Autore: Giovanni Sole

  • Cosenza a cinque birilli: bazziche, risse e un campione come Umberto Casaula

    Cosenza a cinque birilli: bazziche, risse e un campione come Umberto Casaula

    Per noi giovani cosentini Umberto Casaula era un mito. Alcune sue partite nei campionati italiani, europei e mondiali rimangono impresse nella storia del biliardo. Nel 1985 diventa campione italiano nella specialità 5 birilli. Ha vinto numerosi tornei e si è battuto con campioni del calibro di Lotti, Ferro, Cifalà, Gomez, Zito, Martinelli, Belluta, Mannone e altri. Memorabile la partita del 1993 quando ad Avellino nella prima prova del mondiale vinse per 4 a 1 il grande Carlo Cifalà. Quando ancora non era entrato nel mondo dei professionisti con gli amici stavamo ore ad ammirarlo e ci colpiva soprattutto la sua umanità, cordialità ed eleganza dei suoi tiri.

    https://www.youtube.com/watch?v=0iRDAUx7ETc

    Umberto Casaula sfida e vince Carlo Cifalà nel mondiale del 1993

    Bazzica, italiana e goriziana

    È difficile ricostruire il clima di quegli anni ma quel gioco è rimasto sempre vivo nel mio cuore da spingermi a scrivere ormai vecchio una storia del biliardo pubblicata circa un mese fa dall’editore Rubbettino. Con gli amici il giorno giocavamo a calcio e la sera a bazzica, italiana e goriziana. Quel passatempo fatto di traiettorie, angoli e scontri era stregato, il roteare sul panno verde delle palle che andavano zigzagando tra una sponda e l’altra fino ad abbattere i birilli o finire in buca mi affascinava.

    Tiri eseguiti in posizioni difficili con effetti e complicate geometrie apparivano magie e il «bigliardista» un prestigiatore che non poteva nascondere la propria arte. Erano il braccio e la volontà dello sportivo a stabilire il cammino delle biglie, ma a volte avevo la sensazione che queste, come spinte da una forza nascosta, andavano oltre la volontà di chi le colpiva. Quelle sfere colorate tonde, lisce e pesanti che si urtavano creando un suono inconfondibile sembravano fatate e forze esterne influenzavano il loro apparente viaggiare logico-razionale.

    Biliardo a credito

    Eravamo appassionati del biliardo ma a volte facevamo fatica a raggranellare i soldi sufficienti per pagare il tavolo e il proprietario segnava i debiti su un quaderno nero. Per alcuni il biliardo era una vera malattia, c’era gente che giocava sino a tarda notte e, anche se la saracinesca del locale era abbassata, dentro si gareggiava fino al mattino. Ricordo che a volte arrivavano madri e padri arrabbiati perché i figli avevano marinato la scuola o non volevano che frequentassero la sala da gioco. Anche i miei genitori non erano contenti che andassi nella sala del bigliardo: dicevano che non studiavo e che quel luogo era frequentato da gente poco raccomandabile.

    In effetti ho visto tanti giovani lusingati da gente senza scrupoli di essere forti giocatori, dopo aver vinto qualche partita, finire per essere spennati. Ho assistito anche a violente risse durante sfide di bazzica per presunti imbrogli, sedate grazie all’intervento deciso del proprietario o della polizia. A bazzica si gareggiava con due palle e pallino, ciascun contendente riceveva una carta con un numero segreto la cui somma con i punti fatti con i birilli doveva raggiungere 31 e non oltrepassarla altrimenti «si sballava».

    Soprattutto nelle giornate fredde e di pioggia il biliardo era affollato di gente e i giocatori più bravi erano conosciuti con soprannomi bizzarri o legati alla loro professione. La sala era immersa nel fumo di sigarette, sigari e pipe che formava una nebbia bassa evidenziata dalle lampade che illuminavano i tavoli. Nel grande locale non si poteva parlare ad alta voce e nelle lunghe serate si sentiva solo un leggero brusio, il rumore secco delle biglie e qualche sonora bestemmia.

    Uomini eleganti e stecche intarsiate

    In occasione di incontri tra professionisti del biliardo di altre città e i nostri campioni, con in palio consistenti somme di denaro, c’era grande attesa. Fuoriclasse che conoscevamo di fama arrivavano con le loro custodie di legno da cui estraevano bellissime stecche intarsiate che sembravano fucili di precisione. Con quelle aste in mano sembravano fucilieri: avevano un’arma, erano esperti di balistica, tiravano con decisione e avevano una buona mira. Battendo la palla tenevano ferma la stecca, l’afferravano per bene dalla culatta, la ingessavano alla punta per evitare tiri a vuoto e, inchinandosi, davano un colpo alla biglia realizzando giocate magistrali.

    Prima di giocare stabilivano le regole per le scommesse, indossavano un grembiule per non sporcarsi e provavano con attenzione l’elasticità delle sponde. Durante le partite nella sala c’era un silenzio tombale interrotto solo dal rumore secco delle palle e dalla voce del bigliardiere che scandiva i punti ad alta voce dopo averli segnati nella rastrelliera. Ricordo che guardavamo incantati quegli uomini vestiti elegantemente che, dopo aver accuratamente ingessato la stecca e messo il talco sulle mani riuscivano a fare colpi inimmaginabili. Avevano giochi diversi: c’era chi cercava di fare punti a ogni tiro e chi invece si preoccupava della «rimanenza»; chi tirava d’istinto dopo una veloce occhiata al tavolo e alle palle e chi invece meditava sul tiro spostandosi lentamente da una parte all’altra del tavolo.

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    Umberto Casaula con suo figlio Aldo nella sala di biliardo che porta il suo nome

    I consigli del campione

    Guardandoli duellare mi rendevo conto che il biliardo era anche una prova di nervi. I contendenti cercavano di non esaltare le caratteristiche dell’avversario, lo costringevano a un gioco a lui non gradito, lo mettevano nella condizione di non poter mostrare ciò che sapeva fare, studiavano i modi per innervosirlo ed erano attenti a non perdere la calma nei momenti difficili aspettando il tempo opportuno per contrattaccare. Ricordo che un campione pugliese, venuto a Cosenza per sfidare Casaula, al temine di un vittorioso incontro, si fermò a parlare con noi e ci disse che giocando a biliardo bisognava non sottovalutare o sopravvalutare l’avversario e avere una grande tenacia perché, pur possedendo esperienza, visione di gioco e abilità nei tiri, senza volontà e concentrazione si andava inesorabilmente verso la sconfitta.

    Gli imprevisti sul panno verde

    In effetti accadeva che grandi fuoriclasse perdessero incontri con avversari più deboli a causa dello stato d’animo. Anche il risultato delle sfide tra campioni era imprevedibile: uno poteva perdere tutte le partite di un incontro e nel successivo vincerle. Non c’è sicurezza di vittoria al biliardo, sul tavolo non sempre accade ciò che si vuole, i tiri sono sempre gli stessi ma le biglie prendono direzioni diverse.

    Il più abile giocatore non ha il totale controllo di ciò che accade sul panno verde; pur conoscendo a memoria ogni colpo c’è qualcosa di imprevedibile che può far mutare la direzione delle palle: la rispondenza delle sponde, la pendenza di una parte del tavolo, lo sporco sulle sfere, pezzetti di gesso sul tappeto e altro. Spesso succede che un tiro è effettuato alla perfezione ma la palla che passa nel castello muove i birilli senza farli cadere o si ferma misteriosamente ai margini della buca.

    La solitudine del giocatore di biliardo

    I professionisti del biliardo non hanno tentennamenti su come eseguire un raddrizzo, un rinterzo, un rinquarto o un cinque sponde perché li hanno memorizzati, ma gli esiti di un tiro non sono mai scontati. Capitano giornate in cui ci si sente invincibili perché la palla centra sempre quello che si vuole, ma in alcune partite tutto va storto e non ci sono compagni da rimproverare o a cui chiedere consigli perché ognuno gareggia da solo. È necessario non lasciarsi andare quando i colpi non riescono nel modo desiderato e l’incontro prende una piega sfavorevole; bisogna dominare le passioni perché un fuoco tempestoso può indurre a scelte azzardate e sconsigliabili.

    Scena finale del film “Il colore dei soldi”, diretto da Martin Scorsese

     

  • Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

    Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

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    Secondo alcuni studiosi un comune sentire ha sempre legato i cosentini differenziandoli dagli abitanti delle altre città meridionali. Differenza enfatizzata da alcune peculiarità come lo spirito indipendente, l’amore per la cultura e l’apertura nei confronti dello straniero. Piovene affermava che erano uomini «d’ingegno esatto», «rifuggivano dalle iperboli» e avevano spiccata attitudine alla filosofia: se Napoli vinceva in scintillio dialettico, Cosenza aveva un vigore speculativo essenziale.

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    La Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede della prestigiosa Accademia cosentina

    Cosenza serva dei potenti

    Nell’Ottocento, Arnoni definiva i suoi concittadini ombrosi nelle traversie della vita e «immaginosi» nei fausti avvenimenti, lietissimi nelle private e pubbliche gioie e cupi e permalosi nelle grandi sventure. Ricordava con dispiacere, inoltre, che pur avendo forti sentimenti religiosi, bestemmiavano frequentemente con «occhi di fuoco» il «Santudiavulu» e la «Madonna». Concludeva affermando che avevano una doppia natura e che bello e brutto, civile e selvaggio, tragico e grottesco, odio e amore, riso e pianto, fedeltà e tradimento, bacio sincero e assassinio a sangue freddo, si avvicendavano in loro senza posa.

    Padula, di Acri, irrideva i Cosentini per la loro piaggeria verso i potenti e li rimproverava di non avere alcun senso del bene pubblico. In città vivevano buoni padri di famiglia, ma non cittadini. Nessuno trascurava la pulizia della propria casa, ma non ci si preoccupava di quella delle strade e tale grettezza era propria sia di chi aveva il cappello a cono che quello a cilindro. Egli catalogava i galantuomini della città in «curiosi», «vanitosi» e «importanti».

    Faccendieri che ostentano amicizie importanti

    Tutti, indistintamente, si ingegnavano per guadagnare l’amicizia, la confidenza e la protezione degli uomini di governo. I «curiosi», invece di apprendere le scienze, erano interessati alle notizie che arrivavano da Napoli e andavano a raccontarle agli amici per il piacere di sorprenderli. I «vanitosi» amavano far visita alle autorità, passeggiare con loro lungo il corso e andarci a teatro: il loro unico scopo era quello di ostentare l’amicizia col giudice, il generale e l’intendente. Gli «importanti» erano individui che frequentavano gli uomini potenti in modo da ottenere protezione e favori, faccendieri che a loro volta risolvevano problemi di ogni tipo in cambio di denaro.

    Donne eleganti e uomini ardenti

    Le impressioni sui cosentini degli stranieri che nel Settecento e nell’Ottocento giunsero in città sono spesso negative. È inutile precisare che molti di loro avevano uno sguardo etnocentrico, ma non dobbiamo pensare che il loro unico scopo era quello di manifestare disprezzo verso gente ritenuta inferiore e che tutto ciò che annotavano nei loro diari fosse frutto di malafede o fantasia usata a sostegno della loro cultura.
    Bartels scriveva che, sia per le caratteristiche fisiche che per quelle morali, gli abitanti potevano considerarsi i diretti discendenti dei Bruzi.

    Le donne, nonostante il colorito spento provocato dalla malaria, avevano eleganza nel portamento. Gli uomini erano forti, alti, robusti, con i capelli spessi e neri e uno sguardo ardente. Secondo la Lowe i cosentini erano molto avvenenti, gli uomini più belli che avesse mai visto e, probabilmente, era il freddo degli inverni a conferire loro quella freschezza quasi inglese. Anche Gissing, nel suo breve soggiorno in città, aveva notato fisionomie gradevoli e uomini pieni di carattere, doti che avrebbero potuto essere quelle dei Bruzi, loro fieri antenati. Egli notava, inoltre, che a differenza dei napoletani non amavano il chiasso, parlavano con lentezza e non molestavano gli stranieri.

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    Emily Lowe, scrittrice e viaggiatrice britannica

    I cosentini non erano colti e aperti

    L’immagine dei cosentini aperti, colti e moderni non trova riscontro nei racconti dei viaggiatori. Bartels dipingeva una città in cui le donne erano totalmente sottomess. Non prendevano mai parte alle allegre tavolate e il loro compito era solo quello di cucinare e servire a tavola. Per Vom Rath i mariti erano molto gelosi, le occasioni di incontro tra uomini e donne erano rare, le danze quasi sconosciute e il «ballo tondo», in cui il cavaliere stringeva col braccio la dama, era oggetto della massima esecrazione. Didier raccontava che, nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato, si rispettavano le antiche tradizioni patriarcali: a donne e bambini era vietato sedersi a tavola e così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Gissing confermava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione».

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Il taccuino dei viaggiatori

    I viaggiatori mettevano anche in discussione l’amore dei cosentini per l’indipendenza e la libertà della patria. Per De Custine erano tutt’altro che fieri: avevano il terrore dell’autorità e, dal mulattiere al barone, si adeguavano sempre ai nuovi padroni. Discendenti dei Bruzi, secondo de Rivarol, erano disposti a tutto pur di trarre un guadagno, non avevano un senso della lealtà e della morale, erano crudeli e insolenti con le vittime e vili e imploranti con i vincitori.

    I cosentini erano spesso descritti come particolarmente furbi, capaci di grandi doti attoriali che sfruttavano a loro favore. De Custine li dipingeva come istrionici, «crispini» e «scapini» appena scesi dal palcoscenico e usciti dal teatro per continuare i loro lazzi in strada. Avevano la figura, il costume e lo spirito dei personaggi della commedia e lui si divertiva a spiarne le svagate furberie. Al momento di saldare il conto, l’oste di Strutt si distese su un letto dibattendosi e giurando che non poteva accettare un solo tornese in meno. L’inglese, dal canto suo, assicurava di non potergli dare un solo tornese in più e l’uomo con smorfie, strette di spalle e occhi semichiusi, continuò a tendere sconsolatamente la mano.

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    Il viaggiatore francese Astolphe De Coustine

    Amanti del teatro e dei vestiti alla moda

    Questa abilità dei cittadini nel recitare, spiegava il loro amore verso il teatro, unico luogo di intrattenimento serale. La Lowe rimase colpita dal fatto che il pubblico conoscesse le arie a memoria: tutti canticchiavano come se volessero unirsi al coro. Anche Didier ebbe modo di notare che i cosentini amavano molto gli spettacoli e, andando a teatro, gli sembrò di essere tornato in Europa, siccome da quando era in Calabria si sentiva in Africa!
    Gli stranieri notavano meravigliati l’attenzione che gli abitanti di Cosenza prestavano alla cura del proprio aspetto e del proprio abbigliamento. Didier rimase colpito nel vedere in un negozio i modelli del Journal des Modes di Parigi che stridevano nel contesto delle aspre montagne calabresi.

    A differenza di altri luoghi le donne non si coprivano la testa col velo nero come monache e gli uomini non portavano il cappello a cono ornato di nastri. Anche Emily Lowe notava che i cosentini ci tenevano molto ad apparire eleganti. Gli uomini indossavano un cappello particolare e pochi si contentavano di averne meno di due, uno vecchio e uno nuovo, da usare a seconda del tempo e delle circostanze: a un rovescio d’acqua compariva il vecchio, col cielo azzurro o davanti a una ragazza carina, spuntava quello nuovo. Maurel scriveva che le donne, anche quelle dei ceti popolari, erano sempre ben vestite e si rammaricava di non averle potuto fotografare con la sua Kodak, sebbene la pellicola non sarebbe stata capace di rendere il vivo colore dei vestiti e i movimenti aggraziati del loro incedere.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Cosenza città sporca

    I viaggiatori sottolineavano, tuttavia, che all’estrema cura della persona non corrispondeva quella per il decoro della città, descritta come particolarmente sporca e in abbandono. La struttura urbana appariva assai modesta, fatta da viuzze strette e ripide, alcune delle quali s’insinuavano al di sotto dei palazzi in portici tortuosi e bui. Questa trama edilizia monotona e povera era rotta, di tanto in tanto, da palazzi nobiliari di sobrie linee architettoniche, con ampi portoni e cortili.

    Cosenza era talmente sudicia da «fare pietà». Per Maurel la città poteva essere meravigliosa solo se la si visitava senza fermarsi: nonostante un viaggiatore del ventesimo secolo fosse disposto a sacrificare alcuni comfort per soddisfare la sua sete di conoscenza, a tutto c’era un limite! Se si voleva sapere cos’era la sporcizia, bisognava visitare Cosenza. Egli era rimasto talmente sconvolto dal lerciume che lo circondava, da decidere di concludere la giornata in montagna, tra capre che gli sembravano profumate!

    Parlavano troppo 

    Altro aspetto che rimarcavano i viaggiatori sui cosentini era la loro eccessiva loquacità. Alcuni stranieri erano infastiditi di dover sopportare le chiacchere delle persone presso cui erano ospiti e dichiaravano apertamente che avrebbero fatto volentieri a meno di ascoltarle. De Tavel ricordava che i cittadini usavano tutta la loro astuzia se volevano persuadere qualcuno: le loro maniere diventavano striscianti e insinuanti e, se non si conosceva la perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    La doppiezza degli abitanti di Cosenza

    De Custine stentava a comprendere l’atteggiamento dei suoi ospiti: erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che avesse mai visto. Mentivano quando l’interesse lo esigeva e lo facevano con tanta sottigliezza e abilità che le loro falsità sembravano verità. Mostravano un’ingenuità disarmante che incuteva paura nel momento in cui si scopriva quanto fosse falsa e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con loro rimaneva confuso, non riuscendo ad afferrare cosa pensassero veramente; erano capaci di accusare un uomo e subito dopo di giustificarlo, di criticarne le azioni, aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole. In altre parole, dopo aver dimostrato la meschinità di un uomo, ne diventavano gli avvocati difensori. Era praticamente impossibile per uno straniero riconoscere la sincerità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

     

  • San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    La Fiera di San Giuseppe è un appuntamento storico per Cosenza e non solo. E, dopo la pausa imposta dalla pandemia, rispunta la possibilità di rivederla in città, seppure a fine aprile. In passato i paesi della Calabria non erano autosufficienti: non consumavano tutto ciò che producevano e non producevano tutto quello che consumavano. A parte quei fortunati che possedevano un pezzo di terra, la maggior parte degli abitanti comprava nei mercati e nelle botteghe legumi, frutta e verdura oltre che olio, pasta, farina, baccalà, stoccafisso, sarde salate, formaggi e salumi.

    In ogni centro vi erano negozi, forni, trappeti, botteghe e rivendite nei quali acquistare derrate alimentari. Nella Calabria Citeriore del 1826 vi erano 52 acquavitaj, 48 arancisti, 3 biscottieri, 25 caffettierj e sorbettieri, 65 venditori di foglia, 159 fornai, 38 fruttajuoli, 47 venditori di generi al minuto, 45 liquoristi, 75 maccaronaj, 203 macellaj, 386 molinaj, 391 negozianti, 168 panettieri, 541 pescatori e pescivendoli, 324 pizzicagnoli, 164 speziali, 180 tavernarj, 185 veditori privilegiati e 29 verdumaj.

    La fiera? Un privilegio

    Le fiere costituivano un importante momento di scambio dei prodotti ma le autorità rilasciavano la «concessione sovrana» con «prudente moderazione». Le comunità che avevano avuto tale privilegio non volevano che se ne celebrassero altre nei paesi vicini e ciò suscitava malcontenti, proteste e divisioni.

    Nel 1836, il sindaco di San Lorenzo Bellizzi scriveva sulla necessità di liberalizzare le fiere: «Se è vero che ogni terra non produce ogni cosa, e che ogni terra è abbondante di qualche cosa, il commercio è il mezzo efficace a mettere l’equilibrio fra il soverchio e il necessario». E un suo collega qualche anno dopo aggiungeva: «L’esperienza ha dimostrato che le fiere producono degli evidenti vantaggi al commercio, una delle principali risorse della ricchezza dei popoli, mentre donano il mezzo a realizzare ed estrarre i generi indigeni».

    Abuso di potere

    In occasione delle fiere, che duravano in genere due giorni, le Università facevano costruire baracche per esporre le merci e, per garantire l’ordine pubblico, nominavano dei “mastrogiurati” i quali erano spesso contestati dai rivenditori.

    Nel 1476, i mercanti cosentini, ad esempio, protestarono vivacemente contro il mastrogiurato perché durante la fiera della Maddalena commetteva ogni sorta di sopruso: «Considerato lo Mastrogiurato de dicta Città have plenaria iurisdictione in lo tempo e la fiera che si dice Madalena, de cognoscere contra de qualsivoglia persona, de qualsivoglia causa et allo presente se alcune persone che, intra et fora delo Reame haveno ottenuti privilegij de vostra Maiesta, che siano exempli dela iurisdictione de dicto Mastrojurato per la qualcosa commectono multi delitti et insulti, et passano senza punizione, de che soleno evenire multi scandali in preiuditio dela dicta iurisdictione et dele persone offese, et per questo se degni vostra Majesta che dicto Mastrojurato possa gaudere sua iurisdictione secondo è solito et consueto, non obstante ditti privilegij de dicta exemptione concessi».

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    Federico II di Svevia istituì l’antica Fiera della Maddalena a Cosenza che poi divenne Fiera di San Giuseppe

    Squadra antitruffa

    I gendarmi dovevano controllare soprattutto che durante le fiere non si verificassero frodi ai danni dei consumatori. Gli intendenti sollecitavano i controllori a punire senza indugio chi vendeva cibi immaturi, grani infraciditi, pani manipolati con sostanze nocive, pesci freschi e salati putrefatti, carni di animali estinti per malattie e oli e vini adulterati. Alcuni macellai, vendevano carne di animali morti naturalmente che, secondo i sanitari, provocavano gravi malattie fra cui antraci, bubboni e «cocci maligni»; avidi fornai facevano pane con farine scadenti o marce e utilizzavano ogni cosa per accelerarne la fermentazione, renderlo più poroso, soffice e durevole, farlo diventare più bianco e pesante; tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità del vino aggiungevano acqua e per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti introducevano nelle botti «droghe malefiche».

    Botte da orbi

    Oltre che impedire frodi e furti le guardie dovevano prevenire o sedare le frequenti risse quasi sempre dovute all’eccessivo consumo di alcol. Nella fiera di Castrovillari, ad esempio, la tranquillità della fiera era interrotta «dall’unione di persone di molte comuni e di provincie diverse che per le contrarie abitudini o per stravizzi, causati dall’opportunità della fiera spesso apportano disordini e non pochi reati vi consumano». Le fiere erano luogo privilegiato per borseggiatori, mendicanti e ciarlatani come tarantolati e ceravulari che cercavano di raggranellare lecitamente o illecitamente qualche soldo.

    Vagabondi e tarantolati

    Nel 1664, in un trattato sui vagabondi, Frianoro scriveva che gli attarantati fingevano di essere impazziti in seguito al morso del falangio e, per attirare l’attenzione dei presenti, facevano cose bizzarre mentre i compagni chiedevano l’elemosina. Per rendere più veritiera la loro follia sbattevano la testa, tremavano sulle ginocchia, stridevano i denti, facevano gesti insensati, lanciavano grida strazianti, ballavano disordinatamente e si mettevano in bocca un pezzo di sapone vomitando una gran quantità di schiuma come i cani arrabbiati. Erano dei mendicanti, fanatici e «santicchioni» che ostentavano estasi, catalessi, isterie e varie forme di corea per farsi credere ispirati dal fuoco, eccitare la compassione pubblica e ricevere offerte.

    Vecchia raffigurazione di un “sanpaolaro”

    San Giuseppe e sanpaolari

    I sanpaolari o ceravulari avevano cassette di legno dentro cui mettevano vipere, scorpioni e tarantole e, per destare meraviglia tra gli spettatori, appendevano al collo serpenti e si facevano mordere. Alberti scriveva che trattavano le vipere come fossero uccelletti domestici e, per meglio colorire le proprie bugie, affermavano di essere immuni dal veleno perché appartenevano alla «casa di san Paolo» o «per invocationi di diavoli». Dioscoride sosteneva che i «sanpaolari» fossero degli ingannatori perché prendevano le aspidi con le mani dopo averle fatto addentare pezzi di carne. Vendevano unguenti simili alla teriaca dei medici, facendo credere alla gente ignorante che, spargendoli sul corpo, avrebbero allontanato qualsiasi malore e bestia velenosa.

    Mercuri li accusava di essere vagabondi, ubriaconi e puttanieri che rifilavano al volgo farmaci giurando sulla loro efficacia: ciarlatani, buffoni e istrioni raccontavano di avere avuto le ricette segrete dal re di Danimarca e dal principe di Transilvania e il popolo credulone sperperava il denaro acquistando polveri, radici, olii, unguenti, pomate, liquori e sciroppi. Frianoro li catalogava nella categoria dei vagabondi e dei ciurmatori: dicevano di discendere da San Paolo nonostante l’apostolo non avesse mai avuto figli e maneggiavano le vipere a cui era stato tolto il veleno tra lo stupore della plebe ignorante; vendendo pietre miracolose, lamine di metallo, pozioni magiche e cantilene per incantare le serpi raccoglievano danaro senza sottoporsi a nessuna fatica.

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    Antica stampa in cui è raffigurata la Fiera di San Giuseppe

    La Fiera di San Giuseppe e le altre

    Le fiere cosentine più importanti erano quella di San Giuseppe che si teneva il 19 marzo in piazza san Gaetano, quella dell’Annunciata il 25 marzo nel largo San Domenico e quella di San Francesco nei primi due giorni di aprile presso il piano davanti la chiesa. Nella fiera di San Giuseppe si vendevano piante e alberi da frutto, attrezzi agricoli, pentole di rame, vasellame, cordami, cuoio, sapone, lino, lana grezza, biancheria e altri generi. Tra i banchi dei mercanti che provenivano da terre lontane era possibile acquistare anche caffè, the, cioccolata, zucchero, spezie, torroni, confetti, biscotti, liquori, sale, riso e pasta («canaroncini», vermicelli, «maccarroncini», «maccaroni» e «tegliatelle»). Si smerciavano anche ottimi salumi e latticini. Particolarmente diffuse erano le scamozze o scamorze, dalla voce spagnola escamochos, rimasugli di formaggio destinato a fare le pezze grosse di caciocavallo.

    Caciocavalli protagonisti delle fiere calabresi

    I casecavalli

    I casecavalli figuravano tra gli alimenti più richiesti e i mercanti delle varie regioni per venderli dovevano pagare una tassa. I caciocavalli freschi erano squisiti ma quasi tutti si stagionavano e, duri e asciutti, avevano un sapore piccante come il pecorino.
    Kashkaval, kashkavat o qasqawal, caci di latte bovino a pasta filata erano prodotti in numerosi centri della provincia e, nel XIV secolo, tra i formaggi preferiti dagli Ebrei della città. Versato in una tinozza di legno, il latte tiepido di vacca si quagliava con presame di capretto affumicato messo in un pezzo di tela e si sbatteva fortemente con una spatola di legno in modo da separare il cacio dal siero. Il formaggio che iniziava a galleggiare si metteva in una tinozza, si versava acqua bollente e si manipolava a lungo con le mani sino a dare la forma di una pera o di un globo con la testa.

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    Le tradizionali forme di caciocavallo della Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il balocco dei bambini di Cosenza

    I casecavalli, appesi alle travi con una cordicella, erano soprannominati i “caci degli impiccati” ma, secondo l’opinione diffusa, prendevano tale nome perché, stagionavano a coppie appesi “a cavallo” di un bastone.
    Ogni produttore dava al caciocavallo forme diverse e il generale francese Griois, in Calabria durante l’occupazione napoleonica, descriveva un formaggio allungato chiamato per la forma «cazzo di cavallo». Con la pasta dei caciocavalli si realizzavano i casocavallucci, opere artistiche destinate al «balocco dei bambini», acquistati soprattutto dalle famiglie agiate: da qui il detto metterse ‘ncasocavallucce, cioè avanzare nella condizione sociale; per il popolino casocavalluccio significava anche capitombolo, poiché i latticini a forma di cavallo mal si reggevano in piedi.

    La Fiera di San Giuseppe nel 2010, un videoreportage di Gianfranco Donadio
  • Pulcinella belli e brutti sulle alture del Pollino

    Pulcinella belli e brutti sulle alture del Pollino

    Rappresentato come un omaccione di paglia vestito in maniera goffa e bizzarra, Carnevale era sistemato su un carretto trainato da un mulo per le vie del paese. Lo seguiva una folla di gente che fingeva di piangere fino in piazza, dove il fantoccio era bruciato. Nelle rappresentazioni teatrali, moribondo per colpa del troppo cibo, rosso in viso e con una pancia grossa, Carnevale faceva testamento con la disperazione della moglie Quaresima.

    Carnevale, tuttavia, non si mostrava pentito degli stravizi alimentari e chiedeva di essere sepolto tra salsicce, soppressate, prosciutti e maccheroni. Rappresentava la fame delle classi subalterne che, dopo aver mangiato durante l’anno minestre e legumi, potevano finalmente sfamarsi di carne. Miegliu mora saziu ca campare dijunu, a trippa è nna rizza: chiù ci minti, chiù ci cape e chini dijuna due mali fa: l’anima perda e aru ‘nfiernu sinni va: durante la ricorrenza si mangiava carne e si beveva vino in quantità. Ma a quei giorni licenziosi e abbondanti sarebbe seguita la Quaresima, lungo periodo di astinenza e prolungati digiuni.

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    Zampogne e maschere nel Carnevale di Alessandria del Carretto (foto Paolo Napoli)

    Il Carnevale di Alesandria del Carretto

    Nei giorni di Carnevale ad Alessandria del Carretto si celebrava invece la festa dei Pulcinella belli e brutti. Accanto al corpo apollineo dei Belli, espressione di eleganza e apparenza, vi è il corpo dionisiaco dei Brutti, espressione di materialità e istinto. I Brutti, dall’aspetto grottesco e terrificante, camminando curvi come fossero storpi, scatenano scompiglio e paura; i Belli, dall’aspetto seducente ed enigmatico, danzano con grazia e si avvicinano alla gente con fare gentile.

    I Belli del Martedì grasso

    Il Martedì grasso, assistiti da familiari e amici, i Belli indossano pantaloni «millerighi» infilati in ghette di cuoio, scarponi scuri, guanti neri, cravatta e camicia bianca su cui appuntano fazzoletti da taschino e da borsetta; coprono le spalle con pregiati scialli colorati che durante la danza, allargando le braccia appaiono come due grandi ali d’uccello; uno scialle viene fissato a mo’ di grembiule mentre altri, più leggeri e piccoli, vengono fermati sul petto in modo da scendere sulle cosce. I giovani coprono il viso con una maschera di legno tenuta per mezzo di legacci e sulla testa pongono un ingombrante copricapo, detto cappellett, ornato con fiori di stoffa, penne di gallo sgargianti e nastri colorati che cadono lungo le spalle; al centro del copricapo è fissato uno specchio da cui penzola una collana di perle e dietro la schiena, all’altezza della vita, è legato un grosso campanaccio.

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    I belli, maschere dall’aspetto seducente ed enigmatico (foto Paolo Napoli)

    Tra i vicoli del paese con i policinel

    Ultimata la vestizione, i policinel escono furtivamente di casa per riunirsi con le altre maschere e con u gegand, il più alto di tutti. In gruppo vanno a prendere a zit, la sposa, con il volto coperto da un foulard e vestita con abito cerimoniale. Le maschere girano per i vicoli del paese piroettando in cerchio al suono degli strumenti per arrivare nella piazza centrale dove a turno danzano con la sposa. Di tanto in tanto un policinel si stacca dal gruppo e, continuando a danzare, sfiora con lo scriazz, bastone di legno da cui pendono pon pon di lana, il seno delle donne e i genitali degli uomini.

    Sul calar del sole giungono i Policinel layed. Vestiti con stracci e vecchi abiti, hanno il viso coperto da fuliggine, si muovono disordinatamente, buttano cenere sulle persone, si avvicinano alle ragazze con gesti sconci, fanno scherzi di ogni genere e parlano camuffando la voce per non farsi riconoscere. All’arrivo dei Layed, i Biell lasciano la piazza e attraversano i vicoli della parte bassa del paese, sino ad arrivare alla zona detta Timbonerie. Da qui, dopo aver tolto la maschera lignea, si recano per mangiare e bere nelle case di parenti e amici.

    Dove la neve arriva fino ai tetti delle case

    Alessandria del Carretto è un piccolo paese di montagna situato alle pendici del Pollino, accessibile in passato solo a piedi o con asini e muli. Nei mesi invernali, quando calavano le tenebre, il villaggio era avvolto da un silenzio inquietante. Un manoscritto del XVII secolo ci informa che gli abitanti «pativano estremamente, e cioè di gran freddo per li grandi jacci» e la neve spesso «giungeva a ricoprire le porte e finestre delle abitazioni ed arrivare a passare li tetti». Gli Alessandrini desideravano che il cupo inverno andasse via al più presto e aspettavano con ansia febbraio, mese in cui veniva «febbre alla terra» e ai primi tiepidi raggi di sole tutto cominciava a fremere e rianimarsi.

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    Il corteo delle maschere tra le strade di Alessandria del Carretto (foto Paolo Napoli)

    Nietzsche ad Alessandria del Carretto

    La messa in scena dei Belli e dei Brutti può essere considerata, come scrive Nietzsche, il primo richiamo dionisiaco che ribolle dal folto di un cespuglio al risveglio della primavera. Era un rito di passaggio stagionale volto ad assicurare la rinascita della vegetazione; un cerimoniale di buon augurio per il nuovo ciclo dell’anno; un espediente per superare sul piano simbolico le frustrazioni accumulate durante i mesi freddi.

    La ritualità si celebrava per propiziare fertilità, espellere il male e rigenerare il mondo. Il calpestio dei piedi e il suono di campanacci, ciaramelle, tamburelli e organetti destavano la terra dal sonno dell’inverno; la danza delle maschere incessante ed estenuante solennizzava l’evento del risveglio; la ricchezza del costume e il copricapo ricco di fiori e nastri colorati erano un inno alla primavera; la presenza della sposa stimolava le forze creatrici e riproduttrici della natura; lo scriazz era simbolo di potere e organo di rigenerazione; lo specchio sul copricapo rifletteva la luce e accecava agli spiriti maligni.

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    I brutti, il lato grottesco del Carnevale di Alessandria del Carretto (foto Paolo Napoli)

    Nessun ribaltamento del potere

    Costretti a stare per lungo tempo chiusi nelle case a causa dell’inverno rigido e buio, gli abitanti a Carnevale avevano finalmente la possibilità di stare all’aperto, evadere dalla dura vita quotidiana e vivere il tempo della festa. La messa in scena dei Belli e Brutti è indenne dalla retorica dei sentimenti e dell’impegno sociale. Non si propone di risolvere conflitti morali o suggerire modelli comportamentali. Le maschere non sono preoccupate di dare un senso a ciò che fanno e gli spettatori non ne cercano il significato.

    Il fine della rappresentazione teatrale dei Pulcinella è quella di ricreare un’atmosfera di gioia e paura che popola i sogni degli uomini, offrire sensazioni d’illusione e incantesimo, dare spazio a quell’irrazionale che abita nelle profondità dell’anima, trasportare uomini e donne in un universo ignoto alla ragione. I Brutti operano una mortificazione del corpo in senso grottesco. Non hanno cura dell’estetica, vestono colori scuri, tingono il volto di fuliggine, gettano cenere sulla gente, ballano senza grazia e si abbandonano a parole scurrili. I Belli, al contrario, accompagnati dalla musica danzano con eleganti movimenti che sembrano evocare presenza e assenza, avvicinamento e allontanamento, movenze che ricordano quelle dei fieri galli.

    Apollineo e dionisiaco sul Pollino

    La rappresentazione dei Policinel, erede di antiche consuetudini, ha perso probabilmente i caratteri trasgressivi. Ma ancora oggi, sospendendo il corso lineare del tempo quotidiano, segna l’irrompere del tempo festivo e stabilisce una tregua nella quale ogni violazione è lecita. Entrando nello spazio e nel tempo provvisorio del Carnevale, i giovani vivono una corporeità apollinea e dionisiaca: da una parte arte, solarità, sogno e magnificenza dei Belli, dall’altra istinto orgiastico, materialità, buio e goffaggine dei Brutti.

    Il teatro dei Policinel è quello della fiaba, della magia e del fantastico, una messa in scena che racconta la storia del male e del bene: il primo è rappresentato da creature ctonie, rappresentanti del buio e dell’inverno, il secondo da creature solari, simboleggianti la luce e la primavera. Nella rappresentazione non è tuttavia prevista una risoluzione del conflitto, Belli e Brutti non vengono a contatto, sembrano ignorarsi ma sono profondamenti legati. Apollo e Dioniso non si pongono come antitesi, ma come doppio. L’uno non è il contrario dell’altro, ma l’altro volto: caos e ordine si danno convegno senza annullarsi, la bellezza apollinea e la sfrenatezza dionisiaca stanno l’una accanto all’altra.

  • Sirene, mostri e meraviglie nella Calabria dei grandi viaggiatori

    Sirene, mostri e meraviglie nella Calabria dei grandi viaggiatori

    Uno dei motivi che spingeva i viaggiatori a visitare la Calabria era la sua natura meravigliosa. Molti religiosi provenienti dalle regioni del Mediterraneo e dell’Europa si rifugiarono nelle grotte lungo le coste o sulle montagne per vivere in eremitaggio. Nel silenzio delle foreste si avvertiva più intensamente che altrove la presenza del numinoso, la natura sconvolgente avvicinava gli uomini al Padre Eterno, creatore di quel mondo incantevole; la serenità del paesaggio e la dolcezza del clima erano ideali per arricchire la mente e lo spirito.

    Dove la natura regnava incontrastata si dimenticavano vanità e orgoglio e si aveva la possibilità di ritrovare i valori autentici dell’uomo persi nel caos della civiltà. Brandon-Albini osservava che in Calabria, lontano dalle brutali e rumorose grandi città, l’uomo poteva togliersi la «scorza» utilitaristica e meschina che sembrava rivestire il cittadino del XX secolo.

    Strabone e Sybaris

    Strabone scriveva che l’ecista Is di Elice non dovette avere molti dubbi nello scegliere Sibari come luogo dove costruire la città: in una manciata di chilometri erano concentrati mare, fiumi, pianura, colline e montagne. Il territorio era attraversato da due grandi fiumi che avrebbero rifornito d’acqua la città e irrigato i campi; le colline e la vasta pianura avrebbero dato grano, olio, vino, ortaggi e frutta in abbondanza; le montagne vasti prati per i pascoli, selvaggina di ogni specie, pece e legname pregiato per la flotta, costruzioni e riscaldamento. Il mare dove sfociavano i due fiumi, navigabili vicino alla foce, avrebbe favorito la pesca e i commerci con i popoli del Mediterraneo.

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    Gli scavi allagati dell’antica Sybaris

    Dio fece la Calabria

    Per De Custine la natura in Calabria era ancora quella creata da Dio: La natura in queste regioni è armoniosa e solenne come la musica sacra! Le forme regolari delle montagne, la luce, i suoni, le lunghe linee delle coste delineate dalle onde, la grandezza e il colore delle pianure che, da lontano, sembrano la continuazione del mare, tutto quest’insieme così diverso, e dove si riconosce il pensiero di un solo artefice, mi causa un piacere simile all’ascolto di una grande sinfonia. L’orchestra è così perfetta che si crede di udire un solo strumento! Un’idea unica espressa con una diversità infinita: questo è il sublime, il capolavoro del Creatore e delle creature ispirate da lui».

    Alla ricerca del vascello di Ulisse

    Una volta giunti nella regione, molti viaggiatori si dichiaravano rapiti e sopraffatti dall’emozione di fronte alla rara bellezza dell’ambiente. Quella regione aveva una natura insieme dolce e pittoresca, inquietante e tempestosa. Wey, contemplando lo scenario di Palmi, confessava che quel posto magico ispirava al pensiero di Dio e degli dei, all’Oriente cristiano e alla Grecia classica. Il viandante scrutava le acque alla ricerca della scia del vascello di Ulisse e della nave di Giasone; ascoltava il fruscio del vento che spirava dalle Eolie, ed era come se sentisse il rumore del martello di Vulcano che forgiava nelle sue fornaci le armi del figlio di Anchise. Palustre de Montifaut, guardando il paesaggio di Bagnara, annotava che ogni genere di splendore si trovava riunito in quel punto del globo, sembrava che la natura avesse voluto, con uno sforzo supremo, dare spettacolo di tutto ciò che era capace di produrre.

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    Una vecchia stampa di Bagnara Calabra

    Da Palmi a Bagnara

    E De Custine scriveva: Non credo che esistano al mondo dei luoghi più belli di questa parte delle coste della Calabria. Quando dall’alto della montagna che le separa da Palmi e si procede verso il mare, si scorge Bagnara, la sua posizione e le rocce che la circondano sembrano talmente straordinarie che appena non le vedo più mi riesce impossibile rappresentarmele. Tutto profuma di erbe aromatiche ed è ornato di festoni di liane pittoresche simili a cascate di fiori. Questi grandiosi anfiteatri si innalzano a delle altezze spaventose e niente è più provocante tra il contrasto del lavoro dell’uomo e l’irregolarità di una natura sempre selvaggia, la cui bizzarria è addolcita da una certa armonia che io ho trovato solo nei paesaggi italiani.

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    Il viaggiatore francese De Custine restò senza fiato dinnanzi alle bellezze di Palmi

    Lusso selvaggio e primitivo

    Le forme e le luci di questi luoghi sfarzosi sono, in verità, delle “invenzioni” della natura. Sembra che essa non voglia permettere all’uomo di abbellire la terra senza intervenire essa stessa. Perciò, si affretta a mascherare le proprie opere d’arte sotto un lusso selvaggio e primitivo. Sembra che in questa terra la natura, indignata dalle conquiste dell’uomo, si burli della civilizzazione non opponendogli degli invincibili ostacoli, come sulle Alpi, ma abbellendola come nella pittura! Tutto ciò che dico è incompleto o monotono: bisognerebbe vedere il trionfo della luce sul mare i cui riflessi mutano ad ogni istante, come quelli di una lama di metallo esposta ai raggi del sole; bisognerebbe udire il mormorio del vento tra gli alberi.

    Come appariva il fiume Crati agli occhi dei viaggiatori francesi

    Anche le zone interne erano affascinanti e incantevoli. Saint-Non, pur vedendo intorno miseria e desolazione, scriveva che la Calabria appariva come una terra promessa vista dal deserto, un’immagine dell’età dell’oro e del paradiso terrestre. C’erano foreste come frutteti e frutteti come foreste e tutto ciò che negli altri paesi avrebbe richiesto dispendio di risorse per abbellire i giardini, in quella terra cresceva naturalmente e con un’armonia sorprendente.

    I giardini di Corigliano e dell’Esaro

    I giardini di Corigliano sembravano simili a quello delle Esperidi, tanto gradevoli quanto utili, tanto abbondanti di frutti quanto suggestivi. In quelle terre si raccoglievano grano e uva in quantità, c’erano pascoli grassi e fertili, si pescavano pesci in abbondanza e si potevano raccogliere i frutti più deliziosi al mondo.

    Corigliano calabro in un’antica stampa francese

    Lenormant, osservando la vegetazione lungo le sponde dell’Esaro, osservava che in quel posto incantato era possibile ritrovare tutti i miti della cultura greca: «Ammiro l’incomparabile rigoglio e la fecondità della vegetazione nei giardini dell’Esaro. Vi sono terreni che sarebbero un vero paradiso terrestre, se la febbre non venisse a screditarli, rendendoli inabitabili durante un gran tratto dell’anno. Nella stagione in cui vi si può passeggiare senza timore e godere liberamente la delizia della loro fresca verdura, questo sito è davvero incantevole, e si darebbe volentieri per quadro ad un idillio. È proprio nei boschetti di tal genere che la poesia greca si compiaceva di descrivere i trastulli delle Ninfe; è proprio in mezzo ai canneti, come quelli che fiancheggiano il fiume, che essa le faceva spiare nel bagno dai Sàtiri.

    Questi canneti, in cui mormora il vento, sembrano scendere in linea retta da quelli che produsse la metamorfosi della ninfa Syrinx, stretta da presso dal dio Pane, che la perseguitava amorosamente; questi allori dal tronco slanciato, si crederebbe volentieri che abbiano avviluppato con le loro cortecce il bel corpo di Dafne, allo scopo di sottrarla agli amplessi di Apollo; queste viti che si arrampicano ai rami degli alberi giganteschi e fanno ricadere intorno ad essi mollemente i loro festoni, rappresentano Erigone, la disperata amante di Dioniso, il corpo della quale si culla in balìa dei venti dopo il suicidio; i vortici fangosi del fiume sono pronti ad inghiottire ancora una volta il bel cacciatore Aisaros, se mai si avventuri imprudentemente nelle sue acque. Qui, come in Grecia, l’aria che si respira è quasi impregnata di mitologia».

    L’antica Stilo

    Mostri e vulcani

    La natura della Calabria attirava i viaggiatori anche per i suoi aspetti mostruosi e terrificanti. Quella terra nascondeva dentro le sue viscere mostri non domati dagli dei che scuotevano il terreno e distruggevano tutto ciò che gli uomini avevano pazientemente costruito in centinaia di anni. De Tavel affermava che la Calabria, il cui suolo si agitava continuamente, riposava sul fuoco dell’inferno: a ogni scossa di terremoto vomitava sulla sua superficie una legione di demoni. Stolberg pensava che la regione fosse al centro del fuoco sotterraneo del Mediterraneo, il cui alito spirava attraverso il Vesuvio, lo Stromboli e l’Etna. La Calabria era come una donna in fiore, ma aveva nel cuore un gigante le cui convulsioni scuotevano spesso la terra! La sua nascita era stata annunciata con violenza dalle doglie della partoriente e queste doglie sconvolgevano la terra da polo a polo!

    Lo Stretto e le sue leggende

    Il mare dello Stretto era ricco di storie mitiche che narravano di mostri spaventosi, sirene mangiatrici di uomini e fate incantatrici. Non bastavano i devastanti maremoti, le impetuose correnti e le trombe marine a rendere quella zona inquietante e misteriosa. Lo Stretto era uno spazio naturale e insieme soprannaturale, un luogo magico dove avvenivano metamorfosi, incantesimi e prodigi in contrasto con le leggi della natura. Da quando Poseidone aveva separato, con un colpo di tridente, la Sicilia dalla Calabria, sulle opposte rive si erano insediati esseri mostruosi.

    C’erano le sirene, che se ne stavano sulla spuma delle onde, sulle spiagge deserte e sulle rocce: belle e perfide donne con la coda di pesce, le chiome d’oro o di colore verde come lo smeraldo, con la loro voce melodiosa ammaliavano marinai e pescatori che, non potendo resistere al fascino della loro bellezza e del loro canto, sbarcavano sulle spiagge, dove venivano fatti prigionieri o divorati. Sempre in quel tratto di mare dimorava la fata Morgana, che aveva il suo castello sotto le acque profonde e, soprattutto nei mesi estivi, si divertiva a fare apparire sulla superficie del mare e nell’aria spettacoli favolosi e immagini bizzarre.

    Nel tratto di mare di Reggio Calabria secondo la leggenda dimorava la Fata Morgana

    Il nome che più di tutti suscitava orrore nell’immaginario dei viaggiatori era quello di Scilla. Per de Custine non aveva senso arrivare in Calabria senza lasciarsi trasportare dalle onde dello Stretto dove aveva navigato la nave di Ulisse e senza vedere dal mare gli orridi scogli di Scilla. Quella rupe che si elevava maestosa all’imbocco dello Stretto, era un limite che separava la soglia dei mortali da quella degli immortali. Nell’infinità del cosmo occupava uno spazio separato e isolato, posto alle estremità del mondo, un punto fisso che orientava i viaggiatori e li metteva in relazione col soprannaturale.

    La natura della Calabria descritta dai viaggiatori è stata mortificata dai suoi abitanti. Già verso la fine dell’Ottocento Wey scriveva che il territorio di Monteleone, soprattutto dove si trovava il «Fondaco del Fico», era una zona infetta e miserabile. In passato, i poeti della Magna Grecia l’avevano celebrato la degna dimora degli dei: la figlia di Cerere vi coglieva il mirto e il melograno e danzava sui fiori e sulle spighe di grano. Da molto tempo quel territorio era preda del soffio velenoso della morte, germogliavano spine, rovi, e l’asfodelo consacrato agli abitanti della Stige. Concludeva dicendo che, se la natura aveva dato un clima salubre e dolce, l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche, avevano creato delle cloache infette. Questa atmosfera condizionava la moralità degli abitanti e spiegava perché i figli di questa terra, da grandi, diventavano «infidi serpenti».

     

  • 1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    Agli inizi del 1943, incalzati da un possente esercito britannico, i soldati italiani e tedeschi erano costretti a ritirarsi dalla Libia in Tunisia e a Cosenza cominciarono ad arrivare le famiglie emigrate nelle terre dell’impero. In tutta fretta, si erano imbarcate sulle navi per raggiungere Brindisi. Accolti alla stazione i profughi raccontarono spaventati che gli inglesi erano spietati, affondavano le navi con i civili, mitragliavano gli ospedali e maltrattavano i prigionieri. In Russia, nel gennaio 1943, dopo ripetute sconfitte, le truppe italiane si avviavano verso una disastrosa ritirata. I soldati dell’Armir, senza mezzi e senza armi, attaccati costantemente dalle truppe regolari e dai partigiani, fuggivano terrorizzati lungo le steppe innevate. Decine di giovani cosentini e della provincia morivano in battaglia, congelati o nei campi di prigionia dell’Unione Sovietica.

    La ritirata delle truppe italiane dopo la disastrosa campagna in Russia

    La propaganda fascista

    I fascisti cosentini ammettevano che i Russi avevano iniziato una grande controffensiva ma sostenevano che alla fine avrebbe vinto chi a una ferrea resistenza avesse unito «le più pronte doti di recupero». Altre volte affermavano che i bolscevichi erano stati fermati dal glorioso esercito italiano, saldamente schierato, in eroici atti di valore e abnegazione. Per rassicurare la popolazione, pubblicavano sui giornali lettere di combattenti in cui si leggeva che stavano «spezzando le reni» ai bolscevichi. Il soldato Tullio De Simone, ad esempio, scriveva che al fronte russo andava tutto bene, che l’inverno era passato e tutti erano al proprio posto per la vittoria finale. Egli pensava con nostalgia a famiglia, parenti e amici ma, sopra ogni cosa, gli era cara la Patria, per la quale era disposto a combattere sino alla fine.

    Aerei alleati sganciano le loro bombe sull’Italia meridionale

    La popolazione, tuttavia, non credeva più alla propaganda del regime, perché ormai la guerra si combatteva anche in Italia. Centinaia di sfollati arrivavano a Cosenza. Da Genova, Torino, Milano, Messina, Palermo e, soprattutto, da Taranto e Napoli, bombardate costantemente dall’aviazione alleata. Il prefetto De Sanctis, informava il Ministro degli interni che, a seguito delle incursioni aeree, alla fine del gennaio 1943 erano giunti in provincia 1.249 profughi ospitati in genere da amici e parenti. L’afflusso degli sfollati dalle regioni italiane dava l’impressione che Cosenza sarebbe stata risparmiata da un eventuale bombardamento. E, del resto, le stesse autorità avevano sempre rassicurato che difficilmente il nemico l’avrebbe scelta come meta da colpire: non c’erano fabbriche, depositi militari e scali ferroviari importanti.

    Amantea devastata dalle bombe

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    Il ricordo delle vittime del bombardamento su Amantea

    Il Comitato provinciale della forza antiaerea invitava costantemente la popolazione a rispettare le norme sull’oscuramento. Squadre della Mvsn giravano nei quartieri per assicurarsi che non trapelassero luci dalle abitazioni, ma molti cittadini disattendevano le misure ritenendole inutili. L’atteggiamento generale mutò quando, agli inizi del 1943, alcuni centri della provincia subirono tremende incursioni aeree. Particolare impressione suscitò il bombardamento del 20 febbraio ad Amantea, nel quale morirono 21 persone e centinaia furono i feriti trasportati nell’ospedale del capoluogo. Nel paese marino, sede delle colonie estive, letteralmente sconvolto dall’improvvisa devastazione, durante i solenni funerali la popolazione seguì silenziosa il corteo di camion militari adibiti a carri funebri.

    12 aprile 1943, il bombardamento su Cosenza

    I cosentini, scriveva il Questore, in seguito al raid aereo di Amantea, erano rimasti profondamente turbati non solo per le vittime e la devastazione, quanto perché la città non aveva rifugi sicuri ed era del tutto impreparata per contrastare eventuali attacchi.
    Il 12 aprile, uno stormo di bombardieri Alleati partiti dall’Africa, sganciò i suoi devastanti ordigni anche su Cosenza. L’obiettivo principale era la stazione ferroviaria e tuttavia buona parte del bombardamento colpì il centro urbano provocando la morte di numerose persone, tra cui alcuni scolari.

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    Il mobilificio Giuliani distrutto dal bombardamento alleato. Sullo sfondo, il Palazzo degli Uffici nell’attuale piazza XI settembre

    I fascisti denunciarono la vile aggressione definendo gli anglo-americani uomini di razza inferiore che, accecati da bieco livore e incapaci di distinguere il bene dal male, si scagliavano contro gente innocente. L’ignobile bombardamento aveva l’obiettivo di deprimere il morale della popolazione ma le bombe che avevano avuto ragione della carne non avevano intaccato l’incrollabile fede nel fascismo. I cosentini avevano reagito all’incursione aerea fornendo prova di fierezza, fermezza, disciplina, abnegazione e solidarietà; con ogni mezzo si erano prodigati per sgomberare le macerie e portare soccorso ai sinistrati e avevano manifestato odio verso il barbaro aggressore che non aveva avuto pietà neanche per i bambini.

    Il giorno dopo

    Il giorno dopo il bombardamento, fu affisso un manifesto del Federale nel quale si accusavano gli inglesi di avere colpito in maniera spregevole una città indifesa. I degni figli d’Albione avevano sempre disprezzato gli italiani ed erano stati anche responsabili della fucilazione dei patrioti cosentini e dei fratelli Bandiera! Gli effetti devastanti dei quadrimotori avevano provocato il crollo di decine di palazzi e sul selciato erano rimaste numerose vittime incolpevoli ma bisognava stare calmi, stringere i denti e continuare a lavorare: alla fine gli italiani avrebbero vinto la guerra e si sarebbero liberati dalle catene degli schiavisti inglesi! Per la messa dedicata alle vittime del bombardamento, nella navata centrale della cattedrale era stato eretto un catafalco sormontato da una croce bianca e con festoni, ceri e drappi neri.

    Il vescovo Calcara, rivolgendosi alla folla silenziosa e commossa, condannò con parole dure la crudele incursione aerea e invocò la benedizione divina sulle vittime. Il giorno prima della cerimonia, il podestà Angelo Ippolito aveva fatto affiggere sui muri della città un manifesto in cui ricordava che i cosentini nel corso dei secoli avevano dato un largo contributo di sangue alla Patria e che, anche durante il bombardamento, dando prova di fierezza e coraggio, si erano stretti intorno al Fascio littorio. I fratelli morti sotto le bombe chiedevano che ognuno restasse al proprio posto e conservasse la calma dei forti, con la consapevolezza di servire la causa della civiltà contro la barbarie, del puro spirito contro la bruta materia. I micidiali ordigni nemici non avrebbero piegato la resistenza di Cosenza, da sempre madre generosa di combattenti ed eroi.

    Il panico collettivo durante il bombardamento

    In realtà durante il bombardamento, in preda al panico, la popolazione non rispettò quanto stabilito durante le esercitazioni. L’allarme delle sirene suonò in ritardo e le squadre di pronto soccorso si dimostrarono inadeguate. Equipaggiate con tute blu, badili, piccozze ed estintori, non furono all’altezza della situazione. I Vigili del fuoco, che si dettero un gran da fare per estrarre i corpi dalle macerie, erano pochi e scarsamente equipaggiati. Qualche giorno prima dell’incursione, il Comandante aveva avvertito il prefetto che, di fronte alla costante attività aerea nemica, il Corpo non aveva uomini sufficienti per agire in caso di bisogno.

    Soldati impegnati a scavare tra le macerie

    La Milizia della contraerea, composta da soldati riformati, anziani o disoccupati, non aveva reagito in alcun modo e persino i soldati del presidio militare non avevano dato esempio di coraggio e ardimento durante l’incursione aerea. In libera uscita, al segnale d’allarme, avevano occupato i ricoveri pubblici e, allontanatasi gli aerei nemici, erano tornati in caserma senza prestare soccorso ai sinistrati. Questo comportamento indignò la popolazione e lo stesso federale Rottoli chiese una punizione esemplare. Ne seguì un’inchiesta che coinvolse due colonnelli, anch’essi accusati di avere avuto un atteggiamento passivo durante il bombardamento e di aver protetto con rapporti compiacenti i propri uomini.

    Dopo il raid aereo, molti sinistrati furono accolti in capannoni alla periferia della città. Grazie grazie alle offerte di alcuni benestanti, si approntò una mensa per fornire loro un pasto caldo. I senzatetto trascorrevano le giornate nei paraggi delle case crollate, mentre di notte pattuglie di militi e vigili perlustravano i quartieri colpiti per scoraggiare lo sciacallaggio. L’1 maggio, il prefetto De Sanctis scriveva che, nonostante il rilevante numero di vittime provocato dagli ordigni, i cosentini mostravano virile compostezza ed esemplare disciplina, rimanendo tenacemente al proprio posto.

    1943, fuga da Cosenza

    In realtà, come scriveva il giornale dell’arcidiocesi, per causa degli aerei nemici che continuavano a sorvolare sulla città, si registrò un forte esodo della popolazione verso campagne e paesi vicini. Durante il giorno, Cosenza appariva semideserta, anche perché gli studenti d’ogni grado disertavano le aule e il Provveditore ammetteva che il numero dei frequentanti si era ridotto di circa quattro quinti. In una lettera riservata, il questore di Cosenza scriveva che, dopo l’incursione aerea del 12 aprile, si era verificato un largo esodo dei cittadini nelle campagne e nei paesi vicini. Le linee ferroviarie erano continuamente bombardate, gli aerei mitragliavano ogni cosa e la vita in città era spenta.

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    Corso Mazzini semideserto dopo il bombardamento

    «Calabria Fascista» riconosceva che i quartieri si erano spopolati ma molti abitanti avevano raggiunto le case di campagna più per desiderio di uova fresche che per paura delle bombe e la maggior parte degli sfollati conduceva vita da «villeggianti»: spendereccia, festosa e brillante! A fuggire erano state soprattutto le famiglie di ricchi proprietari, professionisti, commendatori e pezzi grossi della burocrazia cittadina, gente verso la quale il partito non nutriva antipatia, consapevole che l’umanità non era fatta solo di audaci eroi, ma anche di persone caute, timide e paurose.

  • Donne calabresi, una Storia ancora tutta da scrivere

    Donne calabresi, una Storia ancora tutta da scrivere

    L’intensa e appassionante storia delle donne calabresi è stata ignorata o tenuta ai margini nelle ricerche degli storici tradizionali. Le donne sono state protagoniste della storia quanto gli uomini, ma ancora oggi le comunità scientifiche ignorano il loro ruolo. Bisogna rimediare a tale mancanza anche se il lavoro per le giovani ricercatrici sarà faticoso e complesso. Le fonti d’archivio spesso forniscono scarse notizie sulla vita delle donne calabresi e quelle poche sono spesso pervase da pregiudizi e stereotipi. Ma, come scriveva Lucien Febvre, lo storico non deve rassegnarsi mai. E, in mancanza dei fiori normalmente usati, deve utilizzare tutta la sua ingegnosità per fabbricare il suo miele. Bisogna attingere materiale negli archivi e nelle biblioteche, ma anche nei campi più disparati come le fonti folkloriche, fiabe, miti, leggende e reperti archeologici.

    E gli uomini stanno a guardare

    Le annotazioni dei viaggiatori stranieri che giunsero in Calabria nel Settecento e nell’Ottocento, anche se a volte viziate da atteggiamenti etnocentrici, sono di grande interesse. De Rivarol scriveva che i mariti lasciavano le mogli a casa e passeggiavano per la piazza del paese con oziosa indolenza. Le famiglie calabresi si rassomigliavano tutte ed erano composte da un marito despota e freddo e una moglie triste e timorosa che faceva i lavori più pesanti. Didier osservava che le contadine salivano e scendevano dai paesi portando grandi pesi sulla testa e i maschi le guardavano passare e ripassare senza aiutarle.

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    Donne calabresi lavano i panni in un corso d’acqua (foto Gerhald Rohlfs)

    Vom Rath annotava che a Siderno le donne andavano e venivano dal villaggio portando acqua nelle grandi brocche a due manici e col collo stretto. Per raggiungere la fontana impiegavano un quarto d’ora, poi tornavano con i recipienti pieni in testa. Gli uomini, intanto, se ne stavano silenziosi avvolti nelle cappe e col capo coperto dal berretto di lana azzurra. Rebuschini, vedendo le donne di Oppido portare i pesanti fardelli sul capo, scriveva che esse sostituivano le bestie da soma. Camminavano per viottoli ripidissimi con cesti di agrumi che pesavano fino a mezzo quintale, tenendo le mani sulle anche e l’occhio fisso al suolo.

    Le ginocchia come tavola

    Didier raccontava che nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato a donne e bambini era vietato sedersi a tavola, così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Rilliet osservava che anche nei paesi albanesi quando arrivava uno straniero erano padri, mariti e fratelli a fare gli onori di casa. Le donne non stavano mai a tavola con gli uomini. Per Griois le donne calabresi, anche quelle benestanti, avevano poca libertà. Se a pranzo c’erano ospiti, la moglie mangiava quello che restava su una tavola tutta speciale: le ginocchia! Dopo aver abbracciato gli uomini della famiglia Cefalì che lo avevano ospitato, nel congedarsi dalla padrona di casa e dalle figlie, Strutt dovette fare a meno di essere galante. Il bacio non era permesso e anche una stretta di mano sarebbe stata considerata troppo spinta.

    Le donne oggetto

    Lombroso denunciava che la donna calabrese era considerata alla stregua di un oggetto. In diverse comunità chi chiedeva la mano di una fanciulla poneva un tronco d’albero davanti alla sua porta. Se il ceppo era portato in casa, voleva dire che la famiglia era d’accordo. Nei villaggi albanesi il rito del matrimonio rammentava il Ratto delle Sabine. Mentre la giovane camminava insieme ai suoi familiari, il futuro sposo, facendosi teatralmente largo con pugni e schiaffi, la rapiva e la portava in casa. In altri paesi lo sposo, insieme a parenti e amici, sparava in aria colpi di fucile, poi faceva irruzione in casa della fidanzata, la sottraeva alla sua famiglia e la portava via. De Rivarol affermava che il matrimonio liberava la donna dall’oppressione del padre-padrone e la incatenava alla volontà tirannica di un marito-padrone, che vedeva in lei un acquisto utile.

    Escluse dalla società e addette ai lavori domestici, le mogli si abbrutivano, diventavano goffe e prive di buone maniere. De Tavel sosteneva che le calabresi non avevano fascino e grazia perché venivano maritate molto giovani e sfiorivano presto. Anche le donne che appartenevano alle classi agiate erano infelici per l’estrema gelosia degli uomini che le tenevano sempre chiuse in casa e le trattavano senza alcun riguardo. Bartels confermava che a Cosenza le donne erano completamente segregate e i maschi non perdevano occasione per sottolinearne l’inferiorità: non pranzavano mai con gli uomini e il loro compito era unicamente quello di attendere alle faccende domestiche.

    Una madre e la sua bambina nella Calabria di inizio '900 (foto Gerhald Rohlfs)
    Una madre a casa con la sua bambina nella Calabria di inizio ‘900 (foto Gerhald Rohlfs)

    Quando tornava dai campi, la contadina, carica come un asino e sempre a debita distanza, seguiva il marito che la precedeva trotterellando tutto tronfio in groppa all’animale. Gissing annotava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne una benestante per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione». Per vom Rath in città non esistevano occasioni sociali in cui uomini e donne s’incontravano perché i primi erano estremamente gelosi e possessivi.

    La Margherita, un giornale per le donne calabresi

    Il 10 maggio 1877 alcune cosentine diedero alle stampe La Margherita. Il giornale si proponeva l’istruzione delle donne ma ancora prima di uscire suscitò apprensione e preoccupazione. Al punto che il suo responsabile nell’editoriale del primo numero dal titolo Ai babbi e alle mamme dovette tranquillizzare i genitori precisando che il giornale non voleva offuscare il candore delle loro fanciulle.

    «Un giornale per le nostre figliole redatto da giovani! Ma se n’è vista mai una simile a Cosenza?… Piano, babbi e mamme carissime, non vi spaventate, non aggrottate il sopracciglio; e permettete prima che vi accigliate a farci una romanzina, qualche spiegazione. Vero, in Cosenza non era mai surta e nessuno l’idea di pubblicare una efferide educativa e istruttiva, consacrata esclusivammente alle Donne; e in verità è stato un grave torto che s’è fatto loro: quasi che in questo povero angolo di Calabria, non fossero degli ingegni eletti, che comprendono e sentono eminentemente. E se fin’oggi le nostre donne giacquero dimenticate, oscure, neglette, è tempo oramai che si sveglino, che si muovano, e ci aiutino a innaffiare questo, nascente fiore che si chiama Margherita».

    La vita in uno sguardo

    Vincenzo Padula in un articolo del 1876 annotava che le donne del cosentino avevano fianchi vigorosi, occhi arditi, polsi robusti, gote floride, ricca capigliatura e l’accento minaccioso perché «nate nel paese dei tremuoti e dei vini forti». Maneggiavano la conocchia e il pugnale, la spola e la scure e il loro sguardo era infallibile come il fucile: se fissavano con gli occhi raddoppiavano la vita e se fissavano con l’arma la toglievano.

    Donne calabresi impegnate nei campi a Melissa (foto Gerhald Rohlfs)
    Donne calabresi impegnate nei campi a Melissa (foto Gerhald Rohlfs)

    Nel 1602, lo storico Marafioti aveva sottolineato invece la loro sobrietà, onestà e laboriosità: «Le donne di Calabria sono destrissime & ingegnosissime ne’ loro mastaritij perché non attendono ‘l giorno ad acconciarsi la faccia e farsi biondi i capelli, ma attendono a lavorare tele, tovaglie di varie sorti & altri suppellettili di casa, non sono ubbriache, ma pare che dalla natura habbino questo dono particolare, che niuna beva vino, e si mantenga sana e bella. Sono tutte virtuose, honeste, affabili, piacevoli e cortesi, tanto nelle parole che nell’opre; e sono tanto prudenti, accorte, & industriose, che mai si lasciano trovare in fallo da loro parenti, ò mariti, ma più tosto per sospitione si puubblica l’errore».

    Madri operaie

    Le donne calabresi nei secoli hanno contribuito in maniera decisiva al mantenimento della famiglia. Le braccianti lavoravano duramente e neanche nel periodo della maternità avevano riposo. In un’inchiesta ministeriale di fine Ottocento si legge che le gestanti del cosentino faticavano sino al giorno del parto. Non era raro che fossero colte dalle doglie sui campi per riprendere il lavoro una settimana dopo la nascita del figlio.

    Manodopera femminile era impiegata nelle manifatture ma anche nei cantieri stradali, concerie, segherie, frantoi, mulini e fabbriche di laterizi e liquirizia. La maggior parte lavorava nelle industrie tessili: nel 1861 erano occupate 59.911 donne contro i 18.641 maschi e dieci anni dopo il loro numero scese a 50.298 unità di cui 47.398 lavoratrici tessili e 2.141 impiegate nelle sartorie.

    Una donna calabrese lavora al telaio (foto Gerhald Rohlfs)
    Una donna calabrese lavora al telaio (foto Gerhald Rohlfs)

    Sono state le donne calabresi a sostenere le famiglie nel periodo della grande emigrazione nelle Americhe. Nella provincia di Cosenza le mogli rimaste sole a provvedere al mantenimento dei figli erano migliaia, nel 1901 se ne contavano 19.260. Un ufficiale sanitario del litorale tirrenico comunicava ai superiori che da quando gli uomini erano espatriati le femmine erano sfiancate dalla fatica. Descrivendo la pietosa condizione delle «vedove bianche» informava che «il maggior lavoro incombeva alle povere donne, moglie e figlie di emigrati le quali per bisogno di campare la vita lavoravano oltre le loro forze».

    Le donne calabresi in Africa

    Seppure avvezze a sopportare stenti e sacrifici le donne non esitavano a lasciare la loro terra quando intravedevano la possibilità di migliorare le loro condizioni di vita. Intorno alla metà dell’Ottocento, centinaia di donne della provincia di Cosenza partivano per l’Algeria e la Tunisia; quelle della provincia di Catanzaro, imbarcandosi a Pizzo, si recavano al Cairo o ad Alessandria d’Egitto. In Africa facevano soprattutto le balie ma lavoravano anche come domestiche, cameriere e stiratrici in case private e alberghi. Gli studiosi del tempo si mostravano scandalizzati da questo flusso migratorio che abbatteva la credenza secondo la quale le donne vivevano in condizioni di totale reclusione.

    Scalise scrive che si trattava di un ingente esodo di donne che, appena dopo il parto, lasciavano i figli e, col seno turgido e riboccante di latte, andavano a nutrire i nati delle anemiche inglesi che abitavano nel paese dei faraoni. Lo studioso rileva che, fatto insolito e quasi unico, nel 1881 in provincia di Catanzaro il numero dei coniugati presenti al momento del censimento era superiore a quello delle coniugate. E aggiunge il suo malizioso commento personale: le donne lontane, svolgendo un lavoro ozioso e gentile, belle e ben nutrite, arrotondavano i fianchi e non erano restie a concedere le labbra coralline al bacio spesso doppiamente adultero! Resta il fatto che il coraggio di queste donne lo colpisce persuadendolo che il sesso debole si dimostra forte quando ha la libertà di affermarsi. Scalise non è tra coloro i quali si scandalizzano per questa originale emigrazione, come aveva fatto l’economista francese Ovou in un suo articolo comparso sulla Revue des Deux Mondes.

    Le due Guerre mondiali

    Le donne calabresi erano coraggiose e spesso si ribellavano ai soprusi. Nella prima e seconda Guerra mondiale migliaia di popolane scesero in piazza per chiedere il rientro dei mariti dal fronte e per denunciare la penuria di generi di prima necessità, l’aumento indiscriminato dei prezzi, l’inadeguatezza dei sussidi e la mancanza di assistenza alle famiglie.

    Sventolando bandiere tricolori giravano per le vie e con loro portavano i figli per rendere la manifestazione più rumorosa e scoraggiare l’uso delle armi da parte dei soldati. A volte queste rimostranze sfociavano in episodi violenti, come occupazioni di municipi, saccheggi di negozi, aggressioni agli amministratori e ai «milionari» che non davano un centesimo per i bisognosi e ingrassavano speculando sulla guerra.

  • Enodotti, sbornie killer e tanto aceto: il vino calabrese tra mito e storia

    Enodotti, sbornie killer e tanto aceto: il vino calabrese tra mito e storia

    Il vino che si produce oggi in Calabria è di ottima qualità e non paragonabile a quello del passato. In un saggio sull’economia campestre del 1770, poiché l’industria enologica locale produceva vino cattivo, Grimaldi auspicava che i proprietari introducessero nelle loro terre fattoj alla francese e assoldassero vignaioli forestieri.

    Questi esperti avrebbero dovuto insegnare come impiantare le vigne, scegliere i vitigni, il tempo per vendemmiare, il modo per raccogliere, spicciolare e spremere le uve, la durata per la fermentazione del mosto nei tini, le modalità d’imbottare il vino, colarlo, trasmutarlo, governarlo e conservarlo. Tutte queste cose in Calabria si facevano arcaicamente e al «rovescio». E così i vini erano fumosi, torbidi, malsani, perniciosi, spiacevoli, di poca durata e inadatti al trasporto.

    Aceto un po’ ovunque

    Nell’Inchiesta Murattiana si legge che alcuni vini della regione erano buoni e rispondevano «ai gusti della digestione» ma la maggior parte erano scadenti perché prodotti senza nessuna arte. Le varie specie di uve che avevano diversa maturazione si raccoglievano insieme e si pigiavano nei palmenti a piedi nudi senza togliere raspi e acini corrotti. In un saggio sull’agricoltura calabrese del 1848, Tucci scriveva che la produzione vinicola era condotta con metodi allo «stato dell’infanzia».

    La piantagione dei vitigni si eseguiva barbaramente. Non si concimava il terreno, non si effettuava la potatura. Le uve erano sostenute da pali che cadevano al primo soffio di vento. Le varie uve erano raccolte insieme e messe alla «rinfusa» nei tini, cosicché una parte era guasta e un’altra acerba. Non si effettuava una selezione dei grappoli «viziati», gli strettoi erano arcaici, le botti inadatte e il vino diventava aceto.

    Nostalgia canaglia

    In alcuni libri di cucina si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. Il fatto che un tempo i prodotti agricoli fossero meno soggetti a trattamenti, però, non implica che il cibo fosse più buono, sano o genuino. Il pane era così duro che per consumarlo bisognava bagnarlo, il vino così aspro e torbido da provocare vomiti e mal di testa, l’olio così rancido e puzzolente da essere buono solo come combustibile.

    Le autorità intervenivano senza sosta per impedire la vendita nelle fiere e nei mercati di frutti acerbi, grani marci, pani trattati con sostanze dannose, pesci putrefatti, carni di animali morti per malattie e vini adulterati con sostanze velenose. Anche in passato erano diffuse pratiche di sofisticazione degli alimenti e alcuni di questi, come il vino, erano talmente adulterati da provocare gravi malattie o condurre alla morte.

    Il vino taroccato

    Nel Settecento il vino subiva tali livelli di sofisticazione che, per i frequentatori delle cantine, da «balsamo della vita» diventava «bevanda di morte». Grossisti, negozianti e tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità aggiungevano acqua e, per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti, introducevano nelle botti «droghe malefiche». I vini prodotti a volte erano manipolati con vari ingredienti «per farli somigliare a quelli forestieri»; quelli di scarsa qualità, trattati con varie sostanze chimiche, diventavano forti, frizzanti, dolci e dal colore intenso.

    Nel 1849 uno studioso di Cirò annotava che, per soddisfare i clienti che da qualche anno ricercavano un vino rosso cupo, brillante e spiritoso, i produttori non esitavano a mettere nelle botti scorze di quercia, sugo di more e altre materie coloranti. Si utilizzavano zolfo, arsenico e gesso per rendere i vini durevoli; acquavite, sidro e alcool per aumentarne gradazione e sapore; allume, colla di pesce, chiare d’uova e gelatine animali per farli diventare meno torbidi; cenere, calce, potassio, rame e piombo per correggerne l’acidità; vetriolo, allume e ferro per mutarne il sapore; sandalo rosso, zucchero abbrustolito, bacche di sambuco, more e mirtilli per dare colore.

    Annate da evitare

    Negli anni in cui i vitigni erano colpiti da malattie o distrutti dalle intemperie, per soddisfare la forte richiesta, sul mercato circolavano clandestinamente vini completamente artificiali prodotti mischiando acqua, alcool, cremore di tartaro e coloranti vari. I vini adulterati provocavano «avvelenamenti saturnini», violenti dolori intestinali, palpitazioni di cuore, soffocazioni, ansia, tremori, vertigini, vomito, debolezza, perdita d’appetito, ubriachezza, malattie nervose. A volte, persino paralisi degli arti e morte. Le autorità difficilmente riuscivano ad individuare i vini contraffatti e i consigli degli esperti per accertare la presenza di sostanze tossiche erano inutili perché richiedevano l’uso di gabinetti scientifici.

    Mito e storia

    L’amore per la propria terra spinge spesso a scambiare il mito per storia. In alcuni opuscoli pubblicitari si legge che il vino prodotto a Cirò è l’antico Krimisa che si offriva agli atleti di ritorno dalle Olimpiadi 2.500 anni fa. Si sostiene che lo stesso Milone, vincitore di sei gare nella lotta, fosse un gran bevitore di Krimisa e, citando Teodoro di Ierapoli, riuscisse a ingurgitare dieci chili di carne, dieci di pane e tre boccali di vino. I Greci approdati sulle coste dello Jonio chiamarono la Calabria Enotria, terra del vino, e si racconta che se ne producesse così tanto che a Sibari, per facilitarne il trasporto, furono costruiti “enodotti” che dalle colline arrivavano al porto.

    Una statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi
    Una statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi

    È difficile credere che Milone mangiasse venti chili tra carne e pane ad ogni pasto. Così com’è difficile credere che i Sibariti trasportassero il vino dalle colline al mare come si fa per metano e petrolio. È difficile anche credere che nel territorio di Cirò per oltre venticinque secoli gli abitanti abbiano coltivato lo stesso vitigno e bevuto lo stesso vino. Nel 1792 Luigi Grimaldi scriveva che la concorrenza dei viticoltori forestieri aveva sconvolto l’industria vinicola nei territori di Cirò, Crucoli e Melissa. La necessità di aumentare la produzione aveva spinto i proprietari a piantare vitigni stranieri, con il risultato che il vino nuovo, pur adattandosi al gusto «grossolano» delle persone che ne facevano «stravizzo», era particolarmente cattivo e andava facilmente a male.

    Addio agli antichi vitigni

    La maggior parte degli antichi vitigni calabresi che davano un vino «squisitissimo», erano stati sradicati per piantare una specie importata, detta castiglione che, pur producendo uva in abbondanza, dava un vino di sapore «ordinario» e di «poco durabile qualità». Nel 1849, Pugliese annotava che, verso la fine del Settecento, le uve nere di Cirò erano aglianica, santa severina, lagrima, canina e piede longa e le bianche greca e pizzutella. Lo studioso, tuttavia, precisava che nel giro di cinquant’anni i proprietari avevano introdotto decine di uve straniere da mosto e da tavola.

    Le bianche da tavola erano:

    • moscarella
    • malvasia
    • agostarica
    • vesparula
    • zibbibbo
    • sanginella
    • duraca
    • nocellarica
    • uva pietra
    • corniola
    • zinna di vacca
    • zuccaro
    • cannella
    • catalanesca
    Vigneti a Cirò Marina
    Vigneti nella Cirò Marina dei giorni nostri

    Le bianche da mosto erano invece:

    • donna laura
    • greca
    • sprumentino
    • scilibritto
    • guarnaccia
    • pizzutella
    • scricciaruola
    • mantonico

    Le uve nere da tavola e da «stipa» erano damascena, duracina, pruna, cerasuola, testa di gallo, corniola, zinna di vacca, greco, ruggia o roja.
    Infine, quelle nere da mosto erano gaglioppo, piede longa, infarinata, lagrima, tenerella, sanseverina, canina e norella.

    “Patrune e sutta”

    Nella metà dell’Ottocento, secondo una statistica governativa, in 72 paesi della Calabria Citeriore il consumo di vino era discreto, in 76 era scarso e in 3 nullo. In genere si beveva in occasione delle feste o nelle 2.212 cantine sparse nella provincia e, non a caso, il redattore dell’inchiesta scriveva eloquentemente: «o niente o sbornia». Si consumava vino giocando soprattutto nelle taverne a patrune e sutta, padrone e sottopadrone. Colui che vinceva al tocco si chiamava padrone e poteva bere tutto il vino che voleva. Il sottopadrone, invece, poteva impedire di bere alla persona invitata dal padrone. Il meccanismo del passatempo era perverso e creava tra i partecipanti forte tensione, aumentata dagli effetti dell’alcol.

    In una prammatica della Gran Corte della Vicaria del 26 giugno 1756 si legge: «Il giuoco di Padrone e Sottopadrone è dell’istessa maniera, ma queste due sono le persone, che dispongono del chi deve bere. Onde coloro, che in tal gioco, anche vincendo, son privati per altrui strano capriccio del bere, resi corrivi, dando in escandescenza tale, che privati del vero lume della ragione promuovono delle risse, per cui sortiscono ferite, ed anche omicidj; anzi col tenersi dette bettole, e casini aperti quasi che le notti intere, maggiormente nella continuazione delle crapule si fomentano le occasioni a’ disordini, all’offesa del Sommo Iddio, e a tutte le altre discolezze, che possano immaginarsi, specialmente allorché sienvi donne che in tal luoghi per lo più si conducono o vi fan dimora». Visto l’andazzo, il gioco fu severamente proibito. Ma, a quanto pare, i provvedimenti non sortirono alcun effetto.

  • Peperoncino e Calabria, storia di un grande amore (nato male)

    Peperoncino e Calabria, storia di un grande amore (nato male)

    Il peperoncino oggi è considerato centrale nella tradizione culinaria calabrese e addirittura riconosciuto come simbolo dell’identità regionale. Nei dépliant delle pro loco si legge che è utilizzato fresco, sott’olio o in polvere in zuppe, salse, verdure, insalate e nei piatti a base di carne e pesce. Cuochi e pasticceri hanno inventato marmellate, liquori, cioccolata e caramelle a base di peperoncino. In ogni negozio campeggia la «bomba calabrese», un barattolo di pipariddi sott’olio corredato da involucro e miccia di cartoncino. In un trattato di cucina si legge che il frutto è così radicato nella regione da far pensare che la  sua prima patria sia stata la Calabria e non il Messico.

    Il festival del peroncino che si tiene ogni anno a Diamante
    Il festival del peroncino che si tiene ogni anno a Diamante

    A Diamante è nata un’Accademia nazionale che mira a diffondere la cultura del piccante calabrese nel mondo e che organizza il Campionato italiano mangiatori di peperoncino. Concorrenti provenienti da ogni regione, dopo aver superato le eliminatorie nelle varie delegazioni, seduti intorno a un tavolo dinanzi a un numeroso pubblico e un’attenta giuria, in trenta minuti si sfidano mangiando peperoncino, servito crudo e tagliuzzato in portate di cinquanta grammi.

    Da un’icona nasce l’altra

    Al peperoncino è legata anche la ’nduja, un insaccato morbido e cremoso prodotto a Spilinga e nell’altopiano del Poro con le carni più grasse del maiale. Alcuni sostengono che somiglia alla sobrassada degli spagnoli e per altri al salam dla duja piemontese, un salume di carni suine immerso nello strutto che lo rende a lungo morbido. Altri, infine, ritengono che la ‘nduja, simile all’andouille, realizzata con la carne di maiale, sia stata introdotta dai francesi durante l’occupazione della regione agli inizi dell’Ottocento.

    La ‘nduja ricorda anche la nnuglia o nnoglia, una sorta di salsicciotto bislungo da bollire nella minestra, diffuso nelle regioni meridionali. In un trattato del Settecento si legge che era composta essenzialmente di «carni nervose, ventri ed altri interiori tritati», conditi con sale, finocchio, pepe, aglio e altri ingredienti. Tale salame era chiamato anche il pezzente ed essendo un cibo di «vil prezzo», ad un «balordo» si soleva dire «si no piezzo de nnoglia».

    'Nduja di Spilinga
    ‘Nduja di Spilinga

    Grimaldi nel 1770 scriveva che, nonostante i maiali calabresi vivendo allo stato brado e cibandosi di ghiande avessero una carne pregiata, «per l’ignoranza e la negligenza» della popolazione lardi, prosciutti, mortadelle e salsicciotti «marcivano, erano tristi e di poca durata». Negli anni seguenti, grazie alle proprietà conservanti del peperoncino, si diffusero nella regione insaccati come la ‘nduja, prodotto che da qualche tempo è diventato una sorta di icona della cucina regionale.

    Un inizio difficile

    Sembra che calabresi e peperoncino siano stati sempre uniti da un profondo legame, ma in realtà nei suoi confronti vi sono state resistenze e cautele.
    Come tutti gli altri prodotti «americani», il peperoncino si affermò in maniera lenta e tormentata. Campanella accennava alle proprietà medicinali del piper rubrum indicum ma, nei trattati di agricoltura, nelle inchieste agrarie e nelle monografie sulla Calabria non si fa menzione della sua coltivazione. Il peperoncino era ritenuto un frutto «ulcerativo» e alcuni esperti del Cinquecento avvisavano i lettori che si trattava di un cibo dannoso e «volgare». Soprattutto i semi, simili a lenticchie, «abrusciavano valorosamente lingua, bocca e palato».

    Un secolo dopo, pur raccomandando di non mangiarlo spesso perché «noceva molto», Benzo e altri riconoscevano che il peperoncino avrebbe avuto un notevole successo perché sostituiva bene il pepe nero, correggeva la frigidità dei cibi e, scaldando lo stomaco, favoriva la digestione. In un trattato del 1792 su alcune piante straniere introdotte in Italia, si legge che il capsicum frutescens o peperoncino fruticoso era rarissimo e presente nei giardini botanici da pochi anni.

    Peperoncino contro il mal di denti

    La pianta aveva un gusto acre e il frutto e i semi erano piccanti più di qualsiasi altro vegetale: un piccolo peperoncino, o anche una sua porzione, causava pizzicori, starnuti e un tremendo bruciore in tutta la cavità della bocca e del naso. Mangiandolo, specie per chi non vi era assuefatto, provocava forti irritazioni all’intestino e infiammazioni «parziali e universali». Utilizzato per lenire il mal di denti e curare le febbri terzane e quartane, il peperoncino era così mordace che, ridotto in polvere, lo si metteva tra i panni per uccidere le tarme.

    In cucina se ne doveva fare un uso moderatissimo e servirsene «non per nutrimento ma per condimento», aggiungendovi preferibilmente un «acido» per correggerne la troppa acrimonia. Gli stessi «indiani» lo utilizzavano con parsimonia per condire carne e pesce e ne facevano una salsa, mil-tomatl, per stimolare l’appetito e facilitare la digestione.

    Al posto del pepe nero

    Verso la fine del Settecento, per il suo colore rosso brillante, nelle regioni settentrionali il peperoncino si piantava nei giardini. In quelle meridionali, invece, si usava in luogo del costoso pepe nero e i contadini, per colazione, preferivano un pepajolo alla cipolla e all’aglio. Particolarmente apprezzato era quello dall’estremità ricurva a «guisa di becco di corvo». Pur «abbruciando la gola e provocando starnuti» se ne faceva grandissimo uso nelle pietanze perché favoriva l’appetito, «dissipava il vento» e fortificava lo stomaco.

    Nel 1804, Columella annotava che i peparuoli delle province napoletane erano dolci o forti. Tra i primi quelli spagnoli rossi e gialli, tra i secondi i verdastri, a torno e a ciliegia. Raccolti acerbi, si usava farli appassire, metterli nell’aceto e utilizzarli durante l’anno per aguzzare l’appetito e rendere saporose le minestre. I peperoncini a becco di corvo, «di cui abusavano anche i ricchi», una volta seccati e «stritolati» erano adoperati in gran quantità in ragù, frittate, zuppe e salumi «per cui le malattie emorroidali erano frequentissime».

    “I pipi di Riggiu”

    Secondo un’inchiesta sull’alimentazione del popolino napoletano, i peparuoli erano di quattro varietà: chiochiaro, lungo, spagna e cerasuolo. Quest’ultimo, detto anche «pepe cornuto», piccolo e amarissimo, si disseccava per essere utilizzato in inverno come condimento nelle minestre di verdure e legumi.
    Giuseppe Pasquale scriveva che piraparoli a ceraso, pipi infernali e pipi a cuornu si coltivavano in gran quantità nei distretti di Rosarno e Reggio e che i contadini «non mangiavano vivanda senza i peperoni arzentissimi». Erano sempre alla ricerca di quelli più piccanti e ne facevano tale abuso da pregiudicare la sanità dell’intestino.

    Nel 1848, Pugliese osservava che quattro o cinque peperoni verdi conservati in aceto, conditi con olio e serviti in un piattello con un pane, costituivano il pranzo dei contadini. Padula racconta che nei villaggi del Tirreno cosentino il lardo della povera gente era una scorta di peparuoli: il bracciante ne buttava un «pugnello» nel piatto, li condiva con olio e sale e li mangiava con il pane. Gli orti lungo la costa erano pieni di peperoni e peperoncini e, una volta seccati, i padroni li usavano per pagare la fatica dei giornalieri. Grazie al clima favorevole le piante crescevano bene e, particolarmente apprezzati, erano i pipi di Riggiu, esportati freschi o essiccati in grandi quantità nella vicina Sicilia.

  • Il marinaio e la scrittrice che non avevano mai visto il presepe

    Il marinaio e la scrittrice che non avevano mai visto il presepe

    Philip James Elmhirst, marinaio scelto della marina inglese, fatto prigioniero nel 1809 in seguito a un naufragio, nel suo diario annotava che non riusciva a comprendere perché i calabresi in prossimità del Natale allestivano ciò che chiamavano «presepe»: «All’avvicinarsi del Natale, in ogni chiesa si usa costruire una rappresentazione della nascita di Cristo chiamata presepe, con una piattaforma di tavole larga dai dodici ai sedici piedi quadrati, poggiata su cavalletti, sulla quale si mette una certa quantità di argilla per modellare montagne e altri elementi che ricordino Betlemme e la regione circostante. Il tutto viene coperto di erba, muschio e piante sempreverdi. Dappertutto si mettono casette di quelle che i bambini usano per i loro giochi. Attorno alla stalla e alla mangiatoia vengono disposte statuine di santi, pastori, buoi e pecore di terracotta».

    A stupirlo era soprattutto quanto accadeva il 24 e il 25 dicembre. «Alla vigilia di Natale si depositano nella stalla le statuine della Vergine Maria e del bambino fatte di cera bianca e riccamente vestite di mussola e oro. Il giorno di Natale, durante la cerimonia religiosa, un sacerdote prende l’immagine del bambino e la porta in giro per la chiesa. I fedeli cantano inni di giubilo, con l’accompagnamento della musica sacra. La cerimonia si svolge nella massima devozione, anche se appare più ridicola che solenne, e più frivola che suggestiva».

    I presepi di Cosenza

    Qualche anno dopo Emily Lowe scriveva sui presepi di Cosenza: «Le altre chiese erano piene di gente in adorazione dei Magi, né c’è da meravigliarsi perché quei sovrani orientali erano magnificamente vestiti e sistemati. Nella zona più in vista dell’edificio sacro erano state innalzate colline che imitavano quelle naturali, coperte di alberi e attraversate da strade, e sulle quali si arrampicavano piccole figure di uomini, donne e bambini, tutti diretti in un punto dove c’erano vacche al pascolo. Lì, un bambino stava fra le braccia di una giovane donna piegata su una mangiatoia e incoronata da un diadema in miniatura, mentre riceveva gli omaggi di tre ricchi sovrani seguiti da servitori carichi di doni».

    L’inglese ne era entusiasta, tanto quanto i cosentini. «L’effetto era tanto curioso quanto bello; i presepi, come sono chiamati questi dolci fatti dai preti per la vigilia dell’Epifania, erano uno più gustoso dell’altro. Uno era interamente composto di argille cristallizzate di vari colori e sormontato da un castello di fronte al quale zampillava una fontana circondata di fiori. Sullo sfondo si vedeva un’aia popolata da capre, galline e piccole anatre, mentre lungo la strada che scendeva verso la grotta della natività c’era una trattoria dove potevano rifocillarsi i pellegrini, fra cui compariva il re di Spagna in speroni e gorgiera assieme a graziose signore in vesti dorate. Questo complesso scenario, illuminato di notte da lampade di vari colori, mandava in visibilio il popolo».

    Notti magiche

    La tradizione del presepe è rimasta viva nella popolazione, ma altre ritualità e credenze non ci sono più. In passato la notte di Natale era considerata magica: gli animali parlavano, gli alberi davano frutti e dalle fonti scorreva miele. In alcuni paesi si credeva che l’acqua attinta a mezzanotte era efficace per arrecare ricchezza, felicità e salute. Le donne che andavano a prendere l’acqua muta in quell’ora misteriosa non dovevano riconoscersi e si coprivano con un panno nero camminando sole e in silenzio.

    La tradizione voleva che dopo la mezzanotte la Madonna entrava nelle case per asciugare al fuoco i pannolini di Gesù e assaggiare il cibo rimasto. Per questo motivo, si lasciava la tavola apparecchiata e il camino acceso sino al mattino. Per la sera di Natale si preparava il pane nataliziu, su cui erano raffigurate croci e attrezzi agricoli. Si poneva al centro della tavola, il contadino lo benediceva, lo spezzava e lo distribuiva alla famigliola. In paese si sentiva il suono e il canto degli zampognari. E alcuni di loro con sandali, calzettoni di lana, calzoni corti, giubbotto di pelle e cappelli acuminati adornati di nastri, muniti di zampogne e clarini, andavano a Napoli per suonare in case, chiese e botteghe.

    La festa del consumismo

    Molti lamentano che le tradizioni del Natale si sono perse e insieme a loro l’incanto che caratterizzava la festività. Affermano che ormai è diventata un evento consumistico e lanciano anatemi contro regali, sprechi e abbondanza dei pranzi natalizi. Hanno nostalgia del tempo andato, ma le feste cambiavano anche in passato. Il presepe, ad esempio, è una tradizione legata a san Francesco d’Assisi che nel 1223 realizzò a Greccio la prima rappresentazione della Natività dopo aver ottenuto l’autorizzazione da papa Onorio III.

    È sbagliato confinare le tradizioni del mondo popolare nel campo di una storia immobile, considerarle come un semplice terreno di persistenze arcaiche. È ingenuo pensare che la cultura tradizionale si riproduca di generazione in generazione senza un disegno, che si acquisti senza sforzo sin dalla nascita. Spesso si pensa alla memoria di una comunità come un organismo dotato di uno spirito unico, un crogiolo che contiene i ricordi di tutti. In realtà accade spesso che gruppi d’individui non trasmettono le loro esperienze alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano e di altri si perda ogni traccia.

    presepe-i calabresi
    La Natività di Giotto proiettata sulla facciata della basilica di Assisi
    Memoria e oblio

    Gli uomini non sono in grado di ricordare tutto, ma neanche di dimenticare tutto: memoria e oblio vanno insieme, l’una non può fare a meno dell’altro. Ricordare e dimenticare è frutto dell’incessante lavoro d’invenzione e reinvenzione della memoria, risultato di continui scontri e patteggiamenti, tanto a livello individuale che collettivo, tra ciò che bisogna ricordare e ciò che bisogna dimenticare.

    È opinione diffusa che nelle società tradizionali il ricordo fosse legato al mito e nella società moderna, invece, alla storia; che la memoria del passato fosse statica e quella dei giorni nostri sia dinamica. Si dà per scontato che nelle società premoderne la cultura fosse condivisa e immutabile e che nelle società moderne, invece, gli individui siano costretti a misurarsi con una realtà caratterizzata dall’avvicendarsi frenetico di eventi.

    Le società tradizionali, al contrario, erano tutt’altro che semplici e unite. Fra gli individui esistevano diversità e ricchezza culturale. Nei paesi esisteva una pluralità di memorie pari alla pluralità dei ceti sociali che le avevano generate: ogni gruppo elaborava una propria immagine, aveva necessità di trovare continue conferme alla propria identità, operava una selezione di elementi per enfatizzare la propria diversità rispetto agli altri.

    Tradizioni e miti cambiano

    Le tradizioni popolari si modificano: a volte possono sembrare salde e incontaminate, altre mutano bruscamente per rispondere a nuove sensibilità. In alcuni periodi storici credenze e valori prima dominanti cessano di esserlo, in altri si avvicendano tra sentimenti opposti, in altri ancora si sovrappongono o s’incastrano tra loro. La memoria subisce una continua metamorfosi e una reinvenzione. Gli individui e i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono diventati, ricordando il passato lo ricreano e gli attribuiscono un senso in relazione alla loro idea del presente.

    Le credenze si tramandano di generazione. Non sono una ripetizione statica del passato, ma un’interpretazione in cui è prevista la variazione. Adeguandosi alle diverse strutture economiche e sociali, assumono forme e contenuti in relazione alle ansie e ai bisogni ai quali gli uomini devono far fronte. Il carattere di un popolo è plasmato dalla tradizione che si è formata attraverso le passate generazioni e trasmessa alle nuove, ma le antiche stratificazioni tendono ad essere modificate o sostituite.

    Le società sono sottoposte a nuovi condizionamenti culturali e materiali. Gli uomini creano un’immagine di sé e in essa si riflettono, ma lo fanno anche e soprattutto in relazione ai bisogni concreti. Quando i miti non rappresentano più un elemento vitale per la comunità cessano di esistere; alcuni si modificano, perdono di senso e riaffiorano in altri miti.