Autore: Giovanni Sole

  • La pasta e patate “ara tijeddra” di Napoleone

    La pasta e patate “ara tijeddra” di Napoleone

    I calabresi sono orgogliosi che in questi giorni le patate della Sila vengano pubblicizzate nelle grandi reti televisive. Alcuni esperti di cucina ritengono che gli abitanti della regione siano talmente attaccati alle proprie abitudini da aver mantenuto intatte per secoli le tradizioni culinarie. In un recente manuale sulla gastronomia regionale si legge che le pietanze, composte da pochi prodotti semplici, nonostante il trascorrere del tempo sono rimaste sempre le stesse: in Calabria tutto quel che è antico è attuale. In realtà molti alimenti alla base della cucina calabrese fanno parte di una storia recente, frutto di un lento e difficile rapporto di assimilazione.

    Le patate della Sila durante il tempo della raccolta

    Un pericolo per corpo e anima

    Resistenze e cautele vi furono nei confronti dei prodotti portati dagli spagnoli dopo la scoperta delle Americhe. Chierici come José de Acosta sostenevano che le piante introdotte dalle Indie in Spagna fossero poche e riuscissero male, mentre quelle che dalla Spagna erano state esportate in India fossero numerose e riuscissero bene. Consumati da popolazioni selvagge che non conoscevano la parola di Dio, quei cibi erano pericolosi per corpo e anima: soprattutto il peperoncino a cornetto, per la natura «calda, fumosa e penetrativa», stimolava la sensualidad, pregiudicando la moralità dei giovani.

    Cibo? No, piante ornamentali

    I botanici erano ostili alle piante straniere perché pensavano che un alimento, salubre in alcuni climi e insalubre in altri, potesse provocare gravi malattie come la lebbra. Patate, mais, topinambur, pomodori e peperoncini erano buoni solo come piante ornamentali e, nei trattati sull’arte dell’ortolano, non erano presi neanche in considerazione. Gli studiosi, in realtà, conoscevano poco le nuove piante, di alcune ignoravano la provenienza e facevano una gran confusione persino sui nomi. Nel 1792, Gilli e Xuarez notavano che la descrizione del peperoncino era così scarsa e imprecisa che probabilmente molti, tra cui lo stesso Linneo, non avessero mai visto la pianta e «per mera notizia data da altrui l’avevano descritta».

    La mela insana

    Alcuni osservavano che i «pomi d’oro», una volta maturi, erano di un rosso intenso e che con tale nome erano conosciuti arance, cedri, limoni e altri agrumi che per il colore giallo somigliavano all’oro. Il pomodoro era chiamato anche «mela insana» e «mela aurea» e, in alcune zone, come ci informa un cuoco maceratese, «melanzana». Tozzetti, autore di un libro sulla storia delle piante forestiere introdotte nell’agricoltura, confermava che gli storici avevano pareri diversi sulla loro provenienza. Taluni, ad esempio, sostenevano che i peperoni fossero presenti già nell’Impero romano mentre altri affermavano che erano stati portati dalle Indie orientali in America e da qui introdotti in Europa.

    Patata, il nemico numero uno

    Tra i prodotti “americani” fu la patata a incontrare maggiore ostilità, probabilmente perché tra le molte specie esistenti se ne annoveravano alcune velenose. Nel 1767, Zanon lamentava che, quantunque da decenni in molte nazioni europee se ne facesse largo uso, in Italia i «pomi di terra» erano noti solo ai botanici. Fra gli agricoltori era diffusa la convinzione che le patate avvelenassero i terreni, facessero deperire le piante, contribuissero a far crollare il prezzo dei cereali e provocassero seri danni alla salute di uomini e animali.

    Una inconcepibile stravaganza

    Le patate più nocive erano quelle coltivate nei paesi caldi e nei trattati sui veleni si accenna a persone morte dopo averne mangiato un piatto. I pomi di terra erano diabolici perché cagionavano malattie gravi come la «lepra» e i proprietari si opponevano con «indicibile ostinazione» alla loro produzione. Uno studioso scriveva sconsolato che indifferenza, ostinatezza e ignoranza di molti possidenti facevano sì che la coltivazione del tubero fosse vista come una prova di «inconcepibile stravaganza e come un delirio dello spirito umano» e, dovunque, le patate erano «riguardate come un prodotto di giardinaggio».

    Un cibo per ricchi

    In molti, tuttavia, cominciarono ad apprezzare le qualità dei pomi di terra indicandoli come un dono del cielo: erano facili da coltivare, avevano un sapore squisito e si preparavano facilmente lessandoli in acqua o cuocendoli nella brace. A chi sosteneva che provocassero pericolose malattie, gli studiosi facevano notare che in diversi paesi europei le popolazioni che si nutrivano di tale tubero crescevano sane e robuste.

    Sembrava ovvio che mangiarle ogni giorno le rendesse indigeste, ma ciò sarebbe accaduto con l’uso di qualsiasi altro alimento. Era falsa anche la diceria secondo cui le patate, cibo buono per i maiali, fossero utilizzate dai governi per sfamare i poveri. In realtà erano presenti sulle tavole dei ricchi e i cuochi le preparavano in vari modi: cotte sotto la cenere o in tegame con butirro fresco; stufate con formaggio, cipolla, aceto ed erbe odorose; bollite, pelate e condite con olio e aceto; tagliate a fette e fritte con il lardo nell’olio o nello strutto.

    La Calabria scopre la patata

    Alla fine del Settecento le patate in Calabria erano coltivate solo da alcuni curiosi. Galanti scriveva che a Cosenza erano sconosciute, a Castrovillari se ne ignorava persino il nome mentre nel Crotonese alcuni possidenti avevano cominciato a piantarle, ma non fu possibile dar loro «voga» per una certa avversione degli abitanti. Swinburne racconta che un giorno cucinò patate in vari modi per i frati minimi del convento di Monteleone, ma questi, dopo il primo boccone, le rifiutarono ritenendole insipide e disgustose e ne mangiarono un po’ ricoperte con burro misto a una salsa di aglio e pepe della Giamaica. Alcuni studiosi sostenevano che uno dei motivi della resistenza dei campagnoli nei confronti delle patate fosse legato alla convinzione che i governanti, «per difetto di migliore alimento», volessero imporre quei tuberi che si davano ai maiali.

    La tijeddra di Napoleone

    Furono i funzionari del governo napoleonico a incoraggiare la coltivazione delle patate in Sila. I soldati avevano contatti con gli abitanti e finivano per influenzarne i costumi. Gli ufficiali partecipavano alle feste organizzate dalle ricche famiglie cosentine e il valzer rimpiazzò i balli locali; nelle locande cittadine, gli osti preparavano vivande con ricette francesi e probabilmente la pasta e patate ara tijeddra, ancora oggi un piatto amato dai cosentini, fu introdotto dai soldati napoleonici.

    Napoleone nel dipinto di Jacques Louis David

    Un premio ai coltivatori

    Nel 1812 la Società economica della Calabria Citeriore stabilì un premio per chi le seminava e Cosentini, grande proprietario terriero, le coltivò per circa tre anni con eccellenti risultati. Si trattava soprattutto di patate bianche dai bulbi tondeggianti, poiché quelle gialle, rosse e lunghe, anche se più «saporose», non vegetavano dappertutto e rendevano meno. In un opuscolo Silvagni incoraggiava i coloni a seguire l’esempio di Cosentini e consigliava di cuocerle mettendole sotto la brace, al forno o in acqua bollente, toglierle sino a che cedevano alla pressione di un dito e poi raffreddarle, levare la buccia, tagliarle a fette e insaporire con olio, sale e burro.

    Il commercio della patata

    Nel tempo, proprietari terrieri e contadini mutarono il proprio atteggiamento e gli studiosi notarono che le patate erano apprezzate soprattutto dai giovani, che le preferivano a fagioli e mais. Nel 1845, Grimaldi scriveva che in Calabria la coltivazione delle patate si andava «giornalmente estendendo» e che erano ormai nella maggior parte dei paesi si seminavano in maniera costante. Tre anni dopo, Raso annotava che da intingolo erano diventate oggetto di proficuo commercio e, cucinate in vari modi, erano sempre presenti sulle tavole dei contadini.

    Le patate della Sila sfondano

    Qualche anno dopo Pugliese scriveva che le patate, prima aborrite perché ritenute velenose e indigeste, si mangiavano con piacere ed erano particolarmente ricercate dai contadini che le acquistavano dai mulattieri di Bocchigliero e San Giovanni in Fiore dove erano coltivate in maniera intensiva. Nella seconda metà dell’Ottocento, le patate erano seminate non solo nei territori di montagna ma anche in quelli collinari e pianeggianti. Pur se prodotte in grandi quantità, non coprivano comunque il consumo interno e gli stessi agricoltori, spesso erano costretti ad acquistarle poiché facilmente deperibili. Come i cereali, si conservavano in grandi cisterne di muratura costruite in aperta campagna, coperte da strati di paglia e felci contro l’umidità, ma i risultati non erano incoraggianti.

  • Scacchi, quando i Kasparov e i Fischer venivano dalla Calabria

    Scacchi, quando i Kasparov e i Fischer venivano dalla Calabria

    Nel Cinquecento e nel Seicento il gioco degli scacchi era molto diffuso in Calabria e già nel Quattrocento alcuni alti prelati di Cosenza ne erano appassionati. Bartolomeo Florido, arcivescovo della città, accusato di avere falsificato alcuni brevi papali nel 1497, mentre languiva in prigione passava il tempo con gli scacchi.

    L’intensa attività agonistica spiega perché dal Cinquecento al Settecento la Calabria abbia dato i natali a scacchisti ammirati e celebrati in tutte le corti europee. Qualche esempio? Michele di Mauro, Leonardo di Bona, Gioacchino Greco, Ludovico Lupinacci e Luigi Cigliarano.

    Il buen retiro dopo aver spennato il principe

    Salvio nel 1636 scriveva che uno dei più grandi giocatori del Viceregno era Michele di Mauro, detto «il Calabrese». Divenne famoso soprattutto in seguito alla sfida con Tommaso Caputi, scacchista napoletano emigrato in Spagna, dove lo conoscevano con lo pseudonimo di Rosces. Di Mauro giocava soprattutto a Napoli, dove incontrò i più grandi scacchisti italiani, ma soggiornò per diversi anni all’estero, specie a Madrid. Oltre che un maestro imbattibile, era considerato un «buon teorico» del gioco, su cui scrisse alcuni trattati che purtroppo andarono dispersi. Ormai stanco e avanti negli anni, dopo aver vinto al principe di Gesualdo tremila scudi, di Mauro si ritirò a Grotteria, accasandosi con una gentildonna da cui ebbe alcuni figli.

    Il Puttino contro i corsari

    Giovanni Leonardo di Bona, detto il Puttino, era nato a Cutro nel 1542. Salvio, suo biografo, racconta che studiava legge a Roma e, nonostante la giovane età, era uno scacchista capace di vincere «ciascheduno giocatore». Giunto nella capitale Rui López, il Clerico di Zafra, considerato il «primo giocator» di scacchi del tempo, il Puttino disputò con lui alcune partite. Nulla poté contro l’esperienza del grande campione. In seguito alla sconfitta decise di trasferirsi a Napoli, dove restò per due anni ospite del principe don Fabrizio Gesualdo, appassionato del gioco. La sua fama di scacchista talentuoso si sparse tra i maestri italiani.

    Ruy Lopez Segura
    Lo scacchista Ruy López Segura celebrato in un francobollo secoli dopo la sua morte

    Paolo Boi, alias il Siracusano, mosso da «generosa invidia», volle sfidarlo e, al termine di alcune partite, i due «restarono di pari onore». Qualche tempo dopo Leonardo decise di tornare a Cutro e fu allora che i corsari saraceni attaccarono il paese e catturarono anche suo fratello. Si racconta che tornati a bordo delle galee «alzarono la bandiera di riscatto» e sembra che fu proprio il Puttino a negoziare col rais fissando un prezzo di duecento ducati per ogni prigioniero.

    Secondo la leggenda, durante le trattative notò che a poppa del veliero era approntata una scacchiera. L’arabo si accorse che egli la guardava con interesse e lo invitò a giocare. Fu concordata una posta di cinquanta scudi e il Puttino vinse con facilità una partita dopo l’altra. Alla fine non solo riscattò il fratello, ma intascò altri duecento ducati. Il rais, riconoscendo e apprezzando il suo talento, lo invitò a Costantinopoli dove avrebbe potuto accumulare grandi ricchezze, ma egli non accettò.

    Niente tasse per i cutresi

    Consapevole di aver migliorato le tattiche di gioco, di Bona partì insieme con Giulio Cesare Polerio da Lanciano per la Spagna, nella speranza di incontrare il grande Lopez e ottenere la sospirata rivincita. Arrivati a Madrid, ospiti di donna Isabella, si recarono nel cenacolo dove solitamente si esibiva Ruy López. Leonardo, tra lo stupore dei presenti, chiese di giocare con lui proponendo una posta di cinquanta scudi a partita. Quella del primo giorno finì in pareggio, ma in quello seguente il Puttino vinse. La clamorosa notizia si diffuse velocemente nell’ambiente degli scacchisti spagnoli e tutti volevano battersi con lui.

    Partita a scacchi fra Ruy López de Segura e Leonardo da Cutro (di Luigi Mussini)
    Partita a scacchi fra Ruy López de Segura e Leonardo da Cutro (Luigi Mussini, 1883)

    Correva l’anno 1575 e il re Filippo II chiese di assistere nel suo palazzo a una nuova sfida tra Lopez e il Puttino. Fu stabilito che i due avversari giocassero in piedi sopra un «buffetto» e furono messi in palio mille scudi. Leonardo batté l’avversario e il re, ammirato, gli consegnò i mille scudi, una salamandra d’oro ornata di pietre preziose e una pelliccia di zibellino. Gli domandò anche se avesse qualche desiderio particolare. Il giovane chiese e ottenne l’esenzione dalle tasse per gli abitanti di Cutro per vent’anni.

    Omicidio a corte

    Recatosi a Lisbona giocò col Moro, il più grande giocatore del Portogallo. La partita si concluse senza vinti e vincitori e alcuni giorni dopo re Sebastiano volle vedere i due sfidarsi a corte. Leonardo vinse molte partite con gran soddisfazione del sovrano che non provava simpatia per il Moro, la cui «superba natura lo portava a disprezzare tutti i giocatori stimandosi non aver pari». Re Sebastiano ricoprì Leonardo di doni e lo chiamò «cavaliere errante» perché, come gli antichi cavalieri, sconfiggeva i rivali e umiliava i superbi. Al termine della sua attività Leonardo di Bona decise di ritirarsi a Cutro. Ne1 597, all’età di quarantacinque anni, «morì avvelenato per invidia» nella corte del principe di Bisignano.

    Da Celico alle Indie

    Gioacchino Greco, conosciuto anche come «il Calabrese», secondo alcuni era nato nel 1590 a Celico, casale di Cosenza. Di umili condizioni, studiò in un convento dei Gesuiti dove apprese anche l’arte degli scacchi. Nel 1619, grazie alla protezione di alcuni monsignori della corte pontificia, Gioacchino ne fece la sua professione. In quegli anni scrisse anche un trattato sugli scacchi delle cui copie, fatte da esperti amanuensi, faceva dono a personaggi influenti. Nel 1621 Greco si trasferì a Nancy e dedicò al duca di Lorena, Enrico II il Buono, una raffinata copia del suo manoscritto, noto poi come «Codice di Lorena». Nel 1622, a Parigi, grazie al suo gioco vivace e combattivo, il «povero giovane» ebbe la meglio sui più grandi giocatori di Francia riuscendo a guadagnare cinquemila scudi.

    Dopo questi successi, accompagnato da grande fama, Greco si recò a Londra. Anche lì vinse forti somme di denaro ma, derubato di tutto quel che possedeva, decise di tornare a Parigi. Nel 1626 andò a Madrid alla corte di Filippo IV e lì primeggiò su tutti i grandi campioni, che celebrarono pubblicamente il suo genio. Secondo quanto racconta Salvio, nel 1634 lasciò l’Europa per seguire un ricco signore spagnolo nelle Indie Occidentali. Non fece mai ritorno. Lasciò tutti i beni ai Gesuiti, che insegnandogli a giocare a scacchi erano stati artefici inconsapevoli del suo destino.

    Un artista degli scacchi

    Genoino osserva che il Calabrese col suo genio aveva messo in discussione le monotone regole del gioco, anticipando la vivacità che avrebbe avuto nei secoli seguenti. Egli fu un vero artista della scacchiera. Capace di infondere con i suoi attacchi dinamicità a un gioco che mostrava segni di stanchezza e staticità, inventò nuove mosse quale l’arrocco, detto alla «calabrista» o alla «calabrese». A Gioacchino viene riservato un posto tra gli immortali degli scacchi, poiché il suo talento, le sue mosse, i suoi successi e il suo codice hanno contribuito ad accrescere la popolarità del gioco.

    Il prete e il freddo

    Nel Settecento un campione di scacchi fu il prete cosentino Luigi Cigliarano. Secondo alcuni, per le sue memorabili partite che lo resero famoso in Italia e in Europa, addirittura avrebbe superato il «vanto» e la fama di Gioacchino Greco. A Napoli Cigliarano era seguito da decine di appassionati che scommettevano su di lui ogni volta che sfidava qualche noto giocatore giunto in città. Memorabili furono le partite col Casertano, uno dei più grandi scacchisti del secolo, che aveva una personalità e un gioco diverso dal cosentino.

    Ludovico Lupinacci, gentiluomo cosentino, alla sua morte, avvenuta nel 1732, fu compianto anche dai suoi avversari, che riconoscevano in lui uno dei più grandi giocatori del tempo. L’abate Rocco lo descrive come uno freddo, «contro il costume de’ calabresi» parlava poco, si muoveva lentamente, «in somma parea il re dell’ozio». Quell’uomo calmo e schivo davanti alla scacchiera si trasformava in un aggressivo leone. La sua fama aumentò dopo aver battuto un «orgoglioso» campione francese.

    Sei di fila

    Questi, giunto a Napoli, lanciò una sfida al migliore scacchista del regno proponendo come posta una grossa somma di denaro a chi avesse vinto sei partite senza interruzione. I napoletani indicarono subito come avversario Lupinacci, ma «impallidirono» quando perse le prime cinque. Il solo a non scomporsi tra il numeroso pubblico fu il Casertano, che, conoscendo il valore del cosentino, aveva capito che aveva perso ad «arte». Il francese spaccone, mostrandosi annoiato per l’andamento dell’incontro, suggerì che a quel punto era inutile proseguire. Ma Lupinacci con la sua solita calma lo pregò di continuare. E si aggiudicò sei partite di fila «ordendo de’ tratti bellissimi, indicanti l’acume, e ‘l valore della nazione anche ne’ giuochi e negli scherzi».

  • Intellettuali, in Calabria puoi trovarne uno per tutte le stagioni

    Intellettuali, in Calabria puoi trovarne uno per tutte le stagioni

    Gli intellettuali locali – professori, giornalisti, romanzieri, registi, attori e artisti in genere – sono spesso manager di se stessi, presenzialisti per interesse, volontà di potere mediatico o potere tout court. Presentano libri, rilasciano interviste e fanno conferenze in cui si atteggiano a profeti. L’importante, è trovarsi sempre al centro dell’attenzione, comparire in televisione, essere citati nelle cronache dei giornali e ricevere riconoscimenti. Professionisti della parola, per appagare il loro narcisismo, puntano più alla pancia che alla testa, più agli umori che alla ragione. Consapevoli che per avere successo non è il contenuto del discorso che conta, legittimano sé stessi attraverso retorica, affabulazione e oratoria brillante.

    Narciso
    Narciso in un dipinto attribuito a Caravaggio – I Calabresi
    Intellettuali tormentati

    Si commuovono quando parlano della Calabria e descrivono il personale tormento che li spinge da una parte a voler andar via e dall’altra a rimanere. A volte la descrivono come una terra eccezionale, ricca di valori e di energie positive. Altre volte come una regione senza speranza che si avvia inevitabilmente verso la catastrofe. Molti intellettuali sono schierati politicamente, ma ammiccano opportunisticamente a un pubblico di destra o di sinistra e polemizzano a prescindere dalle idee. Se qualcuno dipinge un quadro pessimista e negativo della realtà regionale, sono pronti a smontarne le tesi per mutare atteggiamento poco tempo dopo.

    Guai se manca il rimborso spese

    Le loro conferenze sono moderate da giornalisti, arricchite da musicisti che allietano l’ambiente e attori o attrici che leggono pagine tratte dai loro libri bene esposti sui banchetti per essere venduti. Si fingono disinteressati a successo e guadagni, ma prima di accettare inviti chiedono il rimborso spese ed esigono ospitalità in alberghi e ristoranti rinomati. Gli intellettuali calabresi sono maestri nelle pubbliche relazioni, sempre attenti ad assicurarsi un ruolo nelle giurie di svariati concorsi così da scambiarsi reciprocamente premi e riconoscimenti.

    Un premio non si nega a nessuno

    In Calabria non c’è città, paese o contrada che non bandisca una rassegna, una selezione, un premio con relativa generosa distribuzione di pergamene, medaglie, coppe, targhe e compensi. Appuntamenti che sono vere e proprie fiere di vanità dove il pubblico si ritrova più per amor di mondanità che per interesse culturale.

    Presentandosi come specialisti in grado di trovare soluzioni ai problemi, gli intellettuali spesso sono chiamati dai politici per amministrare la cosa pubblica e molti diventano assessori e consulenti culturali. Una volta assunto il ruolo, organizzano eventi in cui svago e informazione spicciola si confondono, manifestazioni che risultano inefficaci, inutili e vacue, nelle quali si trovano blande tracce di storia, cultura, arte, musica condite da una buona dose di enogastronomia.

    Intellettuali che fanno intrattenimento

    Alcuni sostengono sia meglio aprire alla modernità piuttosto che restare fedeli alla tradizione, poiché i legami affettivi e identitari condizionano la libertà di scelta. Altri che ci sia bisogno di ritrovare il clima culturale e sentimentale del passato che rappresenta ancora oggi il tratto comune dei cittadini, e insistono nel ripercorrere, realmente o idealmente, gli avvenimenti fondativi della storia locale.

    I nuovi intellettuali favoriscono un sapere in cui il cittadino è utente passivo, una volgare cultura d’intrattenimento che ha colonizzato le strutture più profonde della coscienza. Le ricerche approfondite, le inchieste sul campo, le teorie complesse sono ignorate e respinte come inutili e anacronistiche, buone solo per una ristretta cerchia di specialisti.

    Storici della domenica

    Molti anni fa, Huinziga scriveva che lo storico di professione, rendendosi conto che per comprendere la complessità della realtà c’è bisogno di un faticoso lavoro critico, ha rinunciato a fare l’architetto scegliendo di diventare scalpellino. Interviene, quindi, la figura del dilettante che, illudendosi di avere pensieri ordinati, velocemente intravede tutte le prospettive necessarie per comprendere il reale. Incoraggiata dagli editori, preoccupati di soddisfare una cerchia di lettori sempre più ampia, nasce così quella che può essere chiamata la «storia letteraria». O, meglio, «belletteristica storica», in quanto l’essenza è belletteristica e l’aspetto storico è secondario.

    Attenti alle lusinghe del potere

    Lo studioso deve esprimere le proprie idee e non lasciarsi accecare dalle blandizie del potere, poiché non è possibile vivere in combutta col sistema e allo stesso tempo criticarlo. In quanto dicitore coraggioso di verità, non deve avere paura di mettere a repentaglio la propria condizione e le relazioni. Come un parresiasta, deve esprimersi in maniera chiara, dire quello che pensa senza dissimulazioni ed orpelli retorici, comunicare il suo vero pensiero correndo il rischio di irritare gli interlocutori.

    Il suo compito non è quello di capovolgere il mondo, ma indicare alla sua gente gli atteggiamenti che l’hanno resa vittima di se stessa e, nello stesso tempo, spingerla ad agire per migliorare la sua vita. Deve rivelare agli uomini quanto siano ostaggio di una macroscopica manipolazione volta ad intorpidire le menti e nascondere la vita reale e smascherare i falsi retori che hanno veicolato ideologie finalizzate unicamente a perpetuare il sistema sociale funzionale al potere.

    Sfatare i miti di una Calabria piagnona

    Alcune ideologie, pur fornendo alla realtà un orizzonte di senso, si fondano sulla mistificazione della realtà. Giustificano l’atteggiamento vittimistico che ha plasmato le coscienze dei calabresi a tal punto da far loro ritenere di essere limitati e incapaci di affrontare gli eventi. I mali che affliggono la regione non sono addebitabili ad altri o al destino ma alle scelte compiute dagli uomini.

    La falsa coscienza, o ideologia della sopravvivenza, può forse essere utile per superare difficoltà transitorie, ma sul lungo periodo si rivela dannosa. Il compito dell’intellettuale consiste nel riportare alla luce la falsa coscienza, distruggere le prigioni mentali che condannano gli animi a una cecità sempre più profonda, sfatare i miti che alterano la realtà e oscurano le coscienze, smantellare il castello di sacre opinioni che contribuiscono a dare un’immagine distorta di sé stessi.

    Attenti al pensiero comune

    L’intellettuale non deve fare la rivoluzione ma semplicemente dire la verità. Lo studioso non può essere condizionato dal relativismo secondo il quale tutto può essere affermato e che, pertanto, non esiste una verità. Non può rinunciare al giudizio e giustificare ogni cosa in virtù del principio che i gruppi hanno cultura propria. Non deve essere vincolato da una fedeltà alla sua gente che gli fa pronunciare mezze verità o perpetuare vecchi canoni ideologici. Egli deve sottrarsi alle pressioni del pensiero comune e dire con coraggio quello che pensa.

    In Calabria, purtroppo, sono pochi coloro che si propongono di analizzare criticamente la realtà. E ancora meno quelli che vogliono saperla. Essi sanno che chi dice il vero provoca spesso irritazione e collera, mentre chi si adatta a ciò che la gente vuole sentire è ascoltato e amato. Forse gli uomini non sopportano la verità scomoda avendo vissuto troppo tempo nell’inganno. Preferiscono essere consolati da una menzogna piuttosto che essere feriti da una verità. Evitano di fare i conti con la realtà e si accontentano di ritenere autentiche le verità che hanno ereditato.

    Meglio esuli in patria che servi

    L’appartenenza politica o ideologica degli intellettuali non ha costituito garanzia di verità. Orwell affermava che le ideologie sono un veleno per la letteratura e, se proprio uno scrittore dovesse appassionarsi alla politica, dovrebbe farlo come cittadino. Gli intellettuali devono fare gli intellettuali, ricercare la verità senza subire condizionamenti, esercitare la critica demistificatrice della realtà nella ricerca del vero e contribuire, in quanto cittadino, a vivere in un mondo più giusto e più bello.

    George Orwell
    Lo scrittore George Orwell

    Chi vuole perseguire la verità deve rifiutare qualsiasi interferenza esterna, essere imparziale ed oggettivo. Non farsi condizionare dalle proprie simpatie, non avere preoccupazioni politiche, apologetiche o polemiche. Lo studioso deve correre il rischio di essere isolato e criticato, costretto ad abbandonare la sua terra o restarci a vivere come se fosse in esilio. L’esilio in patria è una condizione di dolorosa solitudine. Ma sempre preferibile a una socialità superficiale e tranquillità servile.

     

  • Cosenza, la grande truffa del beato con le ossa d’asino

    Cosenza, la grande truffa del beato con le ossa d’asino

    Un beato con le ossa d’asino. A Cosenza erano attivi molti abili falsari pronti a produrre documenti per soddisfare le esigenze di gente senza scrupoli. Grazie ad essi si potevano accampare diritti di possesso di terre, ottenere privilegi fiscali, impossessarsi di eredità e attestare nobili origini. Anche preti e monaci erano specialisti nel fabbricare false prove, cosa che spinse Emily Lowe a scrivere che, avidi di denaro e pronti ad arricchirsi in tutti i modi, manipolavano persino testamenti! Tra il Cinquecento e il Settecento sono numerosi i cosentini sotto accusa per aver esibito documenti falsi che certificassero un’origine nobile o per avere redatto falsi testamenti. Ma la truffa che suscitò scandalo anche fuori dai confini cittadini e del regno fu, senza dubbio, quella attribuita a Ferdinando Stocchi.

    La truffa di Stocchi

    Stocchi, presbitero appartenente a una famiglia patrizia della città, era secondo alcuni un uomo curvo e obeso, con occhi piccoli, capigliatura rada e trasandato nel vestire, ma apprezzato studioso, autore di alcuni componimenti poetici e scientifici, eletto addirittura presidente dell’Accademia dei Negligenti. Secondo Misarti era nato a Scigliano nel 1611 e, dotato di «non ordinario ingegno», aveva studiato a Napoli, Roma e Bologna, per stabilirsi a Cosenza dove si aggregò al Sedile dei nobili e fu acclamato principe dell’Accademia de’ Costanti. Subì un processo per le accuse di un «frate zotico» ma fu prosciolto e riprese la sua attività di studioso pubblicando due opere.

    L'ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo
    L’ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    Stocchi divenne amico di Carlo Calà, potentissimo e ricchissimo Presidente della Regia Camera della Sommaria. Approfittando del cruccio di questi, che non poteva ostentare nobili origini, gli confidò di essere a conoscenza di antiche memorie che attestavano la sua discendenza da una famiglia Calà imparentata nel XII secolo con i reali d’Inghilterra e di Svevia. Il Calà, scrive Paoli, entusiasta all’idea di poter vantare una genesi così gloriosa, diede a Stocchi ventiquattromila ducati per recuperare i documenti dei suoi illustri antenati.

    L’abate cosentino, per «ingannare anche gli esperti», assoldò abili falsari. Fece stampare libri e riprodurre in pergamene lettere, memorie, codici, epigrammi, iscrizioni, inni, orazioni e altre carte ingiallite e sforacchiate che in tutto «passavano il centinaio». Secondo queste fonti, i fratelli Giovanni e Arrigo Calà, presunti avi di Carlo, avrebbero seguito Enrico VI di Svevia in Calabria ricoprendosi di gloria e titoli nobiliari «di spada». Giovanni Calà, valoroso capitano, dopo avere incontrato a Corazzo Gioacchino da Fiore si ritirò in eremitaggio vivendo in santità per il resto della vita.

    Il profeta e gli «infiniti miracoli»

    Questi documenti “inediti” in cui si ricostruiva l’avventurosa storia dei fratelli Calà, fatti ritrovare in monasteri, archivi privati e biblioteche come la Vaticana e l’Angelica, suscitarono grande entusiasmo tra gli eruditi del regno. E molti li citarono nelle loro ricerche finendo «per impastare la stessa pessima farina».
    Sulla base della ricca documentazione fornita da Stocchi, il presidente della Sommaria scrisse e pubblicò una storia degli Svevi nel regno di Napoli e in Sicilia. All’interno, ampio spazio per i suoi illustri capostipiti. Diverse pergamene e memorie di «antichissimo carattere», di cui molte parole «non si potiano leggere perché cancellate dall’antichità», attestavano «cose stupende e meravigliose» su Giovanni che già in vita era appellato «santissimo padre, specchio degli anacoreti e profeta del Signore».

    Nel trattato Processus vitae Ioannis Calà, si leggeva che era nato nel 1167, aveva partecipato alla conquista del Regno di Napoli nel 1191 ed era trapassato a godere del cielo nel 1265, dopo sessantaquattro anni di vita santa. L’abate Gioacchino da Fiore, in una lettera all’imperatrice Costanza, scriveva che Calà aveva condotto vita eremitica morendo in santità, era un profeta e aveva fatto «infiniti miracoli». Egli stesso aveva visto, davanti all’uscio del suo romitaggio un gran mucchio di forcole e bastoni che «zoppi e stroppiati» avevano lasciato in segno della loro guarigione. Del beato Giovanni esisteva persino un ritratto dipinto da un pittore di Castrovillari a cui il Calà era comparso in sogno manifestando il proprio desiderio di tramandare ai posteri la sua figura.

    Spuntano anche le reliquie

    Grande meraviglia e commozione nella regione suscitò, nel 1654, il ritrovamento dei resti del «beato». Le reliquie, chiuse in una cassa preziosa con tre chiavi, divennero subito oggetto di culto. E, in quello stesso anno, furono solennemente portate in processione, secondo alcuni a Cosenza, secondo altri a Castrovillari, per dare loro degna sepoltura. Nel 1666, però, tra lo stupore generale, il Tribunale dell’Inquisizione di Roma privò del titolo di beato Giovanni Calà. Il cardinale Crescenzio, vescovo di Bitonto, incaricato dalla Congregazione dell’Indice di analizzare i documenti sulla vita del sant’uomo, al termine di una faticosa ricerca aveva stabilito che si trattava di carte false.

    Galileo Galilei, il più celebre imputato del Tribunale dell'Inquisizione
    Galileo Galilei, il più celebre imputato del Tribunale dell’Inquisizione – I Calabersi

    Negli ambienti napoletani la truffa era di dominio pubblico tanto che Fusidoro, pseudonimo di Vincenzo D’Onofrio, scriveva che il vanaglorioso Calà aveva pubblicato la storia degli Svevi per rivendicare alla sua stirpe origini reali e sante, costruendo l’opera con documenti e pergamene prodotte da esperti falsari, tra cui l’ingegnoso Farinello. Anche per Domenico Confuorto, alias Fortundio Erodoto Montecco, il libro sulla famiglia Calà era più zeppo di «bugie che di parole, più spropositi che righi», ove si leggevano «chimerazzi e favolosi personaggi» descritti nei romanzi e nei libri di cavalleria.

    Il beato con le ossa d’asino

    Erano state lettere anonime e ammissioni della truffa di alcuni falsari a spingere le autorità ecclesiastiche a intervenire sulla storia del beato Calà. Il gesuita Pietro Giustiniani aveva raccolto la confessione di un uomo che si era reso responsabile insieme a Stocchi della «tessuta ribalderia». Costui aveva dato licenza di rendere pubblica la propria confessione, ma chiedeva che non si rivelasse il suo nome per «timore di essere ammazzato». Secondo Paoli era stato invece lo stesso Stocchi, mosso da «crudel rimorso», a rivelare la truffa in punto di morte. Mentre per altri a svelare l’inganno era stato il gentiluomo cosentino Angelo di Matera, suo complice.

    Un asino

    Questi, gravemente ammalato e assalito dal rimorso, confessò l’imbroglio in una scrittura consegnata a un notaio, pregandolo di recapitarla al vescovo di Martorano dopo la sua dipartita finale. Egli rivelava che, insieme al «solennissimo ciurmatore» Stocchi, aveva prodotto pergamene false e che le reliquie del beato erano in realtà ossi d’asino. Venuto a mancare il Di Matera, il presule mandò l’incartamento a Roma, dove la Congregazione Generale Romana istituì un processo condotto da padre Giustiniani. Questi appurò che le carte erano effettivamente false e che la storia del beato era un’invenzione. Il 27 giugno 1680, il culto del beato Giovanni Calà venne proibito. Il destino di libri, pergamene, codici, libretti e immagini che lo riguardavano? Prima il sequestro e poi le fiamme.

    Una truffa che fece il giro d’Europa

    Gli studiosi si interrogarono a lungo sul perché una truffa così audace di cui si parlò in tutta Europa non fosse stata subito smascherata. Paoli scriveva che la storia del beato Calà inventata da Stocchi era indubbiamente ben architettata, ma «conteneva cose più degne di un poema che di storia». Le ricostruzioni storiche erano piene di evidenti errori, contraddizioni e fatti assolutamente inverosimili, quali le virtù attribuite a Giovanni Calà.

    Questi veniva presentato come un uomo dalla forza superiore all’«umana natura», non inferiore a quella di Sansone e pari solo a quella di Ercole. Paoli si stupiva che i contemporanei non avessero esaminato e contraddetto un tale «ammasso di contraddizioni» e fatti «degni di un poema d’Ariosto». Sarebbe stato facile capire che i testi citati dal Calà erano falsi: nessuno aveva mai sentito parlare degli autori e nessuno ne avrebbe trovato copie nelle biblioteche.

    Troppo potente per sbugiardarlo

    Il silenzio e l’omertà degli studiosi contemporanei probabilmente si doveva al fatto che Carlo Calà era un uomo molto temuto. Padre Russo lo descrive come arrogante e vendicativo nei confronti di coloro che osavano criticarlo: Giuseppe Campanile, che nel febbraio del 1674 aveva avanzato dubbi alla sua Istoria degli Svevi, finì subito in prigione! Calà era uno degli uomini più potenti del Viceregno e il processo che aveva dimostrato la non autenticità delle reliquie di Giovanni Calà e la non attendibilità delle fonti documentarie che lo riguardavano, sarebbe rimasto segreto. Se non avvenne, è solo per l’imprudenza del Vicario Generale di Cassano, Giacinto Miceli, che aveva autorizzato il culto del beato Giovanni.

    La Historia de' Svevi, con il racconto della vita del falso beato Calà
    La Historia de’ Svevi, con il racconto della vita del beato Calà

    A quel punto il Tribunale dell’Inquisizione dovette comunicare a papa Innocenzo XI il verdetto del processo istruito da Giustiniani. Calà era così sicuro della sua impunità che, pur essendo a conoscenza delle critiche sul suo libro e dell’inchiesta in corso, nel 1665 dava alle stampe una versione dell’opera in latino. Del resto, come ricorda padre Russo, scattò il divieto per il culto del beato, ma il volume di Calà non finì all’Indice dei libri proibiti.

    A Cosenza si festeggia

    La truffa di Stocchi fu una tra le più ardite e celebri mai realizzate in Italia, capace di produrre il culto di un falso beato e di coinvolgere addirittura il potente Presidente della Sommaria. Se nessuno avesse svelato l’inganno, i fedeli avrebbero continuato a venerare e a ritenere reliquie di un santo dalle ossa d’asino. Il ricordo di questo beffardo episodio rimase vivo nella memoria dei cosentini dal momento che Pilati, giunto a Cosenza nel 1775, scrisse che un tale Stocco, gran letterato e nemico del clero, un giorno decise di far venerare pubblicamente gli ossi di un asino come reliquie di un santo. Aveva organizzato così bene la beffa che l’arcivescovo prima e lo stesso papa poi canonizzarono un fantomatico beato. I cosentini, entusiasti per quella proclamazione, istituirono una festa per la venerazione delle reliquie. E lo stesso Stocco compose l’inno da cantare per l’occasione.

  • Politici cosentini sulle orme dei padri

    Politici cosentini sulle orme dei padri

    Sono in molti oggi a denunciare che gran parte della classe politica locale è poco colta ed egoista. Afflitta da quei mali indicati da Banfield, persegue solo gli interessi particolari e non quelli della comunità, con conseguenti effetti disastrosi nella gestione del bene pubblico e della vita politica. La difesa dell’interesse comune è attuata prevalentemente in caso di vantaggio personale e la trasgressione delle regole è prassi comune e garantita dall’immunità. Molti “politicanti” tendono alla migrazione nei partiti più forti del momento, determinando così l’instabilità delle forze politiche e delle amministrazioni; una volta eletti, cercano di assicurarsi vantaggi materiali a breve termine e sono portati a ricambiare con favori coloro che li hanno votati e a penalizzare gli avversari.

    La 285 e un popolo di bibliotecari

    Si dice che gli amministratori odierni sono incapaci e per questo motivo Cosenza ha perso l’importanza che aveva negli anni trascorsi, centralità determinata da parlamentari che le davano lustro e prestigio. Mancini e Misasi, i più noti politici cosentini, avevano svolto importanti incarichi di governo e coperto ruoli di dirigenza nazionale nei rispettivi partiti. I giudizi di alcuni storici locali su questi due leader sono stati lusinghieri dimenticando che anch’essi non erano estranei a una politica clientelare e familista, che le loro segreterie erano affollate da gente che chiedeva favori.

    L’ex ministro e segretario del PSI, Giacomo Mancini

    Erano tempi di «vacche grasse». Grazie alla legge 285, ad esempio, negli uffici della città si moltiplicarono impiegati e funzionari. La Soprintendenza per i Beni Culturali e l’Archivio di Stato furono arricchiti da un tale numero di dipendenti che non si riusciva a collocare negli uffici per mancanza di stanze, sedie e scrivanie. Presso la Biblioteca Nazionale oltre cento impiegati dovevano occuparsi di un patrimonio di appena seimila libri e su alcuni quotidiani come Repubblica si scriveva che i cosentini erano diventati un popolo di bibliotecari!

    L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi
    Le responsabilità dimenticate

    Molti rimpiangono i politici del passato dimenticando la loro responsabilità riguardo allo scempio edilizio. Le riflessioni degli addetti ai lavori sulle vicende urbanistiche della città sono state superficiali e addomesticate. In un volume curato dal Dipartimento di Pianificazione Territoriale dell’Università della Calabria, si leggono generiche considerazioni sui piani regolatori e solo in pochissimi scritti emergono critiche alla classe politica. Sabina Barresi ricordava che Cosenza viveva una profonda crisi di identità e che la crescita, senza alcun disegno urbanistico, aveva causato la perdita dei confini urbani e la creazione di «spazi muti contenitori del disagio».

    L’inizio del ponte Pietro Bucci all’Università della Calabria

    Tali trasformazioni, succedutesi nel tempo, non erano state indotte da pressioni economiche, ma da atti di volontà politica. Faeta aggiungeva che la città era stata abbandonata alla prepotenza della logica di mercato e che solo amministratori responsabili, dotati di idee chiare e capacità di progettazione, avrebbero potuto evitare una espansione edilizia tanto devastante.

    Cemento e cattedrali nel deserto

    La città nuova è caratterizzata da edifici anonimi, scialbi, privi di valore architettonico. I rioni popolari, come quelli di via Popilia, Torre Alta e via degli Stadi, presentano strutture urbane degradate, simili a quelle delle periferie delle grandi metropoli. Ad osservarla dall’alto del colle Pancrazio, Cosenza nuova si presenta come una distesa di cemento che continua a svilupparsi in modo caotico in tutte le direzioni, un ammasso di palazzi dove è impossibile distinguere un quartiere dall’altro.

    Degrado nel popoloso quartiere di Via Popilia a Cosenza

    Nel corso del tempo, l’incontrollato aumento delle costruzioni, ha annullato i confini e così il capoluogo si confonde con i paesi limitrofi e si assiste alla fuga dei cittadini dal centro. Al saccheggio della città hanno partecipato tutti. Quando si decise di smantellare la vecchia stazione ferroviaria e costruirne una nuova nella decentrata contrada Vaglio Lise nessuno ha protestato. Col senno di poi, si critica quella scelta sciagurata riconoscendo il danno irrimediabile arrecato a Cosenza. La vecchia stazione si trovava in pieno centro mentre la nuova non è che un ecomostro semi-abbandonato, dalle pareti scrostate e cadenti, da cui partono e arrivano solo pochi treni per Paola e Sibari.

    Si tratta di una struttura in calcestruzzo armato, con ben sette binari per i viaggiatori e tre per il servizio merci, dotata di palazzine e di un enorme atrio adatti per una metropoli. Al viaggiatore appare come una spettrale cattedrale nel deserto, lontana dalla città e mal collegata, con parcheggi sotterranei bui e sporchi. Oggi si discute se abbattere questo inutile quanto orribile mausoleo.

    La città degli avvocati

    I politici di oggi non posseggono carisma, non ricoprono incarichi di rilievo nel governo centrale, non sono conosciuti sul panorama nazionale, ma il loro modo di intendere la politica non è molto diverso da quello dei loro predecessori. Del resto molti di loro sono figli o parenti di quei politici, altri sono cresciuti nelle segreterie o «correnti» di partito. Tutti appartengono a quella piccola e media borghesia impiegatizia e del lavoro autonomo che teneva saldamente il potere in città e che, come scriveva Gramsci, si rivelava incapace di svolgere un qualsiasi compito storico.

    Tra le categorie professionali che hanno condizionato maggiormente la vita cittadina, emerge quella degli avvocati. Piovene, alla metà del Novecento, si meravigliava dello «spettacoloso» numero di legali di Cosenza che condizionava perfino i ritmi della vita sociale: in città si faceva colazione tardi perché i legali comparivano in tribunale fra le undici e mezzogiorno. Oggi il numero degli avvocati è addirittura aumentato. Quasi ogni portone mostra la targa di uno studio legale, a volte si tratta di studi associati dove lavorano sino a dieci professionisti.

    Presso l’Ordine degli Avvocati di Cosenza, qualche anno fa risultavano iscritti 1067 avvocati al settore civile ed affari giudiziari, 538 a quello penale e 188 a quello tributario-contabile-amministrativo, per un totale di 1793 professionisti. A questa cifra bisognava sommare le centinaia di dottori praticanti e i giovani laureati in giurisprudenza che, di fronte alla concorrenza spietata e all’impossibilità di avviare un proprio studio, sceglievano altre carriere.

    L’ingresso del tribunale di Cosenza
    Lo stupore degli stranieri

    I viaggiatori stranieri che nel corso dei secoli visitarono Cosenza erano colpiti dall’ambiguità e dalla doppiezza dei loro «anfitrioni altolocati». Tavel agli inizi dell’Ottocento scriveva che quando avevano interesse a persuadere qualcuno, usavano astuzia e maniere striscianti e, se non si aveva esperienza della perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    De Custine affermava che erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che aveva conosciuto: quando l’interesse lo esigeva mentivano con tanta finezza e abilità da far apparire vero il falso; mostravano un’ingenuità disarmante, che faceva paura quando si scopriva che era menzognera e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con i calabresi il francese era confuso non riuscendo ad afferrare il loro reale pensiero. Capitava che essi accusavano un uomo per infamarlo e contemporaneamente lo giustificavano, che ne criticavano le azioni aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole: in sostanza, dopo aver dimostrato la meschinità del malcapitato, ne diventavano avvocati difensori. Per qualsiasi estraneo era praticamente impossibile riconoscere la verità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

    Chiacchiere e ricerca di visibilità

    Padula definiva eruditi e politici cosentini «eloquenti chiaccheroni». Vantavano una formazione classica, dirigevano le Società Economiche preposte a promuovere lo sviluppo di agricoltura e industria, ma non distinguevano un’erba da un’altra, sprecavano tempo e parole perdendosi in astratte generalità senza che arti ed industrie se ne avvantaggiassero. Sempre Padula, il 9 marzo 1864 scriveva: «Far visite e ricevere visite dall’autorità, accompagnarle al teatro e al passeggio, correre ogni mattino ad informarsi della salute del loro signore e delle loro gatte è la massima delle sue felicità… Signor Intendente, signor Generale, signor Giudice, mi permetta che prenda un sigaro; e dice questo a voce alta, perché la gente che si trovasse sulla via sapesse ch’egli era amico del Giudice, del Generale e dell’Intendente».

    I partiti si dividono perfino la toponomastica

    I rappresentanti della piccola e media borghesia cittadina, militando in diversi partiti, si sono fronteggiati per governare la città e, tuttavia, sono stati sempre coesi come ceto sociale. Ciò è evidente anche nella scelta dei nomi con cui intitolare strade e piazze. A parte alcuni nomi «ad effetto», come quelli di Andy Warhol, Keith Haring o Jean-Michel Basquiat, sconosciuti alla maggior parte della popolazione e forse agli stessi amministratori, le altre scelte sono il frutto della spartizione tra i vari partiti politici.

    Chi ha proposto la nuova toponomastica, ha sottolineato di avere selezionato nomi noti e meno noti di persone che hanno lasciato un segno nella vita della comunità a prescindere dall’appartenenza politica. Entrando nel merito, si trovano politici e professionisti responsabili del caotico sviluppo edilizio e della gestione clientelare e familistica della cosa pubblica.

    La tendenza ad affermare il primato del proprio gruppo sociale nella storia è un processo iniziato molto tempo fa. Vie e piazze della città erano in passato dedicate ai mestieri e al commercio che vi si svolgeva. C’erano vie e piazze dei Cordari, dei Casciari, delle Concerie, degli Orefici, dei Mercanti, dei Sartori, dei Pignatari, dei Sellari, dei Forni, dei Pettini, della Neve, delle Uova e dei Follari. Nel settembre del 1898, la Commissione Municipale di Cosenza composta da legali, insegnanti e ingegneri, comunicava di aver cambiato la denominazione di alcune strade e piazze perché le intitolazioni «consigliate dal popolo» erano «volgari e poco simpatiche».

  • Briganti brava gente? Falsi Robin Hood

    Briganti brava gente? Falsi Robin Hood

    L’immagine della Calabria è legata ai briganti. Alberghi, ostelli, ristoranti, pizzerie, cooperative, aziende agricole, circoli culturali, gruppi musicali, compagnie teatrali, gruppi folkloristici ne prendono con orgoglio il nome. L’artigianato tipico della terracotta ha come prodotto di punta nell’uomo col cappello a cono e lo schioppo in mano e riproduzioni del brigante dall’aspetto fiero e tetro campeggiano sulle etichette di bottiglie di vino, olio, salumi e formaggi.

    Come Robin Hood

    Nell’Ottocento, Vincenzo Dorsa scriveva che le madri calabresi, trastullavano i loro bambini, chiamandoli brigantiellu miu, brigantiellu di mamma, così come altrove si sarebbe sentito mio cavaliere, mio principino: un figlio capo brigante avrebbe dato gloria e ricchezza a famiglia e parentato! Negli stessi anni, il noto romanziere Misasi descriveva i briganti come poveri giovani costretti a darsi alla macchia per sfuggire alle angherie e per vendicare ingiustizie. In vent’anni di latitanza, il celebre capobanda Tallarico aveva rubato ai ricchi per dare ai poveri, difeso i deboli da avidi sfruttatori, aiutato fanciulle a coronare il sogno d’amore.

    Alcuni storici ancora oggi sostengono che il brigantaggio era la reazione delle masse rurali a ingiustizia e miseria: angariati dai padroni interessati e crudeli, si davano alla macchia e attaccavano le proprietà. Dipingono i briganti come patrioti disposti a dare la vita per difendere la loro terra dall’odiato invasore. Combatterono i giacobini per difendere le tradizioni, la famiglia e la religione dei loro avi; i francesi per impedire loro che depredassero la regione; i piemontesi per aver scacciato il legittimo re di Napoli e occupato il Sud.

    Una presenza costante

    In realtà il brigantaggio è stato sempre presente in Calabria e gli stessi Borboni furono costretti più volte a mettere in stato d’assedio alcuni territori della regione. Era un fenomeno endemico e, come avevano ben compreso i viaggiatori stranieri, le bande diventavano più attive e numerose in occasione di rivolgimenti politici. Nel Cinquecento e Seicento le montagne della Calabria pullulavano di banditi dai nomi tristemente famosi in tutta Europa e nel Settecento il governo ammetteva che vasti territori della regione erano sotto il controllo di bande criminali.

    I briganti non erano umili e pacifici contadini che, presa coscienza della condizione di sfruttati, combattevano una lotta di classe. Per il generale borbonico Nunziante il brigantaggio dell’Altopiano Silano non nasceva dalla povertà, ma dall’indole violenta e rapace di uomini abituati all’uso delle armi: la maggior parte degli «scorridori di campagna», infatti, non erano contadini, ma guardiani.

    Nessuna matrice politica

    Vincenzo Maria Greco, storico locale convinto sostenitore di Re Ferdinando, aggiungeva che i briganti non erano patrioti in quanto, cacciati i Francesi, furono più attivi che mai e, soprattutto nel biennio 1844-1845, aumentarono così tanto di numero e di ardire che nel 1847 il re diede ordine ad un Maresciallo di campo di sterminarli. L’anno seguente, lo «stendardo» del brigantaggio riapparve ancora più terrificante: le bande si mostrarono numerose e minacciose come non mai e dovunque si verificavano rapimenti, saccheggi e assassinii. Il brigantaggio secondo l’autore, dunque, non aveva matrice politica o sociale, ma stava nell’indole rapace e sanguinaria di alcune famiglie abituate a delinquere.

    Spiriti, nel Settecento, sosteneva che i calabresi non diventavano briganti per le prepotenze subite o per amor di patria, ma perché allettati dai vantaggi che offriva l’attività delittuosa. Organizzati in piccole bande, giovani senza scrupoli e con precedenti penali si davano alla macchia per aggredire viandanti e mercanti, razziare greggi e mandrie, saccheggiare magazzini, rapire proprietari, taglieggiare chiunque minacciando ritorsioni.

    Economia e briganti

    Fare il brigante era un mestiere e intorno al brigantaggio si sviluppava una proficua attività economica che vedeva coinvolti manutengoli, soldati, medici, giudici e procuratori. Un bandito in prigione confessò a Misasi che, in soli due anni di attività, aveva guadagnato 80.000 ducati d’oro e d’argento, ma la maggior parte del denaro era servito per pagare manutengoli, giudici, squadriglieri e avvocati; la moglie era stata costretta a vendere la casa e andare a servizio e i figli, nudi e scalzi, conducevano una vita misera.
    Spiriti raccontava che il guadagno annuale di un altro celebre capobanda era stato di 12.000 ducati così ripartiti: 6.000 per la paga di legali e impiegati dei tribunali, 3.000 per protettori e sbirri, 3.000 divisi tra lui e i compagni.

    Al servizio dei ricchi

    Il brigantaggio era funzionale alla società tradizionale, le comitive di scorridori erano spesso tollerate, incoraggiate o protette da nobili, presidi e galantuomini per controllare il territorio ed eliminare potenziali nemici. Il Procuratore generale presso la Commissione feudale Winspeare annotava che i baroni coprivano i briganti in ogni modo e spesso li arruolavano nelle loro milizie private.
    Salis Marschlins affermava che i nobili calabresi si comportavano come tiranni senza alcuna legge morale e, per terrorizzare la popolazione, si servivano dei briganti che non esitavano a tirare fuori dai guai usando potere, denaro e intrighi quando questi erano arrestati. Lenormant, Bartels, Galanti, de Rivarol e tanti altri confermavano che nobili e galantuomini usavano i briganti per intimorire la gente di campagna.

    De Tavel annotava che a Cosenza, un gran numero di avvocati e giudici incoraggiava il brigantaggio nei casali intorno alla città, poiché proprio dagli scorridori di campagna proveniva la fonte principale dei loro guadagni. Rilliet, ufficiale medico della colonna mobile di scorta a Ferdinando II durante la visita in Calabria del 1852, annotava che squadriglieri, guardie urbane, gendarmeria e soldati mangiavano insieme ai briganti che avrebbero dovuto catturare.

    Diavolo e acqua santa

    I briganti, dunque, avevano rapporti con grandi proprietari, medici, avvocati, giudici e guardie che pagavano profumatamente. Durante la loro attività criminale, davano grosse somme in denaro persino a preti e monaci i quali, in segno di riconoscenza, offrivano protezione e ospitalità. Gli scorridori di campagna si mostravano profondamente religiosi, nutrivano una grande devozione per la Vergine, santi e arcangeli; parte del ricavato delle estorsioni era sempre destinato alla chiesa o al santuario dove si riunivano ogni anno per ringraziare della protezione ricevuta. Anche il bandito più sanguinario portava appese al collo reliquie e immagini dei santi o della Madonna che invocava prima di commettere ruberie e assassinii.

    Si racconta che in alcune sparatorie con la forza pubblica sollevavano in alto le sante reliquie convinti che queste potessero renderli invulnerabili alle pallottole. Il capobanda Palma di sera riuniva i suoi uomini, si metteva al centro con un crocifisso in mano e tutti recitavano il rosario e pregavano i santi protettori le cui immagini erano appuntate sui loro cappelli.

    Dai briganti ai mafiosi

    Oggi i briganti non ci sono più ma la regione è piena di mafiosi che usano il terrore come forma di controllo e di consenso e si qualificavano per gli atti di inaudita crudeltà nei confronti delle vittime. Molti intellettuali negli ultimi decenni hanno sostenuto che la mafia è figlia del sottosviluppo, conseguenza della povertà e della completa assenza dello Stato; i mafiosi non sono mossi da deliberata cattiveria o da disposizione psicologica a delinquere, ma da ribellione, sia pure sbagliata, contro l’ineguaglianza sociale. La ‘ndrangheta sarebbe dunque il riflesso di una società ingiusta, la reazione alla decadenza economica, alla disoccupazione e alle crescenti disuguaglianze.

    Alcuni sostengono, addirittura, che originariamente fosse composta da uomini che aiutavano i deboli e che la stessa parola deriverebbe da andragathìa, che significa coraggio, valore, virtù e rettitudine. Pur prendendo le distanze dal fenomeno mafioso, sono in molti ad alimentare lo stereotipo dello ‘ndranghetista costretto dalla dura vita a scegliere la via del crimine senza tuttavia abbandonare il senso dell’onore, della famiglia, dell’amicizia e della religione.

    I tempi cambiano, ma non troppo

    Ogni organizzazione criminale va collocata nel contesto storico in cui si sviluppa. La stessa ‘ndrangheta ha subito un’evoluzione: se in passato i suoi capi erano guardiani dei latifondisti, oggi sono persone che hanno accumulato immensi patrimoni; se un tempo l’ambiente privilegiato era quello rurale, oggi è quello delle grandi metropoli; se in passato l’attività era volta ai sequestri di persona, oggi gli affari si fanno con narcotraffico, grandi appalti e riciclaggio di denaro sporco.

    Le organizzazioni criminali si evolvono, ma alcune costanti rimangono. Sarebbe ingenuo pensare a una filiazione diretta dal brigantaggio alla ‘ndrangheta, ma è innegabile che molti elementi accomunano l’esperienza dei briganti calabresi e quella degli ‘ndranghetisti. Nel corso del processo contro la famigerata banda di Pietro Bianchi celebrato a Catanzaro nel 1867, un procuratore disse che il brigantaggio avrebbe ricevuto un colpo mortale allorquando la locomotiva avesse percorso maestosa la bella costiera calabrese dallo Jonio al Tirreno; ma si affrettò ad aggiungere, che neanche le ferrovie sarebbero bastate a distruggere le bande criminali senza il cambiamento di una mentalità diffusa che giustificava furto, sopraffazione e violenza.

  • Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Coadiuvato da un’equipe, Ancel Keys, fisiologo americano e inventore della “razione k”, il rancio dei soldati americani durante la Seconda guerra mondiale, nel 1957 studiò la dieta alimentare degli abitanti di Nicotera, paese calabrese lungo la costa del Tirreno. Su un campione di trentacinque famiglie riscontrò che vi era un basso tasso di malattie cardiovascolari dovuto allo stile di vita e alla nutrizione. La ricerca, estesa ad altre regioni, confermò che le popolazioni del Mediterraneo erano accomunate da un’alimentazione che, per gli effetti benefici sulla salute poteva considerarsi una delle migliori del mondo.

    La dieta mediterranea

    La “dieta mediterranea” ebbe il consenso di medici e consumatori, fino a essere riconosciuta dalla stessa Unesco quale patrimonio dell’umanità. Nelle motivazioni si legge che essa rappresenta un modello alimentare rimasto costante nel tempo e nello spazio, un sistema nutrizionale che favorisce l’interazione sociale, rappresenta i costumi delle comunità, promuove il rispetto per il territorio e garantisce la conservazione di antichi mestieri.

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    Ancel Keys a Nicotera

    Per i popoli del Mediterraneo l’atto del mangiare non è solo una questione di sostentamento. È anche un modo per condividere e socializzare, rafforzare rapporti di parentela e vicinato, incoraggiare incontri e ospitalità, creare convivialità e allegria.
    Oggi molti lamentano che la dieta mediterranea, per via del forsennato processo di globalizzazione, stia scomparendo a vantaggio della diffusione di fast food, luoghi amati soprattutto dai giovani, in cui mangiano frettolosamente pietanze a base di grassi animali.

    Si assumono più calorie e se ne bruciano di meno, sono ridotti i consumi di cereali, legumi, verdure e ortaggi e sono aumentati quelli di carne, uova, salumi, formaggi e dolci. Le tradizioni gastronomiche, strumento fondamentale di protezione identitaria e di coesione sociale delle comunità, sono sempre più trascurate. I cibi semplici e poco elaborati, alla base di un sistema dietetico secolare, sono sostituiti da alimenti di cui s’ignora provenienza e storia.

    Cibo e salute in Calabria

    Non abbiamo una documentazione sufficiente per stabilire quanto in passato l’alimentazione incidesse sulla salute dei calabresi. Alcuni sindaci nelle inchieste governative affermavano che la popolazione, nonostante un regime alimentare povero e monotono, cresceva sana e vigorosa. Le cifre sulla salute dei giovani in occasione della visita di leva, però, erano drammatiche: circa la metà era riformata e rivedibile per bassa statura, deficienza di sviluppo toracico e debole costituzione.

    I medici sostenevano che la gente di campagna era consapevole che mangiare sobriamente fosse un bene per la salute ma la loro dieta vegetariana non era una libera scelta, né una conseguenza di considerazioni mediche o religiose. La predominanza di pietanze a base vegetale non era frutto di un comportamento virtuoso dettato dall’esperienza ma conseguenza del bisogno, della costrizione e della miseria. «O ti mangi sa minestra o te jietti da finestra», o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra, «è miegliu nivuru pane ca nivura fame», è meglio pane nero che nera fame, sottolineavano due proverbi calabresi.

    Abitudini e desideri

    Non sempre le abitudini alimentari corrispondono al gusto degli individui: diverso è mangiare un cibo abitualmente, altro è apprezzarlo. I contadini consumavano verdura, legumi, ortaggi e cereali ma desideravano carne, pesce, formaggi e dolci. In alcune zone si diceva «carne de puorcu e cavuli all’uortu, chini nun si mangia si trova muortu, pa salute ci vò puru ‘u salatu e cu mangia erba, pecora diventa», per sottolineare quanto fosse necessaria la carne per una buona alimentazione.

    bistecca
    La carne era cibo destinato ai più abbienti, i contadini calabresi la mangiavano di rado

    Occupati nei duri lavori campestri, i campagnoli preferivano la carne poiché meglio soddisfaceva il bisogno di proteine e, non a caso, dicevano carne fa carne. La gran parte della popolazione non era soddisfatta di quello che mangiava e immaginava l’esistenza di paesi della cuccagna, luoghi in cui consumare carne e pesce in abbondanza, mondi difficili da raggiungere, al pari di quegli alberi della cuccagna a cui, durante le feste, erano appesi polli, capretti, salumi e formaggi.

    Altro che triade

    Molti studiosi affermano che la dieta dei calabresi, come quella di altri popoli del Mediterraneo, si basava sulla “triade” grano, vino e olio. In realtà, gran parte della popolazione non consumava mai pane di grano, per condire usava soprattutto la sugna e beveva il vino solo durante le feste. I contadini seguivano una dieta poco variegata: a colazione, pranzo e cena utilizzavano sempre gli stessi alimenti, con piccole variazioni durante le solennità.

    Per amor di patria, alcuni autori hanno inventato una gastronomia calabrese che con le sue pietanze originali avrebbe rappresentato un fattore centrale per la costruzione di una solida appartenenza culturale. Genuina, semplice ed essenziale, a parte alcune contaminazioni, la cucina regionale sarebbe rimasta sostanzialmente fedele a degli ingredienti e a un’arte culinaria risalente ai tempi della Magna Grecia.

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    Il peperoncino, oggi simbolo della cucina locale, per millenni non ha fatto parte del menu dei calabresi

    In realtà, gran parte degli alimenti considerati tipici della cucina calabrese non esistevano. Sono stati introdotti lentamente nel corso dei secoli dopo resistenze, scontri e patteggiamenti. Il processo di globalizzazione che oggi sconvolge le diete alimentari si è verificato più volte in passato: non si può pensare ad una gastronomia regionale senza i prodotti giunti da Africa, Medio Oriente, India e Asia. Patate, pomodori, mais, fagioli, zucche, peperoncini e altri cibi introdotti dalle Americhe hanno letteralmente sconvolto l’alimentazione dei calabresi, come era successo secoli prima, con la dominazione araba.

    Nostalgia, l’altra faccia della medaglia

    Nei libri di cucina regionale si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. I sapienti contadini sapevano come utilizzare ciò che la terra offriva e pianificavano le produzioni in modo da avere ciò che era necessario durante l’anno. Molti rimpiangono quel mondo in cui si rispettava la stagionalità delle coltivazioni, i prodotti si acquistavano nei campi vicini, i cibi non erano viziati da conservanti o coloranti, le verdure non trattate con pesticidi, il grano non geneticamente modificato, gli animali non imbottiti di antibiotici, l’acqua, la terra e l’aria non inquinati.

    In realtà nelle terre situate lungo le fertili pianure in estate si respirava un’aria putrida e malsana che costringeva la popolazione a vivere sulle aspre e inospitali montagne. Lì i contadini avevano la necessità di far durare le riserve di cibo il più a lungo possibile per affrontare gli inverni. E se legumi e cereali duravano nel tempo, a febbraio molti altri prodotti germogliavano, ammuffivano, diventavano rancidi e infracidivano. Gli alimenti da conservare erano essiccati, affumicati, salati o posti in luoghi elevati o sotterranei, con risultati spesso deludenti, mentre quelli immersi in olio, aceto, grasso o miele producevano muffe e perdevano le qualità nutritive.

    Molti pensano ingenuamente che i contadini, poco avvezzi alle novità e utilizzando sempre gli alimenti prodotti nei campi, abbiano creato quella che noi chiamiamo cucina tradizionale. In realtà, gran parte dei piatti proposti nei recenti trattati di gastronomia regionale non esisteva e le fonti storiche che dovrebbero dimostrarne la presenza affermano esattamente il contrario. La “cucina calabrese” è un concetto recente. Affermatesi soprattutto a partire dagli anni Sessanta, le cucine regionali, figlie della crescita e del benessere, si sono sviluppate per contrastare l’egemonia dell’industria agro alimentare.

    Resistenza, ma non solo

    La scoperta e la difesa dei cibi perduti, accompagnate spesso da ricordi nostalgici e ricerche storiche discutibili, non sono tuttavia solo un atto di resistenza contro il dispotismo del mercato globale. Ricettari di cucina, guide gastronomiche e sagre paesane sono aumentati anche e soprattutto per conquistare uno spazio nel mercato locale e, allo stesso tempo, attrarre turisti con la promessa di una cucina sana e dimenticata.

    I pochi piatti della povera dieta dei contadini col passare del tempo si sono moltiplicati come il miracolo dei pesci e la Calabria è celebrata come terra dalle grandi tradizioni culinarie. I piatti del passato vengono abilmente confusi con quelli inventati dai nuovi ristoratori. E così nella regione sono considerati piatti tipici codine di aragosta alla crema di cedro, cernia con funghi e patate, filetti di pesce castagna al vino, orate al cartoccio con olive, pesce spada all’acqua pazza, razza in tegame e, come si legge in un recente libro a cura di Slow Food, frittelle di lattuga di mare e lagane con i murici.

    Aragosta o stoccafisso?

    Leggendo alcuni libri sulla gastronomia calabrese si rimane stupiti dalla ricchezza e dalla varietà delle ricette. In un volume dedicato alla cucina di mare, tra antipasti, focacce, zuppe, fritture e grigliate si presentano ben 226 piatti, tra cui aragosta alla griglia, cernia al forno con olive e capperi, murena alla brace, ricciola con pomodoro e capperi, orata al cartoccio con patate e olive, sarago in crosta di sale e gamberoni.

    Nei ricettari di cucina si legge che si preparavano sarde, alici, sardelle, anguille, lampughe, palamiti, pettini, dentici, mormore, saraghi, orate, sauri, occhiate, spatole, spigole, triglie, cernie, seppie, calamari, polpi, totani, tonni, pescatrici, razze e altre specie di pesci pregiati che i contadini calabresi non avevano mai visto e di cui non conoscevano il nome.
    Il pesce fresco era una rarità e, persino nei pochi villaggi delle coste, gli abitanti mangiavano “baccalame”, pesci secchi, affumicati e salati provenienti dall’estero. Nella stessa Nicotera, come si evince dall’inchiesta condotta da Keys, si faceva largo uso di stoccafisso e baccalà, cucinati fritti, lessi o cotti in padella con cipolla, peperoncino e olive.

  • Calabria, dove il bello appare brutto e viceversa

    Calabria, dove il bello appare brutto e viceversa

    Qualche anno fa, lungo la strada che conduce a Belsito, piccolo centro del cosentino, sono rimasto sorpreso nel vedere che i bellissimi cipressi posti davanti al cimitero erano stati mozzati a mezza altezza. Molti paesani, recatisi a commemorare i defunti, mi hanno detto che approvavano il taglio delle piante perché sembrava più pulito, gli alberi non nascondevano l’entrata e somigliavano a siepi. Una donna mi ha confessato che avrebbe volentieri sradicato anche i cipressi all’interno del cimitero: in fondo non erano che piante inutili, malate, maleodoranti e tristi.

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    Il Vallone di Rovito

    Sconcertato da queste affermazioni, ho pensato che la mia indignazione fosse legata all’amore che mi lega ai cipressi. Da ragazzo amavo andare al Vallone di Rovito per vedere e respirare il profumo degli alti cipressi che ancora oggi ricordano i patrioti fucilati nel 1844. Mi piacevano quegli alberi e mi aveva colpito la storia di Ciparisso, il bellissimo principe che, dopo aver ucciso per errore il cervo d’oro, aveva chiesto ad Apollo che le sue lacrime scorressero per sempre. Il dio lo trasformò allora, in cipresso, la cui resina scende in gocce simili a lacrime.

    Il bello e il brutto

    I cipressi di Belsito mi hanno fatto pensare che lo studioso deve essere cauto nei giudizi e mettere in discussione la sua concezione del bello e del brutto. Nei gruppi umani, le strutture del pensiero che organizzano saperi, valori morali e senso estetico sono diverse. Il concetto di bello è presente in tutte le culture, ma cambiano i criteri di valutazione. La bellezza non è nella qualità di ciò che si vede, bensì nella mente che la contempla ed ogni uomo ne percepisce una diversa. Lo studioso deve rispettare le differenze culturali, evitare di cadere nella trappola dell’etnocentrismo che alimenta l’orgoglio per le sue categorie mentali disprezzando quelle degli altri.

    Alcaro afferma che la cultura dei calabresi e dei meridionali, a differenza di quella dei settentrionali, ha sempre considerato la natura come oggetto di contemplazione e non come cosa da trasformare. A riprova di ciò, cita l’attenzione nei confronti della natura da parte di studiosi come Campanella e Telesio. Non sono in grado di dire se i calabresi in passato amassero la natura come i due filosofi, sebbene nelle inchieste ministeriali e nei diari dei viaggiatori sullo stato dell’ambiente si legga che avevano disprezzo per il decoro e le bellezze naturali.

    La Calabria nei racconti dei viaggiatori

    Wey scriveva che la natura aveva donato alla Calabria un territorio salubre e dolce che l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche l’avevano trasformato in una cloaca infetta, un ambiente malato che condizionava la moralità degli abitanti facendoli diventare «infidi serpenti». Bartels, dal canto suo, annotava che guardando la Calabria si aveva l’impressione che la furia della natura avesse fatto a gara con l’incuria dell’uomo per far precipitare l’infelice paese in una condizione di profonda miseria e abbandono.

    Gli stranieri annotavano che i calabresi non avevano il senso della bellezza considerando che avevano distrutto, disperso e svenduto uno dei patrimoni archeologici più grandi del mondo. Avevano smantellato i resti delle grandi polis greche per impiegarne i materiali in nuove costruzioni. Delle quarantaquattro colonne del tempio di Hera Lacinia, edificato all’estrema punta dell’omonimo capo, ne rimaneva una solitaria che sembrava piangere la rovina del sontuoso edificio di cui un tempo faceva parte. Quel tempio, dove le donne di Crotone consacravano ad Hera le loro chiome, era stato demolito al principio del XVI secolo dal vescovo Antonio Lucifero che ne fece riutilizzare i pregiati marmi per la realizzazione di alcuni fabbricati e, soprattutto, del palazzo episcopale della città.

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    L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone

    Wey scriveva addolorato che, della repubblica di Locri, patria di poeti, filosofi e legislatori, restava solo qualche rudere: uomini insensibili all’arte, al bello e alla storia avevano utilizzato le colonne per costruire chiese e ville. Gli oggetti rinvenuti dai contadini o dai tombaroli erano acquistati da antiquari e, senza certificato di provenienza, finivano nel mare magnum delle collezioni private o nelle botteghe dei mercanti. A volte gli oggetti d’oro o di piombo venivano fusi.

    Tesori perduti

    Saint-Non ci informa che i frati cappuccini di un convento avevano liquefatto una medaglia d’oro di oltre un pollice di diametro per acquistare una nuova campana. Nel 1828, a Bollita, nelle vicinanze del castello appartenente al duca Crivelli, annotava Lenormant, un colono aveva trovato in una tomba lamine di piombo con lunghe iscrizioni in caratteri greci che, senza neanche copiarne il testo, furono fuse per fare pallottole da schioppo. L’8 aprile 1865, nel territorio di Santa Eufemia, furono rinvenute un gran numero di monete e magnifici gioielli d’oro di età greca, adorni di figure a sbalzo e ornamenti in filigrana di estrema eleganza e finissima esecuzione di cui si perse ogni traccia.

    Nella primavera del 1879, alcune donne che lavavano panni sulla sponda dell’Esaro, a seguito di una frana presso il ponte della strada rotabile, trovarono tra i detriti alcune monete. I mariti, accorsi con le zappe, scavarono e portarono alla luce centinaia di monete d’oro greche contenute in un vaso di terracotta. Anche questo tesoro fu disperso.

    Amore del passato e scempi del presente

    Gli elementi a nostra disposizione non sono sufficienti per affermare se i calabresi in passato amassero e rispettassero la natura, ma lo scempio recente delle coste, il degrado dei centri storici, il disordine edilizio delle nuove città e l’incuria nei confronti dell’ambiente è sotto gli occhi di tutti. Politici e storici giustificano questo stato di cose come conseguenza del boom economico, dello spopolamento delle campagne, dell’emigrazione verso terre lontane e della dissennata speculazione edilizia.

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    Una veduta di San Giovanni in Fiore

    Il problema non è stabilire le cause di questo disastro, ma capire se esso appare tale alle persone che lo hanno prodotto. Molti abitanti di San Giovanni in Fiore sono orgogliosi dei palazzi incompiuti costruiti a ridosso dell’antico borgo medievale: gli appartamenti sono moderni e ben riscaldati, con bagni e stanze per ogni membro della famiglia. Le nuove strade consentono di arrivare agevolmente in auto davanti al portone di casa ed accedere ai magazzini utilizzati per fare vino, salame e provviste: appare chiaro che a guidare la scelta di quei fabbricati è stato il desiderio di vivere in ambienti spaziosi e comodi.

    L’abusivismo ha ucciso il bello

    Un giornalista s’indispettì quando gli facemmo notare che il paese era stato sfregiato dallo scempio edilizio e c’invitò a rileggere la descrizione delle case fatta da Douglas agli inizi del Novecento: stamberghe sporche, annerite dal fumo che usciva dalle finestre per la preistorica usanza di cucinare sul pavimento!
    Non rimpiangere una triste condizione è giusto, ma quei palazzi anonimi mal si conciliano col paesaggio, sono costruiti su spuntoni dove non si dovrebbe neanche piantare una tenda, hanno finestre murate perché gli edifici non sono mai stati completati.

    Quell’impressionante numero di palazzi è stato innalzato violando le leggi dello Stato, senza un piano regolatore e con la complicità di ingegneri, geometri, sindaci, assessori, consiglieri, deputati, soprintendenti e magistrati. Amministratori e politici che si sono avvicendati alla guida del paese hanno sempre sostenuto che è stato un abusivismo di necessità, ma quelle case sono disabitate perché gli emigranti non possono o non vogliono più ritornare. È evidente che l’idea del bello nel paese si è manifestata attraverso il cemento e i mattoni, che l’ostentazione di quei grandi palazzi è più importante del loro valore d’uso!

  • Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Nel corso dei secoli politici e letterati calabresi hanno spiegato i mali della regione individuando dei colpevoli esterni. Il meccanismo dei loro ragionamenti è semplice ed efficace: la Calabria è una terra ricca, ma impoverita per colpa degli altri. La sua popolazione è stata sempre descritta dagli stranieri come arretrata, chiusa in secolari abitudini, non disponibile al confronto civile e, quindi, autocondannata a fame, ignoranza, miseria e isolamento. Calunniati e privati di tutto, i calabresi sono stati costretti a vivere in condizioni misere e, nonostante d’animo buono e ospitale, spinti ad assumere comportamenti rudi e aggressivi.

    I vittimisti

    Queste figure si presentano come coloro che svolgono un servizio per la comunità. Prendono la parola in nome degli altri, interpretano e rappresentano i valori della gente a cui appartengono. Non esprimono sentimenti autentici, non appartengono a una scuola di pensiero e spesso polemizzano tra loro. Ma immancabilmente descrivono i calabresi come vittime e, per questo motivo, si potrebbe chiamarli «vittimisti».

    Vittimista è chi si atteggia a vittima senza esserlo, chi si convince di essere in balia delle circostanze, chi finge di aver patito una prepotenza. Se la vittima è il soggetto passivo di un’azione ingiusta, il vittimista è un attore perché lamenta guai che non ha. Interpreta il ruolo del perseguitato: è un artista della simulazione, pretende la scena e le sue rappresentazioni della realtà sono artefatte.

    L’attendibilità non conta

    I calabresi teorici del vittimismo ancora oggi non si propongono di liberare il popolo dalle rappresentazioni mentali che offuscano le cause della condizione in cui vive, né di combattere pregiudizi, superstizioni e ignoranza. Il fattore potente e unificante delle loro argomentazioni retoriche non è contenuto nelle cose che affermano. Sta nella pratica della lamentazione: indicare colpevoli che giustifichino l’essere vittima, elencare i mali della regione addossando le responsabilità ad «altri».

    Consapevoli della genericità di certe affermazioni, sanno bene che la loro efficacia emotiva è più importante dell’attendibilità. E per dare credibilità alle proprie opinioni, utilizzano in maniera disinvolta le fonti, modificano o inventano i fatti, affermano idee che, fatte circolare insistentemente, diventano in qualche modo plausibili ed accettate: il tempo avrebbe dato autorità e credibilità alle loro storie.

    Come i pagliettari

    Essi si comportano come quei loquaci uomini di toga, dottori in legge o procuratori chiamati volgarmente dal popolo paglietti o pagliettari i quali, come scriveva Rampoldi nel 1832, con artifici, sottigliezze, cabale, raggiri, trappolerie, frodi e falsi giuramenti erano capaci di mutare il bianco in nero per proprio tornaconto e il meno infelice dei clienti non era chi alla lunga vinceva la causa ma chi più presto la perdeva.

    Il vittimista calabrese, come il pagliettaro, è abile nell’uso della parola, un chiacchierone ostinato, capace di dire tutto e il contrario di tutto, di sostenere cose che non corrispondono a ciò che pensa. È incapace di legare i suoi discorsi a un principio di verità. Le sue affermazioni si basano su feticismo verbale e su conoscenze superficiali che lo portano a esprimere concetti sommari con cui catalizzano l’attenzione della gente, favoriscono convinzioni e consolidano credenze.

    Consenso e deresponsabilizzazione

    Le sue argomentazioni sono vaghe ma non per questo opache e senza forza di suggestione. Anzi, è proprio la genericità di affermazioni non suscettibili di verifica a funzionare efficacemente come strumento di consenso. Ripetute ossessivamente, alcune idee si rivelano talmente efficaci da contagiare la popolazione fino a diventarne un aspetto fondamentale di identità e imporsi come modo di vivere.

    Il vittimista attacca chi muove critiche alla sua terra non perché si sente ferito, ma per riaffermare le sue lamentele. Non è interessato tanto alla riparazione del danno subito, quanto alla possibilità di impiegarlo utilmente per difendere i suoi privilegi. Smonta ogni accusa che mette al centro le responsabilità dei calabresi e sottolinea in ogni occasione la loro posizione di perseguitati in modo da perpetuarla.
    Egli sa che la litania dei torti sofferti deve essere recitata costantemente, che bisogna tenere sempre alta la tensione in modo che le vittime non dimentichino mai chi sono.

    Una scusa per ogni problema

    Se la miseria economica e sociale è responsabilità degli altri e se le ingiustizie sono state compiute da altri, spetta ad altri eliminarle. Il vittimista difende una realtà verso cui non vuole o non sa porre rimedio: basta dichiararsi vittime per avere ragione, perché le vittime, per definizione, sono innocenti e non possono essere ritenute responsabili di quel che subiscono.

    Quando non vi sono colpevoli o potenziali carnefici utili a rafforzare la posizione degli oppressi, quando le responsabilità dei calabresi sono evidenti, il furbo vittimista giustifica i comportamenti e le azioni come conseguenza dei mali sofferti. Se la Calabria negli ultimi cinquant’anni è stata sommersa dal cemento che ha completamente distrutto il paesaggio, la responsabilità è dei calabresi. Ma tutto è frutto di necessità, voglia di riscattare l’ancestrale miseria e desiderio di vivere una vita più dignitosa.

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    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ogni problema che attanagli la regione trova per il vittimista una giustificazione. Riconosce il clientelismo come una pratica disonesta in cui un personaggio influente instaura un sistema di potere. Ma nello stesso tempo lo legittima sostenendo che in fondo funge da argine contro l’ingiustizia dello Stato che da sempre ignora le classi deboli. I potenti che fanno clientele sono considerati uomini particolarmente sensibili ai problemi della gente e, sia pure in cambio di qualche voto, offrono aiuto anche al di fuori della rete parentale.

    Il pessimismo diffuso

    L’atteggiamento dei vittimisti ha favorito un diffuso pessimismo, la convinzione che gli eventi negativi si sarebbero succeduti senza soluzione di continuità, che la regione fosse perseguitata da forze negative, sfuggenti ed ignote, impossibili da combattere. Pasquale Rossi, agli inizi del Novecento, scriveva che l’indole del popolo calabrese era pessimista e il pessimismo favoriva apatia, sfiducia, egoismo, invidia, maldicenza e individualismo.

    Il sentimento d’ineluttabilità e d’impotenza tanto diffuso nella popolazione ha dato linfa all’idea dell’esistenza di un destino sempre avverso. Ha fatto sì che generazioni di uomini si sentissero perseguitate da potenze oscure colpevoli del fallimento di tutte le loro azioni: nessuno può sfuggire al proprio destino, la realtà si subisce e si accetta.

    La convinzione che il corso della vita sia determinato a priori ha incoraggiato un atteggiamento fiacco e rassegnato, a dire e fare le stesse cose pensando che cambia qualcosa. Ha spinto all’autocommiserazione e alla mancata assunzione di responsabilità finendo per scoraggiare chi rivendicava la volontà di autodeterminarsi.

    La falsa coscienza

    Nelle loro asserzioni i vittimisti descrivono i mali che gravano da secoli sugli abitanti della Calabria ma, attribuendone agli altri la responsabilità, hanno finito per essere dei recriminatori, per dare importanza più ai problemi che alla loro soluzione.
    Non volendo o non riuscendo a comprendere il reale, si difendono producendo una falsa coscienza che, nel momento in cui acquista la forma di una coscienza completa trova una sistemazione teorica dei suoi contenuti in vere e proprie ideologie.

    La falsa coscienza elaborata nel corso dei secoli dai calabresi ha rappresentato un solido argine alla confusione della realtà, un mezzo più o meno consapevole per fornire una rappresentazione del mondo, un modo facile ed efficace per rimuovere i mali e proiettarli al di fuori dei propri confini.

    Considerare i calabresi come il bersaglio costante di ingiustizie terrene o ultraterrene è un modo per non ammettere i propri limiti e le proprie colpe e per giustificare tutto quello che di negativo esiste nella regione. Pur se mosso dall’amore verso la propria terra, il giustificazionismo dei vittimisti ha contribuito a radicare nella popolazione la concezione della propria debolezza e a rifuggire dalle responsabilità.

  • Cosenza, l’Atene delle Calabrie matrigna con i suoi Telesio

    Cosenza, l’Atene delle Calabrie matrigna con i suoi Telesio

    Cosenza è stata indicata come l’Atene delle Calabrie per via dell’Accademia ma essa in realtà era una sorta di confraternita in cui i potentati della città, di tanto in tanto, si riunivano per dare sfoggio d’erudizione. Uno storico del passato scriveva che i soci dell’Accademia Cosentina, per lungo tempo si dedicarono al poetare scompigliato, recitando nelle rare sessioni «rancide poesie» e qualche verso «Dio sa come raffazzonato».

     

    I tronfi ciarlatani dell’Accademia Cosentina

    Nel 1750, Spiriti precisava che il fine dell’Accademia non era quello di rischiarare aspetti sconosciuti del mondo greco o romano, approfondire controversie di storia sacra o profana, speculare sulle scienze fisiche, matematiche o filosofiche. Gli accademici, infatti, recitavano i loro componimenti poetici accompagnati «dal suono di dabbudà o colascione, insipidi poetastri accozzavano sillabe affacenti alle loro orecchie». Credendo di aver già meritato, così, l’ambito titolo di poeta andavano in giro per la città tronfi e pettoruti: tali ciarlatani ambiziosi e senza alcun merito pensavano di coprire la loro ignoranza con lo specioso titolo di accademico!

     

    Versi per la nobildnona d’Althann

    Un volume del 1724, edito a cura dell’Accademia Cosentina, ci offre un quadro del clima politico e culturale che si respirava al suo interno. Nella pubblicazione sono raccolti diversi componimenti recitati durante una pubblica adunanza in memoria della contessa Anna Maria d’Althann. Lionardo Jacuccio scriveva che gli accademici cosentini avevano l’antica e nobile costumanza di celebrare con «funebri pompe di prose e di rime» la memoria delle persone «grandi e valorose» e, considerato che nelle principali città del regno si faceva risuonare «fra tanto strepito» la fama della contessa, essi non potevano certo «starsene oziosi tacendo».

    Egli, quindi, invitava i virtuosi accademici a piangerla e lodarla in rime poetiche da dare alle stampe e divulgare. Ben quarantadue accademici, che non conoscevano la nobildonna, risposero all’appello componendo odi, egogle ed epigrammi in cui si esaltano le doti eccezionali della defunta.

     

    Telesio fu isolato dai cosentini

    Gli intellettuali della provincia di Cosenza che coraggiosamente si sono battuti per affermare le loro verità hanno pagato un caro prezzo. Tra il Cinquecento e il Seicento, nella provincia cosentina molti pensatori e scienziati sono stati emarginati, esiliati, perseguitati e considerati traditori. Bernardino Telesio, uno dei primi filosofi europei ad abbandonare ogni considerazione metafisica della natura e a sostenere che la conoscenza deve basarsi sullo studio dei principi naturali, trascorse gli ultimi anni della vita isolato dai concittadini e, scomunicato per le speculazioni filosofiche, le sue messe all’Indice.

    Giovan Battista Amico, autore di un trattato scientifico in cui discute e sviluppa la teoria delle sfere omocentriche così com’era accolta nella filosofia aristotelica, unanimemente giudicato uno scienziato pieno d’ingegno, fu aggredito e ucciso a Padova, probabilmente da sicari al servizio di qualcuno interessato ad un suo manoscritto mai ritrovato.

    Il trattamento riservato a Campanella

    Il celebre Campanella che soggiornò in città, autore di scritti in cui sosteneva che la natura va conosciuta nei suoi principi e che tutti gli esseri sono dotati di sensibilità e di conoscenza, fu perseguitato dal Tribunale dell’Inquisizione. Accusato di avere organizzato una congiura che mirava alla liberazione della Calabria dal dominio spagnolo, subì terribili torture, fu condannato a morte e riuscì a salvarsi solo fingendosi pazzo, rimanendo in galera per ventisette anni.

     

    Il religioso perseguitato

    Paolo Antonio Foscarini, vicario provinciale dell’Ordine dei Carmelitani, fu perseguitato per aver pubblicato scritti in cui sosteneva che le scienze e le arti portano ad una migliore conoscenza di Dio e che le teorie di Copernico non contraddicevano le Sacre Scritture. Fu accusato di avere esposto i testi sacri diversamente da come erano stati interpretati dai padri e le sue opere messe all’Indice.

     

    L’economista politico

    Antonio Serra, autore di un geniale trattato di economia politica in cui analizza le cause della scarsità di risorse monetarie nel Regno di Napoli e indica i modi per invertire il povero sistema produttivo, si trovava nelle carceri napoletane della Vicaria, secondo alcuni per un reato di falsa moneta, secondo altri perché aveva partecipato ad un tentativo insurrezionale.

     

    Il chirurgo Severino

    Marco Aurelio Severino, ritenuto uno dei fondatori della moderna chirurgia, famoso in tutta Europa per le lezioni e gli interventi chirurgici, fu processato dal Tribunale dell’Inquisizione, imprigionato e spogliato di tutte le cariche. Morì durante la peste del 1656 mentre assisteva gli ammalati e fu seppellito in una tomba senza nome nella chiesa di San Biagio de’ Librari.

     

    Il filosofo e lo scacchista

    Tommaso Cornelio, filosofo e medico di gran valore, considerato uno dei protagonisti della rivoluzione scientifica italiana del Seicento, vagò per l’Italia e subì dure persecuzioni da parte del Tribunale dell’Inquisizione. Gioacchino Greco, conosciuto anche come il Calabrese, scacchista famoso in tutte le corti europee e autore di un codice sul gioco pubblicato in diverse lingue, nel 1634 si recò nelle Indie Occidentali dalle quali non fece mai ritorno.
    L’elenco degli studiosi cosentini perseguitati o costretti ad abbandonare la loro terra è lungo.

     

    Il fondamento mitico della città

    L’atteggiamento dei cosentini dopo secoli non è cambiato. La rielaborazione storica di Alarico, Federico II e Carlo V degli studiosi locali, fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e avvenimenti che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.

     

    Le verità manipolate

    Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord, il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Molti studiosi e amministratori, convinti che i cittadini non hanno alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a fornire racconti inverosimili. Alarico, ad esempio, il cui nome incuteva nelle popolazioni italiche un fremito di terrore, viene familiarizzato al punto da diventare una icona cittadina. Egli non è più l’odiato e temuto barbaro ma un antenato-eroe da celebrare, un re dalla folta chioma e dagli occhi azzurri, amante della tolleranza e della pace!

     

    L’invenzione della storia

    Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno parte di una industria del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione del sapere che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma.

    L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, distrarre momentaneamente gli individui proponendo semplificazioni e illusioni, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni. L’invenzione della storia per celebrare il primato culturale della città, tuttavia, spesso si rivela inconsistente.

     

    Alarico superstar

    Le celebrazioni dedicate a grandi personalità come Alarico in cui prevale l’aspetto ludico e di consumo sono prive di valore sentimentale. I cittadini vi partecipano come a una grande fiera, non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli organizzatori, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».

    Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi; per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità, sebbene a volte caratterizzate da grande successo di pubblico, per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione da consentire alla collettività di riconoscersi in una storia comune.