casanatense in Roma o la Nazionale in Napoli. Una è a difesa di Ferdinando Barbati, accusato di omicidio, mentre l’altra è redatta negli interessi di don Gerardo Coppola di Altomonte (la cui zia era Isabella Coppola, bisnonna di Francescantonio), zio del senatore Giacomo Coppola e del deputato Ferdinando Balsano.

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    La fucilazione dei fratelli Bandiera

    Mazzario torna a casa

    Nel 1852 Francescantonio Mazzario fa definitivamente ritorno a Roseto Capo Spulico per dedicarsi all’amministrazione pubblica e a quella del «non tenue patrimonio» di famiglia.
    Il giovane ex rivoluzionario è un rampollo benestante ma per nulla conservatore: un ribelle in contrasto, per alcuni versi, con lo stesso ambiente familiare in cui era cresciuto, fatto di svariate cariche amministrative distribuite pressoché a tutti i membri della casa (era fratello, tra gli altri, di Filippo, Domenico e Pietro, tutti variamente graduati nella Guardia Nazionale, e di Nicola, sindaco di Roseto dal 1888 in poi).

    Un politico in carriera

    Francescantonio Mazzario

    Come suo fratello, Francescantonio Mazzario fu sindaco di Roseto per ben vent’anni, e consigliere Provinciale per due.
    Dagli atti amministrativi emerge il suo impegno disinteressato nella cura della cosa pubblica e la preoccupazione di offrire lavoro ai bisognosi, soprattutto nei periodi dell’anno in cui l’agricoltura era ferma e nelle annate di carestia. Già nominato barone nel 1855, ricevette poi il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia con decreto del 1877, e quello di Cavaliere di San Maurizio.
    Nel 1867 Mazzario tenta, invano, l’ingresso alla Camera dei Deputati ma si impelaga in un lotta elettorale durissima, di cui restano non poche tracce in Risposta ad una lettera intitolata «La elezione del deputato nel collegio elettorale di Matera nel 1867», la sua terza ed ultima pubblicazione superstite.

    La superpolemica elettorale di Mazzario

    Palazzo Mazzario (foto di Luca I. Fragale)

    È il pamphlet che raccoglie tutte le tappe della diatriba fra lui e il deputato Francesco Lomonaco, a cominciare dal foglio a stampa che Mazzario aveva inviato agli elettori del Collegio elettorale di Matera per la sua candidatura alle Politiche del 1867, per continuare con il ringraziamento ai 281 elettori (nonostante la sconfitta subita contro i 360 di Lomonaco), redatto il 2 aprile 1867 e intitolato Ai miei elettori del Collegio di Matera.
    A ciò, Mazzario unisce la lettera assai critica inviatagli dal patriota Nicola Franchi di Pisticci (Al Signor Francescantonio Mazzario. Roseto Capo Spulico, e data alle stampe a Potenza per i tipi di Favatà nel giugno 1867), il quale lo accusa di aver gestito in modo poco dignitoso la propaganda elettorale. La perla, in questo caso, è la lunga risposta risposta Al signor Nicola Franchi. Pisticci, datata 21 ottobre 1867. È un capolavoro di prolissità, tale da sfinire qualunque avversario, colmo di citazioni manzoniane, bibliche e latine. Più un gustoso esercizio avvocatesco: la “dissezione” del la lettera di Franchi ai minimi termini.
    Mazzario aveva denunciato nella sua propaganda elettorale il pessimo ordinamento del tesoro nazionale, e gli errori della pubblica amministrazione, «vera causa del disordine e quindi delle gravi imposte». Inoltre, ribadì che «l’incameramento dei beni chiesastici sarà sempre un potente aiuto alla nostra finanza», fece promesse solenni affinché fosse «celermente espletata la ferrovia dalla foce del Basento a Potenza, e da Potenza ad Eboli» e creati «dei consorzii per la costruzione di strade rotabili che vi avvicinassero (…) alle future stazioni della detta ferrovia».

    Mazzario e le scuole

    Lo stemma dei Mazzario

    Nel 1869 Mazzario è Delegato Scolastico Mandamentale per il distretto di Amendolara e – assieme ai nobili Lucio Toscani di Oriolo, Lucio Cappelli di Morano e altri – denuncia la situazione dimessa dell’istruzione pubblica a ridosso dell’Unità d’Italia. Quindi sottoscrive una petizione finalizzata all’inamovibilità dall’impiego degli insegnanti, al miglioramento degli stipendi, all’assegnazione di pensioni di riposo, al riconoscimento del diritto di elettorato politico agli insegnanti e all’obbligatorietà dell’istruzione elementare per entrambi i sessi, per una determinata fascia di età.
    Ma fu pure sua la proposta di radiare gli “allievi maestri” della scuola normale maschile e della magistrale femminile di Cosenza e di ridurre a un terzo i contributi comunali agli asili infantili di Cosenza, Paola, Mongrassano e Rossano, poiché già oltremodo gravanti sulla Provincia.

    Mazzario contro l’Accademia Cosentina

    Eletto all’unanimità vicesegretario del Consiglio Provinciale di Cosenza, Mazzario propose di tagliare il numero dei veterinari; di offrire un contributo di 6 mila lire per l’esondazione del Tevere (Vincenzo Dorsa gli controproporrà un contributo di sole mille lire: la cifra che verrà deliberata); un altro sussidio di 12 mila lire per l’impianto della succursale del Banco di Napoli in Cosenza (proposta, invece, approvata); e di far collocare la lapide in memoria di Ferdinando Balsano nel luogo del delitto (che verrà invece collocata all’interno del Liceo Classico).
    Poeta per diletto – come si evince da alcuni incartamenti privati del 1872 e del 1874 – prese parte anche all’acceso dibattito sui finanziamenti alla Biblioteca Comunale di Cosenza. Infatti, il 17 novembre 1871, Francescantonio Mazzario propose la cessazione dell’assegno al segretario dell’Accademia Cosentina, «non parendogli che la Provincia ne abbia de’ vantaggi, essendo essa piuttosto una riunione letteraria privata». Ben centocinquanta anni fa.

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    Il castello di Roseto Capo Spulico

    La morte e la discendenza (illegittima)

    Ammalatosi, Francescantonio Mazzario trascorre l’ultimo periodo della sua esistenza nel casino di caccia, oggi diruto, della Caprara, di Montegiordano, dove redige l’ultimo dei suoi testamenti. A distanza di quasi 120 anni dalla morte, il Comune di Roseto Capo Spùlico gli ha intitolato una strada del centro storico, a ridosso del palazzo di famiglia. Non si sposò e ufficialmente e non ebbe figli ma fu in realtà abbastanza prolifico nella sua meno nota discendenza illegittima. Variamente declinata.

  • Fasci, toponimi e un centrosinistra che non t’aspetti

    Fasci, toponimi e un centrosinistra che non t’aspetti

    E anche quest’anno ci si avvicina al 25 aprile, sacrosanto, e alla molto meno sacrosanta fiera dei luoghi comuni. Li hanno preceduti a Cosenza – com’è d’uopo – le commemorazioni per il bombardamento statunitense subìto nella giornata del 12 aprile 1943 e non più grave degli altri alleatissimi bombardamenti su Cosenza – che chissà perché nessuno menziona mai – del 6, del 28 e del 31 agosto, del 3, del 4, del 7 e dell’8 settembre dello stesso anno. Forse quella ricorrenza andrebbe spostata a fine estate, se non stessero tornando tutti dalle vacanze…

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    Bombe alleate su Cosenza durante la Seconda guerra mondiale

    Il 25 aprile parte da molto lontano

    Se di 25 aprile bisogna parlare, si deve cominciare da molto lontano e fare di tutta l’erba una fascina, senza fare due fasci e due misure. Possibilmente, senza scadere nella ingenua e nefasta distinzione tra belli e brutti: non soltanto commemorazione della Liberazione (variamente attribuita più o meno candidamente a questo o a quel motivo), ma celebrazione di uno spartiacque tra un intero periodo da chiudere e uno da aprire, possibilmente con piede diverso e non col piede di porco come fu vent’anni prima. E questo periodo da chiudere viene da lontano. Viene dalla Marcia su Roma e da ancor prima.

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    Paolo Cappello, martire socialista ucciso dai fascisti

    Paolo Cappello, martire socialista

    Uno dei primi e più crudi episodi fu, a Cosenza, senz’altro quello legato all’aggressione di Paolo Cappello. Pochissimi giorni fa è deceduta, in Romagna, la vedova senza figli dell’ultimo dei testimoni dell’affaire Cappello. La storia si fa con i documenti, quantomeno con quelli, soprattutto con quelli. Ci mancherebbe altro. Vi sono quelli scomparsi, quelli “alleggeriti”, quelli artefatti, falsificati etc. Poi per fortuna vi sono, talvolta, anche quelle fonti dirette che restano sempre un po’ in penombra, ritenute ancillari e di minor conto. Tutto ciò per dire che il testimone in questione, il cosentino Franz Coppola, raccontò in punto di morte – novantaseienne – la sua versione dei fatti, in fondo poco discordante da quella delle fonti ufficiali.

    Franz Coppola (1910-2006)

    Era il 14 settembre del 1924 quando venne strappato il garofano rosso dal bavero del socialista Francesco Mauro, col parapiglia che ne seguì e le tragiche conseguenze ai danni del socialista Cappello. Cappelli e coppole: Franz Coppola aveva all’epoca quattordici anni e meno di un anno prima aveva perso la mamma di sangue blu, la nobile Regina Monaco – dei Monaco dello Spirito Santo – che era andata in sposa al non meno nobile Gustavo Coppola, di Francesco.

    Alcuni agenti provocatori fascisti aizzarono Franz e altri ragazzini del centro storico affinché infastidissero Mauro e ne strappassero il garofano. Accadde all’altezza della Piazza Piccola e forse, dunque, non esattamente per mano del milite fascista Francesco Bartoli, come le fonti riportano.

    Un garofano nel destino 

    Ignari della valenza politica del gesto, i ragazzi cominciarono a rendersene conto ai primi spari. Se avessero parlato, i mandanti si sarebbero accaniti anche contro di loro e contro le loro famiglie, con esiti probabilmente spaventosi.
    Una dinamica non molto dissimile fu, due anni dopo, quella dell’attentato bolognese a Mussolini, laddove fu armata la mano innocente del piccolo Anteo Zamboni, poi fermato dal tenente Pasolini (padre di PPP, per la cronaca) e letteralmente linciato per strada da squadristi e arditi, fino alla morte. Come dei piccoli Anteo fortunatamente mancati, i ragazzi cosentini minacciati di ritorsioni riuscirono a ripiegare con la fuga delle proprie famiglie in altre città, se non addirittura all’estero.

    E Franz Coppola? Dopo una lunga militanza comunista e partigiana, segnalata a “dovere”, e poi un barcamenarsi in comparse per Cinecittà (lo si veda, in veste di usciere, con Alberto Sordi ne Il Moralista del 1959), tornò a risiedere a Cosenza ormai vecchio. Morì nello stesso Palazzo Monaco in cui era nato e lì lo ricordo tremolante, sveglissimo e brontolone impenitente. Ironia della sorte, una foto lo ritrae bambino, intorno al ’18, proprio con un garofano appuntato sull’abito. Segni del destino.

    Tommaso Arnoni e Michele Bianchi

    Sarebbe stata la Calabria in cui durante il fascismo avrebbero spiccato, su tutte, due figure: Michele Bianchi e Tommaso Arnoni (qui in un raro filmato cosentino dell’Istituto Luce).
    Il sindacalista Michele Bianchi aveva avuto dapprima un maestro di socialismo come Pasquale Rossi. Si sarebbe poi indirizzato verso un profondo radicalismo attuato in modi anche violenti nell’agitazione delle folle contadine del ferrarese quando lì dirigeva la Camera del Lavoro. Sfuggì alla galera, e seguì nel ’19 Mussolini, ponendosi – con l’83,8% dei voti – alla guida del fascismo in Calabria. Qui riuscì a fare realizzare notevoli opere di bonifica e lavori pubblici, non senza i buoni uffici della sua amante, la marchesa De Seta.

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    Maria Elia de Seta Pignatelli e Michele Bianchi (foto Wikipedia)

    La stessa – mentre il marito partecipava alla costituzione dell’MSI – avrebbe in futuro proposto e ottenuto che il pio don Luigi Maletta diventasse tra il ’48 e il ’51 “assistente ecclesiastico” del MIF, il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia». Lo aveva fondato lei assieme al piucchenero Ezio Maria Gray. Fu il primo e dichiaratissimo movimento neofascista organizzato (con sede furbamente extraterritoriale, in Vaticano), diretto a sostenere anzitutto i fascisti carcerati. E chi l’avrebbe detto?

    Don Luigi Maletta

    Il tempo cancella

    Ma torniamo a Bianchi. Quadrumviro nei giorni della Marcia, Segretario Nazionale del Partito Fascista, Ministro dei Lavori Pubblici, morì prematuramente e all’apice della carriera. Camigliatello – da ora Camigliatello Bianchi – gli erigeva un monumento. Cosenza gli dedicava un intero rione, quello più bello. Il tempo, chiamiamolo così, cancellò poi entrambe le denominazioni. Così come sempre a Cosenza sarebbero sparite – qualcuna subito, qualche altra dopo molto tempo – le varie

    • piazza Italo Balbo (già delle Colonie, poi Eritrea, e soltanto alla fine piazza Amendola),
    • piazza Littorio (Villa Nuova),
    • via Arnaldo Mussolini (via A. Arabia),
    • via Rosa Maltoni Mussolini (via G. Tocci),
    • viale Benito Mussolini (viale degli Alimena),
    • piazza Predappio (piazza P. Scura),
    • via Axum (via C. Marini),
    • via Cirene (via A. Sensi),
    • via Bengasi (via R. Caruso),
    • lungobusento Tripoli (via A. von Platen),
    • via Massaua (via P. Perugini),
    • via Asmara (via F. Principe),
    • via Rodi (via G. Nucci),
    • via Somalia (via L. Picciotto),
    • via Neghelli (via E. Loizzo),
    • via San Sepolcro (via C. Cattaneo).

    Un omaggio inatteso

    Eppure pare che a Michele Bianchi sia stata reintitolato qualcosa: la piazza dell’acquedotto cosentino Merone, finanziato proprio grazie al suo interessamento e laddove fu commemorato nel 1934.

    Una vecchia foto dell’acquedotto Merone con ancora i simboli fascisti sulle mura

    Matteo Dalena, nelle vesti di presidente provinciale dell’ANPI fa notare quanto segue: «Per le opere pubbliche realizzate in città e in provincia il fascista Michele Bianchi gode, a mio avviso purtroppo, di buona reputazione in città. Ma è quantomeno inopportuno che prima nel 1993 e poi nel 2009 due amministrazioni comunali, tra l’altro di centro-sinistra, abbiano deliberato e poi dato attuazione all’intitolazione di una piazza a Michele Bianchi al Merone con l’apposizione della relativa targa segnaletica. Bianchi fu tra i fondatori del fascismo, orchestrò la marcia su Roma, e fu tra gli esponenti più radicali, espressione di quello squadrismo intransigente che si macchiò di atroci delitti in tutta Italia: Camere del Lavoro date alle fiamme, giornali bruciati sulla pubblica piazza, arti spezzati, vere e proprie spedizioni punitive. Oggi il suo nome sulla targa segnaletica è coperto da vernice bianca: sono gli stessi cittadini a non gradire evidentemente questa intitolazione. È l’attuale amministrazione comunale a dover decidere se ripristinarla, e dunque rivendicarla, oppure toglierla, intitolandola magari a qualche povera vittima della dittatura fascista».

    Uno sì e l’altro no?

    Accolgo la segnalazione dell’amico Matteo e però aggiungo: ma che strada si fa per andare all’acquedotto? Via Tommaso Arnoni. E allora perché Arnoni sì e Bianchi no?
    In fondo, Bianchi se ne andò tubercolotico dopo soli otto anni di regime. Arnoni, invece – dopo aver bruciato le tappe massoniche passando dal primo al terzo grado in meno di un anno, con l’evidente benestare di Nicola Spada, deus ex machina di quella precisa loggia in cui militava anche Luigi Fera – nel ’24 risultò secondo eletto del ‘listone’ fascista in Calabria, appunto dopo Bianchi. Ottenne 43.000 voti, quasi tutti in provincia di Cosenza. Nella città fu addirittura primo, con 703 preferenze, contro le 608 di Mancini e le 602 di Bianchi.

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    Tommaso Arnoni e Benito Mussolini

    Davanti alle insistenze del duce, la carica podestarile a Cosenza sarebbe passata nelle sue mani e fu perciò che Arnoni si interessò alla costruzione di scuole e ospedali. Tra il ’31 e il ’41 raccolse non a caso onori e riconoscimenti: Grande ufficiale e poi Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Cavaliere e poi Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, intanto nominato nel ’39 senatore del Regno (mica bruscolini) poiché già deputato per tempo sufficiente (non per una delle altre venti e più nobili categorie dell’epoca), presentato da Pietro Tacchi Venturi (quel gesuita pochissimo delicato in fatto di leggi razziali), e infine – dal ’39 al ’43 – membro della Commissione dell’Economia Corporativa e dell’Autarchia.

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    Targa nell’Ospedale dell’Annunziata a Cosenza

    L’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo sancì in capo ad Arnoni la decadenza dalla carica di senatore. Tuttavia, con sentenza dell’8 luglio 1948, la Suprema Corte di Cassazione la dichiarò nulla. Pare che «l’analisi dell’attività pubblica, delle opere realizzate sotto la sua supervisione, lo spirito democratico e la testimonianza di esponenti comunisti e socialisti sulla sua condotta irreprensibile», avessero fatto sì che egli venisse reintegrato nella carica di senatore alla quale, «per sensibilità», poi rinunciò.

    Epurazioni e ragion di Stato

    In realtà gli valsero molto di più le aderenze nella Democrazia Cristiana. All’epoca la chiamavano “continuità”. La stessa che fece sì che il primo Presidente della Repubblica (la Repubblica Italiana, quella democratica, fondata sul lavoro, che ripudia la guerra e vieta la riorganizzazione del partito fascista) sarebbe stato Enrico De Nicola, già presidente della Camera all’inizio del governo Mussolini, già sostenitore della fascistissima Legge Acerbo, già eletto deputato con i liberali nel listone fascista del ‘24, e già nominato senatore nel pieno del 1929… Si sa, tra le epurazioni e la ragion di Stato c’è di mezzo un mare…

    E poi che dire di quegli altri relitti cosentini di toponomastica imperialista (sia fascista che prefascista) che a Cosenza ancora sembrerebbero resistere, come via del Tembien, via del Tigrai, via Capoderose, piazza Ogaden, via Macallè, via Adua, o via Daua Parma? O tutti (si fa per dire) o nessuno. E, dopotutto, scempi toponomastici a Cosenza ne sono stati fatti di ben peggiori (vedi centro storico, e non soltanto).
    Almeno il 25 aprile, “pensiamoci liberi”…

  • Vittorio De Seta: sinistra e nobiltà di un nipote di Calabria

    Vittorio De Seta: sinistra e nobiltà di un nipote di Calabria

    Sono passati 11 anni e mezzo dalla sua morte. E circa 15 da quando conversai con lui nel foyer di un albergo di Parma, dopo uno scambio epistolare che durava da un po’. Non mi pare che Vittorio De Seta, nel frattempo, sia stato sufficientemente celebrato da chi avrebbe dovuto e potuto. Del resto, cos’è “sufficiente” per un artista di quel calibro? E poi, visto che era stato poco celebrato in vita (come succede solo ai più grandi), figuriamoci una volta scomparso. Le scrivo io, due parole in suo ricordo: Vittorio De Seta era innanzitutto un gentilissimo signore, pacato e misurato, forse immerso fin troppo nel suo ideale di un mondo buono da poter recuperare, innocente testa tra le nuvole.

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    Un giovane Vittorio De Seta accanto a una cinepresa

    Sinistra e nobiltà

    Aveva natali pesanti, Vittorio De Seta. Il nonno paterno (prefetto un po’ ovunque e poi sindaco di Catanzaro a fine Ottocento) e suo fratello erano i marchesi Francesco ed Enrico, deputati, poi senatori all’inizio del Novecento, nati a Belvedere Marittimo. Il nonno materno era invece il conte piemontese Giovanni Emanuele Elia, inventore in ambito militare.

    Padre e madre? Separatisi prestissimo. Erano il marchese Giuseppe De Seta, scomparso assai prematuramente, e la ben più nota Maria Elia, meglio conosciuta come la marchesa De Seta Pignatelli, per aver sposato in seconde nozze il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Non aggiunse, invece, un terzo cognome per non aver mai sposato il suo terzo storico compagno, il quadrumviro Michele Bianchi col quale, appena poteva, fuggiva nella sua torre silana.

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    La torre della marchesa in Sila

    Ma stavamo parlando di Vittorio De Seta: bene, al maestro tutto ciò stava in realtà molto molto stretto. Uno dei suoi film – il più intimo, il più tormentato – racconta proprio del rapporto difficilissimo con una madre d’acciaio che lo ritiene solo un sognatore inetto, disumana, dura, insensibile. Con un padre impalpabile e denigrato dalla vedova. Con un fratello maggiore a lui preferito e poi scomparso anzitempo. E, soprattutto, con un milieu aristocratico che cozzava non poco con la visione antropologica sincera di un artista vicino al popolo – e non a parole –, alla semplicità e persino al sacrificio.

    La “colpa” di Vittorio De Seta

    Come conciliare il fatto di essere nato nel sontuoso e arabeggiante Palazzo Forcella, poi De Seta, alla Kalsa di Palermo, con quello di essere vicino di casa di quella cultura di sinistra più intransigente – quella degli anni ’60 del Novecento – senza scadere nella parodia da gauche caviar?
    Si concilia così: vai in analisi da Ernst Bernhard (e ci porti pure Fellini), e non perché ci stiano già andando Manganelli, Bazlen, la Campo e la Ginzburg ma perché credi di non avere altra via d’uscita.

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    Palazzo De Seta, a Palermo, dove il regista venne alla luce

    Così mi scriveva nell’autunno del 2008 e riporto fedelmente queste poche frasi ancora inedite: “C’è stato all’origine della mia esistenza (…) un evento – al quale ovviamente ero estraneo – che mi ha segnato con un marchio d’infamia e di vergogna. La mia vita, il mio lavoro, sono stati segnati dalla necessità del riscatto di questa ‘colpa’ e, nello stesso tempo, dall’identificazione con le classi umili, diseredate per eccellenza. Dal ’58 ho fatto analisi psicologica junghiana con Bernhard, fino al ’65 (…). Avevo problemi: mai visto mio padre, nessun rapporto con mia madre, famiglia ricca, aristocratica ed infine due anni di deportazione in Austria (‘43/’45) (…). Non si faceva molta cultura a casa mia (…). Ricordo che tornato dalla prigionia restai in casa mesi a leggere Benedetto Croce. Poi fui attratto dal marxismo, avevo bisogno di una fede, di un’appartenenza, uno schieramento. Ma intimamente non ero convinto, tanto che restai iscritto al partito comunista un solo anno (‘47/’48)”.

    Dieci piccoli capolavori

    La mia corrispondenza con De Seta aveva avuto inizio quando ad una finale dei Mondiali di calcio (Europei? Mai fatta troppa attenzione) preferii la proiezione al cinema dei suoi cortometraggi appena restaurati dalla Cineteca di Bologna. Si trattava dei suoi primi dieci brevissimi capolavori, girati tra il 1954 e il 1959 tra Sicilia, Calabria e Sardegna (e rieccoci con la Calabria come terza isola).
    Servirebbero pagine e pagine per commentarli a dovere tutti e dieci (uno di essi, Isole di Fuoco, vinse a Cannes nel ’55). Mi limito a segnalare i soli due girati in Calabria:

    • Lu tempu de li pisci spata

    • I dimenticati

    Il primo è girato nelle acque al largo di Scilla e documenta una battuta di pesca, appunto, al pesce spada, compiuta con metodo più che tradizionale (l’unico, del resto, ancora praticato all’epoca in quella zona).
    Il secondo racconta del giorno di festa per antonomasia nell’ultraperiferico paese di Alessandria Del Carretto, che ancora nel ’59 si poteva raggiungere solo a dorso di mulo: il giorno della paganissima festa della pita.
    Poi arrivò il cinema vero, i film ‘canonici’, i lungometraggi. E poi anche alcuni prodotti per la televisione: mirabile, e insuperata, la serie Diario di un maestro, del 1973, con l’eccezionale Bruno Cirino.

    La Calabria di Vittorio De Seta

    Ma Vittorio De Seta non dimenticò la Calabria. Anzi, svernava tutti gli anni nella sua antica masseria di Sellìa Marina, in contrada – noblesse oblige – Feudo De Seta, dove il regista chiuse poi gli occhi. Tornerà infatti a filmare la Calabria in altre due opere, ovvero nel documentario In Calabria (del 1993) e nel tardo (e più dimenticabile) Pentedattilo – Articolo 23 (2008), episodio del film Human Rights for All.
    Il secondo è una breve metafora del ripopolamento del paese, abbandonato da tempo, da parte di una comunità di migranti. Il primo è un capolavoro vero, e ne consiglio assolutamente la visione.

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    L’ingresso alla masseria di Feudo De Seta, a Sellia Marina

    È la testimonianza di una Calabria – a 360° dal Pollino a Polsi – svenduta, di una Calabria fallita, che ha barattato una sua propria identità col baratro del progresso sperato, inattuato, neppure col miraggio dell’Università, delle fabbriche abbandonate e delle cattedrali nel deserto. E con uno sguardo malinconico a chi nel 1993 allestiva ancora carbonaie, faceva la ricotta con le mani rovinate, cantava in greco antico nelle chiese di rito bizantino e si riuniva più serenamente attorno a un maiale da sublimare. Altrettanto meravigliose, per inciso, alcune tracce liturgiche inserite nella colonna sonora, ed eseguite dalla Corale greco-albanese di Lungro.

    Vittorio De Seta era un figlio, anzi, un nipote di Calabria che con i suoi occhi e con la sua sensibilità ne ha disegnato un ritratto delicato e rassegnato.
    Cosa ne resterà? E chi avrà scrupoli e talento tali, dopo di lui?

     

  • STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    La Sila è gotica. Meglio: i boschi silani sono gotici. Sì, se il Pollino è un borgo arroccato, e i suoi alberi più barocchi, di quel barocco “appestato” caro a Enzo Moscato, allora la Sila è un po’ una grande capitale piena di cattedrali gotiche. Se ne ha questa sensazione stando fermi a testa in su in uno dei suoi boschi. La ebbi una notte, sul terrazzo di una casa immersa nel buio. Colonne, colonnette, costoloni, guglie e pinnacoli convergenti verso l’infinito. Peccato però che al sottoscritto il gotico non piaccia per niente. E che il sottoscritto preferisca appunto lo straziante, lirico barocco pollinare.

    Il turismo in Sila

    La Sila non fa che deludermi, ogni volta. È fatta per un turista per modo di dire. Il turista cosentino che si sveglia, si infila le Hogan e sogna di arrivare prima possibile per mangiarsi un panino con la salsiccia e fare struscio sul corso di Camigliatello, fumando una decina di sigarette rigorosamente buttate per terra. Gli animali stanno nei recinti per poter essere guardati da bambini e genitori che ne sbagliano i nomi fotografandoli. Alla riserva dei Giganti di Fallistro, bella ma piccolissima, tempo fa chiedevano un biglietto non esoso di per sé ma assolutamente sproporzionato rispetto all’offerta. Ma allora, ripeto, perché non andarsene su un qualsiasi sentiero del Pollino, dove si trovano alberi ben più monumentali, e gratis?

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    La Sila, più che un parco nazionale sembra il suo plastico. Il massimo lo si raggiunge generalmente durante una sosta al lago Cecita. Comitive di famiglie che urlano, dai bambini agli anziani; buste di plastica e bottiglie di birra ovunque. Una cinquantenne in tenuta da estetista in vacanza non riesce a chiamare i figli al cellulare, li intravede da lontano. E come potevano chiamarsi se non – uno dei due nomi è di fantasia – Kevin e Jessica? Ma in fondo è meglio così: a ognuno le sue montagne.

    Fascisti, democristiani e comunisti

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    La piana dell’Ampollino prima del lago

    E poi i laghi artificiali della Sila: vanto del fascismo i primi due (Arvo e Ampollino), vanto dell’Italia democristiana il Cecita. Molto più divertente è studiarsi le mappe silane precedenti alla creazione dei laghi: e vattici a orientare…
    La Sila, primo dei tre polmoni della Calabria; la Sila carica di storia del latifondo e delle enormi ricchezze di pochi (ve lo ricordate il detto “gliene importa quanto di una pecora a Barracco”?); della riforma agraria d’ispirazione massonica – questo lo sanno in pochi – e dello spezzan-catanzarese Fausto Gullo, comunista e proprietario, costituente e, appunto, massone; di quell’atto notarile del 1604 in cui trovai già riferimenti ai possedimenti dell’opulenta famiglia Monaco nei territori di Muchunj, Fossiyata, Carolus Magnus, Cupone, Zagaria e Frisuni (la stessa antica famiglia di giuristi di cui oggi il visitatore ignora l’enorme villa di impianto cinquecentesco presso le Forgitelle e l’antico casino padronale presso il fondo Neto di Monaco, appunto).

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    Sila, primi del Novecento: lavori per un ponte sul Neto

    Sila horror

    Ma dove comincia la Sila? A Cavallo Morto? A Rovella, per chi non si accoltella? Oppure in uno dei Casali del Manco, spesso architettonicamente disastrati per le velleità e il cattivo gusto “de’ particolari”, come si sarebbe detto nel Seicento? Fatevi un giro: non è raro trovare da queste parti la tettoia pseudo-tirolese con pareti pitturate a spatoletta, tipo sala ricevimenti tamarra, infissi in alluminio anodizzato, ringhierina che Dario Argento avrebbe fatto meglio, e vasi in plastica finto-terracotta. Muri esterni del pianterreno con fintissimo pietrame facciavista e insertini in vetrocemento e intonaco bianco alla come viene viene. Li ho visti, una volta, tutti insieme sulla stessa casa. Brividi.

    Diverso tipo di brividi offre invece un documento cinquecentesco redatto dal notaio Giovambattista Fiorita di Rovito: nel 1591 donna Medea di Napoli, residente nel casale Corno – tra Lappano e San Pietro in Guarano – fu trasportata dai figli “dinanzi all’altare maggiore della chiesa. La stessa era vessata da uno spirito maligno (…) a tal punto che si asteneva dal bere e prendere cibo, dal partecipare ai sacramenti (…) dal proferire le preghiere. Don Paolo Costantino leggeva i rituali scongiuri contro gli spiriti maligni avendo premesso in fronte della detta Medea il segno della santa Croce interrogando la stessa se lo spirito volesse uscire, quale nome avesse e quale segno desse. Rispose dinanzi a tutti che avea nome Gaspare, era sua intenzione uscire subito e nell’abbandonare Medea avrebbe dato tre segni (…). Lo spirito uscì di bocca della stessa Medea, vomitando un chiodo di ferro e di piombo, tutta raggomitolata in sé con i capelli rossastri Medea rimase alquanto attonita”. L’Esorcista, oppure Benigni e Matthau, in dialetto silano.

    Dove finisce la Sila?

    E dove finisce la Sila? Si intreccia con la zona del Savuto o gli volta la faccia? Saliano, ad esempio, sta quasi alle sorgenti del Savuto ma non definirla Sila sarebbe coraggioso. Fino a qualche tempo fa si potevano trovare online alcune fotografie scattate nel 1955 su iniziativa del Comune per registrare i danni causati da una frana verificatasi negli abitati di Cicchelli, Fuochi e Ruga Rocca. Non le trovo più online, ma ne avevo salvate alcune: senza volerlo – o forse sì – il fotografo aveva creato un album di grandissimo valore artistico.
    Se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di poter ammirare l’ormai storico libro fotografico di Paul Strand, Un paese, potrà capire meglio di cosa parlo. Saliano, a conti fatti, è il nostro esempio artistico di Un paese, in cui volti, espressioni, momenti di vita quotidiana, mostrano un lato di grande valore, per non usare quell’altra parola abusatissima.

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    1955, Saliano di Rogliano

    Saliano ai piedi della Sila, dunque, e in cima al Savuto. E non lontano da toponimi curiosi come Pino Collito e Cappello di Paglia. Potremmo seguire quest’altro fiume ma finiremmo per sfiorare la meraviglia di Cleto – si perdoni un inevitabile pensiero volante a Cletus Awreetus Awrightus – e saremmo tremendamente fuori strada.
    Possiamo al massimo raggiungere il Ponte di Annibale, che scavalca magistralmente il fiume, e ritornare poi su verso i boschi. Ma sarebbe bello poterlo fare percorrendo davvero tutta l’antica via Popilia, e non si può più. E allora scendiamo da Saliano e andiamo a sbirciare in quella cappelletta-porcile in contrada Cortici, poi passiamo da Carpanzano e ammiriamo, chiusa dentro un recinto fuori da un tornante, un discreto relitto di Renault Dauphine.

    Cortici
    La cappelletta-porcile di Cortici

    La bambina con due anime

    Ancora documenti antichi e stranezze silane: Carpanzano, 1665, l’arcivescovo di Cosenza Gennaro Sanfelice (nel cui stemma in pietra inciampai anni fa, in un corridoio del duomo; il cui stemma medesimo non si sa poi che fine abbia fatto…) descrive un ‘mostro’ nato proprio lì: “Antonia Parise moglie di Antonio Cristiano, gentiluomini di quel luogo, ha dato in luce un parto di femina di due mesi con due teste uguali, ben fatte, due braccia, un busto e dall’ombelico in già tutto duplicato che a capo d’un hora in circa si morì doppo essere state battezzate ambedue le teste, col supposto che fossero due anime”.

    Immediata la superstiziosa reazione del clero locale, che avrà tribolato per scegliere una soluzione pacifica in merito alla modalità – singola o doppia – del battesimo. Melius abundare e l’officiante optò per il duplice rito, dimenticando che per il dettato cattolico la sede dell’anima (‘obiettivo’ del sacramento) è il cuore e giammai il più razionale cervello. Vero è che il sacerdote impone il segno della croce sulla fronte e che la neonata in questione aveva due fronti: quale, dunque, sarebbe stata da scegliere? Quella appartenente al capo nascente più a sinistra, ovvero più in prossimità del cuore? Sofisticherie liturgiche di discutibile respiro. Fatto sta che la bambina bicefala aveva una sola anima, anche per il dettato cattolico, e fu battezzata due volte.

    La Sila dei pensatori

    Siamo ormai alle porte di Scigliano, patria di un pensatore ben più libero, il filosofo Aurelio Gauderino, al secolo Gualtieri, morto nel 1523. Professore di filosofia a Bologna, letterato e scrittore, scrisse alcuni testi a stampa ormai rari. Le Duae orationes sulla filosofia e sulla virtù; la raccolta di epistole familiari – “molti nascosti nel monte Reventino”, gli scriveva il padre nel 1518 – e soprattutto, campione dei campanilisti, il De laudibus Calabriae contro i “Calabriae maledicentes”.
    Restando ai pensatori, dall’altro lato della Sila, anzi nella presila ionica di Cirò, visse invece a quel tempo Giano Lacinio – al secolo Giano Terapo – teologo francescano e soprattutto alchimista. E anche Gian Teseo Casopero, allievo di Antonio Telesio, maestro dell’astronomo Luigi Lilio e docente presso il celebre Ginnasio di Santa Severina. Mica male.

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    Ariamacina, 1910. Alfabetizzazione rurale

    Tra gli uni e gli altri, invece, in epoca più recente, a Petilia Policastro nacque l’avvocato Giambattista “Titta” Madia, figlio del notaio locale e bisnonno della ex ministra di centrosinistra Marianna, ma soprattutto eminenza nera, più che grigia: deputato fascista per l’intero Ventennio, Consigliere Nazionale del Regno d’Italia e poi deputato missino negli anni Cinquanta, nonché autore di un’imponente biografia di Rodolfo Graziani, il Maresciallo d’Italia (o il Macellaio del Fezzan). Punti di vista. Prospettive.

     

  • De Novellis: senatore cosmopolita e massone

    De Novellis: senatore cosmopolita e massone

    Senatore, calabrese e cosmopolita.
    Potrei fermarmi qui, data l’attuale incompatibilità tra “senatore calabrese” e “cosmopolita”.
    E invece: Fedele Giuseppe De Novellis apparteneva nientemeno alla leva del 1854, e brillò parecchio in cosmopolitismo. Al contrario, i suoi emuli e umili colleghi, nati magari un centinaio d’anni dopo e con molte più possibilità, al massimo sono andati all’estero con la moglie. Magari in qualche banalissima meta creduta intellettualmente originalissima, o a visitare la figlia in quasi-Erasmus. Ma le loro mete preferite restano i lidi estivi assai più vicini. Ad esempio – ironia della sorte – proprio il luogo di nascita di De Novellis: Belvedere Marittimo.

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    Villa De Novellis, a picco su Capo Tirone

    Il Belvedere antico di Fedele De Novellis

    Cosa poteva essere Belvedere nel 1854? Un piccolo paradiso appollaiato sulla rocca tra monti e mare, tra le quinte del Monte La Caccia e la buca del suggeritore – o forse è il caso di dire il golfo mistico – della scogliera di Capo Tirone, in cima alla quale sorge ancora la villa estiva che appartenne alla famiglia del senatore.
    Non è qui però che la nobildonna Adelaide Leo dà alla luce il figlio del galantuomo Gennaro De Novellis, dieci giorni prima di Natale: Fedele nasce nel principale palazzo di famiglia – l’attuale municipio – nel rione Santa Maria del Popolo, dove sorge la chiesa omonima in cui il piccolo viene battezzato appena apre gli occhi.

    De Novellis deputato a vita

    Dopo i classicissimi studi in Giurisprudenza a Napoli – a quel tempo obbligatori per chi poteva – il giovane De Novellis intraprende una carriera lunga e brillante.
    Per cominciare, ricopre ininterrottamente un seggio alla Camera dal 1892 al 1913, grazie ai voti del collegio di Verbicaro per il gruppo parlamentare di Sinistra guidato da Giuseppe Marcora.

    Parlamentare d’assalto

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    Fedele De Novellis

    Da deputato riveste anche la carica di Segretario dell’Ufficio di Presidenza della Camera dal 1906 al 1909. La sua attività legislativa non è proprio frenetica: presenta solo un progetto di legge, nella XXIII legislatura, per costituire in Comune autonomo San Nicola Arcella, All’epoca tempo frazione di Scalea.
    Interviene però, e molto, sul bilancio sugli esteri, sugli affari interni, sui lavori pubblici e sulla giustizia. Ovviamente, non si scorda del suo collegio e lavora tanto sulle comunicazioni stradali e ferroviarie con “le Calabrie”. Inoltre, si interessa dell’amministrazione della provincia di Cosenza, della fillossera nel circondario di Paola e dell’alluvione di Cosenza. Mica acqua fresca, rispetto alla poco frenetica e poco memorabile attività degli imbarazzanti epigoni.

    Un diplomatico col grembiule

    Affiliato alla massoneria, diventa anche Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, decorato del Gran Cordone.
    Ma la nota più sorprendente è appunto il cosmopolitismo conferitogli, se non altro, dalla sua successiva veste professionale. Ovvero la prestigiosa sequenza di cariche diplomatiche ricoperte.
    Già funzionario della Prefettura di Roma, De Novellis diventa addetto di legazione al Ministero degli affari esteri. Appena trentenne è a Belgrado (1884), poi a Lisbona (1886), a Costantinopoli (1888) e a Berlino (1891).
    Infine viene nominato Segretario onorario di legazione (1892) e poi Inviato straordinario e ministro plenipotenziario di II classe a Christiania (oggi Oslo) nel biennio 1912-1914.

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    Palazzo De Novellis, oggi sede del municipio di Belvedere Marittimo

    De Novellis scrittore geoplitico

    Non posso né voglio dilungarmi sula produzione letteraria di De Novellis. Tuttavia, segnalo qualche titolo per farne capirne lo spessore: Leggi e condizioni economiche della Serbia (1886), Sulla questione cinese (1899), La convenzione anglo-francese. Marocco e Tripolitania (1905), Il Pacifico e le sue lotte (1909), L’Asia centrale e le sue lotte (1910), L’Europa in Africa (1911), Il commercio italiano di esportazione in Norvegia (1914).
    Insomma, quanto di più distante – parrebbe – dall’ombelicale bruzio e dalla fuffa degli scaldapoltrone.

    De Novellis a Palazzo Madama

    Collocato a riposo, De Novellis diventa a cinquant’anni senatore di terza categoria (quella composta dai deputati con sei anni di esercizio o dopo tre legislature) nel gruppo liberale democratico (poi Unione democratica).
    In questa veste si prodiga essenzialmente in questioni finanziarie ed è membro di tre commissioni parlamentari. Cioè la Commissione per il regolamento interno, la Commissione d’inchiesta sulle gestioni per l’assistenza alle popolazioni e per la ricostituzione delle terre liberate (1920-1922) e, infine, la Commissione d’inchiesta sull’ordinamento e funzionamento delle amministrazioni centrali, sui servizi da esse dipendenti e sulle condizioni del relativo personale (1921).

    Un’immagine antica di Palazzo Madama

    Gli ultimi anni

    Nonostante la nomina senatoria fosse all’epoca sempre ad vitam, De Novellis smise di intervenire in Senato già prima dell’avvento del fascismo. Ben sette anni prima di spegnersi, a Roma, nel maggio del 1929, presso la sua residenza nel quattrocentesco Palazzo Orsini, poi Taverna, al prestigioso civico 36 di via Monte Giordano (dove vissero Torquato Tasso e, molto tempo dopo, nomi enormi dello spettacolo e dello sport internazionale).
    De Novellis: una meteora. Di cui la Calabria ha perso lo stampo, senza neppure dolersene.

  • STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    Che Pomponio Leto fosse nato ad Amendolara e non a Teggiano – come ancora si legge da troppe parti – è ormai abbastanza assodato.
    La paternità dianese dello stesso, se pure filologicamente plausibile, è però anche tarda: chi per primo parla di Leto amendolarese è il coetaneo Pietro Ranzano – mica uno qualunque –, e poi Sabellico, il Volaterrano e il calabrese Gauderino.
    Soltanto una generazione più tardi, con Pietro Marso, avrà inizio la corrente dei “dianisti”. Ma lasciamo da parte l’improbabile quanto scottante certificato di stato civile di Pomponio (era pur sempre figlio illegittimo del conte Giovanni Sanseverino, che diamine!)…

    Un maniscalco illustre di Amendolara

    C’è un altro amendolarese al quale è stata attribuita spesso un’altra provenienza. È il meno noto Bonifacio Patarino, esperto maniscalco e autore nel Cinquecento del Receptario de mascalzia composto da mastro Facio Patarino da Lamigdolara a Bernabò da San Severino conte de Lauria et signore de Lamigdolara.
    E rieccoci con i Sanseverino… (se non vado troppo errato, Patarino dovrebbe essere fratellastro del destinatario).

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    Nanni di Banco: Miracolo di Sant’Eligio, 1420, Firenze, Orsanmichele

    Il trattato di Patarino

    Una copia del manoscritto, precedente all’ottobre 1545, è consultabile presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e forse è proprio di mano di Patarino.
    Gli scettici sulle origini amendolaresi di Patarino potrebbero non contentarsi dell’indicazione del luogo nel titolo dell’opera.
    Li serviamo con due o tre indizi sparsi qua e là: tra un «citrangolo» e il «butiro de bufalo o de vacha», troviamo i più tipici «zafarani», l’«assogna», la «riquilitia» e il «fiore de cardoni che fanno le cocozze».

    Veterinaria e magia ad Amendolara

    Ma bando, anche stavolta, ai dubbi anagrafici.
    La cosa interessante di questo manoscritto di mascalcia è ben altra, ovvero l’espressione palese del connubio tra tecnica artigiana, pratica veterinaria e contesto magico.
    Dopo aver spiegato come si debbano fare i ‘bagnoli’ ai garretti gonfi, mediante vino cotto con pece, incenso e cera, Patarino mescola la scienza – o quel che era – alla superstizione religiosa.

    L’incantesimo santo ai chiodi del cavallo

    Infatti, l’autore racconta un «incanto sanctissimo» da farsi «alla inchiodatura del cavallo»:
    «Come hai trovato la inchiodatura cazerai lo chiodo e ficcalo sotto terra che non se veda e dirai sopra la inchiodatura queste parole…
    Nicodemo cazzò li chiodi de la mano e da li piedi del nostro Signore senza dolore. Cossì sana questo cavallo da questa inchiodatura con lo padre con lo figliolo et con lo spirito santo. Como le pieghe del nostro Signore non colsero ne dolserà cossì questa inchiodatura non doglia con lo patre con lo figliolo e con lo spirito santo…
    Fa una croce in ante, et una poi con le parole».

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    Bottega del maniscalco, sec. XIV, seconda metà, Fabriano (Ancona), Palazzo del Vescovo

    Due magie di Amendolara per guarire i cavalli

    • Il margine tra medicina e magia è labile fino al Cinquecento e anche oltre. Eppure, in pieno Novecento, Patarino s’è attirato le feroci critiche di uno storico della veterinaria, Valentino Chiodi (forse punto sul vivo dell’omonimia). Ancora, altri due brevi esempi… il vostro cavallo ha “il verme”? Oppure ha il “nervo attinto”? Ecco altre due formule:
    • «Incanto da verme de Cavallo
      Scrivite in carta +x pater noster +x alabia +x pater noster +x barco +x pater noster x acrai +x pater noster + ligato con un filo sotto lo collo del cavallo et serà sano.
    • Incanto de nervo attinto
      Imprimis dirai 3 paternoster cum 3 Avemarie con 3 croci sopra lo nerbo actinto et poi fate una cartocella de le parole sequente et ligalo sopra lo nerbo con una pezza nova. Le parole sono queste molto perfette
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Gion Grison + Tigris Eufrates».
    La botttega di un maniscalco

    Magno, Ruffo e Rusio: i precursori della magia equina

    Nessuna fandonia: Patarino raccoglie l’eredità culturale dei più celebri Giordano Ruffo e Lorenzo Rusio, autori di altri trattati di mascalcia, stavolta duecenteschi, e forse forse addirittura dei trattati di Alberto Magno.
    Perciò rischia d’essere pretestuosa una separazione troppo netta fra i contesti della magia colta e della magia popolare. L’analfabetismo connaturato alla seconda non impediva che il “mago” istruito, il cultore o l’esoterista erudito, potessero frequentarla con pari interesse.

    Ci si mettono anche i preti

    Guarda caso Giuseppe Battifarano, un prete, nella vicina Nova Siri di fine Ottocento, raccoglieva tra i propri manoscritti alcune formule magiche da utilizzare in ambito ippico:
    «Per far ferrare un cavallo per quanto difficile possa essere, si gira tre volte intorno al cavallo percotendolo legermente con una coda di volpe femina, e si dica Io ti scongiuro in nome di Dio, e ti comando che tu ti facci ferrare, per portare uomini come Gesù fu portato in Egitto dalla Vergine. Un Pater ed Ave Maria».
    (Copio dai Secreti di natura con l’ajuto divino, la sezione esoterica dei manoscritti dell’Archivio Battifarano, sui quali ora non posso dilungarmi…).

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    “Secreti di natura con l’ajuto divino”, compilati dal parroco Giuseppe Battifarano.

    Una scuola di equitazione

    Cavalli, magia, Alto Jonio, Cinque e Ottocento… ho detto tutto? Ora che ci penso, no. Infatti, il 19 maggio 1596 fu istituita una vera e propria scuola di equitazione a pochi chilometri da queste terre. Più esattamente a Senise, con tanto di ufficialissimo atto notarile. In quest’atto cui – oltre al futuro istruttore, tale Hectore Mazza di Taranto – si nominano anche tale Mutio, forgiere, e un immancabile Sanseverino (stavolta Scipione).
    Mai più sentito tanto scalpitio in quel circondario.

    I cavalli secondo il ministero

    Il Censimento generale dei cavalli e dei muli eseguito alla Mezzanotte dal 9 al 10 Gennaio 1876 per conto dell’allora Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, spiegava: «In questa Provincia [di Cosenza] per la difficoltà delle vie e per la conseguente necessità di servirsi di animali equini piccoli ed adatti a praticare luoghi anfrattuosi e valichi dirupati si sono sempre ricercate le specie dei muli detti bardotti e dei cavalli piccoli detti levatori, l’uso dei quali corrispondeva bene alle condizioni dei luoghi. Questo sistema accreditò le razze cavalline antiche degli Abenanti, del De Mundo, dei Coppola ed altri che oramai più non esistono, ed induceva i fittajuoli di terreni ad allevare chi una e chi due asine per produrre bardotti».

    Cavalli amendolaresi davanti al palazzo Coppola, poi Andreassi

    Il ricordo di Vincenzo Padula

    Forse, l’ultimo a sentire tutto quello scalpitio è stato il patriota e storico Vincenzo Padula, quando da quelle parti registrava i nobili allevatori di mandrie equine: «Giumentieri: Andreassi d’Amendolara, Pucci d’Amendolara, Gallerano d’Amendolara, Mazario [sic] di Roseto, Chidichimo di Albidona hanno buone razze. Ottime le mule di Mazario, ottimi i cavalli di Andreassi, della razza di Coppola, piccoli, ben fatti, e forti, non sono però molto agili al moto, mancano di padre».
    Non di padre mancò invece la progenie “umana” dei nobili di Coppola. Questi si imparentarono con gli Andreassi di Montegiordano e quindi si stabilirono Amendolara abbandonando Altomonte.
    Da un “sanseverinato” all’altro e da un cavallo all’altro, tutto diventa più chiaro (del resto, non appartenevano ad altri Sanseverino i cavalli utilizzati come modelli da Leonardo da Vinci?…). Tutto torna.

  • La materia di Migliazza: terra, radici e bambini

    La materia di Migliazza: terra, radici e bambini

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    Paolo Migliazza merita. Questa cosa non l’ho capita subito, cioè quando l’ho conosciuto qualche anno fa. L’ho capita un po’ dopo, quando entrai per la prima volta nel suo studio, il vecchio laboratorio in un sotterraneo di via del Pratello, a Bologna. Non tanto per l’ambientazione, che aggiungerebbe già di per sé una patina di bohémien di cui Paolo non ha minimamente bisogno, quanto per l’impatto visivo ed emotivo all’ingresso di quel luogo. E certo, uno studio d’artista è sempre una fucina magica più o meno a soqquadro a seconda delle inclinazioni del personaggio. Ma questo aveva in più qualcosa tra l’inquietante e un certo senso di estraneità rispetto al tempo. Ricordo un’intera stanza piena di busti di bambini, pochi ancora in lavorazione, molti finiti, tutti silenziosi ma in qualche modo urlanti. Qualcuno coperto, qualcuno rotto. Una specie di piccolo Esercito di terracotta under 18 e soprattutto inerme.

    Perché hai cominciato proprio con la scultura anziché con un altro mezzo espressivo?

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    Alcune sculture di Paolo Migliazza realizzate per We are not superheroes

    «Ho cominciato da bambino, toccando e giocando con la terra, stando in campagna dietro a mio nonno. I miei nonni erano da una parte operai, e dall’altra piccoli proprietari terrieri. Tutti di Girifalco. La terra l’ho sempre respirata, in particolare col nonno paterno, come spesso succede giù. E in campagna, uno dei modi che avevo per giocare, per inventarmi e costruirmi le stalle degli animaletti era prendere la terra, paciuccarla e creare i vari spazi. Il mio primo approccio alla scultura è stato questo, ludico, abbastanza inconscio».

    Strano che proprio a Girifalco fosse nato un altro artista, con un cognome simile al tuo e che forse ti assomigliava pure un po’, il garibaldino Antonio Migliaccio…

    «Nessun collegamento. L’arte l’ho assorbita un po’ da mio padre, che è stato sempre un po’ appassionato, anche non avendola mai potuta praticare. Ma io mi sento del tutto figlio, anzi, nipote di una dimensione contadina, anche nell’accezione più bella e romantica del termine».

    Contano, e molto, le radici?

    «Le radici sono un elemento costituente della personalità, ma che noi non razionalizziamo. Assorbiamo il retaggio culturale della storia dei luoghi in cui nasciamo e cresciamo e ce li ritroviamo nelle scelte che facciamo, specialmente in ambito artistico».paolo-migliazza-scultura

    Il fatto di aver iniziato con la terra ha condizionato quindi anche la scelta dei materiali con cui lavori oggi?

    «Sì e no, nel senso che quella è stata una scelta di comodo perché la conoscevo bene. La potevi costruire e distruggere, modellare la forma da 0 a 100 e da 100 a 0. Poi c’è anche la condizione del lavoro. La scultura ha qualcosa che tanti altri linguaggi non hanno: devi mettere in conto anche la stanchezza, il lavoro fisico, e non solo quello psicologico legato all’idea».

    Quali modelli di ispirazione hai avuto?

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    Una delle opere di Paolo Migliazza

    «Negli anni di studio sono venuto spesso a Bologna ma non ci ho trovato mai niente di interessante… mi ero formato in una piccola bottega locale… quello che mi ha veramente toccato è stato quando, al Parco Archeologico di Scolacium, Alberto Fiz curò per due anni Arte Nel Parco, una mostra collettiva all’interno degli scavi (con opere di Paladino ecc.); poi quello che mi ha smosso di più è stato Time Horizons di Antony Gormley: aveva installato sui pendii 100 calchi in ferro pieno e nonostante l’orografia, insomma le curve di livello altimetriche del parco fossero incoerenti, le 100 figure restavano tutte esattamente sullo stesso piano, disegnando idealmente una linea d’orizzonte che guardava verso il mare. Poi ho intervistato Aron Demetz per la tesi, ed è gente che mi ha messo un po’ in pace col mondo. Lui, Walter Moroder, Bertozzi e Casoni, mi hanno fatto capire che si poteva ancora fare la scultura figurativa. Io pensavo fosse una roba legata al Novecento e invece oggi è più viva di altri linguaggi.

    Ricordami quell’installazione tua e di Nicola Amato, che vi feci portare ad Aliano al festival di Franco Arminio (la gloriosa e indimenticabile edizione de “La luna e i calanchi” di fine agosto 2016)…

    Fu una cosa fatta solo per quell’occasione, ed era un’installazione assolutamente site-specific. Avevamo utilizzato circa 200 vecchi mattoni conici forati, le pignatte che venivano utilizzate per fare soffitti e controsoffitti. Avevano un buco sulla testa e uno sulla base, così da trattenere il calore ma contrastare l’umidità, una sorta di coibentazione. Ce le caricammo in macchina io e Nicola, da Girifalco ad Aliano… 270 km. Arrivati lì scegliemmo lo spazio che ci interessava di più, il pianterreno di una casa antica, con in mezzo la bocca di un pozzo. Rovesciammo le pignatte in modo praticamente casuale, considerato anche il fatto che quelle cadute orizzontalmente finivano per rotolare… sarebbe da rifare. Ma poi com’è che c’eravamo finiti?

    Niente, fu che l’anno prima fui invitato da Franco Arminio sempre ad Aliano, dove facevo una specie di seminario folle, itinerante, che si intitolava “Viabilità a misura d’uomo contro gli attacchi di panico (tornando all’Italia di prima)”, che poi era la base di partenza della rubrica “Strade Perdute” che sto curando su questo stesso giornale… Ma torniamo a te e cerchiamo di uscire un po’ dal tecnico. Qual è stata la tua soddisfazione maggiore?

    «Sicuramente l’esperienza con la Galleria L’Ariete di Bologna, il mio battesimo del fuoco in termini concettuali, quando ho fatto We are not superheroes, e ho cercato di trascinare la scultura nella contemporaneità».paolo-migliazza-dettaglio-scultura

    I tuoi bambini, meravigliosi e inquietanti… perché proprio i bambini?

    «Da un lato era la necessità di uscire dal seminato dello studio accademico, dei modelli e delle modelle, dall’altra iniziavo a riflettere su una mia visione personale, una mia traccia visiva. Anche su quello che era il mio passato: ho giocato per strada e nella mia memoria c’è questo imprinting per cui ho plasmato questi bambini che riporto ad un’immagine minima relazionandoli alla scultura arcaica: sono fermi, non giocano, non hanno rapporti tra di loro ma nemmeno con i grandi. Sono dei bambini vecchi».

    Una volta mi hai detto che questi bambini sembrano buoni ma in realtà sono cattivissimi.

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    Uno dei bambini scolpiti da Paolo Migliazza

    «Conosci bambini buoni? Tutti i bambini sono cattivi. Il male che ci si fa tra bambini è tremendo… Ne Il Signore delle Mosche Golding ci insegna che i bambini sono la peggiore cosa che possiamo incontrare. Perché sono terribilmente schietti.

    Non è che poi crescendo le cose cambino molto… Detto ciò: i tuoi sono bambini belli… perché? Forse per una forma inconscia di politically correct per cui non vorresti far passare la cattiveria infantile attraverso tratti somatici sgradevoli?

    «Riguardandone alcuni che non ho mai esposto, diciamo che non li metterei sul podio dei più belli della classe».

    Sono anche molto fotografici, icastici, ma spesso è come se non avessero gli occhi…

    «Li hanno velati: quello che voglio è eliminare un aggancio emotivo diretto, ecco perché eliminare l’occhio. Nella mia visione, velare gli occhi significa riportare tutto al corpo e alla semantica del corpo. Una scultura che diventa vicina fisicamente ma lontana a livello emotivo. Non mi interessa che passi la mia idea. Interessa che la mia opera riesca a far sentire lo spettatore davanti a un dispositivo aperto. Poi sta a lui».

    Prossimi progetti?

    «Il MABOS (Museo d’Arte del Bosco della Sila), è un museo d’Arte Contemporanea situato nella Sila catanzarese. L’imprenditore, Mario Talarico, ha aperto questo parco scultoreo offerto per la realizzazione di opere site-specific che rimangano lì. E poi sono stato invitato al Premio San Fedele, a Milano».

    Quindi, in parte, un temporaneo ritorno alla Calabria. Tutta l’Italia è paese?

    «Tutta l’Italia è provincia. L’Italia non è mai riuscita a vedersi come una nazione protagonista, ma ha sempre avuto una visione subalterna di se stessa».

    A parte forse durante il Rinascimento, anche se non c’era una sola Italia…

    «Esatto… era più internazionale e centrale cinquecento anni fa che non oggi».

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    Paolo Migliazza all’opera in occasione di We are not superheroes

    Cosa consiglieresti a un diciottenne artista di oggi?

    «Niente. Gli consiglierei di annoiarsi».

    Questa l’ha detto anche Paolo Sorrentino…

    «Ed è giusto. L’eterna provincia d’Italia, che è il Sud, e in particolare la Calabria… in questo ci aiuta. La provincia ti lasciava la libertà della noia perché non era a contatto con una contemporaneità stressata dai mezzi di comunicazione. Mi sento fortunato».

    Però fa scaturire anche recriminazioni…

    «Certo, il fatto che ci sia sempre una sorta di clientelismo. Il fatto è che spesso giù – ora un po’ meno – c’è sempre un po’ una visione per cui la cultura sembra di minor valore e rischia di mischiarsi alla sagra di paese. La Calabria è come una macchina supersportiva che potresti mandare a mille e invece la lasci ad arrugginire nel vialetto dietro casa perché ti vergogni di farla vedere…».

    Le immagini all’interno dell’articolo raffigurano alcune sculture di Paolo Migliazza della serie “We are not superheroes”. L’autrice degli scatti è Rosa Lacavalla

  • Vincenzo Morello, il giornalista senatore

    Vincenzo Morello, il giornalista senatore

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    Nella Bagnara del 1860, splendida come poteva essere allora, nasce Vincenzo Morello, unico maschio in una ricca famiglia di commercianti. Rampollo baciato già solo per questo dalla fortuna, non evita tuttavia gli studi. Finisce così dapprima al Collegio Donati di Messina, poi – percorso classico per quei tempi – a Napoli per laurearsi in Giurisprudenza. In verità, però, a Morello – avvocato tanto a Napoli quanto in Calabria – il diritto interessa ben poco, mentre è molto più attratto dal giornalismo.

    Rastignac, D’Annunzio e signora

    Nel 1881 fonda a Pisa la rivista Il Marchese Colombi e nel 1887 diventa collaboratore fisso del quotidiano La Tribuna. È tra queste colonne che incomincia ad utilizzare lo pseudonimo Rastignac, ispirato all’Eugène de Rastignac ideato dalla penna di Balzac.
    Lo definiscono «articolista principe del giornalismo italiano» e il suo nome comincia a svettare: è amico di Gabriele D’Annunzio e con lui condivide un profondo scetticismo nei riguardi della politica giolittiana e del parlamentarismo, inteso come «grande scuola di delinquenza nazionale». A dire il vero, con D’Annunzio condivide anche altro, ovvero l’amore per la stessa donna: quella Maria Hardouin di Gallese, moglie del Vate, la quale si toglierà la vita nel 1890.

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    Maria Hardouin di Gallese, moglie di D’Annunzio e amante di Morello

    Vincenzo Morello e il giornalismo

    Morello si lancia totalmente nel giornalismo e diventa redattore del Piccolo, su invito del direttore Rocco de Zerbi, dove intraprende una polemica contro il repubblicano Giovanni Bovio. È così feroce da procurargli in realtà una collaborazione ancora più prestigiosa, ovvero quella con Il Corriere di Roma, guidato all’epoca dalla vulcanica coppia Matilde SeraoEdoardo Scarfoglio, che di Morello fu in qualche modo il mentore.
    Sulle orme della vecchia Tribuna, nel 1890 fonda – assieme a Giulio Aristide Sartorio – la più celebre e popolare Tribuna Illustrata, il primo periodico illustrato italiano.
    Infine, nel 1894 (stesso anno in cui pubblica il volume Politica e bancarotta) fonda Il Giornale, assieme a Bobbi e Bellodi, posizionandolo politicamente intorno alle figure di Zanardelli e Crispi.

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    Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao

    Trombato alle elezioni

    Allora come oggi, raggiunte le vette del giornalismo niente è più semplice che fare anche politica. Nel 1895 Morello si candida alle elezioni per la XIX legislatura nel collegio di Bagnara, ma lo sconfigge il notabile locale Antonino De Leo. Questi – dicono le biografie – «alla forza delle idee aveva anteposto il potere del denaro. Morello ottenne 950 voti contro i 1420 di De Leo: accusato di essersi venduto all’avversario, uscì dalla vicenda profondamente amareggiato e, dall’indignazione provata nei confronti dei suoi concittadini, ebbe origine il vulnus che scavò una distanza insanabile con la sua città natale».

    L’Ora… di tornare al Sud

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    Torna dunque al giornalismo, pur continuando a sostenere Crispi e a opporre Giolitti. Stavolta nelle vesti di primo direttore del nuovo quotidiano palermitano L’Ora, che si presenta come giornale di opposizione al regime autoritario del generale Pelloux. A chiamarlo per tale ruolo, nel 1900, è l’industriale Ignazio Florio in persona. Qui Morello fa confluire le più note penne del giornalismo italiano e riesce a far diventare L’Ora un giornale moderno, capace di competere con i più grandi quotidiani nazionali.

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    Ignazio Florio junior

    Il ritorno in politica di Vincenzo Morello

    Ma Morello fu anche poeta, drammaturgo e critico teatrale. Se nel 1881 aveva pubblicato a Napoli le sue Strofe, più avanti dava alle stampe anche i volumi Leggendo (1886), Nell’arte e nella vita (1900), L’albero del male (1914), Il roveto ardente (1926), Dante, Farinata, Cavalcanti: lettura nella Casa di Dante in Roma (1927) e Germinal, in quel 1909 in cui comincia a dirigere le Cronache letterarie di Firenze.

    E poi ritenta la via politica: si avvicina così alle prime posizioni fasciste e nel 1923 viene nominato senatore nella XXVI legislatura del Regno, per la 20ª categoria: coloro che con servizi o meriti illustrano la Patria. Nel caso specifico, come «solenne riconoscimento delle singolarissime qualità dello scrittore e, più ancora, dell’opera da lui svolta, durante trent’anni di strenua attività nella stampa quotidiana, per la rivendicazione delle più alte idealità italiane».

    Troppo laico per la camicia nera

    Molto vicino al Duce, nella cui politica vede realizzate le proprie aspettative, Morello scrive sul mussoliniano Gerarchia. Il 16 dicembre 1925 lo nominano commissario della Società Italiana degli Autori ed Editori, di cui diventa presidente per il biennio 1928-1929. Dal 1926 è direttore del quotidiano milanese Il Secolo.

    Benché avesse osteggiato per una vita intera il parlamentarismo e benché fosse stato anche ben poco partecipe in Senato, Vincenzo Morello era ispirato da forti sentimenti patriottici. Intorno alla questione del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica pubblica nel 1932 il volume Il Conflitto dopo la Conciliazione, nel quale condanna le concessioni concordatarie alla politica ecclesiale. Coerentemente al proprio spirito anticlericale e ai propri trascorsi massonici, aveva infatti dato le dimissioni dal Partito Nazionale Fascista già nel 1930, proprio all’indomani del Concordato e delle scelte del regime in materia di istruzione, matrimonio e proprietà.

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    Benito Mussolini, e il cardinale Pietro Gasparri al momento della firma del Concordato

    Essendo egli scettico in merito alla propria eventuale iscrizione all’Unione nazionale Fascista del Senato, i senatori De Vecchi e Vicini, per conto del Direttorio, lo invitavano ancora nel 1932 a partecipare alla successiva seduta di Palazzo Madama con la camicia nera d’ordinanza. Invano.

     

  • STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    Anche le cartoline hanno un recto e un verso. Il recto del Golfo di Policastro è quel panorama mozzafiato a cavallo di tre regioni, da Scalea a Camerota o giù di lì (volendo includere Palinuro o fermarsi agli Infreschi). E di questo, come al solito, parlerò molto poco. Il verso include, in ordine sparso:

    • la Marlane,
    • l’isola di Dino,
    • il Cristo di Maratea,
    • il disastro edilizio intensivo di Scalea,
    • il disastro edilizio “distensivo” di San Nicola Arcella.

    Il conte, il monte e il Cristo

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    La strada che conduce al Cristo di Maratea, che sovrasta il Golfo di Policastro

    Avviciniamoci un po’ alla volta: il Cristo di Maratea sembra fare spallucce e dirti a braccia aperte «dotto’, io quello che potevo fare l’ho fatto»… ma è un bluff: la pacchianata, a imitazione di Rio de Janeiro, non sorge sul Pan di Zucchero ma sul monte S. Biagio, spodestando perciò anche il vecchio titolare aureolato.
    L’ottovolante per arrivare lassù è opera di un progettista che meriterebbe l’anatema per diverse ragioni (è brutto, sta cadendo a pezzi, ha deturpato il panorama, fa venire le vertigini non solo ai più inclini ad averle). Eppure i ruderi di Maratea antica stanno praticamente lì. e nessuno si chiede mai in che modo un tempo ci si arrivasse. Ah, se si fosse un minimo curiosi…

    Il viso del Cristo, pacchianata delle pacchianate, pare non fosse altro che il ritratto del committente da giovane, ovvero il conte Stefano Rivetti di Val di Cervo, quell’imprenditore piemontese che dagli anni Cinquanta si fece finanziare diverse opere quaggiù grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e ai buoni uffici del ministro Emilio Colombo, buoni uffici che gli portarono in tasca più di 4 miliardi di lire di quegli anni.

    Un fallimento dopo l’altro, il pioniere piemontese lasciò in terra calabra ricordini non esemplari e scelse di farsi seppellire in una grotta praticamente inavvicinabile, in un anfratto dello sperone sotto al Cristo, mentre l’ENI acquistava il poco che era rimasto, con buona pace delle velleità del conte discendente in verità da agricoltori-fabbri-addetti ai telai. I ricordini di cui sopra sono i lanifici Rivetti poi passati sotto il nome di Marlane, a Tortora e Praia a Mare, ovvero quella fabbrica di veleni che ha regalato nel golfo di Policastro patologie incurabili, mortali, a decine di operai.

    Vestivamo alla marinara

    E qui comincia l’avventura nel paesaggio post-atomico distopico (e anche un po’ dispotico) di certi angoli di Calabria costiera nordoccidentale. Il grande scempio di Policastro prosegue sull’Isola di Dino. Da qualche parte si legge la fantasiosissima fandonia in base alla quale si chiamerebbe così in memoria del figlio di Enzo Ferrari, deceduto nel 1956. Bene, l’Isola si chiama come si chiama già dall’antichità, e per fortuna esiste la cartografia storica che lo conferma.

    Apparentemente amena e lussureggiante, in realtà è ben altro: acquistata da altro imprenditore piemontese un po’ più noto del precedente (tale avv. Gianni Agnelli) per farne un polo turistico, anche qui il savoiardo se ne lavò le mani. Costruiti alcuni tucul, un mezzo bar-ristorante e qualche villetta, tutto cadde in abbandono nel giro di pochi anni. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, solo pochissimo tempo fa il Comune di Praia a Mare ha riottenuto, riperso e riottenuto ancora la proprietà dell’isola.

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    Anni ’70, clienti al ristorante (oggi semidistrutto) dell’hotel Totem sull’Isola di Dino

    Nel frattempo? Parecchia immondizia. Reale e… reality. Fatevi un giro su Google Maps, ad ammirare legittimamente gli edifici sventrati, i rottami e gli orrori dell’incuria (persino automobili abbandonate…). Era un paradiso, poteva continuare ad esserlo. E invece no.

    La sfida degli ecomostri

    E poi ci si lagnava, nei decenni passati di quanto fosse inopportuno il villaggio del Bridge, sul monte sopra San Nicola Arcella… che a ben vedere sarà troppo esteso, troppo colorato, ma è pur sempre più caratteristico e accettabile rispetto alle vergogne edilizie che hanno riempito la zona più costiera, tra calette in cui fare il bagno in mezzo ai liquami, non-luoghi dei più “classici”, e piccoli ecomostri: orrende villette a schiera dei parvenu che per voler imitare ingenuamente le villone dei papaveri democristiani o dei più altolocati professionisti napoletani, si schiacciano l’una all’altra sgomitando tra l’immondizia quasi fino alla Torre Crawford e al magnifico Palazzo del principe Spinelli di Scalea, poi Lanza di Trabia, ora restaurato, passato nelle proprietà del Comune di San Nicola Arcella e nuovamente abbandonato nella sua interezza.

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    Il villaggio del Bridge, sulle colline di San Nicola Arcella

    Oceano mare (Tirreno)

    Il brutto e il bello, come al solito. Il buon gusto e quello cattivo, pessimo, inguaribile.
    E qui nel Golfo di Policastro ricomincia quel ciclico degrado antropologico, in quelle che d’inverno diventano terre di nessuno dove – puntualmente – torna ad essere assente pure il minimo segnale stradale, anche solo quello che malauguratamente riporti sulla Strada Statale. Gli unici segnali sono quelli dei lidi, dei ristoranti, dei discopub, tutti rigorosamente muniti di nomi esotici. Ma che bisogno c’è di essere esotici nel mezzo del Mediterraneo, nel cuore del Tirreno? Cosa abbiamo da invidiare?
    E allora ecco i vari Copacabana, Martinica, Tequila, e via dicendo. Come se alle Maldive avessero bisogno di intitolare un bar ad Anacapri, a Portofino, al Gargano, alla Scala dei Turchi o alla Chianalea.

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    Ecomostri piccoli e grandi, barche e ombrelloni a due passi dalla Torre Crawford

    Esoterismo e presepi viventi

    Il cattivo gusto, dicevo, inguaribile come il destino tristissimo dell’altra torre lì vicino, la torre Talao, passata dall’essere un leggendario luogo di ritrovo di esoteristi di calibro non indifferente – tra cui Aleister Crowley, Arturo Reghini, Giulio Parise e Giovanni Amendola in veste di teosofo – all’ospitare, quando va bene, i presepi viventi organizzati dal Comune di Scalea. Dalle stelle alle stalle, mai come in questo caso. Dal neopaganesimo sotto le volte stellate… alle mangiatoie. E pensare che proprio durante un soggiorno presso la Torre Talao, nel ’22, Reghini scrisse Le parole sacre e di passo. Studio critico ed iniziatico. E pazienza, anche qui.

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    Torre Talao, primi del Novecento

    Erre come Livorno

    Tutto in linea con gli abusi edilizi e lo sfruttamento del territorio nel Golfo di Policastro in termini di edificabilità. Fate un confronto tra due mappe di Scalea pre e post anni ’60 del Novecento e resterete piuttosto sorpresi per la quasi assoluta irriconoscibilità della forma urbana. Eppure non doveva essere male neppure Scalea, un tempo, molti molti decenni prima di essere definita – non a torto – Napoli Lido. Quando magari vi passeggiava tranquillamente il suo cittadino più illustre, quel Gregorio Caroprese che tutti si ostinano ancora a chiamare Caloprese, secondo il vezzo umanistico che portò Parisio a trasformarsi in Parrasio, Gualtieri in Gauderino, Terapo in Lacinio, Rosselli in Russilliano e finanche un mio omonimo nel canonico Frugali.

    Niente da fare: Caroprese era e Caroprese resta, così come del resto tale cognome sopravvive nel circondario di Scalea e da lì in tutta Italia, a differenza dell’inesistente Caloprese. E state tranquilli, lo dice persino la lapide settecentesca in sua memoria: “heic sunt Gregorii Caropresii italorum philosophorum maximi viri omnigena eruditione praestantis virtutibus pietate morbus praeclarissimi Iani Vincentii Gravinae i. c. Petrique Metastasio magistri sita ossa. Viator tametsi properas siste. Da sacro cineri flore set ne sit tibi dicere grave molliter Caropresii ossa cubent”…

    caloprese