Autore: Giovanni Sole

  • Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    All’alba del 15 marzo 1844, un centinaio di patrioti cosentini attraversò in armi le vie del centro al grido di «Viva la libertà!». Sventolavano con orgoglio una bandiera tricolore attaccata a una canna.
    Giunsero al palazzo dell’Intendenza e cercarono di abbatterne il portone con accette. A questo punto intervenne un reparto di soldati a cavallo e vi fu un aspro conflitto a fuoco. Caddero alcuni soldati, tra cui il capitano della gendarmeria Vincenzo Galluppi, e, fra i sovversivi, Francesco Salfi, Michele Musacchio, Giuseppe Filippo e Francesco Coscarella.

    Qualche tempo dopo, il 16 giugno, i fratelli Bandiera e altri rivoltosi, sbarcarono nei pressi della foce del Neto. Ma furono accerchiati e fatti prigionieri sulla via verso Cosenza.
    Il 25 luglio Nicola Ricciotti, Domenico Moro, Anacarsi Nardi, Giovanni Venerucci, Giacomo Rocca, Francesco Berti, Domenico Lupatelli, Attilio ed Emilio Bandiera furono fucilati nel Vallone di Rovito. L’11 luglio erano stati condannati a morte i patrioti cosentini Pietro Villacci, Giuseppe Franzese, Nicola Corigliano, Sante Cesareo e Raffaele Camodeca.

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    Da sinistra: i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera

    Mazzini celebra i fratelli Bandiera

    Giuseppe Mazzini dedico all’episodio una pagina importante, scritta a caldo: «Molti fra voi vi diranno, lamentando ipocritamente il fato dei Bandiera e dei loro compagni alla bella morte, che il martirio è sterile, anzi dannoso, che la morte dei buoni senza frutto di vittoria immediata incuora i tristi e sconforta più sempre le moltitudini … Non date orecchio, o giovani, a quelle parole … Il martirio non è sterile mai».

    Già, proseguiva il rivoluzionario genovese: «Il martirio per una Idea è la più alta formula che l’Io umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione; e quando un Giusto sorge di mezzo a’ suoi fratelli giacenti ed esclama: ecco, questo è il Vero, ed io, morendo, l’adoro, uno spirito di nuova vita si trasfonde per tutta quanta l’Umanità, perché ogni uomo legge sulla fronte del martire una linea de’ proprj doveri e quanta potenza Dio abbia dato per adempierli alla sua creatura. I sacrificati di Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l’Uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl’Italiani sanno morire … Io vi chiamo a combattere e vincere: vi chiamo a imparare il disprezzo della morte e a venerare chi coll’esempio ha voluto insegnarvelo, perché so che senza quello voi non potrete conquistar mai la vittoria».

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    Giuseppe Mazzini, l’apostolo del Risorgimento

    Eroi tragici

    I patrioti giustiziati a Cosenza sono diventati eroi tragici: uomini che si erano battuti contro forze soverchianti per una causa giusta fino alla fine.
    Senza chiedere nulla in cambio, avevano ingaggiato una lotta disperata per la patria e la libertà contro un potente nemico. La loro morte era una vergogna per l’umanità. I loro corpi non vennero adagiati su un letto funebre, ma su una carretta. Non vennero lavati ma rimasero sporchi di sangue. Né vennero offerti al compianto dei loro familiari ma nascosti dal nemico. Non ebbero solennità, ma furono sepolti in una fossa comune.

    Don Chisciotte e Sancio Panza

    Quella drammatica spedizione ha comunque reso immortali i fratelli Bandiera e i loro seguaci. Gli studiosi collocano la loro vita nella storia e la interpretano con la ragione.
    Gli uomini, invece, la collocano nel mito e la interpretano tramite l’amore.
    I martiri cosentini sono più vicini agli uomini di quanto si pensa. A volte siamo spinti a credere che nel mondo vi siano dei don Chisciotte o Sancio Panza. I primi sono prigionieri dei loro sogni e si sacrificano per affermarli, i secondi sono prigionieri della felicità materiale e vivono per soddisfarla. I primi sono mossi da una natura spirituale che li spinge all’azione e al sacrificio, i secondi da un empirismo animale che li spinge all’ozio e ai piaceri.

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    Don Chisciotte e Sancho Panza

    Rivoluzione vs (auto)conservazione?

    Forza attiva e rivoluzionaria quella dei primi, forza passiva e conservatrice quella dei secondi. In realtà nessun uomo si riconosce completamente in Don Chisciotte o in Sancio Panza. Tutti, invece, si aggrappano sia alla poesia sia alla materia, impulsi naturali che esistono indipendentemente dalla loro volontà.
    Gli uomini si commuovono pensando ai patrioti caduti a Cosenza nel 1844 perché avevano combattuto per quell’amore di giustizia che il più delle volte rimane nascosto perché non si ha il coraggio di mostrarlo nell’agire.
    Gli storici hanno scritto che la spedizione dei fratelli Bandiera e dei loro compagni era votata a una inevitabile sconfitta. Inoltre, hanno detto che erano degli esaltati, isolati dalle masse e senza alcuna possibilità di successo.

    Due testimoni d’eccezione

    Un importante commento a caldo proviene dall’intendente De Sangro, recatosi a San Giovanni in Fiore Il 29 agosto 1844 per distribuire le ricompense di Ferdinando II ai catturatori.
    De Sangro disse che fra gli attentati strani e audaci della storia umana nessuno per follia era comparabile a quello compiuto dagli esuli di Corfù. Già: quei fuggiaschi giunti per sollevare la popolazione contro il Re erano in preda al delirio e al disordine mentale.

    Il secondo commento è di Cesare Marini, difensore dei patrioti. Marini disse nella sua arringa al processo: «Si vuol rovesciare un governo costituito, in estranea contrada, e lo si tenta con 21 esuli mancanti di tutto! Si vuol combattere il forte esercito del nostro re, che sorpassa i sessanta mila uomini, e s’impiegano non più che 21 fucili! Si vuol creare un nuovo politico reggimento che assicurasse di tutta Italia le sorti, senz’altri mezzi pecuniari che poche migliaia di ducati, senz’altra forza che 21 uomini privi di notizie, di rapporti, di aderenze e di nome in contrade ad essi sconosciute!».

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Quasi ironica la conclusione: «Signori, questo folle tentativo non diversifica punto dall’impresa ridicola di quel fanciullo che, con una ciotola attingendo acqua nel mare, intendeva ottenere il prosciugamento dell’Oceano, o dall’intrapresa di quel fanatico il quale, per via di alcune erbe abbruciate in sulla vetta dei monti del Peloponneso e di alcuni esorcismi, intendeva produrre la peste in Atene!».

    Non visionari ma eroi

    Marini era un avvocato e il suo compito era difendere gli imputati, anche invocando una specie di “semiinfermità”.
    Tuttavia, i fratelli Bandiera non erano dei visionari, non erano fuori dalla storia, non piegavano la realtà ai loro sogni. Soprattutto, non credevano che i mulini a vento fossero giganti o le mule dei frati dromedari.
    Un eroe, uomo diverso dagli altri per le sue qualità non comuni, diventa tale solo se rientra nei sentimenti e nella mentalità della sua epoca.
    I fratelli Bandiera e compagni erano espressione delle aspirazioni sociali, politiche e intellettuali del loro tempo. L’eroe realizza nella forma più nobile le virtù ideali di un’intera nazione. E concretizza con l’agire ciò che nella gente è solo un’idea, con le sue imprese memorabili, nutre e arricchisce il suo popolo.

    Il sacrificio e l’esempio

    Il dramma dei patrioti cosentini ha commosso l’intera Europa.
    La sincerità delle intenzioni si rivela nei fatti: le parole, quando non si traducono in azioni, sono sempre ipocrite. Molti patrioti predicavano bene e razzolavano male: facevano grandi discorsi, ma quando dovevano scendere in campo, trovavano mille scuse.
    I patrioti di Cosenza erano diversi: predicavano la necessità di combattere e impugnarono il fucile nonostante gli ostacoli insormontabili e la soverchiante nemica.
    Quei sentimenti patriottici che avevano spinto migliaia di uomini e donne a combattere per nobili ideali non ci sono più.

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    L’ara dei Fratelli Bandiera a Cosenza

    C’è chi preferisce i barbari

    L’Unità d’Italia si è realizzata ma vasti settori dell’opinione pubblica del Nord e del Sud maledicono l’unificazione nazionale. E c’è chi sostiene che si stava meglio quando il Paese era diviso in tanti Stati. Ricordo che alle scuole elementari la maestra ci portava ogni anno nel Vallone di Rovito per raccontarci la storia di quei giovani che avevano sacrificato le loro vite per la nostra libertà. Da molti anni, invece, amministratori di destra e di sinistra preferiscono innalzare statue e organizzare eventi per esaltare e glorificare la figura di Alarico che era giunto in città per saccheggiarla. Che tristezza.

    Cosa resta del Risorgimento?

    Il Risorgimento rimane una delle pagine più belle della storia di Cosenza.
    Nella Calabria Citeriore migliaia di cittadini finirono a processo e i più subirono condanne enormi. In un verbale di polizia si legge che tra i patrioti del 1844, coinvolti nell’attacco al palazzo dell’Intendenza del capoluogo, ce n’erano alcuni vestiti da ricchi galantuomini e altri da umili contadini.
    Giovani di condizione sociale, cultura e paesi diversi si trovarono uno accanto all’altro per combattere in nome della libertà. L’amore per la patria, vaga aspirazione sentimentale, si tradusse nell’azione politica e non si arrestò davanti all’esilio, la prigione e il patibolo.

  • Polpo porcone: viagra dei mari

    Polpo porcone: viagra dei mari

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    Il polpo è una prelibatezza. In Calabria lo si prepara soprattutto ad insalata. Prima si eliminano occhi, becco e vescichetta, poi lo si cuoce in acqua bollente leggermente salata a fuoco molto basso. Non appena diventa tenero, si serve tagliato a tocchetti, con capperi, olive, pomodorini, foglie di basilico e peperoncino.

    Una cattiva fama

    Nel corso dei secoli, tuttavia, il cefalopode non ha goduto di buona fama. Anzi, era considerato di non facile assimilazione.
    Ad esempio, Galeno e i medici della scuola salernitana scrivevano che non bisognava mangiare polpi perché le loro carni legnose e fibrose, resistevano alla digestione e avvelenavano il sangue.
    Nei trattati di cucina in cui si davano consigli per vivere bene, si legge che i polpi incitassero alla incontinenza, erano poco nutrienti e particolarmente dannosi per lo stomaco.

    Pareri contrastanti

    Il polpo ha sempre affascinato gli uomini, che hanno espresso giudizi contrastanti. Aristotele e Plinio sostenevano che fosse un animale sciocco perché per curiosità si attaccava alle gambe del pescatore e si lasciava catturare.
    Era talmente tonto e avido da avvinghiarsi a una frasca d’ulivo trascinata dal fondo del mare fino a farsi tirare fuori dall’acqua.
    Eliano, invece, affermava che i polpi fossero animali intelligenti perché si acquattavano sotto le rocce, assumendone i colori per afferrare le prede. Giovio osservava che fossero talmente ingegnosi da mettere tra le valve delle ostriche una pietra per impedirne la chiusura.

    Un busto di Aristotele

    Il polpo fifone

    Secondo alcuni esperti il polpo era un animale vigliacco, che scappava di fronte alla minaccia, mimetizzandosi o spruzzando un liquido nero per intorbidire l’acqua. Serpetro scriveva che, essendo privo di vertebre, sangue e squame, fosse pavido e fuggisse dinnanzi ai nemici, rifugiandosi nella tana e alimentandosi dei suoi stessi tentacoli.
    Teofrasto aggiungeva che la sua pelle spugnosa e piena di fori cambiasse colore come quella di un camaleonte per la paura.

    Invece no: è tosto

    Per altri studiosi il polpo era, invece, un animale coraggioso e, quando raggiungeva una certa grandezza, conseguiva una forza tale da essere considerato una «tigre del mare». L’arcivescovo Olao Magno Gotho raccontava che fosse feroce, crudele, aggressivo e preferisse affrontare il nemico piuttosto che rinunciare al combattimento. Perciò aggrediva grandi pesci e spesso anche marinai, pescatori e palombari.
    Maier sosteneva che il polpo era il simbolo del coraggio: infatti era raffigurato nelle monete di alcune città della Magna Grecia per esprimere la forza e il carattere guerriero degli abitanti.

    Spendaccione o risparmiatore?

    Giovanni Fiore, ha interpretato una moneta di Thurio sui cui lati erano raffigurati un delfino e un polpo.
    Secondo lui il primo simboleggiava la volontà di girare per il mondo come un pellegrino. Al contrario, il secondo, attaccato tenacemente agli scogli, esprimeva la sedentarietà e la cura per i beni.
    Altri autori, invece, affermavano che il polpo fosse un dissipatore di sostanze e un divoratore senza ragione. Gli Egiziani, ad esempio, lo utilizzavano nei geroglifici per indicare chi era incapace di mantenere il frutto della propria potenza.
    Erasmo da Rotterdam sosteneva che la capacità del polpo di mimetizzarsi era un monito a non mettere al centro la propria cultura e a non disprezzare le altre.

    Erasmo da Rotterdam

    Il polpo secondo i santi

    San Paolo si era comportato come un polpo per evangelizzare e convertire gli ebrei, accettandone leggi e tradizioni.
    Per sant’Ambrogio, san Gregorio, san Basilio e altri santi predicatori, l’octopus era invece da disprezzare: un pesce molle senza fede e senza cuore, simile a quegli ignobili adulatori senza scrupoli, sempre pronti a mutar atteggiamento per compiere nefandezze e soddisfare i loro interessi venali.

    E secondo i saggi

    Eliano e Picinelli asserivano che il polpo fosse così avido e ingordo da non disdegnare gli esseri della sua specie e che mangiasse volentieri i suoi stessi tentacoli in mancanza d’altro cibo.
    Invece per Ateneo e Plinio le mutilazioni dei polpi erano dovute ai denti aguzzi di gronghi e murene che, grazie alla loro vischiosità delle membra, sfuggivano i tentacoli. Mirabella pensava che il polpo stampato sulle monete di Siracusa rappresentasse l’eterna lotta tra tirannia e repubblica.

    Bronzetti siracusani raffiguranti un polpo

    Il cefalopode simboleggiava, infatti, avarizia, ingordigia e superbia. Insomma, i vizi riscontrabili nel tiranno Dionigi che per anni aveva angariato i Siracusani.
    D’altro parere lo studioso Testa, secondo cui il polpo incarnava l’immagine della città siciliana. Era infatti immortalato assieme a una stella marina in alcuni piombi di navi mercantili, per simboleggiare che Siracusa fosse stata edificata su uno scoglio ove dimoravano i polpi.

    Il mollusco “porcone”

    Il polpo era considerato un animale “impuro” perché lascivo e libidinoso.
    Secondo gli Egiziani indicava un uomo incapace di staccarsi da una donna. E, secondo loro, solo l’erba pulicaria riusciva a farlo desistere dal coito.
    Si diceva che la bramosia sessuale spingesse i polpi ad accoppiarsi ripetutamente. Di più: erano così insaziabili che, anche dopo la cottura, rimanevano ben eretti sulla propria corona di tentacoli.

    Il polpo? Meglio del Viagra

    Chi mangiava polpi diventava più potente sessualmente. Giovio scriveva che questi molluschi si digerivano con difficoltà, creavano sangue impuro e tormentavano il fegato ma il loro «salsume» svegliava l’appetito di Venere. Il sugo e la carne dei polpi dissalati e bolliti gonfiavano il membro virile e ravvivavano la voglia sessuale persino tra i deboli.
    A Venezia i vecchi languidi e «mezzi morti» che desideravano procreare, acquistavano a caro prezzo i polpi essiccati o «invecchiati» dal sale che arrivavano da diversi porti del Mediterraneo.
    Anche le donne, per favorire il concepimento, inghiottivano pezzi di polpo ben caldi insieme a pastiglie composte di nitro, coriandolo e cumino.
    Le proprietà afrodisiache dei polpi spingevano i sacerdoti a considerarne le carni una minaccia per la salute di corpo e anima: la continua copulazione portava l’uomo alla rovina fisica e morale, così come accorciava la vita agli stessi cefalopodi.

    Troppo sesso fa male, anche ai polpi

    Plinio e altri scrittori affermavano che vivevano non più di due anni e che le femmine morivano di consunzione dopo la riproduzione.
    Il naturalista calabrese Minasi confermava che fosse proprio la brama sessuale a condurre alla morte i polpi prima del compimento di due anni.
    Per condannare la diffusa carnalità tra i fedeli, i predicatori cristiani usavano sempre la metafora del polpo che, spossato dai continui rapporti sessuali e senza forze, era preda dei nemici.
    Il citato Olao Magno Gotho scriveva che i polpi, per il veemente coito, si debilitavano al punto di farsi portar via dalle loro tane e divorare da fragili pesciolini.

    Pitagora proibiva ai suoi allievi di mangiare il polpo perché le sue carni spingevano alla copula. Come se non bastasse, vietava anche il consumo d’ortiche marine perché, bollite o fritte, anch’esse afrodisiache.
    I polpi a causa dei continui rapporti sessuali perdevano ogni forza e diventavano pavidi, mentre quando non copulavano erano dotati di vigore e coraggio al punto da assalire gli uomini.
    La brama sessuale portava alla morte e il polpo era catturato dai marinai sfruttandone la lascivia. In alcuni villaggi i pescatori calavano in acqua un polpo femmina attaccato a una corda, il maschio si avvicinava per congiungersi e i due cefalopodi, avvinghiati l’uno all’altro, erano tirati sulla barca.

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    Il polpo era addirittura additato come simbolo del demonio

    Polpo, padre dei vizi?

    Nel mondo antico il polpo incarnava le cattive abitudini degli uomini e i predicatori cristiani lo additavano come simbolo del demonio. Al contrario, in alcune città marinare era considerato una divinità e, presso alcuni popoli, alla nascita di un bambino per augurio si regalava un polpo alla puerpera.
    I polpi erano animali «doppi»: generatori e annientatori, pavidi e coraggiosi, fedeli e traditori, buoni e cattivi.
    Un proverbio antico diceva polypi caput per indicare quelle cose e quelle persone che non erano né tutte buone e né tutte cattive.

    Il polpo bifronte

    Il pensiero mitico va oltre il pensiero concettuale, gli opposti coesistono senza contrastarsi: sono aspetti complementari di una realtà unica.
    Il polpo indicava una zona di confine tra due mondi, il naturale e il soprannaturale, e tra due nature, la terrestre e la marina. Proprio questa convivenza degli opposti alimentava il suo mito. Era un ossimoro in cui i contrari si contrapponevano e si compenetravano: caos e ordine, visibile e invisibile vivevano l’uno accanto all’altro.

  • Vedi Cosenza e poi muori: la città ammazza re

    Vedi Cosenza e poi muori: la città ammazza re

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    Gli storici cosentini hanno raccolto nei secoli narrazioni utili per dare solide fondamenta all’identità cittadina.
    Il bisogno di infondere l’orgoglio di appartenenza a una comunità, li ha spinti a volte a inventare un passato glorioso e mitico. I caratteri originali della città vengono sottolineati sin dalla sua fondazione.

    La “pastetta” degli dei

    Cosenza era stata voluta dagli dei, che l’avrebbero protetta e resa immortale. Il suo territorio era pieno di ricchezze e i fiumi, soprattutto il Crati, possedevano acque miracolose. La città aveva una posizione felice e, come la grande Roma, era circondata da sette colli a cui erano legate varie leggende.

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    La statua di donna Brettia, la leggendaria liberatrice di Cosenza

    Condottieri a Cosenza: in principio era Ercole

    Uno dei miti sulla fondazione di Cosenza narra che Brettio, figlio di Ercole e di una ninfa acquatica, giunse alla confluenza del Crati e del Busento dopo un giro estenuante per tutta l’Europa.
    L’illustre rampollo si innamorò del luogo e vi edificò una città, che chiamò Brettia. Altre storie raccontano di Brettia, o Bruzia, donna giovane e coraggiosa che aveva aperto le porte della fortezza a nobili guerrieri lucani. Incoronata regina, governò tanto saggiamente che il suo popolo per riconoscenza diede il suo nome alla città.

    Guerrieri fieri e tosti

    I cosentini, in quanto discendenti dalla stirpe di Ercole e dei Bruzi, erano un popolo di fieri guerrieri, orgogliosi della loro indipendenza e della loro patria. Tutti quelli che avevano osato sfidarli avevano pagato un caro prezzo.
    Tre grandi condottieri dell’antichità, come testimoniavano le fonti storiche, vi avevano trovato la morte: Alessandro il Molosso re d’Epiro, Alarico re dei Goti e Ibn Ahmad Ibrahim, più semplicemente Ibrahim II, emiro saraceno.

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    Monete con l’effige di Alessandro il Molosso

    Alessandro il Molosso: prima vittima dei Bruzi

    Tito Livio narra che l’esercito di Alessandro il Molosso, giunto al confine tra il territorio dei Bruzi e dei Lucani presso Pandosia, dovette ritirarsi su tre alture a causa delle continue piogge. In tal modo, divise le truppe che non potevano aiutarsi a vicenda. Due colonne consegnarono vilmente le armi e passarono al nemico.
    Ma Alessandro, con un’impresa ardita, ruppe l’accerchiamento e uccise il capo dei Lucani.
    Le acque impetuose del fiume costrinsero lui e i suoi uomini ad affrontare un guado tanto pericoloso che uno dei suoi soldati, impressionato dalla tumultuosità delle acque, imprecò chiamandolo Acheronte.

    Nell’udire questo nome, il Molosso rammentò una profezia di morte che legava il suo destino al mitico fiume. Incalzato dai nemici non poté far altro che avanzare nelle acque infide. A quel punto, un soldato lucano lo colpì al petto con una freccia ed egli, caduto da cavallo, fu trascinato dalla corrente presso il campo dei nemici.
    Il suo corpo fu brutalmente tagliato in due parti: una fu inviata a Cosenza e l’altra trattenuta per essere orrendamente oltraggiata.
    Mentre i miseri resti erano bersaglio di pietre e dardi, una donna, piangendo disperata, pregò quei soldati rabbiosi di fermarsi: il marito e due suoi figlioli, prigionieri dei nemici, non sarebbero mai stati liberati per lo scempio che si stava compiendo sulla salma del re.
    Metà del corpo del Molosso fu quindi seppellito a Cosenza, l’altra metà rimandata in patria alla compagna Cleopatra e alla sorella Olimpiade.

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    Il funerale di Alarico

    Alarico: il barbaro eccellente

    Il racconto della morte di Alarico risale alla cronaca di Jordanès. Il re visigoto, dopo avere saccheggiato Roma, era sceso in Calabria per raggiungere Reggio, imbarcarsi con i suoi uomini per occupare dapprima la Sicilia e poi procedere alla conquista dell’Africa.
    Ma una tempesta nello Stretto distrusse le navi e costrinse i Visigoti a tornare indietro. Alarico morì improvvisamente a Cosenza e i suoi uomini lo seppellirono sotto il letto del Busento con l’armatura, il cavallo, il tesoro e gli schiavi che avevano deviato le acque del fiume e scavato la fossa.

    Ibrahim II l’esotico

    La fine di Ibrahim II è tramandata da diversi storici arabi e latini.
    Nel settembre del 902, l’emiro, dopo avere espugnato Taormina, attraversò lo Stretto e, alla testa dei suoi uomini, iniziò ad occupare la Calabria.
    I saraceni non incontrarono particolare resistenza e il primo ottobre giunsero a Cosenza attestandosi sulle sponde del Crati.
    Dopo ventidue giorni d’assedio, il feroce principe cominciò a soffrire di una terribile dissenteria e morì nello stesso mese. I capitani del suo esercito offrirono il comando al nipote Ziyadat Allah, il quale decise di tornare in Sicilia per seppellire l’avo.

    Miti e realtà: la parola alle fonti

    Non abbiamo motivo di dubitare della presenza di questi condottieri a Cosenza. Tuttavia, le fonti su cui sono state ricostruite le loro vicende sono scarne, poco credibili e contraddittorie.
    Nonostante ciò, gli storici locali le hanno accettate e liberamente manipolate arrivando spesso a conclusioni diverse e fantasiose.
    L’impianto che caratterizza i racconti su Alessandro il Molosso, Alarico e Ibrahim è sempre lo stesso: condottieri spietati e sanguinari trovarono a Cosenza la strenua resistenza di coraggiosissimi cittadini. Se questa non bastava, interveniva direttamente il castigo divino.

    Soldati saraceni in un dipinto d’epoca

    Una storia per creduloni

    La trama intessuta dagli storici locali sugli ultimi giorni di vita dei tre grandi condottieri a Cosenza era semplice e ingenua.
    Il Molosso, Alarico e Ibrahim, giunti da lontano per compiere le loro scorrerie, una volta in città morivano.
    Erano guerrieri temuti e conosciuti per la loro brutalità e la loro ferocia.

    L’arabo sanguinario

    Di Ibrahim II, ad esempio, si raccontavano, storie di smisurata efferatezza.
    Quando alcuni astrologi gli predissero la morte per mano di un fanciullo, fece uccidere tutti i paggi della sua reggia.
    Venuto a conoscenza che un eunuco aveva rubato un suo fazzoletto di seta, non sapendo chi fosse l’autore del furto, fece sopprimere tutti e trecento gli eunuchi della sua corte.
    Accecato dalla gelosia, fracassò il cranio di un fanciullo che amava e gettò nella fornace i sei compagni con cui viveva.

    Un giorno, fece trafiggere trecento ribelli berberi, strappò i loro cuori con le proprie mani e li fece infilzare in una funicella appesa come un festone su una delle porte di Tunisi. Mandò a morte ciambellani, ministri, cortigiani, segretari e assistette personalmente all’esecuzione di otto suoi fratelli.
    Faceva strangolare, murare vive e decapitare mogli e concubine e sopprimere tutte le figlie femmine. Condannava a morte coloro che rifiutavano di convertirsi: fece tagliare in due un cristiano che non voleva abiurare e appendere le due metà su pali.
    Comandò che i giudei portassero sulle spalle una toppa bianca a forma di scimmia e i cristiani una a forma di maiale. Inoltre, gli stessi dovevano appendere sull’uscio delle loro case tavole con questi animali dipinti.

    Condottieri e propaganda a Cosenza

    Gli storici cosentini volevano comunicare con le storie del Molosso, Alarico e Ibrahim un messaggio chiaro: mentre nelle altre città del Sud gli abitanti terrorizzati fuggivano vilmente davanti all’invasore, i cosentini, degni figli dei fieri Bruzi, affrontavano i nemici senza paura.
    Cosenza era una città di uomini liberi, sempre pronti a battersi contro coloro che volevano soggiogarla e, quando le forze del nemico erano soverchianti, poteva contare sul buon Dio che faceva morire i capi degli invasori.
    Potenti eserciti che avevano espugnato grandi città e fortezze, giunti a Cosenza, capoluogo vulnerabile e povero di abitanti, venivano fermati. I cosentini non solo riuscivano a proteggere la loro città, ma l’intera penisola dalla violenza di uomini rozzi e malvagi.

  • Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

    Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

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    Negli anni Cinquanta si assiste in Calabria a un grande successo del cinema. Già durante il fascismo i calabresi andavano in massa a vedere i film che si proiettavano nelle piazze: gli operatori dell’Istituto Luce arrivavano con un furgone, sistemavano un telone bianco sulla facciata di una casa e proiettavano pellicole di propaganda del regime. Nel dopoguerra le sale cinematografiche erano sempre affollate e molti spettatori, a volte costretti a stare in piedi, visionavano una pellicola anche due o tre volte.

    Il cinema sbarca in Calabria

    Nell’inverno del 1949 a San Giovanni in Fiore fu girato Il lupo della Sila e per diversi giorni gli abitanti ebbero occasione di vedere attrici e attori famosi come Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari e Jaques Sernas. La simpatia e le attenzioni dei giovani sangiovannesi era tuttavia rivolta alla bellissima Silvana Mangano, la star reduce dallo straordinario successo di Riso amaro. Il film, diretto da Coletti, su soggetto di Steno e Monicelli, voleva avere una impronta realista e una sensibilità etnografica. In realtà, però, si tratta di un cupo melodramma che ripropone l’immagine del calabrese geloso e vendicativo e tradizioni popolari inventate come la gara del taglio degli alberi.

    Dalla Sila all’Apromonte

    Il lungometraggio ebbe un discreto successo e l’anno seguente Ponti e De Laurentiis producono Il brigante Musolino. Dalla Sila si passa all’Aspromonte ma i temi che caratterizzano la nuova pellicola sono gli stessi della precedente. Il protagonista personifica i caratteri stereotipati del calabrese: forte, spietato, violento, vendicativo e sanguinario. I delitti del romantico giustiziere si susseguono, lo scenario sociale è assente e il brigante si pone al di fuori della sua comunità, vittima di stato, mafia e chiesa. Calabresella viene cantata sia al matrimonio che durante la vendemmia.

    I calabresi come barbari

    Il lupo della Sila e Il brigante Musolino fornivano un’immagine negativa dei calabresi: genitori che per interesse sacrificano le figlie, gente che tradisce per paura e interesse, giovani irruenti, passionali e pronti a prendere il fucile per qualsiasi controversia e difendere l’onore della famiglia. I film, tuttavia, non suscitarono proteste e solo alcuni cortometraggi come Calabria segreta di Vincenzo Nasso furono aspramente criticati. Giornalisti e intellettuali calabresi rimproverarono al regista di avere rappresentato una immagine falsa della regione.

    Miceli scriveva che, dopo aver visto il documentario prodotto dalla Rai, era rimasto molto deluso e amareggiato. Si trattava di un film di «pessimo gusto» che rivelava una spaventosa ignoranza della regione. Il regista «supercivile», con duelli feroci e balenio di coltelli, presentava i calabresi come barbari, ignorando che la Calabria non era stata patria del banditismo e che il popolo era buono e laborioso, semplice e onesto, amante della famiglia, della casa e della patria. Anche la “Baronessa scalza” criticava su un giornale cosentino il cortometraggio definendolo una produzione cinematografica «nauseante» per aver presentato i calabresi come feroci e primitivi.

    L’altro cinema in Calabria

    Non tutti i cineasti condivisero le scelte dei grandi produttori cinematografici. Negli anni Cinquanta alcuni registi realizzarono documentari sulla realtà economica, sociale e culturale della regione. I calabresi e la Calabria si prestavano bene a tradursi in forme artistiche e alla sperimentazione cinematografica. Pescatori che cacciavano il pescespada con tecniche millenarie in un mare azzurro e trasparente, fedeli che si flagellavano con pezzi di vetro spargendo sangue lungo i vicoli dei paesi e donne che raccoglievano olive ai piedi di alberi secolari avvolti dalla nebbia, erano soggetti e luoghi ideali per girare un film.

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    Roma, l’ingresso degli studios di Cinecittà

    I contadini segnati dalla fatica e ammantati con panni consumati dal tempo, apparivano più interessanti di attori del grande cinema dalle facce regolari e vestiti con abiti inamidati provenienti da atelier; i paesi e le case abbarbicati su luoghi aspri e inospitali, le campagne arse dal sole, le montagne coperte da boschi impenetrabili erano più avvincenti dei paesaggi freddi e irreali costruiti negli studios di Cinecittà.

    I documentari e la cura per le immagini

    Alcuni registi erano affascinati da quella regione che ai loro occhi appariva come un luogo mitico, dove la natura era incontaminata e dove gli uomini vivevano in maniera semplice. Erano attratti da quella terra arcaica e spesso eliminavano ogni riferimento al reale che potesse inquinare il pathos della pellicola. A volte ricostruivano i rituali con attori di strada per renderli più spettacolari e drammatici. Lo stesso De Seta, il più bravo e originale tra i documentaristi, nel cortometraggio I dimenticati, per riprendere la festa dell’albero ad Alessandria del Carretto, chiese ai paesani di ricostruire alcuni momenti del rito.

    Gli autori dei documentari filmavano la Calabria che avevano già in mente. Puntavano su immagini suggestive che suscitassero meraviglia e catturassero l’attenzione degli spettatori. Accompagnavano le sequenze con voci declamatorie. Utilizzavano colonne sonore per drammatizzare le scene. Davano al montaggio un senso di ansioso reportage. Eliminavano tutto ciò che era ritenuto scarsamente cinematografico. Erano particolarmente attenti alle inquadrature e alla cura della fotografia. Le immagini “dovevano parlare da sole”. In un fotogramma o in una sequenza dovevano essere rappresentati cultura, passioni e lavoro di un popolo.

    La Calabria onirica al cinema corto

    Spesso finivano per creare un’atmosfera onirica, fatta di volti e gesti antichi, sguardi immobili, luoghi irreali e selvaggi. Immagini belle sul piano filmico ma inventate e astoriche. I registi del “cinema corto” documentavano il reale ma al tempo stesso ne offrivano una visione lirica, cinematografica nel senso classico. Esigenze estetiche li spingevano a vedere solo la parte arcaica della Calabria e a ignorare quella che si stava trasformando per effetto della modernizzazione. Preoccupazioni stilistiche li spingevano a disinteressarsi dei forti cambiamenti che si verificavano nelle campagne, a non tenere conto del fatto che la logica del profitto stesse annullando le diversità culturali, a sottovalutare il senso di sradicamento presente in larghi strati della popolazione, a non vedere che la cultura dei calabresi si stava trasformando.

    Qualcuno criticò tali documentari ricordando che la Calabria non era una terra semplice in cui gli uomini si accontentavano di mangiare e dormire, dove vigeva la logica della sopravvivenza, dove non c’erano momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario, dove c’era una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tutti si omologavano.
    I registi di documentari e cortometraggi ebbero comunque il merito di rifiutare trionfalismo, conformismo ed etnocentrismo con cui i colleghi del grande cinema avevano ripreso e riprendevano la Calabria.

    Antico vs Moderno

    Nelle loro pellicole non si vedono i volti felici di contadini che mietono il grano dei cinegiornali, ma visi scavati dalla fatica e dal sole; non più campagne ridenti e fertili, ma terre spaccate dall’arsura e allagate dai fiumi; non più paesi pittoreschi abbarbicati su incantevoli paesaggi, ma centri urbani fatiscenti e abbandonati all’incuria del tempo. Contadini, pescatori, pastori e artigiani, nei loro filmati appartengono a un mondo millenario dove l’agire quotidiano è fatto di gesti uguali e ripetitivi, gente anonima che lavora silenziosamente nella lotta per l’esistenza in una natura straordinariamente bella, ma spesso aspra e violenta, amara e ingrata.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina Facebook “Calabria Fotografia Sociale”)

    Nei cortometraggi i registi riconoscevano alle classi subalterne una dignità culturale che veniva denigrata da un vecchio meridionalismo e ignorata da un modernismo imperante. Scarsamente attratti dalla religione del progresso, si schieravano con la gente povera del Sud che pagava più di ogni altro il processo di modernizzazione. Proponevano col loro cinema una lettura etica e umanista della Calabria e dei calabresi, una visione che si contrapponeva a quella di intellettuali e politici che pensavano ad una rinascita della regione attraverso la distruzione della mentalità arcaica e retriva dei suoi abitanti.

    Pasolini e le critiche

    Nel dopoguerra tra molti calabresi si avvertiva una forte insofferenza nei confronti di una parte dell’opinione pubblica italiana che tendeva a presentare la regione come una terra arretrata. Nel 1959, in occasione di alcune dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sui calabresi, molti insorsero con commenti durissimi. Un giornalista scriveva che avrebbe voluto «sputare» sul volto dello scrittore il più profondo rancore e risentimento per le «espressioni bassissime» da lui rivolte alla sua gente.

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    Pasolini a Crotone

    La sua «sfacciataggine» era odiosa e, più che una risposta polemica, avrebbe meritato quattro poderosi calci «con le scarpe chiodate» di quei robusti boscaioli della Sila che «stillavano sudore e sangue per la quotidiana lotta di un tozzo di pane nerissimo». Il popolo calabrese era il più educato e il più generoso dei popoli, «ma guai a chi avesse cercato di calpestargli i calli!». Un altro periodico pubblicava la lettera aperta di un lettore che accusava Pasolini di avere usato nei confronti della Calabria le solite frasi «trite e ritrite» di chi è prevenuto: gli uomini della regione erano sani e belli e le donne erano abbronzate, efebiche, belle e affascinanti! .

    Il Rally del cinema: la Calabria sulla stampa nazionale

    Nello stesso anno, un fatto accaduto a Castrovillari suscitò un vivace dibattito sul “carattere” dei calabresi. Il 25 giugno, in occasione del Rally del cinema (gara automobilistica definita Mille miglia delle stelle), il marchese Gerini, con a bordo Anita Ekberg, durante una sosta presso un distributore di benzina, infastidito dalla folla che faceva ressa per ammirare da vicino la “Venere di ghiaccio”, ripartiva a forte velocità travolgendo venti persone. Secondo la stampa nazionale, il marchese, impaurito dai giovani che avevano perso letteralmente la testa per la diva svedese, partì con la Lancia Flaminia cercando di farsi largo tra la folla e mettersi in salvo. In una corrispondenza di Paese Sera si legge che, in ogni paesino della Calabria, folle di giovani assalivano puntualmente le macchine del rally prendendo gli equipaggi «a pacche, pizzicotti e sganassoni».

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    Eleonora Ruffo in posa sul balcone della sua casa romana (foto Archivio Istituto Luce)

    Si trattava di gente analfabeta e ignorante che perdevano la ragione di fronte a bellissime bionde come Eleonora Ruffo, che per il caldo sollevava le gonne ad altezze vertiginose! In realtà, secondo alcuni giornali locali, i giovani avevano mostrato solo un eccessivo entusiasmo per la Ekberg e qualcuno di loro aveva sputato e urlato contro Gerini dopo che questi li aveva insultati con gesti volgari e parole offensive. I castrovillaresi non erano selvaggi assatanati ma gente civile e ospitale: ragazze in costume tradizionale avevano accolto gli equipaggi con fiori e sorrisi e l’amministrazione comunale aveva offerto un pranzo a base di pollo arrosto e ottimo vino.

    Anita Ekberg e il processo a Castrovillari

    L’anno seguente, il 12 maggio 1960, Anita Ekberg, la celebre diva del cinema «dai capelli biondo-cenere e dalla pelle madreperlacea» che «camminava quasi sempre a piedi nudi e usava il reggiseno solo quando andava a cavallo», giunse in Calabria per testimoniare al processo contro Gerini. Quando scese dalla macchina davanti al tribunale di Castrovillari una folla di gente, in attesa da ore, l’accolse con un forte applauso. L’attrice, vestita elegantemente nella sua princesse nera con stola di visone selvaggio scuro, fu circondata da decine di fotografi e giornalisti.

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    Anita Ekberg in aula nel Tribunale di Castrovillari

    In aula, alla richiesta del Presidente della Corte di dichiarare la sua età, l’attrice rispose che quella non era una domanda da rivolgere a una donna. E, nella deposizione, scagionò il marchese dichiarando che i giovani erano diventati così invadenti da sedersi sul cofano della macchina. Disse, inoltre, che alla sua camicetta non mancava alcun bottone e che quel giorno era vestita come una collegiale: gonna e camiciola a maniche lunghe. Durante il processo, il presidente della corte fu costretto a far sgomberare l’aula per il clima esagitato. La deposizione della Ekberg fu persino oggetto di una interrogazione dell’onorevole Migliori al ministro di Grazia e Giustizia nella quale si chiedeva se, come attestato da foto comparse su giornali e rotocalchi, l’attrice si fosse presentata con abiti e pose in contrasto col decoro delle aule giudiziarie: gambe accavallate, décolleté a vista e braccia scoperte!

  • Il pane nero della fame: il grano era un lusso per pochi calabresi

    Il pane nero della fame: il grano era un lusso per pochi calabresi

    Il pane prodotto dai fornai calabresi è eccellente. Ancora oggi rimane il principe della tavola e tutti gli altri cibi sono semplici sudditi. Un proverbio non a caso diceva: “Non c’è cibo di re più gustoso del pane”. Appena sfornato il suo odore e il suo sapore non sono paragonabili a nessun’altro cibo e, mangiandolo, si ha una sensazione di purezza e di gioia. Il pane è sacro, donato agli uomini dagli dei e per Aristofane non bisognava raccogliere le briciole che cadevano a terra perchè appartenevano agli eroi o ai “daimoni”.

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    Il prelibato pane di Cerchiara calabra

    Il pane di grano era un sogno

    In passato era l’alimento più importante nella dieta dei calabresi e, non a caso, si diceva: quannu alla casa c’è llu pane, c’è tuttu e si c’è lla farina, l’ùogliu e llu vinu, ‘a casa è kina (quando a casa c’è il pane, c’è tutto; e se c’è la farina, l’olio e il vino, allora la casa è piena).

    Nel Settecento, Swinburne annotava che i contadini, dopo aver zappato tutto il giorno, si nutrivano con pane reso più saporito da uno spicchio d’aglio, una cipolla e un pugno di olive secche. Nello stesso secolo Spiriti, tuttavia, precisava che due terzi dei campagnoli non sapeva nemmeno cosa volesse dire pane di grano: quelli più fortunati utilizzavano farina di germano o granturco ma la maggior parte consumava pane di lupini o castagne. Se il re di Francia desiderava che nei giorni di festa i contadini mangiassero un pollo, egli sperava che quelli calabresi si satollassero di pane bianco con qualche cipolla o un pezzo di formaggio.

    Galanti aggiungeva che il pane scarseggiava a causa delle continue carestie e quello disponibile era in genere duro e rancido: si preparava poche volte l’anno e, nelle famiglie più povere, solo a Natale e a Pasqua.

    Pane secco da grattare o bagnare

    Infornato ogni tre mesi e conservato sopra graticci appesi al soffitto, dopo qualche tempo diventava talmente duro da dover essere mangiato bagnato nell’acqua o raschiato col coltello. Cento anni dopo dopo Franchetti confermava che i contadini calabresi vivevano con un pane tanto secco che per mangiarlo dovevano grattare col coltello nel cavo della mano e versarselo in bocca a bricioli o nelle minestre di erbe cotte nell’acqua con un po’ di olio e sale «quando ne avevano».

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    Pastore fra le strade di San Giovanni in Fiore

    Nei grandi centri urbani il pane prodotto dai fornai era riservato a nobili e galantuomini e una signora ricca era chiamata «donna di pane bianco». Dal 1878 al 1883 nella provincia cosentina, in una situazione alimentare notevolmente migliorata, si consumava pane di frumento in 93 paesi, in 5 qualche volta e in 53 mai. Nel 1812, un relatore dell’inchiesta murattiana comunicava che nei villaggi della Calabria Citeriore, specie nei circondari di Celico, Spezzano, Aprigliano, Rogliano, Scigliano e Carpanzano, il pane era di castagne o di segale, nel resto della provincia di frumentone e solo a Cosenza, Rossano, Corigliano e Cassano, di grano.

    Fornai avidi e farine scadenti

    Il pane prodotto dai fornai aveva comunque spesso un «aspetto cattivo» e «pessimo sapore» perché poco fermentato e perché, rimanendovi frammenti delle «vetuste macine», si avvertiva fra i denti «la presenza di polverio siliceo e calcare». I cittadini protestavano spesso perché il pane venduto era immangiabile e accusavano gli avidi fornai di utilizzare farine scadenti e di ricorrere a vari rimedi per migliorarlo. Utilizzavano solfato di rame, zinco, magnesio, acido borico e carbonato di potassa per accelerarne la fermentazione; carbonato ammoniacale per renderlo più poroso, soffice e durevole; allume, gesso, calce e polvere di marmo per farlo più bianco e pesante.

    Pane bianco solo nei giorni di festa

    I contadini consumavano u mursiellu, detto altrimenti agliu o agghiu e, per il resto della giornata, si sfamavano mangiando pane di frumentone, segale, lupini o castagne. Padula annotava che il massaro, il più agiato tra i contadini, coltivava il grano per venderlo ai galantuomini e si saziava di pane bianco solo nei giorni solenni dell’anno. La moglie infornava il pane una volta al mese e lo appendeva al soffitto per lasciarlo indurire, così da consumarne di meno: pani tuostu mantena casa, ma ci volevano denti di ferro per frantumarlo e quindi lo si mescolava con la minestra. Pasquale confermava con amarezza che i campagnoli erano soliti lasciare ammuffire il pane per risparmiare legna e offrire al palato cibo meno appetitoso. Il pane della «gente mezzana» era di frumentone e segale, quello dei «buoni possidenti» di grano e quello dei contadini di frumentone, castagne o avena.

    Si consumava generalmente pane di granturco e di segale nelle zone di montagna e di grano misto a orzo negli altri territori. I contadini lo condivano con olio e sale e, a volte, come companatico utilizzavano sarde salate, olive o peperoni. La sera cenavano con una minestra calda di verdure o legumi. In media un colono mangiava 1.400 grammi di pane di granone o di segale, una minestra di patate e verdure di 900 grammi o di legumi di 400 grammi.

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    Oggi si presenta morbido e delizioso, ma il pane nero non troppi anni fa era duro e dal sapore forte

    Pane di Calabria: così duro da tagliare con l’accetta

    I campagnoli più poveri si alimentavano con pane di frumentone o di segale e, in tempo di carestia, di orzo, lupini, cicerchie e fave. Comune era anche il pane di castagne e Dorsa ricordava che il contadino calabrese, parco nel suo vitto, aveva sempre i suoi vàlani, castagne lesse o baloge e i suoi pistilli o mùnnule, castagne disseccate al calore del fuoco che spesso gli «servivano di pane».

    Le donne del cosentino portavano le castagne al mulino per farne farina, ma il pane che se ne ricavava dopo qualche giorno diventava così duro che per tagliarlo si utilizzava l’accetta. Uno studioso affermava che un pane di castagne del diametro di quattro pollici richiedeva almeno un’ora di masticazione e faceva molta pena guardare la povera gente costretta a nutrirsene. Anche il pane di segale, pur se alcuni sostenevano che era sostanzioso, era duro, nero, viscoso, disgustoso e di difficile digestione.

    Il pane che provoca nausea, febbri maligne e cancrene

    Col pane di segale si preparava un pane leggero e di facile digestione ma bisognava fare attenzione perché la contaminazione con lo sperone di segale o grano cornuto (alcune spighe prendevano la forma dello sperone di un gallo o di un cornetto nero) rendeva il pane nauseante e nocivo. Uno studioso del Settecento scriveva che la claviceps purpurea della segale spesso aggrediva anche il frumento e da quel pane dal sapore disgustoso provocava confusioni, nausea, stanchezza, ubriachezza, diarrea, febbri maligne, dolori alle braccia e alle gambe e persino cancrene.

    Ramage ricordava che i giornalieri dei paesi silani, vivendo nella «più nera miseria» e nutrendosi per lo più di pane fatto con farina di castagne, durante l’inverno emigravano in massa in Sicilia e in altre regioni «alla ricerca di cibo». Nel circondario di Cirò una sarda salata con due pani, una cipolla e un pugno di olive in salamoia, formavano il pranzo quotidiano di un bracciante che maneggiava la zappa almeno otto ore al giorno. Secondo Padula i giornalieri si saziavano con pane di segale, frumentone, castagne e orzo o con una mistura di veccia, fave e lupini. Non bevevano vino se non quello ricevuto in dono e si cibavano di carne in occasione della macellazione del maiale o quando «suonava in tasca una lira di più».

    Minestre di foglie cotte nell’acqua marina

    Per rinfrancare le forze cavavano dalla tasca un cantuccio di orribile pane da mangiare scusso o accompagnato da agli e peperoni. I braccianti del Tirreno se la passavano peggio: si saziavano con una minestra di «foglie» cotte nell’acqua marina e pane di granone mentre il pane bianco, detto pane de buonu, sempre presente nelle mense dei ricchi, era prerogativa dei malati.

    Un colono del Vallo di Cosenza d’inverno mangiava a colazione e a cena pane di granturco e fichi secchi e a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, una sarda, una fetta di formaggio o un pezzo di carne salata e a pranzo una minestra di fagioli, patate o cavoli conditi con olio e sale.

    Solo in occasione di lavori particolari come la vendemmia e la mietitura si saziavano con pane di grano, carne affumicata, castrato o altro. Un colono, piccolo proprietario o affittuario dei paesi silani, in inverno a colazione e a cena mangiava pane di granturco o di castagne e una cipolla con olio e sale, a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di segale o di grano, formaggio e sarde, a pranzo minestra di fagioli freschi, patate e cavoli.

    Il pane del litorale jonico

    Un giornaliero del litorale jonico in inverno a colazione e a cena consumava pane di granturco, olive in salamoia o pesce salato, a pranzo minestra di verdure; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, cipolle e formaggio, a pranzo una minestra di verdure. Nei giorni festivi si beveva il vino e si univa alla minestra la pasta fatta in casa. Pastori e vaccari per tutto l’anno mangiavano a colazione pane di granturco e ricotta, a pranzo minestra di verdure e a cena pane di granturco e formaggio.
    Verso la fine dell’Ottocento, durante il viaggio di circa un mese sulla nave che portava negli Stati Uniti, gli emigranti mangiavano carne e pane bianco e ciò creava meraviglia tra chi considerava tali cibi un lusso, tanto che, per indicare un uomo sfinito e ammalato, si diceva che si era «ridotto a pane di grano».

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    L’antico rito della mietitura
  • Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

    Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

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    Radio e cinema avevano occupato un posto importante nella vita dei calabresi. Ma, verso la fine degli anni ’50, la televisione sconvolse il loro modo di vivere e pensare. I primi apparecchi furono acquistati da famiglie benestanti e, per attrarre i clienti, da proprietari di botteghe e caffetterie.

    Quel sogno chiamato televisione

    I televisori erano un sogno e molti ricordano che alcuni si fermavano davanti alle vetrine che li esponevano per guardare il segnale video. La gente amava la televisione e preferiva i telequiz come Lascia o raddoppia e Il Musichiere agli altri programmi, perché proponevano un’atmosfera festiva che, seppur fittizia, favoriva l’identificazione tra spettatore e giocatore.

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    Mario Riva e Totò in una puntata de “Il Musichiere”

    I telespettatori, a differenza di quanto accadeva con radio e cinema, avevano la sensazione di entrare nel piccolo schermo e dialogare alla pari con i personaggi. I concorrenti del “popolo” che vincevano grosse somme erano, inoltre, un esempio di riscatto sociale. Già: rispondendo ad alcune domande potevano cambiare le proprie esistenze.

    La prima tv star calabrese

    Nel 1959 la maestra cosentina Lya Celebre partecipo a Il Musichiere. In città vi fu un grande entusiasmo: la notizia si diffuse in un batter d’occhio da via Piave alle Paparelle e da Portapiana a Panebianco.
    La Celebre non vinse ma diventò per qualche tempo una celebrità.
    In una lettera a un giornale locale dichiarò di aver vissuto un’esperienza straordinaria: aveva sorvolato la capitale a bordo di un moderno aereo, ricevuto dalle mani di Mario Riva i due gettoni e il musichiere e vissuto per alcuni giorni in quel mondo meraviglioso di cameraman, luci, giraffe e telecamere.

    La magia dello schermo

    La Tv era un prodotto della modernità e della tecnologia più avanzata ma riproponeva un sistema mitico, simbolico e rituale già in parte conosciuto.
    Le immagini televisive, osservava Jean Cazeneuve, in virtù del loro potere di suggestione e fascinazione, penetrano nella vita degli uomini con la stessa semplicità di alcuni apparati magico-rituali presenti nelle comunità.
    Il televisore stesso, in fondo, era un apparecchio magico. Nessuno riusciva a spiegare in maniera convincente perché sul vetro di quella scatola di legno che conteneva marchingegni collegati con un filo ad un bizzarro albero metallico, si potessero vedere luoghi e persone distanti anche migliaia di chilometri.

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    Visione di gruppo della tv al bar negli anni ’50

    Varie persone mi hanno raccontato che c’era chi, vedendo per la prima volta le immagini, andava dietro all’apparecchio per adocchiare se ci fosse nascosto qualcuno, mentre altri rispondevano al saluto dell’annunciatrice quando presentava i programmi della serata.

    Pregiudizi medici: la televisione fa male

    Negli anni in cui la televisione si affermava, non si percepivano i cambiamenti che essa avrebbe provocato. Tuttavia, c’era già chi mostrava una certa contrarietà.
    Qualcuno sosteneva che gli apparecchi sprigionassero “raggi radioattivi” e “onde sonore” pericolosi per l’udito e la vista e, non a caso, i rivenditori consigliavano di guardare lo schermo a una certa distanza e di porvi sopra una fonte luminosa.
    Altri addirittura attribuivano alla Tv la responsabilità di tante bronchiti, specialmente dei bambini che guardavano i programmi seduti sul pavimento e in locali poco riscaldati.

    Pregiudizi di sinistra: la tv è democristiana

    L’ostilità nei confronti della televisione era comunque dettata soprattutto da ragioni politiche. Molti militanti della sinistra calabrese consideravano la Rai al servizio dei partiti di governo e della Democrazia Cristiana. A parte alcuni programmi di carattere culturale e d’informazione, il resto aveva lo scopo di addormentare le coscienze e distrarre il pubblico dai problemi della quotidianità.

    Le gemelle Kessler

    Pregiudizi cattolici: la tv è libertina

    Anche numerosi cattolici osteggiarono la televisione perché erano preoccupati che il piccolo schermo potesse veicolare una cultura consumistica e libertina.
    Alcuni parroci si fecero promotori di proteste contro il carattere licenzioso di trasmissioni come quella in cui le gemelle Kessler con le gambe scoperte ballavano il Dadaumpa.

    La giornalista cosentina: tv scema e conservatrice

    Molti, invece, lamentavano che la Tv proponeva ideali e valori conservatori. Nel 1957 la Baronessa scalza, curatrice cosentina della rubrica Schermi e teleschermi, trovava ridicolo il balletto La belle époque, trasmesso in televisione.

    Cino Tortorella nei panni del Mago Zurlì

    Le danzatrici indossavano gonne e mutandoni lunghi e facevano inchini e mossette in modo da apparire più delle collegiali che ballerine del celebre locale parigino.
    L’acuta e ironica giornalista, inoltre, criticava alcuni programmi televisivi dedicati ai bambini come C’era una volta, in cui Laura Solari narrava noiosissime e banali favolette e quelli in cui l’attore Cino Tortorella, pagliaccescamente travestito da mago, presentava un anacronistico programma di indovinelli a premio.

    Anni’60: la televisione conquista le masse

    Nei primi anni Sessanta, ogni perplessità nei confronti della televisione era svanita e anche le persone più ostili o incredule ne erano conquistate.
    Con la Tv le famiglie non trascorrevano più le serate in casa ma uscivano per riunirsi nei bar, parrocchie, sezioni dei partiti e nelle case di chi possedeva un apparecchio per assistere a telequiz, commedie e programmi d’intrattenimento.
    Guardare la televisione era un’occasione di svago e di socializzazione anche al di là del contenuto delle trasmissioni.
    La semplicità e l’immediatezza delle immagini televisive sembravano inoltre conformarsi alla mentalità di gran parte della popolazione. A differenza della radio e del cinema, la televisione proponeva un universo dove la realtà si convertiva in magia e la magia in realtà.

    La tv entra nelle case 

    Come osserva Cazeneuve, i telespettatori, in fondo, percepivano tale distorsione del reale, ma, simili ai personaggi del mito della caverna di Platone, finivano per amare quel teatrino d’ombre, perché in tal modo evitavano la dura quotidianità, filtrandola e convertendola in spettacolo.

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    Una televisione “domestica” degli anni ’50

    Col passare del tempo il televisore entrò in tutte le case. Possedere un apparecchio televisivo costituiva motivo di orgoglio e prestigio sociale. A chi lo acquistava, amici e parenti portavano la “stimanza” in segno di augurio: di solito una bottiglia di liquore, un pacco di zucchero o caffè.
    Il televisore era considerato parte integrante dell’arredamento ed era posizionato nel luogo più bello e spazioso. Le donne, addirittura, confezionavano un apposito «vestito» che serviva per proteggerlo dalla polvere.
    Con il diffondersi degli apparecchi televisivi scomparvero i gruppi d’ascolto nei locali pubblici e nelle sedi politiche che avevano caratterizzato gli esordi. Ogni famiglia aveva il proprio apparecchio e i programmi Rai sempre più dettavano i ritmi della giornata e del tempo libero.

    A ciascuno il suo programma

    Le donne seguivano assiduamente gli sceneggiati, eredi diretti dei fotoromanzi, ancora diffusi e apprezzati dal pubblico femminile.
    Gli anziani, invece, amavano soprattutto le trasmissioni come di padre Mariano, del professore Cutolo e del maestro Alberto Manzi.
    I bambini, infine, vedevano la Tv dei ragazzi e soprattutto telefilm come Rin Tin Tin, il cane lupo simpatico e intelligente amico di Rusty, un orfanello accolto dal Settimo cavalleggeri di stanza a Fort Apache.

    Ma Carosello conquista tutti

    La trasmissione che conquistava tutte le generazioni era Carosello.
    Preceduti dal suono di trombe e mandolini, gli sketch di Carosello, della durata di un paio di minuti, erano piccoli film girati da noti registi e interpretati da attori famosi. Quelle celebri scenette in bianco e nero aiutavano a dimenticare gli anni della guerra e condensavano sogni e speranze della povera gente.

    Mina fa la pubblicità a Carosello

    Spettacolo nello spettacolo, televisione nella televisione, Carosello era un palcoscenico di divi che diventavano persone tra le tante e la cui fama si stemperava nella quotidianità.
    I ricordi di coloro che ho intervistato erano molto vaghi sui programmi televisivi. Ma quando si parlava di Carosello, leggevo sui volti contentezza: tutti ricordavano con sorprendente precisione prodotti pubblicizzati, musiche, attori e battute.

    Padrona televisione

    La televisione cambiava i modi di vita e le abitudini dei calabresi molto più di quanto non avessero fatto radio e cinema.
    Appena nata, pochi credevano nelle sue potenzialità, ma ben presto fu evidente che nessuno dei media esistenti aveva le sue capacità.
    Fin dalle prime trasmissioni, appariva chiaro che la Tv era un mezzo molto forte e pervasivo: non strumento in mano agli uomini, ma uomini ridotti a suo strumento.
    Gli spettatori diventavano semplici clienti che valevano non per quello che erano ma per quello che consumavano. La televisione delineava una visione del mondo in cui la merce avrebbe assunto un valore assoluto e gli oggetti pubblicizzati avrebbero dominato i desideri e l’immaginario.

  • Olio calabrese, una rivoluzione lunga due secoli

    Olio calabrese, una rivoluzione lunga due secoli

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    Si legge spesso sui social che sin dai tempi antichi la Calabria ha qualità che nessun’altra terra al mondo possiede: la gente più ospitale, l’aria più pulita, l’acqua più buona, il mare più bello, i paesi più ameni e i prodotti della terra più squisiti. La Calabria, insomma, è una terra benedetta da Dio. E, non a caso, gli storici antichi scrivevano che dopo il diluvio universale Aschkenaz, attratto dalla bellezza del paesaggio, dalla mitezza del clima e dalla fertilità della terra, si fermò nella regione. È bello essere fieri della propria patria, ma ciò non deve spingerci a falsificarne la storia.

    Chi si loda s’imbroda

    Gli stessi eruditi calabresi si rendevano conto che le eccessive lodi per la propria regione potevano svilire l’attendibilità delle loro narrazioni. D’Amato avvisava il lettore della modestia del suo lavoro. E, se lo studioso poteva cogliere «molto di riprensibile», esso era frutto della dolcezza e benevolenza per una terra che amava. Fiore ammetteva che l’affetto da cui si era rapiti alle glorie della patria non poteva che essere «vizioso», poiché lo storico, come Mida, tramutava in «oro di lode» tutto ciò che toccava.

    Il compito, quindi, era quello di intingere la penna non tanto nell’inchiostro dell’affetto, quanto in quello del vero. Marafioti riconosceva che lo scrittore doveva anteporre il certo all’incerto. E si scusava con i lettori se non sempre aveva potuto verificare che coloro di cui scriveva fossero nati e vissuti a Cosenza. Dio, che conosceva ogni cosa, avrebbe avuto il pensiero di dare «ad ognuno il proprio luogo e a lui avrebbe dato il perdono degli errori».

    Calabresi d’adozione

    Spiriti non negava che molti personaggi celebri da lui descritti erano nati nei paesi vicini e che molti avrebbero potuto criticarlo per averli considerati cosentini. Egli precisava, però, che i paesi della provincia, quantunque lontani dal capoluogo, costituivano comunque le membra di quel corpo che era Cosenza! Rimproverava coloro che, per rendere grande la città, avevano annoverato tra i cosentini uomini come Guido Cavalcanti, nato e vissuto a Firenze, figlio di quel messer Cavalcante posto da Dante nella bolgia degli eresiarchi.

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    Un ritratto di Guido Cavalcanti

    Fiore lamentava «l’altrui rapacità» che aveva rubato alla Calabria i suoi «notabili» figlioli. E forniva con onestà un lungo elenco di personaggi celebri che per ambizione erano stati considerati falsamente calabresi: tra questi nientemeno che i guerrieri Agamennone ed Aiace, il legislatore Caronda, lo storico Erodoto, l’oratore Lisia, il poeta Ennio e l’imperatore Ottaviano Augusto!

    L’olio calabrese e il marchese di Seminara

    In Calabria tutto è bello e tutto è buono. Ma se oggi i produttori calabresi producono olio di ottima qualità in passato era pessimo. Didier scriveva che gran parte della popolazione faceva provvista di pane per un mese e lo mangiava condito con olio rancido. Come si potevano accettare queste privazioni quando viaggiando si attraversavano per giorni interi immensi «boschi» di ulivi e campi di grano?

    Domenico Grimaldi, marchese di Seminara, nel Settecento scrisse un importante trattato per cambiare radicalmente il modo in cui si coltivavano le olive e le modalità di raccolta, spremitura e conservazione. L’olio calabrese era in genere nauseabondo. Per chi era «sensibile alla gloria della nazione», era doloroso sentire i forestieri burlarsi del gusto grossolano dei calabresi che giornalmente usavano un olio che altrove era utilizzato per lampade e fabbriche di sapone.

    Il nobile riteneva che fosse necessario abbattere pregiudizi come quello di non potare gli ulivi e di non spremere le olive appena raccolte altrimenti l’olio avrebbe perso in quantità e qualità. Bisognava, inoltre, sostituire i vetusti e dispendiosi frantoi calabresi con quelli ad acqua alla genovese. E, per dare l’esempio agli altri proprietari, Grimaldi chiamò alcuni operai liguri per impiantare a Seminara un moderno trappeto.

    I proprietari si rivolgono al re

    Egli annotava che i calabresi, avviliti e sfiduciati, per secoli erano stati poco industriosi e non avevano perseguito nessun’arte, provvedendo ai soli bisogni necessari della vita. Riteneva ottimisticamente che i suoi consigli sarebbero stati comunque raccolti. Non era credibile che i proprietari degli uliveti si fossero «congiurati» a voler restare barbari rigettando tutte le novità «ancorché ne vedessero dimostrato l’utile».

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    Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nella Calabria. Napoli, Raffaele Lanciano, 1773.

    Nel 1771, dopo aver perfezionato il frantoio genovese a Seminara e averne mostrato i vantaggi, dovette constatare con amarezza che le sue proposte non erano gradite ai conterranei. I vecchi «trappetai», incoraggiati dai padroni, screditavano il nuovo oleificio. E il «popolaccio», sedotto e intimorito «non ardiva a domandare l’abolizione delle antiche manifatture». I proprietari degli oliveti, resi vieppiù animosi dalla propria propaganda, portarono la «stravagante» protesta sino al re, implorando che non venissero imposti i nuovi frantoi consigliati dal Grimaldi.

    L’olio calabrese? Buono solo per lampade e saponi

    La caparbietà nella conservazione di certe abitudini mentali interessava più i proprietari che i contadini. Sentendosi minacciati dal cambiamento, i signori difendevano le tecniche tradizionali che da sempre avevano garantito la loro egemonia. Nel Settecento Galanti annotava che le olive prodotte in Calabria continuavano ad essere raccolte con le scope e lasciate macerare in trappeti desueti, cosicché l’olio prodotto risultava rancido, puzzolente e non commerciabile.

    Qualche anno dopo, De Salis Marschlins scriveva che i «mulini da olio» della regione erano simili a quelli del Marocco. E che i contadini coglievano le olive addirittura nel mese di giugno, quando il frutto era marcio e dava poco e cattivo olio. Bartels confermava che la lavorazione delle olive era allo stato arcaico: l’olio calabrese era giallo e maleodorante. Persino quello che altrove era usato per far ardere le lampade, era più puro.

    Carl Ulisses von Salis-Marschlins

    Nell’Ottocento De Tavel osservava che gli ulivi di Calabria erano alberi d’alto fusto che davano ricchi raccolti. Tuttavia, l’olio prodotto era di pessimo sapore e veniva venduto alle fabbriche estere, soprattutto ai saponifici di Marsiglia e Trieste. Tucci commentava che i contadini, rispettando l’adagio «l’ulivo tanto più pende tanto più rende», raccoglievano le olive da terra e le spremevano, sporche di fango, guaste e puzzolenti in «grossolani» trappeti. Ottenevano un olio «che solamente può servire per i lumi, non essendo bono per gli usi di cucina e molto meno per mangiarlo crudo».

    Olive ammucchiate

    Un funzionario napoleonico confermava che i proprietari lasciavano imputridire le olive sul terreno e nei trappeti spremevano sia quelle buone che quelle guaste col risultato di produrre un olio «imperfetto». Pilati scriveva che un terzo delle olive veniva mangiato dopo averle seccate al sole o al forno, gli altri due terzi spremute e l’olio venduto in gran parte a mercanti spagnoli e genovesi.

    Rilliet asseriva che le olive raccolte erano gettate in un truogolo, nel quale girava una macina che schiacciava il frutto e lo riduceva in pasta che posta su graticci di vimini era sottoposta alla pressa. L’olio che si produceva in Calabria lasciava molto a desiderare, perché un antico pregiudizio i proprietari ammucchiavano le olive in una cantina e non procedevano alla macinazione che quando la fermentazione era già cominciata e così l’olio era meno pregiato di quello di altre regioni e «non serviva che al basso ceto ed all’illuminazione».

    Olive nere al forno

    Rebuschini era convinto che il cattivo odore dell’olio fosse causato dalle olive che si raccoglievano una volta cadute ed eccessivamente mature si imbevevano del sapore del terreno. Se a ciò si aggiungeva il sistema primordiale di «fabbricazione» generalmente usato, si capiva perché l’immensa produzione di olio della Calabria era destinata alla combustione quando avrebbe potuto dare uno dei migliori oli del mondo.

    Sistemi primordiali

    Lombroso notava che le olive si facevano maturare sugli alberi finché cadevano e si lasciavano ammonticchiate nei magazzini prima di essere spremute: con questa pratica barbara si ricavava un olio di pessimo odore e peggior sapore, buono solo per le fabbriche di sapone. Per Rebuschini l’olio calabrese aveva gusto e odore cattivo perché le olive erano raccolte una volta cadute e perché il sistema primordiale di «fabbricazione» forniva un prodotto buono solo per la combustione.

    In una inchiesta agraria del 1876 si legge che nella provincia di Cosenza le donne raccoglievano le olive quando cadevano al suolo, le trasportavano dentro sacchi all’opificio oleario dove, conservate dentro cellette in muratura, a volte rimanevano ammonticchiate anche per tre o quattro mesi e l’olio che se ne ricavava «per quanto era più grasso e pastoso, per altrettanto era di odore e sapore nauseabondo».

    L’olio calabrese tre secoli dopo Grimaldi

    Ci sono voluti circa tre secoli prima che i proprietari calabresi ascoltassero le raccomandazioni di Grimaldi. Oggi gli olivicoltori selezionano le olive, le raccolgono prima della loro completa maturazione e, con grande passione e perizia, producono un olio di altissima qualità. Il marchese di Seminara sarebbe felice vedere uscire dai frantoi della sua regione l’olio puro dal colore verde intenso contaminato da inebrianti profumi di piante e minerali.

  • Attenti alle fave: il demone che spaventò il crotonese più illustre

    Attenti alle fave: il demone che spaventò il crotonese più illustre

    La primavera è tempo di fave ma per Pitagora erano un alimento impuro e immondo. Il filosofo di Crotone era un convinto vegetariano ma vietava l’uso delle fave. Porfirio racconta che «prescriveva di astenersi dalla fave non meno che da carne umana» mentre nei detti simbolici affermava perentoriamente: «astieniti dalle fave».

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    Busto che raffigura il filosofo Pitagora

    I filosofi non mangiano fave

    Per Aristotele, Pitagora ebbe a dire che «mangiar fave, è lo stesso che mangiare il capo del genitore» e per Luciano «io non mangio alcuno animale; tutte le altre cose poi, infuor le fave». In un’altra occasione affermò sulle fave: «Io non le odio, ma per sempre me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile». Tertulliano ci informa che Pitagora addirittura «aveva prescritto ai suoi discepoli che non si doveva neppure passare attraverso i campi di fave» e, secondo Porfirio, voleva che tale prescrizione fosse rispettata anche dagli animali.

    I pitagorici uccisi per colpe delle fave

    Secondo Dicearco, Pitagora morì nel tempio delle Muse di Metaponto dove si era rifugiato in seguito alla rivolta contro la sua scuola. Eraclide sostiene che, dopo avere seppellito Ferecide a Delo, si ritirò in quella città dove pose fine alla sua vita lasciandosi morire di inedia giacché non desiderava vivere più a lungo. Molti racconti mitici legano però la fine di Pitagora e dei suoi discepoli alle fave.

    Ippoboto e Neante, scrive Giamblico, narrano che il tiranno Dionisio, poiché non riusciva a farsi amico nessun pitagorico, dal momento che rifuggivano dal suo carattere dispotico e violento, inviò una schiera di trenta uomini, sotto il comando del siracusano Eurimene, per tendere loro un agguato. I soldati si appostarono in un luogo nascosto nella zona di Fane, una località vicino Taranto piena di voragini, dove i pitagorici sarebbero dovuti necessariamente passare e a mezzogiorno li assalirono levando alte grida, alla maniera dei briganti.

    I discepoli di Pitagora decisero di fuggire e si sarebbero salvati, perché gli uomini di Eurimene, ostacolati dal peso delle armi, erano rimasti indietro nell’inseguimento, ma s’imbatterono in un campo seminato a fave già in pieno rigoglio. Così, non volendo contravvenire al precetto che imponeva di non toccare le fave, si fermarono si difesero con pietre e bastoni ma furono sopraffatti.

    Il mistero delle fave non può essere rivelato

    Continua il racconto di Giamblico sulla sorte di Millia e Timica, due pitagorici sfuggiti al massacro: «Ma subito in costoro si imbatterono Millia di Crotone e Timica di Sparta, che erano rimasti indietro rispetto al gruppo perché Timica era all’ultimo mese di gravidanza e perciò procedeva lentamente. Essi li fecero prigionieri e soddisfatti li condussero dal tiranno, dopo averli trattati con ogni cura, affinché rimanessero in vita. Dioniso, una volta informato dell’accaduto, si mostrò assai abbattuto e disse loro: «Da parte mia voi riceverete, a nome di tutti gli altri, gli onori che meritate, nel caso vogliate regnare assieme a me».

    Poi, visto che Millia e Timica respingevano ogni sua proposta aggiunse: «Se mi spiegherete una sola cosa, sarete lasciati andare sani e salvi con una scorta adeguata». E a Millia che gli domandava che cosa volesse sapere, rispose: «Per quale ragione i tuoi compagni hanno preferito di morire pur di non calpestare le fave?». Al che Millia: «Quelli si sono assoggettati alla morte pur di non calpestare le fave; io, per parte mia, preferisco calpestare le fave pur di non rivelartene la ragione».

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    Il tiranno Dionisio

    Allora Dioniso, colpito dalla risposta, diede ordine di portar via con la forza Millia e di sottoporre Timica a tortura, convinto che, in quanto donna, in attesa di un figlio, e per di più priva del marito, avrebbe facilmente parlato per timore della tortura. Ma l’eroina si morsicò la lingua, staccandosela, e la sputò in faccia al tiranno, mostrando con ciò che anche se la sua natura di donna, sopraffatta dalla tortura, fosse stata costretta a rivelare a qualcuno segreti su cui era obbligatorio tacere, lei aveva tagliato via lo strumento a ciò necessario».

    Piante demoniache

    Sul tabù di Pitagora si sono avanzate varie spiegazioni. Le fave erano piante demoniache, antenate degli uomini, cibo dei morti, intorpidivano il corpo, provocavano il favismo, erano indigeste e via dicendo. Un tabù è difficile da comprendere. Come il mito, per sua natura è bizzarro e illogico, tende all’occultamento e alla mistificazione del reale, non risponde a delle domande e non da spiegazioni. Il tabù è ambiguo, spesso il suo senso non risiede in ciò che racconta, ma in qualcosa che non racconta; rende manifesti certi meccanismi fondamentali della mente umana, ma non per questo li significa. Il suo compito non è quello di chiarire, ma deformare, ingannare e infittire le oscurità intorno a sé; non è quello di persuadere ma di affascinare, non di spiegare ma di fondare, non di porre domande ma dare risposte.

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    Le fave probabilmente erano un tabù pitagorico

    Fave e tabù

    Gli stessi pitagorici probabilmente non cercavano di svelare il segreto delle fave, non chiedevano di sapere le sue origini, non esprimevano giudizi su di esso. Alcuni sostengono che tabù come quello delle fave rimarranno sempre insoluti e indecifrabili. Baudrillard scrive che ogni interpretazione è qualcosa che si oppone alla seduzione e ogni discorso interpretativo è il meno seducente che ci sia. Ogni interpretazione impoverisce e soffoca il tabù, poiché esso ha una tale ricchezza di significati che non possono essere rivelati dalla logica di un ragionamento. Il tabù delle fave è enigmatico e sconcertante, è il mondo del mistero, della magia e della seduzione. I suoi segreti sono una sfida all’ordine della verità e del sapere e gli uomini non capiscono il senso della sua immagine, ma si immedesimano in essa.

    I pitagorici preferiscono la malva

    Le proibizioni e le prescrizioni pitagoriche hanno un senso solo se viste all’interno di una logica che tendeva a organizzare il mondo in una scala di valori. Ai suoi discepoli Pitagora diceva che bisognava onorare gli dei prima dei daimon, i daimon prima degli eroi, gli eroi prima dei genitori, i genitori prima dei parenti. In questa scala c’erano poi delle cose pure e impure, buone e non buone, belle e brutte. Il filosofo sosteneva che la fava era demoniaca e la malva santissima, ma tale affermazione non aveva nessun senso se pensiamo che la maggior parte della popolazione si nutriva di fave e che invece la malva era utilizzata di tanto in tanto come infuso.

    La malva era santissima e le fave erano demoniache perché bisognava comunque scegliere all’interno del mondo vegetale le cose buone e le cose cattive. In tale prospettiva di prescrizioni e restrizioni è quindi del tutto inutile trovare delle ragioni ai tabù, poiché il loro senso era puramente formale, senza contenuto, privo di significato.
    La divisione tra le cose permesse e proibite non aveva un significato legato alle loro proprietà intrinseche ma al fatto che si dovevano introdurre delle distinzioni per dare un ordine. Secondo Aristotele, il dualismo fondamentale che per i pitagorici rifletteva l’opposizione tra bene e male, era quello tra limitato e illimitato: il male era proprio dell’illimitato e il bene del limitato.

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    L’antropologo Claude Lévi-Strauss

    Sostiene Lévi-Strauss

    Il modo di ragionare di chi stabiliva i tabù rientrava in una struttura mentale di pensiero che cercava di decifrare e ordinare in un sistema di coppie concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente e il secondo negativamente. Lévi-Strauss scrive che l’attività mentale dell’uomo tende a organizzarsi attorno ad una struttura binaria e che il passaggio dallo stato di natura a quello di cultura si definisce con l’attitudine a pensare le relazioni sotto forma di sistemi di opposizioni. Dualità, alternanza, doppio e simmetria non costituiscono dunque i fenomeni da spiegare, ma dati della realtà mentale e sociale nei quali riconoscere i punti di partenza di ogni possibile spiegazione.

    Divieti, puro e impuro

    Le regole pitagoriche, dunque, tendevano all’armonia e all’equilibrio, a tradurre il caos in cosmo e cioè in un sistema razionalmente ordinato e armonico. I divieti erano senza contenuto e senza significato: la proibizione serviva solo a costruire un sistema logico che strutturasse il mondo. I tabù facevano parte di una struttura mentale che contrapponeva sacro e profano, puro e impuro, lecito e illecito per porli in relazione. Questa struttura mentale inconscia e universalmente astorica non solo dava ordine al disordine ma era fondamentale per favorire lo scambio tra gli esseri umani: la reciprocità tra gli uomini è stabilita sempre sulla base di proibizioni e le stesse proibizioni hanno segnato il passaggio dalla natura alla cultura.

  • Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    La storia della Società dei Santi, setta religiosa sviluppatasi a Bocchigliero nella metà dell’Ottocento, è sintomatica della complessità della religiosità popolare. Tutto ha origine con l’apparizione dell’Arcangelo Michele a un paesano che annuncia l’avvento di un nuovo mondo. Molti contadini, suggestionati dalla visione, si organizzano per attendere la venuta del Messia e dichiarano la nascita di una nuova religione in contrasto con quella predicata da preti corrotti e simoniaci.

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    L’iconografia classica di San Michele Arcangelo

    Predicare tutti, predicare ovunque

    In nome delle verità antiche, i Santi si rivolgono al tempo in cui la Chiesa era essenzialmente laica e i predicatori avevano un rapporto diretto con Dio. Matteo Renzo, Gabriele Donnici e la giovane Rachela Berardi sono ispirati direttamente dal Padre Eterno e le loro parole danno speranza, pacificano le anime inquiete e infondono una grande serenità. I Santi professano la predicazione libera di tutti e non ritengono necessario riunirsi nei luoghi consacrati poiché Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo.

    Il profeta Matteo Renzo, come Gioacchino da Fiore, evoca l’andamento delle stagioni, il cielo e il mare, il giorno e la notte. Per simboleggiare la miseria cita l’inverno, periodo in cui gli uomini non lavorano e soffrono il freddo e la fame; per dare l’idea del benessere e della felicità, parla dell’estate, tempo dei raccolti e dei benefici raggi del sole. Come Gioacchino, pensa all’avvento di un nuovo mondo, alla nascita di uomini eletti e alla venuta di un novello Messia che sarebbe nato proprio a Bocchigliero, tra gli adepti della setta.

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    Uno scatto di Franco Pinna presente nel libro di Ernesto De Martino sul rito della “coricata” (1959)

    Il Messia a Bocchigliero

    Il messia dei Santi somiglia a quello che aspettano gli Ebrei, popolo in cui si riconoscono, forse perché analoghe sono le attese per la realizzazione delle promesse di giustizia. E perché, come loro, oppressi e umiliati, cercano di riscattare la propria sottomissione sociale, politica e culturale. È probabile che la loro propensione per il giudaismo sia retaggio della presenza degli Ebrei in quel paese che, secondo Padula, porta un nome di chiara origine semitica. È interessante notare come molti adepti della setta si chiamino Matteo, Mosè, Giuditta, Rachele, Daniele, Giacobbe, Samuele, Giosuè, Ezechiele, Davide, Abramo, Gabriele e Abele.

    Nell’attesa del Messia, i Santi auspicavano la nascita di un movimento religioso nuovo, quello dei Secolari, simile ai Santi Crociferi e alla Milizia dello Spirito Santo, profetizzati secoli prima da San Francesco di Paola. Gli adepti cominciano a vivere una vita da asceti, a mortificare il corpo e a praticare penitenze estenuanti. Si racconta che alcuni, con le braccia legate da funi, in bocca l’assenzio e in capo una corona di spine, si esponessero al freddo e al vento e praticassero rigorosi digiuni.

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    L’altopiano silano (foto di Franco Pinna 1959 tratta dal libro di Ernesto De Martino sulla “coricata”)

    La coricata

    Le penitenze non erano, però, sufficienti per la completa purificazione dei mali che abitavano nell’uomo: ira, ingordigia, avarizia, superbia e, soprattutto, lussuria. Il desiderio di purificare anima e corpo, spinge gli adepti della setta a teorizzare rigide forme di mortificazione carnale, a considerare il sesso come degradante e la verginità come fonte di santità. Essi iniziano a praticare il rito della coricata: per una intera notte uomini e donne nudi uniscono gli ombelichi – accucchiamu villicu e villico – e tentano di non eccitarsi per sconfiggere il diavolo – ppè scattare lu malu nimicu.

    L’idea che ispira questo tipo di prova è semplice: il corpo dell’uomo è per natura corruttibile in quanto opera e proprietà di Satana, mentre l’anima è puro spirito incorruttibile perché opera e proprietà di Dio. Dio ha creato lo spirito e Satana la materia per imprigionarlo. I Santi credono, dunque, che per raggiungere la più completa purificazione bisogna liberarsi da ogni soggezione dalla materia; ottenendo la purezza e superando le differenze irriducibili come maschio e femmina, sarebbero diventati santi e ricongiungendosi a Dio avrebbero conquistato la vita eterna. Il nocciolo del loro impianto religioso è di natura gnostica: il corpo inteso come prigione dell’anima. Solo attraverso il distacco dai piaceri materiali e la mortificazione del corpo si giunge alla conoscenza e alla perfezione.

    Asceti a Bocchigliero

    È difficile stabilire come e quando il rito della coricata sia maturato nella setta. Può darsi che tale ritualità si sviluppò da aneddoti raccontati dai preti sulla vita di asceti, per esempio quello ricorrente della tentazione del demonio che si presenta sotto forma di avvenente fanciulla: San Francesco d’Assisi, per spegnere gli ardori sessuali, si rotolò nudo nella neve, San Francesco di Paola si immerse nelle freddissime acque del torrente Isca.

    La ritualità della coricata è una radicalizzazione di metodi già sperimentati dai cristiani per resistere alla tentazione della carne. Secoli addietro alcuni fedeli si erano allontanati dalla comunità per vivere nel deserto o nei conventi, dove la battaglia contro fame e sete sarebbe stata molto più dura di quella contro il sesso. Per i Santi di Bocchigliero un rigido regime di vita o la solitudine estrema non sono sufficienti a frenare la passione carnale. Così, come gli Encratiti, praticano l’astinenza collettiva, in modo che l’individuo, sentendosi parte del gruppo, sia spinto ed aiutato ad osservare la castità.

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    Campanacci: le foto di Franco Pinna accompagnano il testo dell’antropologo Ernesto De Martino “La Sila, Roma, Lea 1959. Il rito della coricata”.

    Il figlio di San Giuseppe

    I Santi furono accusati di vivere nel peccato poiché, con la scusa di sottoporsi a prove erotiche per raggiungere la purezza, praticavano il libero amore e la promiscuità sessuale. Fra le donne che rimasero incinte c’era la più stimata della setta, Maria Giuseppa Berardi e il padre del bambino era Matteo Renzo, detto san Giuseppe, colui che prima di ogni altro era riuscito ad ottenere il distacco dello spirito dal corpo. La giovane chiese all’amante di riparare l’onore perduto e di riconoscere il figlio, ma egli acconsentì solo dopo le minacce dei parenti di lei.

    Le vergini di Bocchigliero

    Non possiamo escludere che il rito della coricata o la convinzione che il messia dovesse nascere da una donna della setta fossero delle trovate per avere rapporti liberi. Tra la popolazione di Bocchigliero era diffusa la credenza che con la pietra agave, o pumiciosa, fosse possibile restituire la verginità alle donne e che consumare il matrimonio prima di sposarsi non fosse peccato perché il diavolo possedeva tutte le vergini in procinto di prendere marito.

    Si trattava di stratagemmi per aggirare codici morali che impedivano i rapporti prematrimoniali o frutto di superstizioni radicate nella mentalità collettiva? Non abbiamo motivo di dubitare che la gente credesse sinceramente che il demonio deflorasse le fanciulle: in paese non c’era abitazione senza un’immagine apotropaica utile a scacciare gli spiriti maligni. Preti e laici accusavano i Santi di imprigionare il Diavolo che si trasformava in un gatto nero o in una bella donna, ma diversi religiosi erano specializzati nell’esorcizzarlo.

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    Strade e volti in Sila alla fine degli anni ’50: foto di Franco Pinna

    La Madonna carcerata

    Le magie, le credenze, il delirio, l’autoesaltazione e la bizzarria dei Santi, denunciate come tali dai loro nemici, erano il risultato di una cultura religiosa antichissima, sopravvissuta nella comunità di Bocchigliero con la complicità della stessa Chiesa. In occasione della festa in onore della Madonna de Jesu, che si svolgeva due volte all’anno, la chiesetta della Riforma era affollata di gente che con devozione portava «mai», accendeva candele e lampade ad olio, cantava e salmodiava rosari, strisciava in ginocchio fino all’altare.

    In occasione di tormente di neve, alluvioni o siccità, la stessa Madonna veniva, però, immediatamente trasferita dal suo altare e «carcerata» nella chiesa madre affinché allontanasse i pericoli dalla comunità. Il termine carcerare sta ad indicare proprio l’intenzione degli abitanti: la Vergine era prigioniera e restava lontana dalla sua chiesa sino a quando non avesse esaudito ciò che il popolo pretendeva. Grandi feste e grande devozione per la Madonna, dunque, ma anche disappunto e vendetta nel caso che non si comportasse adeguatamente!

  • I “subburchi” e la Pasqua: dai giardini di Adone a quelli di Cristo

    I “subburchi” e la Pasqua: dai giardini di Adone a quelli di Cristo

    Ricordo che a Pasqua con gli amici giravamo nelle chiese cosentine per i subburchi. Dovevamo vederne almeno tre e comunque in numero dispari. I preti ci dicevano che quei semi di grano cresciuti al buio simboleggiavano la morte di Gesù e, una volta germogliati e diventati biondo-oro, rappresentavano la sua resurrezione. Le nostre mamme, prima del periodo pasquale, seminavano grano, lenticchie, cicerchie e ceci dentro piatti o ciotole che conservavano al buio e bagnavano ogni due giorni.

    La tradizione dei subburchi

    Le piantine, una volta cresciute, legate con nastri di vario colore e adornate di fiori, venivano portate in chiesa il giovedì e poste accanto all’immagine di Cristo morto. Il Venerdì Santo, il più triste della Settimana Santa, gli altari erano spogliati dei paramenti e le immagini sacre coperte da un panno nero. Il mattino di Pasqua, al termine della messa, le donne portavano via il «grano santo» e lo piantavano negli orti o lo regalavano alle vicine come buon augurio.

    Il dio del grano e quello dei cattolici

    Anche le donne greche durante le Adonie seminavano grano, legumi e fiori nei vasi di terracotta. Cresciute le piantine, le ponevano accanto alle immagini di Adone morto. Al termine delle celebrazioni, prendevano i vasi con i germogli ormai appassiti e li gettavano nelle fonti d’acqua insieme alle statuette del dio. Secondo Frazer, Adone, che in lingua semitica significa «Signore», come altre divinità orientali che morivano e resuscitavano, era un dio del grano e della vegetazione. Le Adonie erano destinate a promuovere la crescita o il rinvigorimento della vegetazione secondo il principio della magia imitativa: riproducendo la vita delle messi, i contadini pensavano di assicurarsi un buon raccolto.

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    John Reinhard Weguelin, “I Giardini di Adone” (1888)

    La rapida germinazione del grano e dell’orzo nei «giardini di Adone» aveva lo scopo di far crescere i cereali, così come buttare i «giardini» con le statuette del dio nell’acqua propiziavano la pioggia fertilizzatrice. I «giardini di Adone» erano dunque una ritualità misterica sperimentata per incoraggiare la crescita della vegetazione, rappresentavano il risveglio primaverile della natura dal sonno invernale.

    Subburchi come le Adonie? C’è chi dice no

    Questa interpretazione, tuttavia, non trova tutti d’accordo. Detienne, ad esempio, osserva che le Adonie si celebravano in estate e non in primavera, e cioè nei giorni della canicola e dell’aridità. I «giardini» verdeggianti e vivaci non rappresentavano rinascita e vita, ma morte e desolazione. Il rigoglio era illusorio, rivelava l’impotenza a fruttificare: appena verdi, infatti, le piantine inaridivano velocemente sotto il calore del sole estivo. Al termine della ritualità, inoltre, le donne gettavano i vasi e il contenuto nell’acqua fredda delle sorgenti o nel mare infecondo.

    Adone era un adolescente precoce ma impotente e improduttivo, un seduttore straordinario ma sterile ed effeminato, in definitiva non un dio della vegetazione ma della sterilità. Detienne aggiunge che nel rituale greco le piantine stavano in piccoli recipienti, non nella vasta terra nutrice; godevano del solo periodo della canicola, non della maturazione lenta e naturale; avevano un ciclo di otto giorni, non di otto mesi (il tempo che intercorre tra semina e mietitura). Senza maturità, radici e frutti, con la loro rapida e illusoria fioritura, i giardini infecondi erano agli antipodi dell’agricoltura.

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    Marcel Detienne

    Affinità e divergenze tra i due culti

    Frazer sostiene invece che la ritualità dei Sepolcri, praticata soprattutto in Calabria e Sicilia, era la continuazione sotto diverso nome del culto di Adone. Secondo lo studioso, i drammi sacri erano sopravvissuti in queste regioni perché colpivano l’immaginazione e toccavano i sentimenti di una «razza», quella meridionale, disponibile per temperamento (a differenza di quella teutonica) verso le cerimonie caratterizzate da pompa e magnificenza. La Chiesa, con grande abilità, soprattutto per celebrazioni come quella del Cristo morto e resuscitato, aveva innestato la fede cristiana sul «vecchio tronco» del paganesimo.

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    La somiglianza tra i «giardini di Adone» e i «sepolcri di Cristo» è indiscutibile, ma la filiazione diretta è tutt’altro che scontata. Indubbiamente i «Giardini di Gesù», ancora oggi allestiti dalle donne in occasione del Venerdì Santo, ricordano i «Giardini di Adone». Ma fra le due ritualità esistono più differenze che somiglianze. La festa delle Adonie si svolge nelle abitazioni private mentre quella della Pasqua nelle chiese; la prima si evolve in un clima sregolato e indecente, la seconda in un clima sommesso e solenne; l’una si caratterizza per la libertà sessuale, l’altra per la continenza; la prima è all’insegna di abbuffate e allegre bevute, la seconda del digiuno e della sobrietà; la prima è una festa allegra e rumorosa delle cortigiane, la seconda il rito luttuoso e angosciante delle madri.

    L’importanza della memoria e dell’oblio

    Bisogna studiare con attenzione le tradizioni folkloriche e soprattutto non sopravvalutare la «memoria collettiva». L’uomo ha bisogno dell’oblio come della memoria, ha necessità di dimenticare come di ricordare. A volte ha cattiva memoria e dimentica, a volte inventa, a volte ricorda i minimi particolari, a volte accade che alcune credenze rimaste nell’ombra si ridestano e ritornano a galla. Spesso si parla della «memoria collettiva» come di un organismo dotato di una psiche comune, di un qualcosa che contiene tutti i ricordi. In realtà capita spesso che gruppi di individui, a volte intenzionalmente, non trasmettono quanto conoscono alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano mentre di altri si perda traccia.

    Non esiste un mondo statico, la realtà è in continuo movimento, le società sono sottoposte sempre a nuovi condizionamenti culturali e materiali. Una ritualità che si richiama a un evento mitico, se non trova un equilibrio nelle sue molteplici funzioni e se viene meno quel flusso di informazioni e credenze tramandate da una cultura all’altra, può anche avere fine. Quando un mito non è più un elemento vitale per una comunità cessa di esistere. Ci sono miti che si modificano, perdono di senso, appaiono e scompaiono, riaffiorano in altri miti.

    Vecchie e nuovi miti

    A volte alcuni miti sembrano simili tra loro, ma lo sono solo apparentemente. Capita che l’uomo utilizzi vecchi miti dando ad essi significati nuovi o riempia nuovi miti di significati vecchi. Come ogni cosa, i miti nascono e muoiono. Per non rischiare di fare generalizzazioni bisogna bisogna inquadrare le tradizioni popolari nel tempo in cui nascono e si sviluppano. La cultura muta continuamente, la produzione delle idee è direttamente intrecciata all’attività e alle relazioni materiali. Le tradizioni popolari non si sottraggono ai mutamenti sociali e alla dinamica delle forze creative umane: esse, come direbbe Mauss, sono un fatto sociale totale, investono tutti gli ambiti della vita dell’uomo e coinvolgono la società nei suoi molteplici aspetti.