Autore: Luca Irwin Fragale

  • Roseto Capo Spulico e l’amor patrio da ombrellone

    Roseto Capo Spulico e l’amor patrio da ombrellone

    Negli ultimi giorni il Fatto Quotidiano ha dato spazio a un paio di articoli in merito a una presunta gravità del danno paesaggistico che si starebbe causando per via dei lavori in corso sul 3° Megalotto della Strada Statale 106. Quelli che interessano il tratto di costa ionica in corrispondenza del castello di Roseto Capo Spulico. Nel primo di questi due articoli sono stato fin troppo magnanimamente menzionato dall’ottimo Marco Lillo per aver pubblicato, anni fa, un mattone di libro sulla storia di Roseto.

    Ora vorrei ribattere al suo collega Tomaso Montanari, il quale lunedì 18 agosto ha ripreso l’argomento. E vorrei farlo non tanto in quanto autore del citato saggio né in quanto – come Lillo – originario anch’io di lì, sebbene solo per metà ma dalla bellezza di circa 25 generazioni. Ma piuttosto in veste di conoscitore abbastanza consumato sia della viabilità che del paesaggio, appunto, della nostra Penisola (chi ha seguito la mia rubrica in questo giornale può ricordare di cosa parlo).

    Montanari, bravo ma distratto

    Colpisce come Montanari, che di base è proprio uno storico dell’arte, sottolinei il dato paesaggistico senza menzionare la questione archeologica (se conoscesse quel territorio saprebbe che con enorme probabilità gli attuali scavi avranno riportato alla luce qualcosa, e nulla se ne è saputo e molto dovrebbe sapersene). Ma soprattutto colpisce come si allinei anch’egli al corrente piagnisteo che, a parer mio, andrebbe un tantino ridimensionato (a meno di non voler creare un caso per soffiare sul vento contrario alla costruzione del Ponte sullo Stretto…).

    Dico che andrebbe ridimensionato per due motivi: è giusto protestare ancora oggi ma sarebbe stato certamente molto più giusto e soprattutto utile farlo quando i progetti venivano presentati, anni e anni fa, e poi approvati (nel 2007, sotto il governo Prodi II), e poi pubblicati (persino scaricabili gratuitamente dalla rete). Protestare così tardi rischierebbe soltanto – lo si sapesse almeno fare davvero – di bloccare i lavori e direi che se c’è una cosa di cui il Mezzogiorno non ne può proprio più sono i lavori lasciati a metà. E poi perché protestare è saggio e sacrosanto quando si ha un’alternativa da proporre. E qui non c’è.

    Il paese di Roseto

    Un tratto di strada stretto e pericoloso

    Nel caso specifico, quel preistorico tratto di strada sta antipatico al 90% degli utenti (oltre che pericoloso per quant’è stretto) a causa dei suoi rallentamenti biblici e dell’impossibilità di sorpassare a meno di non aver già fatto testamento. Ad amarlo siamo rimasti forse solo io e altri quattro nostalgici che ancora evitiamo le autostrade per tutta una serie di questioni idealistiche che tralascio e che siamo gli ultimi ad amare grandi opere & affini. Ma bisogna ammettere che davanti alla necessità e alle mancanze di alternative c’è poco di che cavillare: che quel tratto di strada fosse da ampliare è certo. Le alternative erano solo due: quella attuale, 239 miseri metri di sottopassaggio in corrispondenza dell’unica e pertanto indispensabile e insostituibile salita che porta al centro storico; oppure quella pure ipotizzata inizialmente, che prevedeva una lunghissima galleria poco più all’interno rispetto alla costa.

    Quelli che protestano dovrebbero sapere che la costruzione di quell’ipotetica galleria sarebbe andata incontro a impedimenti tecnici molto gravi e ampiamente documentati. E che sarebbe costata all’erario molto di più rispetto ai lavori attuali. Sembra poi che nessuno si sia premurato di confrontare le mappe della viabilità preesistente con quelle del progetto in corso. Perché questo mastodontico scempio, di cui si parla tanto, semplicemente non esiste. E ancor meno sussisterà quando i lavori saranno terminati.

    Tra poco potrebbe toccare alla ferrovia

    Preparatevi già da ora, anzi, perché prima o poi dovrà essere allargata anche la ferrovia, se la si vuole ancora. E quella sì che è a ridosso del castello. E lì si che cascherà l’asino. Oppure, in nome del paesaggio, dovremmo smantellare ferrovia e vecchia statale, tornando alla mulattiera tanto percorsa nel Settecento in lungo e poco in largo dai viaggiatori del Grand Tour? Mi viene da pensare a quelli che tuonavano contro l’impatto delle pale eoliche e poi però non avrebbero mai sfiorato un vecchio mulino a vento. Occorrerebbe un minimo di senso della storia, della non-centralità del tempo in cui ci capita di vivere. Chissà se ai tempi di Federico II qualche miope s’era lamentato perché il sovrano stava costruendo uno scempio di fortino militare-doganale in cima a una roccia nuda, a picco sul mare cristallino…Forse un Montanari l’avrebbe fatto.

    Effetti non desiderati

    Ma articoli come il suo, purtroppo, producono soltanto l’effetto – spero non voluto – di soffiare sull’analfabetismo funzionale che già lussureggia in questo dannato Paese: ho letto, dopo il suo intervento, commenti di persone pronte a battersi per non far distruggere il castello (ma chi vuole toccarlo?), dispiaciute perché in galleria non si vedranno né il mare né il castello e fuori li si vedrà troppo poco (a meno di non guidare a occhi chiusi – che non è prudente –, il castello e il mare si vedranno eccome e, a mali estremi, si potrà sempre percorrere la vecchia strada), indignate perché il fatto che il castello sia privato puzzerebbe un po’: cari signori, quel castello è sempre stato privato, a esclusione di quando fu fatto costruire nella teoria delle fortificazioni militari del Regno, ma sono trascorsi più di sette secoli….

    Un’altra immagine della fortezza a picco sul mare

    Il bene che lo Stato  non volle comprare

    Passato poi di feudatario in feudatario, è stato poi per secoli adibito soltanto a dogana e osteria, con tanto di antiche storie picaresche poco edificanti (non immaginatevi principi azzurri e svenevoli castellane dalle lunghe trecce. Tutt’altro). E rimase poi nelle mani di privati pure dopo l’abolizione della feudalità. E sapete come mai? Perché nonostante già nel 1915 le Belle Arti avessero notificato il vincolo, lo Stato ha rifiutato nero su bianco di esercitare il diritto di prelazione che vantava sul bene, in occasione dell’unica compravendita tra privati (si veda la risposta del ministro Vizzini, del 28 gennaio 1988, all’interrogazione del senatore Garofalo). E dire che lo si poteva acquistare, all’epoca, a un prezzo tutt’altro che esorbitante…

    Un particolare della Calabria Citra di Antonio Boulifon (1694-1714)

    Andiamo a Roseto, finché c’è…

    Montanari tiene invece a farci sapere di aver citato lodevolmente il castello in un libro per i licei, e noi commossi prendiamo atto della notazione degna di una pagina del libro Cuore. E poi conclude questa sorta di tema per le vacanze esortando: “Andiamo a vedere Roseto Capo Spulico, finché c’è”. Ora: direi che attribuire ai lavori in corso addirittura la prossima scomparsa di tutto il paese di Roseto, marina e centro storico, mi pare un tantino di cattivo gusto e non vorremmo che a Roseto fossero costretti a fare scongiuri. San Rocco – veneratissimo nel paese ma anche patrono di viaggiatori e selciatori – potrebbe prendersela molto a male. No, ecco, Roseto ha bisogno di turisti, non di tuttologi e nemmeno – per dirla con Enrico Panunzio – di “miseristi in casco coloniale, che si sono fermati a Eboli, dietro i caciocavalli”. E, soprattutto, non di menagrami.

  • Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto: un nome che a Cosenza dice poco a molti, ma pure qualcosa a tanti. Una via a suo nome, lì dove per anni ha avuto sede una delle principali e più longeve case massoniche in uso alla compagine locale del Grande Oriente d’Italia.
    Una loggia a suo nome, e una delle più prestigiose e datate: più esattamente la “Bruzia – Pietro De Roberto 1874 n. 269”, che tra pochi mesi festeggerà i 150 anni di lavori. Conteggio ovviamente approssimativo, che non conta cioè il ventennio di inattività dovuto alle leggi fasciste. Fu infatti soltanto nel dicembre del 1943 che la loggia si poté risvegliare, grazie alla determinazione del Venerabile Samuele Tocci e di Alessandro Adriano, del pediatra mazziniano Mario Misasi, del medico antifascista Giuseppe Santoro, di Vittorio Tocci nonché di Emilio e Giovanni Loizzo.

    La Loggia Bruzia – Pietro De Roberto

    La Loggia Bruzia–Pietro De Roberto ne aveva passate, insomma, di cotte e di crude, e senza contare i trasferimenti fisici da Casa Tocci ai locali – ormai non più esistenti – di proprietà dei fratelli Loizzo in via Cesare Marini e poi in quelli di via Guglielmo Tocci. Proprio durante la prima convocazione straordinaria, dopo 18 anni di imbavagliamento fascista, il Venerabile Tocci diede lettura dell’ultimo verbale, quello del 18 settembre 1925, e aggiunse una raccomandazione nuova di zecca: «È necessario intanto combattere ogni attività estremistica ed impedire il dilagarsi del Partito democratico cristiano, che vorrebbe ripetere la nefasta attività del Partito popolare». Buona intenzione disattesa, alla luce dell’ormai documentato equilibrio catto-massonico che resse Cosenza nel secondo dopoguerra.

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    Sigillo della prima Loggia Pietro De Roberto n. 269

    Un rivoluzionario al governo

    Ma torniamo a Pietro De Roberto, che alla loggia – e alla via – dà il nome. Non un Carneade qualsiasi: nacque a Cosenza, il 1° giugno 1815, in una casa di Strada Santa Lucia, dal Consigliere d’Intendenza Francesco (poi magistrato) e da Nicoletta Guarasci.
    Trasferitosi a Napoli, dove conseguì la laurea in Medicina, aderì lì alla Giovine Italia, alla Carboneria locale. Lo perseguitò, pertanto, la polizia borbonica. Dopo un tentativo di sommossa a Cosenza, partecipò ai moti del ’48, che gli costarono quattro anni di carcere «per attentati volti a distruggere e cambiare il Governo ed eccitare gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità» nonché «per aver senza diritto o motivo legittimo preso il comando delle Guardie Nazionali». Per tutta risposta, quando Garibaldi nominò Governatore della Provincia Donato Morelli, quest’ultimo chiamò proprio De Roberto a prendere parte al Governo Provvisorio.

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    L’atto di nascita di Pietro De Roberto

    Pietro De Roberto «sindaco perenne»

    Fu così consigliere provinciale per il mandamento di Cosenza: in occasione delle elezioni suppletive comunali di Cosenza del 1886 – dovute alle dimissioni del sindaco Clausi – il giornale La Sinistra auspicò la creazione di una lista guidata proprio dal medico, candidandolo contrariamente al suo stesso parere a «sindaco perenne», per «l’onorabilità  della vita e la fermezza del carattere».
    Pietro De Roberto tuttavia rifiutò poiché non concepiva il cumulo delle cariche, così come in passato aveva rifiutato la candidatura al Parlamento dichiarando di non possedere le virtù indispensabili a un legislatore e di non avere i mezzi per vivere nella capitale.

    Il medico e il 33

    Nello stesso 1886 si trovò però assieme ad altri massoni – compreso il futuro senatore Nicola Spada – tra i fondatori della neonata succursale della Banca Agricola in Piazza piccola. Pietro De Roberto era appartenuto infatti alla loggia cosentina Pitagorici Cratensi Risorti e, il 7 ottobre 1874, aveva fondato, assieme ad altri fratelli della stessa, la loggia Bruzia, laddove si sarebbero affrontati con impegno i problemi dell’educazione elementare e di quella domenicale per le donne, dell’educandato femminile, della polizia urbana, dell’annona, delle società  e scuole operaie, di un dispensario gratuito per i poveri e finanche della fondazione di un Gabinetto di lettura come mezzo di lavoro e propaganda.
    Nel biennio 1888-1889 risulta Venerabile, e di grado 33°, della stessa loggia.

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    Brevetto di Maestro rilasciato dalla Loggia Bruzia e firmato dal venerabile De Roberto

    Pietro De Roberto morì il 2 aprile 1890. Lo commemorarono nella sala dell’Istituto Tecnico cittadino mentre le sue esequie si svolsero in forma civile: «Aprivano il corteo le società  operaie, seguivano i Fratelli delle due logge cittadine con i labari, le Scuole, i Consiglieri Comunali e Provinciali, le autorità  militari e civili. La bara fu portata dai Maestri Venerabili della Bruzia e della Telesio, e dal Presidente del Consiglio Provinciale. Il corteo, dopo aver attraversato la città fra la più profonda commozione, si fermò presso il Palazzo dei Tribunali, dove il De Roberto fu commemorato dal Sindaco e dal Presidente della Provincia».

    Il monumento a Pietro De Roberto

    L’inaugurazione del busto in memoria di Pietro De Roberto, opera di Giuseppe Scerbo, scultore massone reggino, dell’ingegnere Marino e del geometra Prato, fu inaugurato nel cimitero di Cosenza il 3 novembre 1890, con un discorso di Giacomo Manocchi, tesoriere della loggia Bruzia  (e, in quel biennio, di grado 18°) nonché pastore valdese impegnato nell’evangelizzazione nelle cittadine di Corigliano, Altomonte, Lungro, S. Sofia d’Epiro, S. Demetrio Corone, e Vaccarizzo Albanese.

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    Simboli massonici sul basamento del busto funebre di Pietro De Roberto (foto L.I. Fragale)

    Sul monumento spiccano piccole figure esoteriche sui quattro lati del basamento: le insegne del Rito Scozzese Antico e Accettato, poste frontalmente; una squadra assieme ad un serpente accollato al maglietto e a un piccolo destrocherio di scalpellino; le insegne del 33° grado; infine, squadra e compasso in grado di Compagno (e non, come sarebbe stato più corretto, in grado di Maestro) accompagnate da un teschio accollato a una tibia e trafitto da un pugnale.
    Il basamento riporta la seguente epigrafe di mano del cavaliere Zanci: «Pietro De Roberto 33 / nei moti / pel civile riscatto / uno de’ primi / cariche ed onori / sdegnando / menò vita povera / esempio ai posteri / di antica virtù».

  • STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    Proviamo a fare sullo Ionio la stessa deviazione fatta recentemente sul Tirreno. Se ci addentriamo tra le colline, verso Castroregio, abbiamo due possibilità.

    Piano a: Castroregio via Albidona

    La prima scelta passa per Albidona. Allora vale la pena fare due passi fino alla cima del paese, almeno per dare un’occhiata a quello che fu, appunto, Palazzo Chidichimo, punto di partenza di tutti i vari rami della nobilitata famiglia originaria di Alessandria Del Carretto. Inclusi i rami che dal Novecento hanno fruttificato – eccome! – pure nel capoluogo.
    Il cuore di tutto. A proposito di cuore, aggiungo la solita curiosità araldica. Lo stemma dei Chidichimo ha sempre raffigurato un cuore rosso, caricato di due bande azzurre. Detto meno tecnicamente: un cuore fasciato.
    Se ne possono vedere vari esemplari sia ad Albidona che ad Alessandria. E questo stemma deve aver portato fortuna, visto che nel Novecento proprio Guido Chidichimo (figlio di quell’Ortensia da cui il nome della nota clinica cosentina) divenne luminare internazionalmente riconosciuto nel campo della cardiologia, primo ad operare un intervento a cuore aperto, nel 1964.

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    Lo stemma dei Chidichimo nella chiesa madre di Alessandria del Carretto (foto di L. I. Fragale)

    Piano b: Castroregio via Oriolo

    La seconda opzione è la strada che conduce ad Oriolo Calabro.
    In questo caso, è obbligatorio guardare sulle colline a destra del torrente Ferro, che serpeggia nella pietraia sotto di noi. A un certo punto si nota ciò che resta dalla Masseria dei nobili Camodèca (suggerimento: si distingue per un gran buco circolare sul tetto sfondato).
    Guardando invece a sinistra, scorgerete sul crinale la Pietra del Castello: una grande roccia che le leggende locali vorrebbero legata a curiose superstizioni. Si trova ad Amendolara, lungo la vecchia strada che conduceva ad Oriolo e che ora non porta quasi in alcun luogo: è massacrata in più parti da frane e, a tratti, chiusa sine die.
    Sempre se si sceglie questa seconda variante, c’è la possibilità di una digressione. In mezz’ora si raggiunge, attraverso una strada vicinale, la splendida e abbandonatissima Masseria Maristella (sempre dei suddetti Chidichimo).
    Dapprima si costeggia la rigogliosissima e tuttora attiva Masseria Acciardi, che custodisce una cappelletta in mezzo agli ulivi e un antico stazzo in pietra. Quest’ultimo è un esempio di quell’ormai rarissima tipologia di ricovero di forma semicircolare per le bestie. A proposito: ne ho scovato solo un altro, più piccolo, in un angolo più o meno irraggiungibile di campagna, tra Oriolo e Montegiordano.

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    I ruderi della masseria Maristella ad Albidona

    I portali di Castroregio

    In entrambi i casi preparatevi ad una salita estenuante: Castroregio (con una g e non due come si legge da anni e anni allo svincolo per Oriolo) è appollaiata come una specie di nido d’aquila irraggiungibile in cima ad un cocuzzolo.
    Ma non tanto irraggiungibile da non permettere di ritrovare anche qui un esemplare dei portali nobiliari costruiti nell’Ottocento dai fratelli Calienno e anche in questo caso si tratta del Palazzo Camodeca.
    Pensate solamente che da quassù si riesce a vedere nientemeno la lontana Timpa di Pietrasasso, ovvero ’u timbarìll’, l’ofiolite monumentale in territorio di Terranova di Pollino. Tornanti su tornanti, insomma, strettissimi e inevitabili: solo queste due strade conducono al paese e di conseguenza pure alla chiesa di Santa Maria della Neve, in mezzo alla foresta disseminata di quei megaliti cui si sono attribuite diverse funzioni, persino rituali, in epoca preistorica.

    Preti e magia a Castroregio e non solo

    Chiese, leggende, rituali preistorici: nulla di strano se i preti ottocenteschi di questo lembo di terra tra Calabria e Basilicata ricopiassero pazientemente formulari cinquecenteschi di magia colta.
    Al riguardo, va smantellata la tanto nota separazione fra la magia colta e quella magia popolare che proprio in Lucania aveva trovato il suo luogo d’elezione, anche a causa di un immaginario collettivo viziato degli studi di Ernesto de Martino.
    E va smentita la centralità di un luogo casualmente scelto dall’antropologo e poi assurto, assieme al Salento, a culla di forme superstiziose a sé stanti.

    I megaliti della foresta di Castroregio (foto Alfonso Morelli, Associazione Culturale Mistery Hunters)

    Due parole sull’Arbëria

    Cast’rringi in oriolese, Kastërnexhi in arbëreshë: se non s’è ancora capito – e non sia stato sufficiente citare i Chidichimo e i Camodeca – siamo in area italoalbanese.
    Allora è il momento di sfatare un luogo comune radicatissimo nella storia del Mezzogiorno: ovvero che le comunità albanesi fossero solo quelle stanziate nella solita arcinota sequela di paesi dichiaratamente legati a tali origini.
    Un’attenta lettura dei fatti storici, della diffusione dei cognomi e dei toponimi nelle nostre regioni dovrebbe maggiormente avvertire gli studiosi della falsità di questo dato. Già: gli albanesi erano pressoché ovunque e i loro cognomi sono molti di più di quelli generalmente ritenuti tali.

    Quanti sono gli arbëreshe?

    È senz’altro una colpa della storiografia locale, impigritasi nel tempo, l’aver spesso confuso alcuni dati. Volendo offrire un solo esempio, sfugge solitamente – pure ad eminenti studiosi – che alcuni nostri paesi non nacquero albanesi ma lo divennero (penso a San Benedetto Ullano, nel cosentino; o ad Àndali, nel catanzarese). Al contrario, vi sono paesi che non acquistarono mai un ufficiale status arbëreshe ma che albanesi furono anche profondamente, sebbene in parte.
    Penso a Roseto, Montegiordano, Amendolara, Albidona, Alessandria del Carretto, Noepoli, Senise, o soprattutto a Oriolo. In questi paesi il notabilato cinque-settecentesco è stato quasi più albanese che oriundo. Ciò grazie anche al fatto che quest’area fosse sede marchesale, legata agli albanofili Sanseverino. Basterebbe leggere le cronache seicentesche di Giorgio Toscano per rendersene conto in un attimo, o confrontarle con i toponimi rurali ancor oggi superstiti.

    L’archimandrita di Castroregio Pietro Camodeca

    Ritorno alla base

    Torniamo alla base. Si passa sopra all’orrendo viadotto Pagliara, cioè il brutto ponte che vi aspetta alla fine di una galleria, in forte pendenza sopra i tetti della marina di Trebisacce.
    L’ecomostro, opera certa di un pazzo, verrà demolito a breve. È l’unica notizia buona legata alla costruzione del terzo megalotto della nuova Ss 106 (Sibari-Roseto).
    Per il resto, quest’opera sta provocando soprattutto la cancellazione di ettari ed ettari di colline e boschi che si sarebbero potuti salvaguardare un po’ di più.
    Ma la velocità decide le cose. E non solo quella: ad esempio l’influenza di qualche grosso proprietario terriero, come ai bei tempi.

  • STRADE PERDUTE | Araldica, liquirizie e cimiteri: viaggio nello Jonio profondo

    STRADE PERDUTE | Araldica, liquirizie e cimiteri: viaggio nello Jonio profondo

    L’araldica di Calabria nasce anche dalle campagne. Volimento, Pirro-Malena, Inziti, Cicala, Fabrizio Grande, Fabrizio Piccolo, Coscia, Ricota Grande, Ministalla, Lattughelle.
    Sono i nomi di alcune contrade tra Rossano, Corigliano – giù e su di lì – dove cominciano a sparpagliarsi vecchie ville rurali, casini ottocenteschi, a difesa e controllo delle rispettive piantagioni d’ogni ben di Dio.
    “Terra quantu vidi, casa quantu stai”. Ovvero: “Accumula terre finché puoi ma case soltanto per lo stretto indispensabile”. Così recita un vecchio adagio calabrese evidentemente da aggiornare.

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    L’antico casino Toscano, poi Giannuzzi, in agro di Rossano

    Araldica di Calabria: i rombi di Amarelli

    Certamente questa fu zona di sfruttamento intensivo della terra, in ogni accezione se finanche la poverissima liquirizia ne uscì protagonista assoluta (nel bene e nel male).
    Un nome, una leggenda dell’imprenditoria internazionale, Amarelli fa parte addirittura della ristrettissima cerchia delle imprese familiari almeno bicentenarie (le radici – è il caso di dire – di questa azienda rimonterebbero addirittura al Cinquecento…) e offre al pubblico un museo che vale assolutamente la pena visitare.
    Forse pochi sanno che i “rombetti Amarelli” sono un omaggio allo stemma di famiglia, contenente appunto quelle che in araldica, non solo in Calabria, sono più correttamente dette losanghe.

    Araldica di Calabria: triangoli british a Cassano

    Ho detto araldica e mi viene in mente un’altra curiosità che scovai a una trentina di chilometri da qui: sul fonte battesimale della cattedrale di Cassano allo Ionio campeggiano tre diversi stemmi.
    Due sono nella parte superiore: una è la fascia dei Sanseverino e l’altra la stella dei Del Balzo.
    Il terzo stemma, sul piede del fonte, è nientemeno quello del vescovo Owen Lewis (1532-1594), all’epoca latinizzato in Audoenus Ludovisi o – indecisione di quei tempi –Ludovicus Audoenus: un canonista e diplomatico gallese divenuto intimo di Carlo Borromeo e, appunto, vescovo di Cassano.

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    Un concio coriglianese ritratto da Jean Louis Desprez (Parigi, 1781)

    Lo stesso che creò una sede del seminario cassanese a Mormanno e il Monte di Pietà a Papasidero. E proprio a Mormanno, su una parete esterna dell’antico seminario, è visibile un altro esemplare di questo suo stemma ‘triangolato’, inconsueto nella tradizione araldica italiana, e che solo da Oltremanica poteva giungere alle falde del Pollino. Ma, stavolta, niente liquirizie triangolari…

    Pausa pranzo: strippata a Cerchiara

    Semmai, pochi chilometri più su, nelle campagne di Cerchiara ci si può imbattere provvidenzialmente in un agriturismo gestito da una coppia di attempati contadini che mandano avanti la (gloriosa) baracca soli soletti, con una grazia e una simpatia impareggiabili.
    La signora insiste per preparare, oltre che la camera, anche un pranzetto veloce ma imbandisce un pranzo che altrove potrebbe bastare per due-tre giorni.
    Lungi da me la cosiddetta “retorica del fico d’India”, ma quando va detto va detto: queste sono ricchezze e, semmai, occorre rigettare quel sentimento che s’affaccia spesso anche a queste latitudini.
    Siamo infatti terra fertile anche noi per quelli che l’insuperabile e pertanto sottovalutato Enrico Panunzio (L’idiota celeste, 1989) definiva «i miseristi in casco coloniale, che si sono fermati a Eboli, dietro i caciocavalli» (e ogni brillante riferimento è puramente intenzionale).

    Veduta di Cerchiara di Calabria

    Araldica della Calabria lugubre: il cimitero operaio

    Mi avvicino, lungo questo vagabondaggio, anche a un cimitero (non dirò quale).
    I cimiteri raccontano di un paese più di quanto non facciano i monumenti, le strade, le chiese o l’elenco del telefono. C’è una grande cappella sbarrata, murata, puntellata. Appartiene a una vecchia Società Operaia di inizio Novecento.
    In cima alla porta si apre un finestrino. Si può sbirciare e lo spettacolo è sconsigliabile ai delicati di stomaco: qualche frana o terremoto ha combinato, chissà quanti anni fa, un disastro.
    Solo che tutto è stato lasciato così come si rovesciò per terra, così come si aprì, così come si scoperchiò. I particolari, alla fantasia del lettore. Necrofanie altoioniche…

    I caduti della ferrovia e il mercato delle pulci

    Più in là, nomi di ingegneri francesi deceduti a fine Ottocento, nel periodo in cui lavoravano alla nuova ferrovia sulla costa ionica, impiegati da quella Torino capitale non meno nepotistica delle altre capitali d’ogni tempo.
    Ancora più in là, croci senza nomi, foto senza fiori, fiori senza lapidi, nomi senza date, foto di coppia anche senza commorienza (magari era l’unica foto), foto di N.N… Al riguardo, mi vengono in mente certi mercatini delle pulci dove si trovano interi album o ceste pieni di foto in bianco e nero, appartenute a chissà chi.
    Roba da ispirare una nuova maledizione, più amara della vecchia «che ti cresca l’erba davanti alla porta!». Ovvero: «Che le tue foto finiscano al mercatino delle pulci!».
    Un’altra lapide, degli anni Sessanta, le supera tutte: «La moglie e i figli, in memoria di XY. Nel bene e nel male». Accidenti, se non è damnatio memoriae questa…

    La foto più vecchia

    E, a proposito di foto, mi ha sempre incuriosito chi sia stata la persona più antica mai fotografata. Non intendo, ovviamente, la persona fotografata per prima, che in qualche modo si riuscirebbe pure a pescarla.
    No, dico proprio quella più anziana tra le prime fotografate. Il primato è conteso, ma pare che spetti, per ora, a tale John Adams, nato nientemeno nel 1745 (qui la lista più accurata).

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    Pronuncia della parola pipistrello in Calabria: una mappa di un saggio d’epoca nazista (foto L.I. Fragale)

    In compagnia dei pipistrelli nazi

    Siamo privilegiati. Indirettamente superstiti: discendenti di sopravvissuti a guerre, epidemie, calamità naturali. Una marea di fortunati che dovrebbe baciarsi i gomiti. Basta, s’è fatto tardi, meglio uscire dal camposanto ora che è vespro. Già: arrivano i vespertiliones dei latini, gli spurtaglioni partenopei, i vespistrelli, i vipistrelli, ora più comunemente pipistrelli.
    Oppure, come li chiamano da queste parti, lattarini (direttamente dalla nikterida magnogreca). Poi surici-lattarini che per mutazione fonetica diventano animali immaginari capaci persino di riunire in sé due bestie antitetiche: i surici-gattarill’, sorta di improbabili topo-gattini.
    E pensare che nella maggior parte delle lingue straniere è sempre tradotto come topo-volante… Ne faceva una perfetta mappatura fonetica tale Emil Eggenschwiler, in un libro (Die Namen der Fledermaus ecc. ecc) edito nel 1934 a Lipsia, nel pieno della Germania nazista. E Rohlfs zitto (che è meglio, date le non poche cantonate che prese nella sua pur brillante carriera).

  • STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    Fine estate in Calabria. Nei giorni a cavallo tra agosto e settembre molte persone vengono risucchiate in un buco nero. Le città non si sono ancora riempite del tutto e, contemporaneamente, i luoghi di villeggiatura si avviano alla desertificazione.
    Non tornano i conti: la gente dove finisce?

    Fine estate Calabria: fuga dal mare

    Dove sono finiti i tamarrissimi colletti delle polo tirati su?
    Dove sono finite le francesi che annusano scettiche le brocche di vino al ristorante? Dove le tedesche imbarazzate, quasi offese, dalle dimensioni degli antipasti locali? Chi resta su quegli scogli, teatri notturni di cartine volate, di accendini che non appicciano (accendono), di palummi (conati di vomito) per neofiti, e di altro?
    Le mareggiate di fine agosto lavano i peccati e portano via una stagione (del resto, non sono le seasons figlie del mare?) E allora cosa resta da fare? La solita cosa: fuggire da questi luoghi e cercare qualche vago sprazzo di autenticità in mezzo ai monti. Proviamoci, almeno.

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    Il centro storico di Scalea ripreso dall’alto

    Cipolle e porci? Proprio no

    Superiamo l’enorme giungla cementizia di Scalea, costruita direttamente su chissà quanti reperti archeologici sottratti alla ricerca, alla fruizione e, più semplicemente, alla storia e dirigiamoci verso Santa Maria del Cedro, già Cipollina fino al ’55.
    Attenzione: il nome non ha a che fare con le cipolle ma deriva da cis-pollinea, cioè al di qua del Pollino.
    Giusto per restare in tema: un altro apparente maquillage onomastico è quello che ha investito, dall’altra parte dei monti, Eianina (frazione di Frascineto), già nota come Porcile non per via dei porci ma dei più antichi Porticilli, poi Purçilli in arbëreshë.

    I profumati cedri di Sion

    Né cipolle né porci, dunque: quaggiù si commerciava maggiormente in mezzo ai frutti profumati, per esempio ai cedri.
    Il Carcere dell’Impresa è oggi il museo di quell’attività in gran parte scomparsa. Solo in parte: i rabbini di mezzo mondo vengono ancora qui, a settembre a scegliere i frutti esteticamente migliori, affinché possano essere utilizzati durante alcune precise liturgie. E non è raro incrociarne alcuni, con famiglia al seguito, a passeggio sotto al sole cocente, vestiti di tutto punto: rekel, payot, cappello nero a tese larghe e camicia bianca abbottonata fino al pomo d’Adamo.
    Ma è tutt’oro quel che profuma?

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    Il Carcere dell’Impresa, sede del Museo del Cedro

    Fitzcalabria

    Un edificio abbandonato, piuttosto grande, a forma di nave, arenato in mezzo alla pianura tra Marcellina e l’aeroporto (!) di Scalea mi ricorda Fitzcarraldo. Infatti, l’ho soprannominato Fitzcalabria.
    Era una fabbrica di conserve alimentari, attiva dagli anni ’50, costruita (appunto…) con l’immaginaria prua orientata verso Sud, come buon auspicio per lo sviluppo del Meridione (e aridaje con gli auspici degli imprenditori à la Rivetti…) mentre esportavano le latte in Belgio per i minatori.
    Tutto finito, anche qui, in totale abbandono da chissà quanto. A due passi da lì, il ponte Mussolini, sul Lao.

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    Fitzcalabria: la fabbrica abbandonata nei pressi di Marcellina (foto di Luca Irwin Fragale)

    Fine estate Calabria: sudare vino

    A quattro passi, invece, e non voglio dir dove e anzi vi confonderò volontariamente le idee, una minuscola casetta tirata su veramente con lo sputo. Mattoni, sputo e sudore di due mani. Quelle di N.N., il cui vero nome e cognome – anzi, rigorosamente cognome e nome – campeggia a caratteri cubitali di fianco alla porta d’ingresso, su una piccola lapide che ha più del mortuario che di un citofono. È un fabbricato di fortuna, o di sfortuna, una specie di palafitta in mattoni forati, in compiutissimo stile incompiuto. Un’unità abitativa di base. Sotto potrebbe starci l’auto ma N.N. non ha un’auto. Dietro c’è un piccolo orticello. E sono sicuro che ad N.N. basti e avanzi.
    Da queste parti c’è ancora spazio, per fortuna, per certi contadini che odorano di vino, che sudano letteralmente vino.
    Ne conoscevo uno, magnifico, che produceva per sé e pochi conoscenti un vino dalla gradazione che dire impegnativa è eufemistico. Soffriva di pressione alta e ogni tanto, per farsela abbassare, prendeva il suo coltellino multiuso, sporco come non so cosa, e si faceva un taglietto sui polsi. Così, senza tanti complimenti.

    Fine estate Calabria: sentieri per Sybaris

    Tanto qui ci pensano in due: un po’ Santa Maria di Mèrcuri con la sua chiesetta sulla roccia, che veglia da secoli sulla provvidenziale confluenza del Lao con l’Argentino (un tramonto, da quella rupe, lo consiglio), e un po’ San Michele dell’omonimo castello a monte dell’Abatemarco.
    Lao, Argentino, Abatemarco: tutto comincia a evocare i monti d’Orsomarso, l’ingresso nelle vie istmiche che univano Laos a Sybaris.
    Tornando più a nord, può esser definita istmica pure la strada che congiunge Scalea a Mormanno lambendo – non a caso – la zona archeologica di Papasidero.

    La chiesa di Santa Maria di Mèrcuri

    Le vie francigene della Calabria fantastica

    Ma, appunto, è da considerare più che altro come strada a servizio di chi arrivava da nord, più che dalla piana di Sibari, poiché la famigerata “Dirupata” di Morano non ha mai smesso di incutere timore, neppure nel Novecento, e dunque non c’era ragione per i sibariti di raggiungere Scalea risalendo tanto a nord. Invece oggi un motivo l’abbiamo: bearci della meraviglia dei Piani di Novacco, procedendo da Orsomarso verso Campotenese, e passando da Ròsole e da Cascina Scòrpano.
    Doveva essere semmai più battuto un altro sentiero: quello che si addentra da Orsomarso – e quindi da Scalea – verso il Santuario di Santa Maria del Monte presso Acquaformosa e da qui procede verso Lungro.
    Altra variante dello stesso è quella che da Orsomarso lambisce la Pietra Campanara e costeggiando il fiume Garga raggiunge Saracena, al riparo da e in ammirazione di un luogo di cui basta il nome per capire in che diamine di dimensione siamo: i Crivi di Mangiacaniglia. Bisognerebbe “vivere fuori stagione”.

  • STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    Esiste un libro, costosetto, sui “linguaggi fischiati”. Un saggio scientifico, roba serissima, con tutti i crismi accademici, scritto da due linguisti: Meyer & Busnel. Busnel ne aveva già scritto uno più ridotto, assieme al collega Classe, quarant’anni prima. Esistono infatti ancora parecchie popolazioni, al mondo, che sanno fare uso di una vera e propria lingua alternativa e, appunto, fatta di soli fischi.

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    Illustrazione sulle diverse modalità di fischiare utilizzando le dita

    C’è un grido per le vacche, uno per i tacchini

    Ho recuperato entrambi i libri, per un motivo che c’entra solo a metà con queste Strade Perdute: anni fa restai affascinato dalla varietà di grida utilizzate da una certa famiglia di contadini nel dare varie indicazioni ad animali di diversa tipologia. Potenza della vita civilizzata (sono ironico): riescono a sorprenderci cose che fino a 150 anni fa avremmo ascoltato forse quotidianamente, senza troppe difficoltà… Per fortuna c’è chi ancora queste cose le sa, ne fa uso, le tramanda per necessità: c’è il grido per le vacche, quello per le pecore, per i tacchini, le oche, i cavalli, i muli. Il grido per avvicinarli, per allontanarli, eccetera. Leggevo da qualche altra parte che addirittura i bufalari in Terra di Lavoro affibbiano specifici nomi ad ogni capo. E i capi comprendono, registrano, rispondono solo se chiamati con quel nome. Guai a sbagliarsi, i bufali sono orgogliosissimi.

    Il tempo si è fermato a Montegiordano

    A due passi – si fa per dire – dal centro storico di Montegiordano vive una famiglia di contadini e allevatori esemplare. La cultura rurale alla massima potenza: figli e figlie hanno imparato a due anni ad andare a cavallo senza sella, tutto si produce in casa, dal pane alla carne passando ovviamente per i prodotti dell’orto. Sei raffreddato? Devi fare un giro all’alba nelle stalle, a respirare l’odore del letame fresco.

    Sei febbricitante? Raccogli la liquirizia, la metti a bollire in tre litri d’acqua, con tre foglie d’alloro, tre fichi secchi e tre fascette di camomilla. Quando i tre litri sono evaporati fino a diventare un litro solo, allora bevi. Tutto ciò accade in una masseria ubicata in mezzo a un paradiso terrestre: un’ex grangia cistercense di impianto addirittura duecentesco, che gli appassionati di studi federiciani dovrebbero considerare un po’ di più, senza limitarsi alla solita solfa dei castelli e dello scenografico sistema difensivo. E se lo dico c’è un motivo…

    Ruderi della grancia cistercense in agro di Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Perfino l’archeologo Lorenzo Quilici visitò la masseria nel 1961. Perfino lo scrittore Tiziano Fratus l’ha recentemente perlustrata e ne ha annotato gli alberi più monumentali tutt’intorno. Mentre qualche anziano contadino di quello stesso circondario ancora utilizza – e perciò ancora ‘possiede’ – un vocabolo dialettale apparentemente avulso dalla semplicità del contesto rurale, e invece profondamente connesso: lo spartagguale, ovvero l’equinozio, segno di un’antica conoscenza contadina dei rudimenti astronomici (mettiamocelo in testa: il vocabolario di un analfabeta di duecento anni fa era molto probabilmente più vasto di quello di un comune ignorante odierno).

    Io mi diverto invece a porre al capofamiglia domande imbarazzanti, del tipo se lui abbia mai visto in zona un roi de rats  (risposta: no) oppure «come mai non si produce il formaggio di donna?». Solo che la risposta è ancora più imbarazzante: «Perché il sapore non è buono». Colpito e affondato nei nuovi dubbi. Mi racconta che in una cucciolata di maialini ogni piccolo sceglie un determinato capezzolo materno da cui attingere. Da lì in avanti non avviene nessuno scambio: a ciascuno il suo. E se un cucciolo muore anzitempo, il “suo” capezzolo rinsecchisce. C’è poco da scherzare: quanto alle mie provocazioni in merito al latte di altri mammiferi (scrofe, cagne, cavalle, coniglie, gatte), pare che il problema sia molteplice.

    Latte di porco 

    Vi è innanzitutto una questione quantitativa: questi animali fanno troppo poco latte e per periodi troppo brevi (ergo l’investimento potrebbe non risultare vantaggioso); e una questione qualitativa: il latte di questi animali non è effettivamente gradevole al palato umano (chiediamoci: se fosse stato minimamente commestibile… davvero milioni di poveri contadini nella storia dell’umanità non ne avrebbero mai approfittato?). E però entrambi questi fattori oggi possono essere superati in un mercato di nicchia, dato che non è affatto difficile trovare accaniti consumatori di cibi tanto ‘esotici’ quanto apparentemente rivoltanti alla vista e al gusto (tempo fa andava di moda il costosissimo caffè fatto con chicchi precedentemente mangiati, digeriti e defecati da un simpatico zibetto).

    Chicchi di caffè di zibetto

    Il problema del gusto quindi non si pone per quanto riguarda il latte umano, visto che tutti l’abbiamo bevuto. E ci piaceva pure. Quanto alla quantità: quanti bambini sono stati allattati da balie che lo facevano di mestiere? Il problema sta semmai nella pastorizzazione. Sulla legalità della cosa, in linea di massima non sussisterebbe alcun problema, rientrando comunque negli atti di disposizione che non ledono in modo permanente l’integrità fisica della persona (si posso vendere i propri capelli, le proprie unghie (ammesso che vi sia domanda). Perché poi il latte d’asina sì, e il latte di cavalla no?

    Contadini con la C maiuscola a Montegiordano

    Ma torniamo alle cose commestibili: invitato a pranzo da questi Contadini (la maiuscola, qui, è d’obbligo), davanti al ben di Dio c’è poco di che applicare la regola della “creanza del cardalana” che consisterebbe nel lasciare educatamente sempre qualcosa nel piatto: la usavano gli esperti cardatori, lavorando a domicilio e perciò necessariamente invitati a pranzo, per evitare di apparire troppo famelici.

    E dopo il primo, l’agnello al forno, le cotenne e le orecchie di maiale, le polpette, la soppressata, le cicorie selvatiche, cipolle&uova, i piselli, le olive e litri di vino, tra i fumi dell’alcool e della digestione, un indovinello dialettale e un altro, mi rendo conto che più passano i minuti meno ho la lucidità di afferrare il loro discutere di mandrie e greggi da recuperare qua e là, fuggitive per la pioggia; e così arrivo all’ebbra conclusione che questi, c’è poco da scherzare, parlano greco. Un greco travestito da italiano. Altro che Area Lausberg, nel cui mezzo ci troviamo optime, ovvero quella zona linguisticamente nota con il nome di Mittelzone, quella ‘zona arcaica calabro-lucana’ che si contraddistingue per il particolare sistema vocalico equivalente a quello sardo.

    Il vecchio cementificio lungo la Statale 106

    Montegiordano e il Nordest di Calabria

    Siamo nei boschi un tempo appartenenti a Oriolo Calabro (Ursulus, Orgilus, Ordiolus), prima ancora che il paese di Montegiordano venisse fondato dove – carte del 1015 alla mano – sorgeva il castello di Petra Coeci e il monastero di Sant’Anania, che non stavano affatto in territorio di Nocara, come da qualche archeologo locale erroneamente affermato. Se andiamo avanti così, archeologi di questo tipo faranno fatica tra cent’anni persino a individuare il vecchio cementificio montegiordanese lungo la vecchia statale 106, interessante esempio di rudere industriale in mezzo al profumo dei pini d’Aleppo.

    E proprio lungo questa statale si può ancora accedere ad una delle spiagge più appartate e scenografiche: una contorta pineta naturale, scogli affioranti – gli scogli della Grilla e della Galera – e acqua trasparente, il tutto preferibile a giugno o a settembre, quando vi si incontrano solo sparuti gruppi di pescatori all’alba, cioè prima o dopo della ressa luglio-agostana – tendenzialmente apulo-materana, va detto – che purtroppo fa di questa spiaggia una mezza discarica.

    Ma siamo già al confine con il Comune di Roseto Capo Spulico come già annotava comicamente un atto del 1742, per niente avaro di sostantivi reiterati con funzione di moto per luogo: «Comincia detto confine dalla volta della Grilla, canale canale esce alla terra della Caprara, confinante col territorio di Roseto, e serra serra per lo lago del Vintrioso, che confina col territorio di detta Terra d’Oriolo, serra serra và al Monte grande confine colla Rocca Imperiale, scende nuovamente serra serra per la Timpa di Vitale, scende al Canale, che confina con detta Terra di Rocca Imperiale e canale canale esce al batto del mare e marina marina và al piano della volta della Grilla medesimo fine». Musica.

    La pineta naturale presso lo Scoglio La Grilla (foto L.I. Fragale)
  • Colta? Sul fatto: la solita Cosenza (Iva esclusa)

    Colta? Sul fatto: la solita Cosenza (Iva esclusa)

    Tempo fa, in occasione di poco rincuoranti risultati elettorali, un amico mi scriveva «in Calabria il feudalesimo non è stato abolito ma si è semplicemente evoluto». Descrizione indiscutibile. L’irrecuperabilità della situazione è conclamata, a Cosenza come altrove. Basterebbe un cambio di mentalità? E quante generazioni occorrono? Una mutazione genetica vera e propria? Una glaciazioncella riequilibratrice?

    Cosenza e la politica

    Recentemente, tra le mie tante scherzose utopie politiche (che chiaramente farebbero ridere i miei colleghi giuristi, e quantomeno i costituzionalisti) si affacciava questa: esiste l’Unione Europea? Bene. Ne facciamo parte? Bene. Allora che gli amministratori di ogni Paese siano destinati, a turno e a sorte, e a tempo determinato, ad amministrare un altro Paese anziché il proprio. Vediamo se qualcuno è capace di raddrizzarci. Vediamo se siamo capaci di fare schifezze dove storicamente attecchiscono con più difficoltà (ehm… su questo mi sa che siamo già collaudati). E vediamo se certa mentalità da quattro soldi continua a proliferare. Beaux rêves

    A Cosenza c’era addirittura uno che si candidava giusto perché gli era crollato un palazzo davanti casa. Bisogna arrivare a questo. Alla fine, ma proprio alla fine, qualcosa che smuove il sentire civico si trova. C’era un politicante locale che mi faceva sapere per conto terzi di volermi nella sua lista (a me anonima nullità – specie a Cosenza –, residente da quasi trent’anni in un’altra Regione) per poi parlarmene a quattr’occhi in maniera molto meno che poco rassicurante. Il classico “giro in macchina” di registro mafiosesco, perfetto per un film di Scorsese ma sgradevolissimo per la vita reale.

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    Una scena da “Quei bravi ragazzi” (Martin Scorsese, 1990)

    Cose tipiche e insopportabili

    Quest’è, questa è ancora la mentalità. E trent’anni fa la percezione che avevo di Cosenza era addirittura migliore di quella odierna.  Sembrava una città almeno familiare, ora pare più volgare, più litigiosa, supponente all’inverosimile, tendenzialmente incapace, con una cultura media di livello piuttosto discutibile. Una città piena di troppa gente che non svolge i compiti per cui è pagata e di disoccupati la cui voce non importa a nessuno. Di finti intellettuali (che spesso gestiscono male tanti soldi veri) che non conoscono quasi mai gli argomenti di cui parlano; di istituzioni assolutamente sorde e autocelebrative (e mi raccomando, per contattare i referenti bisogna scrivere su Facebook, mica sulla PEC istituzionale). Una città di approssimazione, maleducazione… devo continuare?

    Mi viene in mente la favolosa poesia di Remo Remotti su Roma (Mamma Roma Addio), in cui il romanissimo attore infilava una dietro l’altra tutte le cose tipiche e perciò ormai insopportabili della Città Eterna. Ecco, lo si dovrebbe e potrebbe fare anche per Cosenza. Ma forse l’elenco sarebbe troppo lungo.

    Cosenza dalle mille contraddizioni

    «E me ne andavo da questa Cosenza…», comincerebbe così. Da quella Cosenza degli Alimentari e Diversi, dalla Cosenza delle graffe, del càrrefur e dei profìtterol scritti e pronunciati così. La Cosenza del collega che è uscito un momento per fare un’Ambasciata e degli Accademici imbalsamati (immedesimazione nelle mummie?). Degli impiegati entrati con la dueottocinque e degli operatori culturali improvvisati e tendenti alla magniloquenza da quattro soldi (IVA esclusa). La Cosenza del cilicio, dei focolarini, dei numerari e dei soprannumerari della follia. La Cosenza dei laici che votano i cattolici, “sotto il grembiule il cilicio” e un piede furbamente in due scarpe diverse.

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    Un articolo di qualche anno fa su una Cosenza sempre attuale

    Degli editori che editori non sono, dei dilettanti di genio che pontificano di tutto, dalla grafica alla pedagogia, dalla fotografia alla storia, dalla gastronomia alla politica. Dei sedicenti intellettuali in pantaloni di velluto rosso che tentano ridicolmente di imbastire conversazioni a gambe accavallate. La Cosenza del tribunale in cui i giudici devono per forza dire «attesoché» dieci volte al giorno. Dove «il pm nulla osserva». E dove l’avvocato pavido «ricorda innanzitutto a se stesso prima che alla Corte» e poi scivola sulla questione che «ci attaglia», sui «duri di comprensorio» sulla «congerìe», “sul” Zanardelli e sulle “barracche”.

    Baracche e corso Mazzini

    Già, le baracche… S’è ripulito Gergeri e via Reggio Calabria, ché di pasoliniano c’era già troppo nel centro storico e c’è ancora. E però, più del centro storico, quelle due baraccopoli mi facevano venire in mente un episodio di Dino Risi, Due cuori e una baracca (1973), con Giannini e un’improbabile Laura Antonelli strabica. L’episodio fu una prova generale dell’autore Ruggero Maccari per il successivo film Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola (1976), quello con Manfredi, con tanto di vecchia nonna intenta a fumare la pipa in baracca e ripetizione di identici nomi. Chiusa parentesi. Una volta scesi dalla macchina per dare un’occhiata da quelle parti, lo squittio dei topi sembrava un cinguettio diffuso. Non ho idea di quanti potessero essere.

    Quanto a proletariato in via d’estinzione, un certo chioschetto che fa cuddrurieddri e vecchiareddre in una certa piazza della città può offrire veramente il meglio di sé nelle sere d’agosto: ottimo punto di osservazione privilegiato su una certa naïveté genuina, direi quasi “bio”, che si va perdendo. E poi è anche un melting pot di nuovi arrivi: giovani famigliole dell’Est, o indiane, o dell’Estremo Oriente, non ancora contaminate dal bisogno (né dalla possibilità) di fare le vacanze fuori città. Un luogo che mette pace.
    Al contrario, su Corso Mazzini tocca fare lo slalom in mezzo a quattro ragazzetti tamarri anziché no, autoctoni, risaliti da qualche traversa un po’ più a valle, km zero, con i monopattini quando va bene ma soprattutto con le bici elettriche dagli pneumatici extra large (perché non si sa mai).

    È cambiato anche il dialetto

    Ho notato che nel tempo è cambiato pure il dialetto. Più sguaiato, le vocali accentate sono sempre più aperte, spalancate, divaricate, al limite dell’autocaricatura. Una volta il dialetto lo si imparava a scuola, dai compagni di classe, per appuntarsi al petto un necessario attestato di machismo che l’italiano a queste latitudini non garantisce. Il tutto mentre le anziane maestre si ostinavano – mai capito il motivo – a dire «Frìuli», «qualsièsi», «perièdo», «austrièco».
    Alle Poste Centrali, invece, due ore di fila sono ottime per l’osservazione delle facce e per capire come mai siamo nel Bruttium: il teatro anatomico dello zoomorfismo.

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    Ammonimento in un ufficio pubblico cosentino (foto L.I. Fragale)

    E non basta l’onnipresente, proverbiale pioggia cosentina, per lavare i peccati di questa città. La pioggia, a proposito… ma è possibile che, appena spunta il sole, mezza popolazione si metta a fare jogging? I commercianti cosentini del settore “abbigliamento sportivo” continuano ad accendere un lume a chi inventò viale Mancini. Da allora, un’impennata inarrestabile nelle vendite di tute e affini. L’estate scorsa, addirittura, avvistato tizio con bastoncini da trekking.

    Cosenza da Atene a Sparta

    Invece, la Biblioteca Civica restava deserta. Millecento ingressi all’anno quando andava bene (eppure a Cosenza dicono quasi tutti d’essere grandi depositari di cultura, acquisita in chissà quali sudate ricerche) e quando veniva presentato qualche discreto libro, gli invitati dovevano essere trascinati per l’orecchio o, possibilmente, per la gola.

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    L’ingresso della Biblioteca Civica

    Non è un male esclusivamente cosentino, per carità: l’Italia galleggia sull’ignoranza. La gente, a seconda della fascia d’età, si divide tra giovani sguardi bassi sul cellulare, medi e anziani rimbambimenti tra televisione e social network, commentandosi a vicenda gli aforismi copincollati o le catene di Sant’Antonio. Così passano le vite. Così le vite passano. Facendo cose vuote, in un impalpabile abbrutimento.
    Poi ci si sorprende – e nemmeno abbastanza – che la sedicente Atene della Calabria ne sia diventata la mera Sparta.

    Miseria e nobiltà

    Non solo pigrizia, ma pure vergogna. Piccoli Comuni di tutto il Mezzogiorno sono riusciti negli ultimi decenni a far pubblicare i lavori di qualche studioso locale che ha avuto la pazienza di studiare il Catasto Onciario del proprio paese di provenienza. Brevissima spiegazione semplificata: il Catasto Onciario era una specie di censimento con acclusa dichiarazione dei redditi, redatto nella seconda metà del Settecento, oggi utilissimo per le ricerche storiche e genealogiche. Vi siete chiesti come mai un capoluogo come Cosenza, patria d’arroganza, non ha mai avuto nessuno che ne pubblicasse il relativo Onciario? Ve lo dico io: perché significherebbe mettere alla berlina molta presunta nobiltà ottocentesca e buona parte di una Cosenza oggi apparentemente bene, ma in realtà decisamente parvenu. Ma proprio decisamente.

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    Cosenza, anni ’50: anonimi spettatori al tirassegno (archivio L.I. Fragale)

    Proviamo invece a osservare le vecchie foto che venivano scattate automaticamente nei tirassegno dei luna park tra gli anni ’40 e ’60. Provate a non fare caso al tiratore immortalato, al vostro parente che faceva centro. Guardate gli spettatori, perlopiù passanti casuali. Notate la necessaria attenzione che prestano in quell’istante, che li rende tutti involontariamente dei figuranti sbalorditivi, delle comparse straordinarie (anzi meravigliosamente ordinarie). A raccoglierle, ne verrebbe fuori il perfetto teatro umano dell’Italia del dopoguerra. Che era pur meglio di questa.

     

  • Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Anche certe strade ferrate sono “Strade Perdute”. Una di queste è la linea ferroviaria a cremagliera tra Cosenza e Paola.
    La Biblioteca Nazionale di Cosenza ha ricevuto in dono, pochi anni fa, le carte del compianto ingegner Francesco Sabato Ceraldi (Fuscaldo, 1888 – Roma, 1960) relative alla realizzazione di questi 35 km di linea, che lo tennero impegnato dal 1911 al 1915 . Dipendente delle FF.SS., Francesco Sabato (il quale aggiungerà il secondo cognome solo nel 1939) aveva preso servizio a 23 anni come ingegnere allievo ispettore. Diresse in prima persona il cantiere di Paola, ostico per quella pendenza del 75 per mille che obbligò all’uso della rotaia supplementare centrale: la cremagliera, appunto.

    I monti di Paola

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    Francesco Sabato Ceraldi

    Questo suo fondo archivistico è un piccolo tesoro. Gioia non tanto e non solo per i topi d’archivio, ma anche per i cartografi e per chi si occupi di storia della tecnica. Circa un centinaio tra mappe e progetti, dal più generico al più particolare, dalla sezione longitudinale di ogni singola galleria all’edilizia ferroviaria di servizio, dalle varianti al tracciato più ardite, alle traversine, ai rubinetti dei servizi delle stazioni. E, infine, all’orografia dei monti di Paola, cupi e impenetrabili ora come allora.
    Fatevi un regalo, consultate quelle carte, un affaccio sulla stratificazione storica di sentieri, fabbricati rurali, stradine, stradone, gallerie e, appunto, strade ferrate che lambivano – nolenti e piuttosto impotenti – burroni, fiumi. Persino quello scenografico eremo di Santa Maria di Monte Persano, in agro di San Lucido.

    L’eremo e il laghetto

    Il tracciato di quella ferrovia è oggi abbandonato. In parte lo hanno convertito in strada carrabile, altrove è un sentiero, in altre parti restano ancora i binari. L’eremo, oggi, è invece quasi sfiorato dall’orrenda SS 107 (sta pochi metri più su rispetto alla doppia galleria, per intenderci) mentre restava lontano dal vecchio tracciato della cosiddetta strada della Crocetta. Terra di curve e/o di gallerie, terra di mal di pancia o segni della croce se l’attuale treno da Paola a Castiglione Cosentino si dovesse fermare al buio in quei dieci minuti di galleria.

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    L’eremo di Monte Persano, risalendo da Paola verso Cosenza

    Strada gemella della vecchia Crocetta è invece la meno conosciuta SP 31. Sale da Fuscaldo verso Montalto, passando attraverso San Benedetto Ullano, il paese che diventò albanese senza esser nato tale. Mirabile allungatoia di fortuna, alla bisogna, che pochi hanno la curiosità di percorrere, per certe ritrosie abitudinarie che restano incomprensibili.
    C’è pure un grazioso laghetto lì dove si scollina. E nel laghetto abbiamo finanche un primato, il nostro piccolo e più innocuo “mostro” di Lochness: il Tritone alpino (Triturus Alpestris Inexpectatus, si chiama proprio così), un animaletto preistorico sopravvissuto quassù, come tante altre cose…

    Laghicello
    Il “laghicello” di San Benedetto Ullano

    Lo Stromboli da sopra Paola

    Ad esempio, quei riti – a metà tra realtà e leggenda – che altro non sono se non deformazioni degli antichi culti dionisiaci e orfici. Tra essi, la dibattuta farchinoria calabrese, nemmeno troppo differente da certi culti agrari relativi alla stregoneria popolare del nord-est italiano. Eppure è rimasta in un alone di mistero da quando lo studioso Giovanni De Giacomo provò a scriverne agli inizi del Novecento su una rivista tedesca di antropologia che rifiutò lo scritto in quanto troppo osceno e cessò poi le pubblicazioni.

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    Un tritone alpino

    Pazienza: abbiamo Tritone, Dioniso e Orfeo… possiamo accontentarci di questi tre. Se non fosse che dai monti di Paola si vede facilmente, e spesso, lo Stromboli. E allora mi vengono in mente i riti magici popolari di quelle isole e le formule del taglio delle trombe d’aria di cui ho già scritto. Quelle formule che risuonano e rimbombano sullo specchio d’acqua fra la Calabria e le Eolie, come minimo. Da millenni, sempre uguali.

    Farchinoria ed ergotismo

    E allora mi viene da chiedermi sempre la stessa cosa: quanto uso si faceva, qui dalle parti della farchinoria, della farina di segale? Vi chiederete cosa c’entri questa domanda. C’entra tantissimo: può muoversi un appunto nei confronti di Ernesto De Martino, ovvero il non aver esaminato a fondo la natura originaria di alcuni aspetti del mondo magico popolare, di quegli episodi legati all’onirismo, alle visioni e, aggiungo, alla credenza nei miracoli.
    È noto, oramai, quanto alla base delle più diffuse credenze di carattere soprannaturale si debbano collocare iniziali episodi di isteria collettiva, psicosi collettiva o, ancor più acutamente, di ergotismo, ovvero la patologia conseguente alle epidemie di segale cornuta. Ed è altrettanto noto quanto, nel mondo antico, la segale fosse utilizzata nell’alimentazione. Già Ippocrate parla del “morbo negro” e solo più tardi si parlerà di secale luxurians.

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    Pane di segale

    Tuzzunara e LSD

    Il fungo parassita detto Ergot è lo stesso da cui, verso la metà del Novecento, Albert Hoffman ricavò l’LSD. E ad Alicudi, per esempio, è ancora viva la memoria di allucinazioni collettive che produssero le più diverse forme oniriche tramandate, poi, in forma orale, alla stregua di leggende. La probabile epidemia di ergotismo che ne starebbe alla base è confermata dall’inveterato uso della segale nei processi di panificazione locale. Basti pensare che la farina prodotta con la segale alterata, quella appunto “cornuta”, aveva persino un proprio nome dialettale: la tuzzunara.

    Memorie e oblio

    Non è rimasto quasi nulla neppure di queste memorie. Siccome non si può pretendere da tutti la curiosità di uno storico né lo stesso suo attaccamento alle cose passate, succede pure che ognuno ricordi solo le cose vissute in prima persona e al limite quelle più interessanti raccontate dai propri genitori o dai propri nonni. Tutto il resto cade nell’oblio, di generazione in generazione, per incuria e per disinteresse, nel senso più stretto del termine: l’assenza di un profitto recepibile nell’immediatezza.

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    Cantonieri calabresi a fine ‘800

    Per le piccole cose materiali, la dinamica è più sottile: se si guarda quanti anni ha l’oggetto più antico che si possiede ci si può facilmente rendere conto della caducità della memoria materiale. E non mi riferisco certo all’antiquariato acquistato ex post ma agli oggetti di famiglia; nemmeno ai pochi fortunati casi di famiglie più o meno blasonate e più o meno fornite di patrimoni mobiliari aviti di qualche pregio. La giacca di quel nostro antenato del Settecento (e un rapido calcolo potrebbe mostrarvi con sorpresa come ciascuno di noi abbia necessariamente avuto all’incirca millecinquecento antenati diretti vissuti nel solo diciottesimo secolo) o lo scialle seicentesco di un’altra o il calamaio cinquecentesco o la forchetta quattrocentesca sono spariti.

    Vecchio e antico

    In parte ciò è giustificabile anche a seguito di fattori oggettivi che ne imponevano l’abbandono: si pensi alla peste del Seicento che costrinse a incendiare interi paesi con tutto quello che vi si trovava. E si pensi a quei cicli di impoverimenti che pure hanno colpito tutte le famiglie e che costrinsero alla vendita (e, d’altro canto, al furto) di quasi tutto ciò che si possedesse e almeno degli oggetti preziosi. Questa giustificazione non è applicabile però a tutto: il resto, se non degradato e non diversamente riutilizzabile, è stato deliberatamente gettato via quando era troppo vecchio e non ancora antico per essere apprezzato con altri occhi.
    Cosa è vecchio, adesso, in questo momento storico? Cosa potrebbe diventare antico? E cosa stiamo perdendo senza magari nemmeno accorgercene?

  • Francesco De Luca, il massone che anticipò Calderoli

    Francesco De Luca, il massone che anticipò Calderoli

    Come ho già ricordato, a Girifalco sorse la primissima loggia massonica d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra). E lì vicino, a Parghelia, nacque pure Antonio Jerocades, l’abate eretico tra i primissimi “grembiuli” della Penisola. Si può aggiungere un terzo vertice e formare – com’è giusto (e perfetto) che sia – un triangolo: un massone di spicco nacque infatti a Cardinale, lì tra le montagne a metà strada tra Pizzo e Soverato, a due passi da Serra San Bruno e da quella Chiaravalle Centrale che decenni fa era – per i bibliofili – sinonimo di Frama-Sud sul colophon di certi volumi ormai introvabili. Si tratta di Francesco De Luca.

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    Cardinale in una foto di qualche decennio fa

    Da Catanzaro a Napoli e ritorno

    Giustamente ci si chiederà: “quale Francesco De Luca?”, dal momento che credo si tratti della combinazione onomastica più diffusa in Calabria… Si tratta di quello nato il 2 ottobre 1811 in casa del farmacista liberale Martino De Luca e di sua moglie Maria Carello. Una famiglia solida e prolifica, la loro, dato che il piccolo Francesco avrà poi altri nove fratelli più piccoli (Eugenio, Giovanna, Vincenzo, Elisabetta, Isabella, Sebastiano, Caterina, Domenico e Giuseppe Maria). E, soprattutto, una famiglia di formazione illuministica e positivistica. Non a caso, Francesco fu indirizzato subito agli studi e si diplomò al Liceo Galluppi di Catanzaro per poi laurearsi in Fisica – ovviamente a Napoli – nel 1832 e in Diritto – sempre a Napoli – nel 1835.

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    Palazzo Loffredo, ex sede del Real collegio di Potenza

    Tuttavia, nonostante il milieu borghese e le entrature che certamente non gli saranno mancate, Francesco De Luca non torna vincitore dai concorsi per l’insegnamento – né in Fisica né in Diritto Civile – presso il Real Collegio di Potenza. Ripiega quindi verso il capoluogo natio, dove si dedica all’insegnamento privato.
    Decurione di Catanzaro, questa fin troppo libera docenza gli concede però il tempo di scrivere alcune opere di matematica, metrologia ed economia nonché di incominciare a svolgere la meno libera professione d’avvocato – anche per conto del Ministero delle Finanze – presso la Gran Corte Civile delle Calabrie, patrocinando poi anche in Cassazione nell’ambito del diritto commerciale.

    Francesco De Luca, il ribelle anticlericale

    Fin qui nulla di tanto strano: sembrerebbe la normale biografia di un medio notabile di provincia. Ma c’è dell’altro: Francesco De Luca non aveva mai troncato i contatti con l’ambiente politico liberale napoletano né poi con quello mazziniano. Amico di Francesco De Sanctis e dei patrioti Luigi Settembrini, Carlo Poerio e Camillo De Meis, partecipa infatti ai moti risorgimentali difendendo le barricate alzate dai popolani, il 15 maggio 1848, dinanzi alla chiesa napoletana di Santa Brigida, sul retro dell’attuale Galleria Umberto I. Fu questa esperienza rivoluzionaria che gli suggerì di scrivere un saggio, Della educazione politica de’ popoli del Regno di Napoli (Stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1848). Al suo interno De Luca esprimeva l’avversione verso l’assolutismo e la gerarchia ecclesiastica, auspicava che tutti i beni di questa passassero ai Comuni e che si limitasse il numero dei prelati.

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    “Il 15 del maggio in Napoli”, litografia di Ferdinando Perrin (1851) sui moti del 1848

    Comincia dunque a delinearsi meglio la sagoma di un Francesco De Luca anticlericale e ribelle. Proprio per questi scritti lo arrestano nel 1852 con l’accusa di “detenzione di carte, stampe e libri criminosi e varie lettere di corrispondenza con persone emigrate”. Prosciolto e scarcerato dietro cauzione nel 1853, assieme ai suoi fratelli Vincenzo e Domenico, De Luca raggiunse la Francia passando attraverso la Corsica, e stabilendosi in esilio a Parigi presso il fratello Sebastiano.

    La proposta a Garibaldi

    Ma nel 1859 Francesco De Luca è già di nuovo a Napoli, gomito a gomito con Giuseppe Garibaldi al quale propone la soluzione federalista. Auspica la nascita di una Camera del Meridione che avrebbe evitato il plebiscito unitario, ritenuto pericoloso per la fusione delle terre meridionali al contesto subalpino. Eh, quale illuminazione e lungimiranza!
    Fu così che De Luca divenne Consigliere Provinciale nel 1861. Nello stesso anno venne eletto al Parlamento nelle file della Sinistra, nel collegio di Serrastretta, rimanendo alla Camera fino alla morte (rieletto poi anche nei collegi di Napoli, Chiaravalle Centrale, Molfetta e Minervino Murge).

    Francesco De Luca, un meridionalista alla Camera

    Alla Camera fu difensore degli interessi del Mezzogiorno, nonché uno dei maggiori esperti nelle questioni economiche e finanziarie: presentò tre progetti di legge, “Sul riordinamento della compilazione Statistica nel Regno d’Italia”; “Sui tributi diretti erariali”; e sulle “Modificazioni al sistema dei tributi diretti”. Vicepresidente della Camera nel 1866 nonché Vicepresidente e Presidente della Commissione generale del bilancio in sette diversi mandati, Francesco De Luca votò a favore del trasferimento della Capitale a Firenze e capeggiò il gruppo dei “deluchisti”, ovvero quella «Sinistra Giovane» particolarmente attiva nel votare in favore di leggi che venissero incontro al Meridione.

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    Francesco De Luca nei suoi primi anni da parlamentare

    Nel 1869 fece il possibile affinché da Serrastretta potesse transitare la nuova Strada Statale n.19 delle Calabrie ma prevalse la scelta proposta da Giovanni Nicotera, il quale impose il tratto stradale Soveria Mannelli – Decollatura – Platania – Nicastro – Maida. Quando, infine, la Sinistra Storica e la Sinistra Giovane presentarono un programma unitario, De Luca non accettò il compromesso a causa di – come scrisse De Sanctis – «soverchia rigidità  nei principii e per l’inflessibilità  del suo carattere, mirando diritto e sdegnoso delle linee curve».

    La massoneria e lo scontro con Carducci

    Fin qui la politica. E poi c’è la massoneria. Nel frattempo, infatti, Francesco De Luca si affiliò nel 1862 alla Loggia «Sebezia» all’Oriente di Napoli – su probabile suggerimento e invito dell’arciprete calabrese Domenico Angherà, che ne fu Maestro Venerabile fino al 1873 –, passando poi alla «Dante Alighieri». Nel dicembre 1862 fu tra i promotori del Gran Concistoro dei Sovrani Principi della Valle di Torino e fu membro del Gran Concistoro italiano costituito nel marzo 1863.

    Tenne inoltre la presidenza della Costituente massonica riunita a Firenze dal 21 al 23 maggio 1864, durante la quale Garibaldi si dimise dalla Gran Maestranza del Grande Oriente d’Italia. In quell’occasione lo stesso De Luca fu nominato nientemeno Reggente, in carica dal settembre 1864 fino al 18 maggio 1865.
    Durante tale riunione fiorentina delle diverse Logge massoniche italiane di diverso rito, De Luca ne auspicò una fusione che ammettesse anche candidati cattolici e socialisti. Un auspicio, questo, che lo portò a scontrarsi duramente con Giosuè Carducci, assolutamente fedele al massonismo più nazionalista e anticlericale.

    La quadratura del… triangolo

    De Luca divenne infine Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia il 28 maggio 1865, in chiara ottica antipapale. Ricoprì il ruolo fino al 20 giugno 1867, quando lo delegarono a rappresentare il Grande Oriente d’Italia al Congresso della pace di Ginevra. Tornò poi alla meno impegnativa carica di Maestro Venerabile presso la loggia “Masaniello”, ovviamente all’Oriente di Napoli. Durante il 1866 aveva peraltro costituito in Grecia, assieme a sette logge italiane, il Centro Massonico di Atene, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, che l’anno dopo diventò indipendente con il nome di Grande Oriente Ellenico. Niente male, insomma, per un intellettuale come tanti, arrivato dalla periferia del Regno.saverio-fera

    Ora, non vorrei rovinare la perfezione del triangolo di cui parlavo in apertura, ma se aggiungessimo un altro vertice potremmo anche fare quadrato e menzionare velocemente la vicinissima Petrizzi, patria di un altro Gran Maestro, di un’altra massoneria italiana, quella di Piazza del Gesù: Saverio Fera. Due Gran Maestri a 15km e una quarantina d’anni di distanza: primato mica da poco, per i figli di due minuscoli paesini quali erano Cardinale e Petrizzi rispettivamente nel 1811 e nel 1850.

    Francesco De Luca e i suoi fratelli

    Ma torniamo a De Luca: dei suoi fratelli, Vincenzo si distinse nella repressione del brigantaggio, Domenico fu oculista insigne, Giuseppe Maria geografo e socio dell’Accademia dei Georgofili, Eugenio docente presso l’Accademia Militare della Nunziatella e Sebastiano fu professore di Chimica nelle Università  di Pisa e Napoli, Direttore dell’Ateneo Italiano di Parigi e infine nominato senatore del Regno nel 1880 in quanto membro della Regia accademia delle scienze.

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    Cardinale, il monumento massonico in ricordo di Francesco De Luca

    Quanto a Francesco, ammalatosi nel novembre del 1873, morì a Napoli il 2 agosto 1875 e per sua espressa volontà fu sepolto nella Chiesa matrice di San Nicola, a Cardinale. Essendo tuttavia stato esponente di massimo rango della massoneria, l’arcivescovo di Catanzaro ordinò di tumularlo presso il cimitero comunale e senza esequie religiose. Con buona pace dell’arcivescovo, lo commemorarono alla Camera il 15 novembre 1875. Nel tempo gli hanno intitolato alcune vie a Serrastretta e a Palermiti (Catanzaro), nonché una piazza a Cardinale e la casa massonica di Catanzaro.

  • Gramsci, Ionio ed eroina: la sinistra in Rivolta

    Gramsci, Ionio ed eroina: la sinistra in Rivolta

    C’è un filo bizzarro che lega in Calabria il brigantaggio, il Partito Comunista d’Italia, la Resistenza, le Nuove Brigate Rosse e Lotta Continua.
    Non ci crederete: l’Alto Ionio cosentino. Che sulla mappa della Calabria è in alto a destra. In questo caso, andiamo oltre l’immagine geografica. Nel Sud profondo è più intensamente vera (e frequente) la regola della Gauche caviar, per cui le figure apicali della sinistra provengono da ambienti socio-familiari vocativamente di destra.

    Antonio Gramsci

    In principio fu Gramsci

    Andiamo con ordine: la famiglia di Antonio Gramsci, si sa (ma mai abbastanza), proveniva da Plataci e qui aveva vissuto per non poco tempo.
    L’intellettuale-simbolo della sinistra sbagliava, tuttavia, quando scriveva nelle sue stesse lettere che la famiglia vi fosse arrivata soltanto nel 1821.
    Macché Ottocento. Anche i Gramsci – come la maggior parte degli albanofoni calabresi – arrivarono tre secoli prima, durante le massicce e note migrazioni greco-albanesi.
    Il suo trisavolo Gennaro (nato nel 1745 circa) sposava da queste parti l’italoalbanese Domenica Blajotta. Il bisnonno Nicola (nato nel 1769) vi moriva lasciando la vedova calabrese Maria Fabbricatore e un figlio, Gennaro, nato proprio a Plataci intorno al 1830.
    Detto ciò, Gramsci resta di nascita sarda e forse già suo padre Francesco ebbe pochissimo a che fare con l’Alto Ionio calabrese. Però la suggestione è parecchia: una famiglia benestante e borghese dalla quale scaturirà il padre del comunismo italiano.

    Lo stemma araldico su un balcone di palazzo Chidichimo ad Albidona

    Chidichimo: dal latifondo ai briganti e poi le Br

    Proletari di tutto lo Stivale (o quasi) mossi da chi affondava radici nel notabilato arbëreshë. Come non pensare, allora, agli altrettanto albanesi Chidichimo che proprio in quella zona – tra Plataci, Albidona, Alessandria del Carretto – mettevano le basi del loro incontrastato potere latifondiario?
    Vogliamo illuderci che non vi fossero stati legami parentali tra le due famiglie? C’è una montagna di buoni motivi per dubitare. E allora seguiamo in questo filo bizzarro…
    Fine Ottocento: una figlia del potente albidonese don Colantonio Chidichimo, la nobile Maria (ometto la sfilza di nomi), diventa consuocera dell’altrettanto nobile Maria Antonia Andreassi di Amendolara.
    Maria Antonia Andreassi era la blasonata un po’ ribelle che offrì rifugio e copertura ai complici e ai favoreggiatori della banda del brigante Palma (Domenico Straface) di Longobucco.
    Finisce qui? Nemmeno per idea. Le due consuocere diventeranno pure trisavole della sfortunata Diana Blefari Melazzi, più nota ai nostri giorni, ovvero la brigatista che si tolse la vita a quarant’anni, tormentata per altri e molteplici motivi personali e tare antiche, mentre si trovava in carcere per l’omicidio di Marco Biagi.

    Diana Blefari

    Da Ferruccio Parri a Carlo Rivolta

    E la Resistenza? Eccola: il nonno della povera Diana aveva una sorella che divenne nientemeno consuocera di Ferruccio Parri.
    Ma si può fare di meglio. Ad esempio, chiarire il nesso con Lotta Continua. Torniamo alle due antiche consuocere: la Chidichimo era anche sorella del bisnonno del compianto Carlo Rivolta, classe 1949, la penna più brillante di Lotta Continua.
    Qui però fermiamoci un attimo. Altro che origini altolocate in capo a Gramsci… Carlo Rivolta fu l’ultimo rampollo – sfortunatissimo anche lui, per carità – di un piccolo impero fondiario di cui forse, avrebbe dovuto (e certamente potuto) cogliere assai più frutti. Su di lui sono stati scritti saggi e girati dei film. Tuttavia, secondo l’opinione di chi scrive, sembra un uomo dalle occasioni mancate o, meglio, sfruttate malissimo.
    Di famiglia più che benestante (la madre era Isabella Chidichimo, già proprietaria anche della meravigliosa Masseria Torre di Albidona, il padre un ex repubblichino), Carlo Rivolta abbandona gli studi universitari per entrare – grazie all’intervento di sua madre – nell’ufficio stampa di Giacomo Mancini, intorno al 1969.

    Carlo Rivolta

    Carlo Rivolta e l’eroina

    Di lì a Paese Sera e di testata in testata. Sempre con il fare da bohémien onnipotente che lo contraddistingue: capelli lunghi, salopette, zoccoli di legno, orecchino, musica reggae, soggiorni al Chelsea Hotel di New York (nella stessa camera in cui Sid Vicious aveva ucciso tre anni prima la fidanzata) e cani presi in vacanza a San Francisco (optional obbligatori di una Plymouth Satellite station wagon lì acquistata). Ma anche casa ai Parioli, grossissime motociclette, una Citroën DS blu (con la quale per sbaglio investe un tizio che muore sul colpo) e pistola Beretta (perché, diceva, «con i compagni non si sa mai»).

    Scrive per Il Manifesto e, ancora giovanissimo, approda – con un contratto privilegiato – a La Repubblica e infine a Lotta Continua. Eppure è ritenuto di estrazione troppo borghese per l’estrema sinistra, e troppo estremista per i moderati. Carlo Rivolta si lancia così in una lunga inchiesta nel mondo dell’eroina, vissuta in modo tanto zelante da restarne vittima. Lasciò un racconto straziante, di un viaggio suo e della compagna Francesca Comencini (sì, la zia di Carlo Calenda), a Fasano nell’estate del 1981, in cerca dell’eroina da portarsi a casa.

    L’articolo di Rivolta sul sequestro Moro per Repubblica

    Radical chic nella masseria di Rivolta

    Per capirci, nella masseria di Trebisacce, dove avevano lasciato Deaglio e Capuozzo e dove un altro loro amico morì per le esalazioni di gas in una delle antiche casette. Francesca lo ricorderà in un film non proprio straordinario, Pianoforte.
    Morire a 31 anni quando hai il mondo nelle mani non è simpatico ma nemmeno furbo. Ora, un giudizio sulle sue qualità di giornalista? Difficile formularlo. Detto ciò, di Carlo Rivolta si può leggere tanto e niente parrebbe essere questa gran rivelazione.
    Meglio sospendere ogni valutazione. Forse la cosa migliore è quella che il tempo (solo lui?) non gli permise di portare a termine, cioè quel suo vecchio progetto, sul modello di Vincenzo Padula, ma cent’anni dopo, e mai messo in piedi: “Il Catalogo dei cambiamenti del Sud”, una specie di Michelin del sociale. Peccato, Carlo. Peccato.