Autore: Giovanni Sole

  • Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Piovene scriveva che la maggior parte dei calabresi aveva una cultura montanara più che marinara. Contemplavano il mare dalle alture dei loro paesi, senza esservi mai stati vicini. La pesca non si praticava molto in Calabria per la mancanza di porti. Solo in alcuni centri come Parghelia e Scilla l’attività di mare era sviluppata.
    Galanti ci informa che i marinai di Scilla erano trecento e veleggiavano su feluche a due alberi che trasportavano merci fino a duecentocinquanta cantaia. Ciascuna imbarcazione aveva un equipaggio di venticinque marinai che partivano in ottobre per vendere e acquistar prodotti di vario tipo.

    Commerciavano soprattutto stoffe, alici salate, mandorle, pasta di “rigorizia”, uva passa, manna, limoni, essenza di bergamotto e “portogalli”.
    Una volta nei porti dell’alto Adriatico, soprattutto Venezia e Trieste, vendevano le loro merci. Inoltre acquistavano prodotti importati specialmente dalla Germania e dalla Svizzera per rivenderli in Puglia e in Calabria.

    La pesca e il problema del sale

    Lungo i villaggi della costa c’erano poche imbarcazioni e la pesca si esercitava solo nei mesi in cui il mare era calmo. D’inverno si vedevano solo barche che provenivano dalla Sicilia, dalla Puglia e dalla Campania. Malpica annotava che i pescatori di Sorrento si stabilivano a Schiavonea, portando con sé mogli e figli, all’inizio dell’inverno e andavano via al cominciare dell’estate. Con le loro agili barche, non avevano timore ad affrontare il mare tempestoso, ma spesso la pesca era infruttuosa e portavano a casa solo debiti.pesce-spada

    L’attività della pesca, ricordava Galanti, era poco sviluppata anche perché risultava difficile smerciare il pesce fresco in quanto il trasporto richiedeva molto tempo. Si mangiava pesce quando la distanza lo permetteva. Il mare era ricco di acciughe e sarde, ma il sale fossile, ottimo per salare le carni, non era adatto per conservarle. La carenza e il costo eccessivo del sale rappresentava un serio problema. A Crotone, ad esempio, quando la pesca dei tonni era abbondante, molti pesci venivano bruciati o ributtati in mare perché era impossibile salarli o venderli.

    Pesce spada, l’imperatore dei mari

    Oltre al tonno, la pesca più importante e spettacolare in Calabria era quella del pesce spada. Nel 1862, Lombroso scriveva che erano numerosi i pescatori che si dedicavano alla sua cattura. Erano divisi in piccole società di 10 o 20 membri e il loro linguaggio era «d’antichissimo conio greco».
    Il pesce spada (xiphias gladius), l’imperatore dei mari, era una “bestia” lunga da sei a otto piedi. Il peso variava dalle due alle trecento libbre e, talvolta, raggiungeva i quattro quintali. La spada attaccata alla testa del corpo filiforme ne faceva un mostro.

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    Pescatori a Scilla

    Nel 1791, Stolberg annotava che, nel mare di Scilla, lottavano incessantemente con i «cani di mare». Un giorno le onde avevano scaraventato sulla spiaggia un pesce spada e un pescecane. Il primo aveva infilzato il secondo, ma non riuscendo a ritrarre la “sciabola” e impossibilitato a nuotare liberamente, era morto insieme a lui. I marinai raccontavano che il pesce furioso per la ferita dell’arpione a volte si lanciava contro le barche sfondandole con la spada. Per questo stavano sempre in guardia, soprattutto se l’animale era di taglia considerevole e la ferita leggera.

    Il pesce spada e l’incantesimo in greco

    Alcuni studiosi sostenevano che il pesce spada arrivava sulle coste della Calabria nel mese di giugno per poi spostarsi sulle coste della Sicilia. Altri scrivevano che a partire dal mese di aprile fino alla fine di giugno, entrando nello Stretto, seguiva la costa sicula per poi costeggiare la Calabria. Il pesce spada si muoveva sempre sulle orme della femmina, che non perdeva mai di vista e un viaggiatore notava che questo sentimento naturale comportava quasi sempre la rovina dell’uno e dell’altra.

    Il marinaio che li scorgeva ne approfittava: i suoi colpi cadevano prima sulla femmina, giacché dal momento in cui questa era colpita il maschio non pensava più a fuggire.
    Brydone raccontava che i pescatori dello Stretto, alquanto superstiziosi, pronunciavano frasi in greco come «incantesimo» per attirare il pesce spada vicino alle loro barche. E che se per disgrazia l’animale li sentiva parlare in italiano, si tuffava di botto sott’acqua per non comparire più!

    Come catturare il pesce spada

    In realtà la pesca del pesce spada era molto complessa e sperimentata nel corso dei secoli. Per catturarlo i marinai usavano i luntri, barche con un albero dall’altezza notevole terminante con una piattaforma, dove stava il giovane incaricato ad osservare i movimenti del pesce.

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    Un luntro dipinto da Renato Guttuso

    Queste imbarcazioni, lunghe diciassette-diciotto piedi, avevano la prua più larga e più alta della poppa per facilitare i movimenti del lanciatore: scelto fra gli uomini più forti e abili, era armato di una fiocina, la cui asta, fatta di legno durissimo, era lunga almeno dodici piedi. Il dardo terminale, che i locali chiamavano freccia, era lungo sette-otto pollici e provvisto di due orecchie mobili di ferro.
    Una volta entrata nel corpo del “mostro”, la freccia non poteva essere estratta che dalla mano dell’uomo
    .

    Sulle coste della Calabria, alcune persone si arrampicavano sulle rocce e sugli scogli che costeggiavano la riva per avvistare il pesce e segnalarlo con urla e bandierine ai compagni sulle barche. Il lanciatore, in piedi sulla prua, con l’arma in mano, cercava di tenere l’animale sotto tiro. Quando era alla portata della lancia, aspettando il momento favorevole, lo infilzava e lasciava libera la corda. Il pesce spada ferito, perdendo le forze risaliva in superficie, i pescatori lo avvicinano con un gancio di ferro all’imbarcazione e lo portavano a riva.
    La caccia al pesce spada attirava e affascinava studiosi e viaggiatori che annotavano in maniera dettagliata la tecniche per catturarli. Citiamo le descrizioni di Polibio, Grasser e Bartels.

    Polibio

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    Un antico mosaico sulla cattura del pesce spada

    A questo proposito racconta Polibio il modo con che si pescano i pesci spada intorno al promontorio di Scilla. Posta in sito acconcio una barca, la quale serva come di spia, si cacciano in mare molti schifi a due remi, in ciascuno de’ quali sono due uomini, uno per governarlo co’ remi, e l’altro in prora armato di un’asta per ferire il pesce. Al segno che da l’esploratore, che viene il pesce spada, il quale suole con un terzo del corpo star sopra l’acqua, lo schifo gli si appressa, e quello che tiene l’asta, gliela caccia da vicino nel corpo, e subito ritirandola ne rimane la punta fitta nel pesce, perché sendo fatta a guisa di amo, è attaccata all’asta in maniera che facilmente si lascia nella ferita, lanciata che è.

    A quel ferro è congiunta lunghissima cordicella, la quale tanto vanno allentando, ferito che è il pesce, fin a tanto che dibattendosi, sforzandosi di fuggire, si stanchi; allora lo tirano al lido, ovvero lo raccolgono nello schifo, se pure non è troppo pesante, e grande. Se avviene che l’asta cada in mare, non però si perde; perciocchè essendo fatta di quercia la tira bensì sott’acqua, ma fa insieme che dall’altro capo l’abete, come più leggero, s’innalzi, ed agevolmente si possa ripigliare. Avviene anche talvolta, che quello dei remi nello schifo sia ferito dalla grandezza della spada che ha il pesce, e dalla forza con cui la vibra, ond’è che questa pesca sia pericolosa non meno della caccia de’ cinghiali.

    Jacob Grasser (1606)

    Nei pressi del mare c’è un torrione o una guardiola, dove ad un uomo di vedetta vien dato l’incarico di segnalare l’arrivo dei pesci spada. Fa parte della natura di questi pesci tenersi con un terzo del corpo fuori dell’acqua. Quando ciò avviene, i pescatori si distribuiscono in tutta la zona con le loro imbarcazioni, in modo che in ogni singola imbarcazione si vengono a trovare due persone: una con due remi alla guida della barca, l’altra a prua con in mano una fiocina. Appena la vedetta indica il punto dove si trova il pesce, la barca vicina lo raggiunge a remi, mentre un pescatore veloce lo colpisce con la fiocina che viene subito tirata indietro per cui il ferro, che è provvisto di una punta ricurva a mo’ di amo, resta conficcata nel pesce e nella ferita.arpione-pesce-spada

    Quest’uncino è fatto in modo che la punta ricada all’ingiù. Al ferro è fissata una corda di una certa lunghezza che permette al pesce, ancora convinto di poter sfuggire alla cattura, di voltolarsi e muoversi con una certa libertà sino a stancarsi. Quindi lo trascinano a riva o, se non è troppo grande, ché talvolta se ne trovano di una lunghezza superiore a dieci cubiti, lo tirano sulla barca […] Il pesce spada è così violento ed irruente che spesso con la lunga spada riesce a ferire il rematore. È per questo che la pesca è pericolosa come una caccia al cinghiale, ed è anche difficile pescarlo con le reti dal momento che con la spada riesce a strapparle. Appena lo si è pescato, lo si fa a pezzi e lo si mette sotto sale come un tonno. Dicono che la sua carne sia molto delicata ma un po’ difficile da digerire.

    Johann Heinrich Bartels (1786)

    Secondo il racconto di Strabone si utilizzavano due imbarcazioni, una delle quali provvista di un albero su cui sedeva un uomo che aveva il compito di avvistare il pesce. Una volta avvistato il pesce che spuntava con le pinne dalla superficie del mare, l’uomo allertava i suoi compagni indicando loro come raggiungerlo. Subito una seconda imbarcazione si metteva al suo inseguimento mentre un uomo con una fiocina in mano si portava d’un balzo sulla prua.pesce-2

    Appena il pesce, che nel frattempo si era messo a giocare con l’ombra della barca, giungeva a tiro, l’uomo gli lanciava, ferendolo, la fiocina fissata ad un bastone legato a sua volta ad una corda. Nella fuga il pesce trascinava con sé la fiocina col bastone, e, quando le forze lo abbandonavano, veniva recuperato con la corsa e caricato sulla barca. Questa, all’incirca, la descrizione di Strabone; ed è questo anche il modo in cui si opera ancor oggi – con una piccola innovazione che rende più semplice l’operazione. Per attirare ed osservare il pesce, si manda avanti una feluca di una certa dimensione ad un albero, seguita da due piccole imbarcazioni. Appena si avvista il pesce, una di queste imbarcazioni viene mandata avanti con un piccolo equipaggio e un fiociniere. Lo strumento, una punta di ferro fissata ad un bastone, è rimasto immutato.spada-ponte

    Mentre il pesce, ferito, fugge via, la corda fissata al bastone della fiocina viene allentata; e, appena ci si accorge che il pesce ha perso le forze, ecco sopraggiungere la seconda imbarcazione al seguito della feluca, la cosiddetta barca della morte, che insegue il pesce finché questo ce la fa a fuggire, e lo recupera appena muore. Questa pesca si pratica di norma nei mesi di giugno, luglio e agosto.

  • Tarantolati di quaggiù, ecco il morso della Calabria

    Tarantolati di quaggiù, ecco il morso della Calabria

    Il tarantismo in Calabria era diffuso come in Puglia e, nel corso dei secoli, oggetto di studio da parte di scienziati, medici e letterati. Già nel Seicento diversi studiosi stranieri come Kirchmajeri, Muller, Jonston e Madeira scrivevano che le perniciose tarantole nei mesi di giugno, luglio e agosto tormentavano gli agricoltori calabresi causando un «corybanteo furore».

    Il fisico inglese Thomas accennava a un certo spider il cui veleno veniva curato dagli abitanti delle Calabrie con una pratica magica attraverso musica, canti e danza. Negli stessi anni, Epifanio raccontava che la regione era invasa dai velenosi falangi tanto che in alcune zone i locali ricavavano dalle loro tele una seta bianca anche se, richiedendo molta spesa e lavoro, non era molto redditizia.
    Agli inizi del Settecento il viaggiatore inglese Berkeley annotava che il tarantolismo, malattia provocata dal veleno della lycosa tarantula che sconvolgeva la mente era diffuso specialmente nei paesi pugliesi e calabresi. Francesco Saverio Clavigero affermava che se le campagne romane erano infestate da vipere e le coste adriatiche da zanzare, quelle calabresi erano invase dalle temibili tarantole.

    Il ballo di San Vito

    Pietro Le Brun raccontava che le ariette eseguite nei villaggi della Calabria per guarire i numerosi morsicati dal ragno si chiamavano «canzoni di san Vito», il taumaturgo in grado di neutralizzare il veleno di quegli insetti. Gianrinaldo Carli sottolineava che in diverse comunità della regione gli avvelenati dalle tarantole, per risvegliarsi dal torpore, erano costretti a piroettare al suono di varie melodie per alcuni giorni fino al completo risanamento. Qualche anno dopo il naturalista Minasi raccolse numerose tarantole nei suoi terreni di Scilla e fece addentare piccioni, galline, lucertole e gatti per dimostrare l’inefficacia del veleno. Era esperto dell’insetto, che descrisse minuziosamente, e si racconta che regalò all’imperatrice delle Russie Caterina II un paio di guanti con bozzoli dell’aracnide ridotti in seta.

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    La lycosa tarantula

    Tarantola e tarantelle

    Nell’Ottocento, l’interesse nei confronti del tarantismo calabrese aumentò notevolmente e i racconti sul rito di guarigione erano spesso contrastanti. Carcano scriveva che la regione era infestata dalle «tarantelle» che, mordendo in tempo d’estate, mettevano addosso una «rabbia» che spingeva a saltellare. Le vittime di quel ragno erano numerose e, poiché per guarire era necessaria la musica, vi erano molti suonatori ben retribuiti che svolgevano questo lavoro. Il medico Antonio Pitaro riferiva di aver assistito a due casi di tarantolismo e raccontava che i contadini per soccorrere le vittime ponevano sulla ferita il falangio schiacciato e due monete bagnate con saliva.

    De Tavel, ufficiale francese, appuntava nel suo diario che tra i calabresi era diffusa la credenza che per neutralizzare il veleno della tarantola bisognava ballare la tarantella, una bizzarra danza in cui, alla maniera dei «selvaggi», compivano contorsioni e gesti indecenti che degeneravano in una specie di delirio. Spizzirri raccontava che un giovane del suo paese morso da una tarantola fu condotto da un chirurgo il quale applicò sulla ferita un bottone rovente senza che ciò apportasse alcun sollievo.

    Bagni di vino

    Il padre mandò a chiamare un noto ciaravularo di Mendicino, che recitò alcuni carmi, sistemò sul capo dell’infermo un mantello di lana e gli fece fare dei bagni di vapore di vino dentro al quale aveva fatto bollire rosmarino e altre erbe. Il ragazzo dopo tre giorni guarì.
    La prolifica e spiritosa scrittrice Chaterine Grace Frances Gore, i cui romanzi erano alla moda in Inghilterra, dedicò un lungo racconto a una tarantolata calabrese. Il dottor Magliari asseriva che in Calabria le tarantole era velenosissime e spingeva gli infermi a saltellare tarantelle diverse da quelle della Puglia; in alcuni paesi, invece, i sanitari curavano gli avvelenati senza liuti e chitarre, usando soprattutto vapori di vino aromatizzato con varie piante.
    Pugliese informava che a Crucoli, nella Calabria Ulteriore, si praticava ancora l’uso di sanare i trafitti della tarantola facendo ballare gli ammalati fino all’esaurimento delle forze al suono della chitarra.

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    Illustrazione della tarantella suonata e ballata nel Meridione d’Italia

    Salta e suda che ti passa

    Vergari annotava che le tarantole in Calabria erano numerose e i dottori per guarirne il morso usavano l’aceto ammoniacale e farmaci che favorivano la sudorazione, ma il rimedio più diffuso rimaneva quello di far saltellare il paziente per farlo sudare. Il medico Giovanni Nigro di Rossano comunicava che a Cropalati due ragazzi morsicati dalla lycosa tarantula erano guariti con la danza protratta per un mese mentre il dottor Volpe di Nicastro riferiva che in una contrada infestata da tarantole la gente eliminava il veleno mettendo i pazienti in una stufa e allietandoli con chitarre battenti e cantilene.

    In una ricerca condotta sul «male del ragno», Achille Costa sosteneva che diversi territori calabresi erano infestati dai terribili falangi e i morsicati avevano una tendenza al pianto o al riso. I contadini chiamavano le tarantole «schette», «vedove» e «maritate» e le catturavano con un frustolo di paglia avvolto in poca seta: lo calavano nella tana e ne prendevano di gigantesche simili a quelle pugliesi.

    La melodia della tarantola

    Sempre nell’800, Marzano raccontava che in Calabria, la tarantola che mordeva nella stagione estiva produceva smania e irrequietezza e gli infermi, ascoltando la musica, erano spinti ad un convulso volteggiare. Per liberarsi dal veleno del terribile insetto si doveva trovare la melodia dell’aracnide e per questo motivo i parenti assoldavano esperti suonatori di pifferi, zampogne, chitarre e tamburelli.

    Ai primi suoni di questi «schiamazzosi» strumenti, la tarantolata emetteva lunghi sospiri, si contorceva, si dimenava e, all’incalzare del ritmo, si alzava dal letto e iniziava una danza frenetica e delirante. I giovani del vicinato si alternavano a ballare con l’ammalata fin tanto che, affranta dalla stanchezza, questa cadeva esausta tra un fiume di sudore che ne leniva i patimenti. Una volta riposata, la donna cominciava nuovamente a sgambettare in maniera furibonda al suono della tarantella e, dopo tre giorni, si metteva a letto ormai guarita.

    Vedove e zitelle

    Spesso, per animare vieppiù il ballo, alla musica si univa il canto delle comari in cui si rimproverava la tarantola «malandrina» di aver portato la povera ragazza alla rovina. Alla fine del secolo, Pignatari scriveva che i calabresi credevano nel morso del falangio curato col ballo non meno dei pugliesi e dei napoletani e pensavano che se la tarantola era vedova il morsicato preferiva danzare con persone vestite a lutto mentre se era zitella o maritata non badava ai colori. A tal proposito lo studioso notava che, a differenza di quanto sosteneva Aldovrandi, le tarantolate non avevano mai mostrato predilezione per il rosso e il verde, né avevano avversione per il nero poiché le gonne e i giubbetti delle contadine erano colorati con l’indaco.

    A Vena, un villaggio albanese, Francesco Bubba durante il rito di guarigione per il veleno del ragno volle cambiare sette vestiti abbigliandosi da signore, da prete, da sposo, da signora e da campagnola.

    Quando la banda passò

    Agli inizi del Novecento, secondo alcune testimonianze, il tarantismo era ancora presente in Calabria. Lorenzo Galasso di Nicotera, parroco di Comparni, una piccola frazione di Mileto, asseriva che nelle sue zone il volgo era convinto che la tarantola fosse velenosa e, se l’intossicato non guariva tramite il ballo, era messo in un forno ben caldo per circa un’ora. Raccontava di aver visto una giovinetta in salute che, punta dall’insetto, era diventata pallida come la morte e, nonostante spiegasse che altre erano le cause del male, i suoi familiari corsero a chiamare dei suonatori: appena questi cominciarono a suonare, la donna iniziò a gridare e ballare.

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    Il tarantismo ha attraversato la storia e la cultura del Meridione d’Italia

    La gente riteneva che la morsicata chiedesse abiti da signora, da signorina o da zitella a secondo che la tarantola fosse maritata, zitella o vedova. Secondo l’opinione diffusa, inoltre, bisognava esaudire le richieste delle morsicate e una di loro era così capricciosa che, non soddisfatta degli orchestranti, richiese una banda musicale intera. L’attarantata ballando doveva fare le stesse cose del falangio che l’aveva trafitta fino a tramortire l’insetto che era nel suo corpo e per questo motivo a volte ballava giorno e notte anche per quindici giorni.

    L’estrema unzione

    Nel momento in cui stava per arrivare la morte del ragno, la giovane sembrava entrasse in agonia, barcollava nella stanza sostenuta dalle amiche e, con un fil di voce, voleva ceri accesi e un sacerdote per l’estrema unzione. Il parroco riferiva che un giorno, chiamato da una famiglia del paese, trovò una femmina stesa a terra e i parenti seduti tutt’intorno pretesero che la ungesse perché così richiedeva l’agonia dell’aracnide.

    Intimorito per il tono minaccioso chiese perdono al Signore e con l’olio fece dei segni sulla fronte dell’avvelenata e la benedì con l’aspersorio che avevano portato delle vicine. La tarantata chiuse gli occhi come se fosse davvero morta e le donne continuarono a piangere ma dopo un po’ improvvisamente si alzò in piedi guarita.
    Un altro prete, mentre stava dando l’assoluzione a una tarantolata di settant’anni vide che la moribonda, all’udire dei suoni provenienti dall’esterno, si alzò dal letto e come una indemoniata si mise a saltellare e accanirsi contro di lui con fare minaccioso tale da costringerlo a scappare.

    Interviene il Comune di Mileto

    Galasso informava, inoltre, che nella comunità di Comparni erano state punte dalle tarantole quarantacinque persone e, poiché ogni attività in paese era ferma, per avere cibo bisognò chiedere aiuto al comune di Mileto.

    Per un mese nel paese non si fece altro che suonare, cantare e ballare come in una festa e una fanciulla, che presa d’invidia dalle compagne che ballavano si era aggregata a loro, fu picchiata dal padre con un nodoso bastone. Molta gente pensava che le tarantolate fossero furbe donzelle che volevano farsi ammirare come ballerine ma ciò non era molto credibile perché nessuno desiderava dimenarsi per tanto tempo, senza contare che il rito richiedeva una spesa notevole per famiglie che non potevano permetterselo.

    Il morso della tarantola

    Adriano affermava che la fantasia dei campagnoli calabresi, eccitata da una esagerata suggestione e fomentata dalle più assurde credenze, continuava ad attribuire alla puntura della lycosa tarantula un grave avvelenamento che si manifestava con la taràntula, una danza convulsiva ed irrefrenabile. Così il volgo chiamava indifferentemente con lo stesso nome sia l’animale che gli effetti del suo morso: L’à muzzicatu ‘a tarantula, è stato morsicato dalla tarantola; e tena la tarantula, è affetto da tarantismo.

    Raffaele Lombardi Satriani aggiungeva che i contadini individuavano la tarantola pecurara e quaddarara: nel primo caso il sofferente doveva ballare al suono della zampogna; nel secondo caso si doveva accompagnare il ballo con una lira o battendo con una mazza su una pentola. Il morsicato doveva indossare vestiti diversi a secondo se il falangio era di color nero o rosso: se il ragno era di color nero, gli abiti della tarantolata dovevano essere neri, perché si credeva che la tarantola fosse vedova; se invece era screziato di rosso, gli abiti dovevano essere di zita o di zitu (sposa o sposo).
    La comare, ritenuta esperta delle segrete cose, aveva un ruolo fondamentale durante il rito: assegnava i compiti ai ballerini, sceglieva le armonie degli strumenti e dirigeva un coro in cui si diceva che la «signora tarantola» aveva trafitto la poveretta al piede e con i piedi sarebbe stata schiacciata.

  • Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    La Calabria era una delle maggiori produttrici di manna. Pregiatissima e purissima, simile alla cera e dolce come il miele, la preziosa manna si esportava all’estero dove si vendeva come dolcificante naturale e regolatore intestinale.
    La raccolta della manna incuriosì i viaggiatori stranieri più di ogni altra attività produttiva della regione. Le loro informazioni sull’industria sono ricche di dettagli: i luoghi e il periodo in cui si raccoglieva, chi erano i proprietari degli alberi, quanti erano e quanto guadagnavano gli operai, le tecniche di estrazione e di produzione, i tipi di manna e le sue proprietà in campo medico, come si commercializzava e quanto profitto si ricavava dalla sua vendita.

    La manna migliore in Calabria? Sullo Jonio

    Duret de Tavel, Auguste de Rivarol, Orazio Rilliet, Gerhard vom Rath, Francesco Lenormant nell’Ottocento scrivevano che la manna più pregiata si raccoglieva dall’olmo o frassino selvaggio delle montagne vicino Corigliano e Rossano, al di sotto della zona dei faggi e delle querce. L’albero poteva fruttificare regolarmente all’età di dieci anni e la sua produzione continuava per trenta o quaranta, pur diminuendo molto negli ultimi anni.

    Incisioni su un albero per la raccolta della manna

    Verso la fine di luglio i contadini praticavano con un falcetto tagli orizzontali nel tronco dell’albero profondi circa un centimetro. Quindi sistemavano ai piedi foglie di acero o di fico d’india per raccogliere il succo vischioso che scendeva da ciascuna apertura. Questo succo qualche volta trasudava naturalmente sul tronco e sui rami, senza la necessità di provocarne lo stillicidio intaccandone la corteccia. La manna gocciolava da mezzo dì alla sera, sotto forma di un liquido incolore e trasparente. Si raccoglieva la mattina, quando il fresco della notte l’aveva disseccata dandole consistenza.
    Il succo che restava attaccato sul tronco e sui rami, conservandosi più puro, dava la qualità superiore, chiamato in commercio “manna in lacrime”. La “manna comune”, più ordinaria e meno ricercata, era quella che si raccoglieva sullo strato di foglie steso a terra per accoglierla nella sua caduta.

    Guai a chi la tocca

    I viaggiatori scrivevano che la manna era una delle più pesanti e inique corvée che il suddito doveva al sovrano. E «guai a quel contadino nella cui casa fosse stata trovata una quantità anche minima». Il re dava in appalto la produzione della manna a una Compagnia. Questa vessava i disgraziati campagnoli, «costretti a svolgere la raccolta in condizioni e con una sorveglianza davvero barbare».
    Nel 1786, Johann Heinrich Bartels, illuminista tedesco di Amburgo, annotava sulla produzione della manna nella provincia di Cosenza:

    «Con la manna prodotta in gran quantità in questa zona, specialmente nella parte orientale della provincia, si alimenta, com’è noto, una ricca attività commerciale. Solo il Re può però racoglierla, non i feudatari. Ad essi spetta il compito di provvedere alla raccolta materiale all’epoca prestabilita, nei mesi di luglio e agosto. La raccolta dura sulle cinque settimane. Durante tutto questo tempo tutti coloro che vengono chiamati dal feudatario per raccogliere la manna sono tenuti a mettere da parte i loro affari privati e a lavorare solo per il Re. Nel caso trasgrediscano a questo divieto, sono passibili di pene durissime.

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    Un produttore di manna dei nostri giorni

    Per tutto questo ricevono un risarcimento di 3 carlini al giorno. A dire il feudatario riceve per ogni uomo che impiega 5 carlini, ma ne trattiene due per sé. Per volere del Re la raccolta della manna viene sempre data in appalto. Per evitare furti, il governo è tanto geloso di questo prodotto che per tutto il tempo della raccolta si vedono in giro per i boschi gli sbirri, la cosiddetta Guardia, coi fucili spianati pronti a far fuoco su chiunque si azzardi da quelle parti senza l’accompagnamento di una persona abilitata. I raccoglitori possono mangiare quanta manna vogliono, ma pagano con la vita il minimo furto».

    Le incisioni sugli alberi

    Bartels descriveva poi nei dettagli le tecniche di produzione della manna in Calabria: «Il modo in cui viene prodotta la manna è duplice, in parte richiede la mano dell’uomo, in parte no. Nel primo caso si fanno delle incisioni sul tronco dell’albero dalle quali fuoriesce la manna che viene raccolta in piccoli recipienti. Le incisioni sono orizzontali e si fanno a poca distanza l’una dall’altra, da un pollice e mezzo a due. La lunghezza dell’incisione forma con l’altezza un rettangolo equilatero. L’incisione che si produce con un coltello a forma di piccola falce ha una profondità di mezzo pollice. Ai piedi dell’albero, per raccogliere la manna che fuoriesce dalle incisioni, si sistemano le grandi foglie spinose dei fichi d’India, una pianta che cresce in quantità sui bordi delle strade, e fa da siepe come da noi il roveto, foglie che seccando diventano concave.

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    Fiori di frassino, l’albero che produce tra le migliori qualità di manna

    Per evitare che la manna goccioli per terra, sotto la prima incisione si fa una fessura alla quale si attacca una foglia sui cui gocciola la manna prima di finire nel recipiente a terra. Si comincia ad incidere l’albero dal basso e poi a poco a poco si procede verso l’alto, e, se la stagione lo permette, si fanno delle incisioni anche sui rami grandi. Se all’epoca della raccolta piove o il tempo è mite, la raccolta è meno abbondante del solito in quanto la mancanza di caldo rallenta la fuoriuscita della linfa e la pioggia lo lava via. Il colore rassomiglia alla cera che gocciola da una fiaccola e ha un sapore dolce di miele. Nel secondo caso l’uomo si limita a raccogliere quel che viene fuori col calore del sole».

    La manna in Calabria: falsi miti e segreti

    L’illuminista concludeva soffermandosi sugli aspetti economici della questione, tra convinzioni da sfatare e misteri contabili. «È sbagliato però credere che la manna sgorghi dalle foglie: sgorga, come nel primo caso, dal tronco, e scivola lungo il tronco o, nel caso le foglie ne ostacoli il corso, lungo le stesse foglie. Scorre liquido e puro come acqua e, quando il vento lo raffredda, si fissa in palline che o restano attaccate al tronco o si fermano sulle foglie – da qui la leggenda che sgorgherebbe dalle foglie. Come potete facilmente immaginarvi, gli insetti, le formiche, le lucertole, le api ecc. ne vanno ghiotti. La manna ricavata col solo aiuto del sole è, a detta di tutti, la migliore. È così che la producono gli orni e i frassini, anche se in quantità ridotta.

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    Manna raccolta ai piedi di un albero

    La manna ricavata dall’orno è di colore bianco, simile a cera bianca, quella ricavata dal frassino va più sul giallo. Mi hanno assicurato che questa manna si vende a 7 talleri l’oncia, o a 50 talleri per 6 once. Per me sarebbe stato più importante avere il dato preciso della quantità complessiva della manna raccolta e delle entrate del Re; ma, a quanto pare, in questo paese queste informazioni vengono custodite con uno zelo tale che di fatto se ne preclude l’accesso ad uno straniero Quanto grande sia il profitto lo potete dedurre da questo dato: soltanto a Campana e a Bocchigliero, due piccole località della Calabria Citeriore se ne raccoglierebbero 30.000 libre all’anno».

  • Puma d’oro e d’amuri: così il pomodoro si è preso la Calabria

    Puma d’oro e d’amuri: così il pomodoro si è preso la Calabria

    Al pomodoro, chiamato anche mela insana e mela aurea, erano attribuite proprietà afrodisiache e, secondo alcuni, era impiegato in filtri magici per favorire relazioni amorose. In diverse zone del Sud era consuetudine chiamarlo puma d’amuri o puma d’oro, probabilmente ricollegandolo al mitico pomo d’oro destinato alla più bella tra Venere, Giunone e Atena.

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    Giudizio di Paride, dipinto da Pieter Paul Rubens intorno al 1638

    In passato, però, i pomodori avevano una cattiva reputazione per le proprietà organolettiche. Nel Seicento, studiosi come Benzo, Durante e Mattioli scrivevano che davano scarso nutrimento. E che, una volta maturi, si potevano consumare solo se conditi con pepe, sale e olio, perché «dolciastri e disaggradevoli».
    Soderini, in un noto trattato del 1851 su orti e giardini, nonostante i pomodori ormai si coltivassero ovunque, sosteneva che non fossero buoni da mangiare «ma solo si poteva cercarne d’avere per bellezza».

    Il pomodoro si fa largo

    Ma ignorando le raccomandazioni dei botanici, spinti dalla fame e dal bisogno, superando qualsiasi diffidenza o paura, i contadini piantavano i pomodori. E alcuni cuochi cominciarono a utilizzarli nei loro piatti. Per conferire un bel rosso alla «zuppa alla mosaica», i cuochi consigliavano di usare salsa di pomodoro setacciata e in inverno pomodori secchi tritati o «quelli in bottiglia». Alcuni suggerivano un «timpano» formato da strati di pomodori crudi e vermicelli freschi con sale, pepe e olio, strutto o butirro.piante-pomodoro-semina

    Nel Settecento si faceva la conserva di pomodori «solida» e «liquida». Quella solida si otteneva bollendo i frutti maturi in una caldaia con chiodi di garofano, pepe, cannella e sale. Una volta tolti semi e bucce, si facevano ribollire sino a ridurli a una pasta densa con la quale si formavano dei «bastoncelli».
    Quella liquida si preparava lessando i pomodori, riducendoli a marmellata e mettendoli in barattoli di terra verniciati e ricoperti d’olio.

    Reggio esporta, Catanzaro fa polpette

    In Calabria il pomodoro si seminava in diversi territori tanto da essere citato in una statistica del 1805 come l’unica pianta «americana» messa a coltura nella regione.
    Negli anni seguenti i contadini cominciarono a coltivare i pummadori in maniera intensiva. I più comuni erano quelli a «frutto piccolo rotondo», utilizzati per la salsa, e quelli «a pruno» che si appendevano e duravano sino a primavera. Si usava anche spaccarli a metà, coprirli di sale, seccarli al sole e infilzarli formando delle corde. Oppure tagliarli, salarli, metterli in un vaso per quattro giorni, passarli al setaccio, aggiungere chiodi di garofani, lasciarli al sole e, una volta asciutti, metterli in vasi vetrati.

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    Pomodori in essiccazione sotto il sole

    Verso la metà dell’Ottocento, negli orti di Reggio Calabria la coltura predominante era quella dei pomodori, sia perché si prestavano bene alla rotazione dei terreni, sia perché si vendevano in gran quantità nella vicina Sicilia.
    In un noto manuale di cucina del 1819 il pomodoro era utilizzato nelle «polpette alla catanzarese», simili agli odierni involtini di carne. Si consigliava di scegliere un pezzo di manzo e levare accuratamente «pelli» e nervi. Quindi, tagliarlo a fette sottili e stendervi un impasto di lardo tritato, provatura «marzolina» a dadi, pepe, noce moscata, zibibbo senza «pipini» e prezzemolo. Le fettine si arrotolavano, si legavano con un filo e si cuocevano in una «cazzarola» con lardo, prosciutto, cipolla, erbette e un pezzo di butirro. Una volta colorite, alle «polpette» si aggiungeva un po’ di farina, mezzo bicchiere di vino bollente e si copriva il tutto con brodo di carne o sugo di pomodoro. A fine cottura, occorreva scolare, togliere il filo e sistemare gli involtini nel piatto coperto con salsa ben «disgrassata» e passata al setaccio.

    Il pomodoro nel… passato

    I pomodori nelle case contadine erano adoperati in minestre, zuppe o insalate, mentre sulle mense dei ricchi erano serviti ripieni di carne o pesce. Dopo aver tolto la pelle e i semi calandoli nell’acqua bollente, si farcivano con carne «passata e pesta» e si cuocevano in un colì di vitello. Erano serviti anche ripieni di salpicón di animelle, erbette e spezie e, una volta infarinati e dorati, rosolati al forno con parmigiano e butirro. Altri cuochi imbottivano i pomodori con un impasto di burro, gialli d’uova, «provatura» grattata, cipolla, acetosa, targone, menta, prezzemolo, sale e pepe, li friggevano e li coprivano con un colì di prosciutto condito con erbe. Altri ancora li riempivano con rognonata di vitello arrostita e tritata, gialli d’uova, formaggio e spezie. Dopo averli infarinati, passati nel pane e parmigiano grattato, friggevano l’intingolo nello strutto e lo servivano con crostini.

    In alcune zone si usava spezzettare la polpa del pomodoro, aggiungere spezie, noce moscata, butirro, ricotta e gialli d’uova, formare crocchette della lunghezza di un dito, infarinarle e friggerle. Certi cuochi mischiavano la polpa del pomodoro con butirro, spezie, parmigiano, pane grattato, polvere di cannella, gialli d’uova, panna di latte, zucchero di canna, corteccia di portogallo e, una volta ridotta a crema si faceva assodare al forno in una casseruola unta di butirro e spolverata con pan grattato. Altri farcivano i pomodori con un colì di gamberi, acciughe ed erbette, condendoli con olio e salsa di tartufi, oppure riempiti con un trito di acciughe, prezzemolo, origano e aglio, insaporiti con sale e pepe, coperti con pan grattato e cotti al forno.

  • Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Nel 1865, alcuni cosentini fondarono un’associazione clandestina per promuovere una rivoluzione sociale. La maggior parte degli aderenti cinque anni prima aveva partecipato alla spedizione garibaldina e altri avevano militato nelle associazioni segrete mazziniane come la Falange Sacra. In un dettagliato documento redatto in una riunione tenutasi a Cosenza i rivoluzionari elencarono i punti fondamentali dell’organizzazione:

    • abolizione del «diritto divino, diplomatico e storico»;
    • rinunzia a ogni idea di «preponderanza nazionale»;
    • federazione dei comuni e delle nazioni;
    • abolizione della proprietà e dei privilegi;
    • eguaglianza politica dei cittadini;
    • emancipazione del lavoro dal capitale;
    • la terra ai contadini e i mezzi di produzione agli operai.

    Per il suo programma insurrezionale la “Democrazia Sociale” operò nella più rigorosa clandestinità. Gli aderenti comunicavano con nomi di battaglia e si organizzavano in luogotenenze e sub-luogotenenze. L’obiettivo della società era la rivoluzione socialista. Ma per realizzarla bisognava distruggere il prestigio di Mazzini e Garibaldi che, pur avendo fatto tremare i tiranni, avevano portato il popolo su vie sbagliate. Certo, erano due uomini «immortali» che si erano battuti con grande coraggio. Ma il primo vagheggiava un programma che non affrontava i problemi sociali. E il secondo aveva sconfitto il re borbonico per consegnare il paese a un re sabaudo.

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    Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano

    La rivoluzione a Cosenza, Mazzini e Garibaldi

    In un documento spedito agli adepti dell’associazione si legge a questo proposito:
    «Fratello! La nostra missione è ridurre l’uomo né suoi diritti naturali presso la umanità di Libertà ed uguaglianza, prima libertà, e di conseguenza l’uguaglianza. Per ottenere questo fine sacrosanto i mezzi sono i capi del programma, perché il primo assalto alla uguaglianza fu portato dalla proprietà, il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dai Governi. I soli appoggi della proprietà e de’ Governi sono le leggi religiose e civili. Dunque, per ristabilire l’uomo né suoi diritti primitivi di Uguaglianza e di libertà, è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile, e terminare coll’abolizione della proprietà. Il latore se le conviene, sarà il legionario nostro anello.

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    Marsiglia, 1833: il primo incontro tra Mazzini e Garibaldi

    Dovrà francamente ed energicamente Ella studiarsi come distruggere il prestigio de’ due nomi immortali di Mazzini e Garibaldi, perché l’uno prese fin dal primo momento falso indirizzo, e con tutto ciò fece impallidire e tremare il foglio e il cuore de’ tiranni, ma non ristabilì l’uomo né suoi bisogni primi naturali e né secondi sociali, secondo bell’anima, ma moncamente servì il Paese ma collocò il tiranno in sulla sedia, ed il prestigio suo allucinò anche la mente nostra dal braccio che donava al tiranno. Ora il compito dè nostri guai è spento, ed incomincia l’era della luce, e noi faticando su di un difficile apostolato dobbiamo ridurre tutto il falso al vero, e combattere fino a morire l’ignoranza e la superstizione».

    Morte alla monarchia e a chi la difende

    E in un altro documento approvato in un convegno della Luogotenenza di Cosenza e le subluogotenenze di Rogliano e Paola si legge:
    «La Luogotenenza del Cosentino, e sue Subluogotenenze fan pieno plauso al programma della Democrazia Sociale e fan loro bensì la circolare di Cotesto C.C. che ha per iscopo di combattere il falso indirizzo di Mazzini. È indubitato che questo grande uomo ci fa la guerra: però più che col fatto col nome (almeno per quanto si può giudicare da noi ed in questa continenza Calabra Cosenza) e questo nome ci farà vieppiù la guerra che credesi di accordo con Garibaldi, ed il popolo ricco di affetti, e di devozione e pur di ingegno più che di intelligenza atteso che manca lo svolgimento intellettivo e di associazione al solo nome di Garibaldi cede ad ogni gloria ed anche alla propria salute: ci è che anzi tutto bisogno inerente alla nostra costituzione facessimo conoscere ai fratelli della nostra residenza centrale, che stante Mazzini ci ostacola colle idee e coi falsi indirizzi. Garibaldi involontariamente ci ostacola col suo prestigio che porta seco, entusiasmo perpetua anche alle colte intelligenze come colui che in faccia a Mazzini che rappresenta l’idea della sfera del vuoto, desso rappresenta il moto nel campo del fatto, perciò il nostro voto è di conciliare per tutta la nostra continenza i Garibaldini all’opera nostra. Ed è certo che Garibaldi ci può essere forza e luce, senza intelligenza, senza mente socialista un’ente della rivoluzione che serve col suo braccio a rendere per altro tempo esistente la monarchia in Italia, ma il suo fine è quello di liberare il popolo, ma che per altro non fa creare una rivoluzione che compia il bene di questo immiserevole popolo, anzi la conseguenza del fatto suo lo agghiaccia dippiù.

    Ma è ora terribile fatale ora, che ci annunzia che dinnanzi che ci scorre, che ci passa come fulmine un atomo di momento che tutti noi dovremmo metterci alla videtta di affermare per la causa del popolo e non farlo scorrere innanzi indolentemente per abbracciarlo quella stregona monarchia che non ci farebbe rendere il capo a quel suo vecchio infame crudo che ha la testa cornuta che i privilegiati adorano, e fanno rispettare col sacrilego nome di Diritto Divino. Non bisogna in questo momento solenne di libera associazione radergli i peli per poi spuntarli più duri e feroci. Si distrugga una volta questa idra con miliardi di teste. Bisogna che ci cooperiamo tutti che questo momento fatale destinato dai tiranni a pro loro per l’ignoranza del popolo tanto dia ora per opera della luce nostra, latte, a quella sopirata bimba, libertà.

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    Casa Savoia, la famiglia reale riunita all’epoca di Vittorio Emanuele II

    Morte alla monarchia, sterminio a chi la difenda, l’unico grido sia questo, ed in tutti i punti dello spazio la voce del fratello nostro predichi, che i diritti essenziali che l’uomo ricevette dalla natura, nella sua perfezione originaria e primitiva sono l’uguaglianza e la libertà, che il primo assalto a questa uguaglianza fu portato dalla proprietà, ed il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dà governi, i soli appoggi della proprietà e dè governi sono le leggi religiose e civili, che per ristabilire l’uomo né suoi diritti è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile e terminare coll’abolizione della proprietà.

    Siffatta formula la nostra società deve predicerla fino ad avere l’audacia di farla inserire fra gli atti alla Regia dè tiranni. Fratelli prendete in considerazione che questa terra del cosentino, misera di mezzi come è, ma ricca di individui forti di spirito e di audacia è tutta pronta a sostenere la vita e la pace ad una siffatta iniziativa di rivoluzione democratica-sociale, e ricordatevi che fu l’unica terra fra tutto il mondo che ha protestato senza interruzione in faccia all’umanità contro la proprietà e contro la tirannia della monarchia».

    Cosenza, spie e rivoluzione

    Nel giugno 1866, probabilmente in seguito a una spiata, la polizia effettuò perquisizioni in casa di alcuni rivoluzionari. In quella di Gregorio Provenzano trovò documenti e piani per l’insurrezione. Il giovane, impiegato nello studio di un avvocato, fu arrestato, richiuso e interrogato nelle carceri della città. Al processo alcuni testimoni dissero che era un scrivano competente, onesto e gentile. Ma aggiunsero anche che «viveva in una tale stranezza e una tale confusione che si rendeva incomprensibile».

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    Palazzo Arnone, oggi sede della Galleria Nazionale, era il carcere della città

    Uno di loro disse ai giudici: «Facendo il Provenzano il giovane di studio del G. Marini ha frequentato vari giovani forniti di varie cognizioni e ascoltando or da uno or dall’altro nei discorsi qualche idea o qualche principio scientifico si à infarcito la mente di tante idee che han formato nella di lui mente un guazzabuglio tale da non potergli credere. Per lui non vi ha proprietà, non vi è Iddio, l’uomo deve far tutto per l’amore del prossimo, non può esser né cittadino né suddito ma deve vivere secondo viveva nei primi giorni della creazione».

    Cospirazioni e intelligenza

    Nel corso degli interrogatori, il giovane Provenzano ammise di aver fatto parte dell’associazione sovversiva. Cercò, però, di sminuire l’attività del gruppo e confessò di aver vagheggiato astratti ideali in un momento difficile della sua vita. A differenza di quanto era scritto nei documenti della società sul carattere indomito dei cosentini mostrato durante i moti risorgimentali e la spedizione garibaldina, il giovane scrivano affermava: «Io sono innocente dell’imputazione che mi si addebita, poiché non ho mai cospirato né attentato sapendo benissimo che le cospirazioni non si fanno individualmente con se stesso ma unitamente ad uomini di alta intelligenza che in questa nostra terra di Cosenza non se ne trovano».

  • Garum di Sibari, la salsa più cara dell’antichità

    Garum di Sibari, la salsa più cara dell’antichità

    Il garum o gáron, intingolo dal sapore particolarmente aspro, era ottenuto dalla lavorazione di alcuni pesci e utilizzato come condimento in diverse pietanze.
    Lungo le coste del Mediterraneo, soprattutto in Libia e Tunisia, esistevano numerose industrie per la preparazione del garum. In genere erano situate vicino al mare. Avevano ampie vasche per l’essiccazione e la putrefazione, ambienti per lo stoccaggio e depositi per la conservazione. Ateneo ci informa che vicino alle isole di Eracle, presso Nuova Cartagine, si trovava la città chiamata Sgombroaria dal nome dei pesci che si pescavano e con i quali si preparava il garón più pregiato.

    Garum: una salsa, tante ricette

    Plinio scriveva che il garum si produceva facendo macerare nel sale intestini e scarti di alcune specie ittiche. Il più gustoso si otteneva utilizzando lo sgombro. Alcuni, però, lo preparavano anche con un pesciolino poco pregiato che i romani chiamavano acciuga e i greci aphye. Marziale raccontava che per fare il garum si usava un vaso della capienza di tre o quattro moggi e sui pesci si spargeva aneto, coliandro, finocchio, appio, santoreggia, sclareia, ruta, menta, sisimbro, levistico, puleggio, serpillo, origano, betonica e argemonia. I pesci si coprivano con uno strato di sale alto due dita, per venti giorni si rimuoveva l’impasto con un palo di legno a forma di remo. Il liquido che colava, l’oenogarum, era conservato in recipienti di terracotta.

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    Garum sul fondo di un’anfora ripescata di fronte all’isola dell’Asinara

    Un testo greco ci informa che il gáron (chiamato anche liculme) era preparato con interiora di pesci («massimamente atherine, o piccioli muli, o menule, o licostomi, o altri piccioli pesci»). Dopo averle salate abbondantemente, si tenevano a lungo al sole rivoltandole continuamente. “Invecchiato” dal caldo, l’impasto era posto in un cophino dal quale colava il gáron.

    Altri preparavano la salsa mescolando alici (in alternativa lacerti e sgombri) in un vaso in modo da farne un pane e aggiungevano due «sestari italiani» di sale per ogni mozzo di pesce. Lasciavano per una notte il miscuglio nel recipiente, lo esponevano al sole e lo rimuovevano con un mestolo. Una volta fermentato, ad ogni «mozzo» di pesce aggiungevano due «sestari» di vino vecchio.

    Nel Geoponica si legge invece che il gáron era prodotto con intestini di piccoli pesci e soprattutto triglie, sardelle e acciughe. Raccolti e messi in vasche, venivano salati ed esposti al sole. Quindi, una volta pronta la salamoia, si filtrava il prezioso liquido con un setaccio e si conservava in appositi contenitori di creta sigillati col coperchio.

    Sibari e l’invenzione del garum

    Alcuni storici come Lampridio sostenevano che erano stati i corrotti Sibariti a inventare il gáron, salsa schifosa e vomitevole. Ateneo confermava che il liquido, fatto di pesci salati e aceto, era un alimento particolarmente putrido e puzzolente. Per Plinio era una salsa pestilenziale e non poteva essere altrimenti, considerato che era il marcio di materie in decomposizione. Seneca ne condannava l’uso, definendolo preziosa distillazione di pesci corrotti, «salsa melma» che bruciava i ventricoli.

    Marziale sosteneva che odore e sapore erano nauseabondi. E, per diffamare un certo Papilo, scriveva che questi, odorando un unguento profumato contenuto in un vasetto, diventava puzzolente come il garum. Apicio, autore del noto ricettario, annotava che la salsa di pesce mandava un «cattivo odore». Tant’è che indicava una serie di accorgimenti per «correggerla» (aggiungere soprattutto miele e gambi di lavanda).mosaico-garum

    Un cibo per ricchi

    Non siamo in grado di stabilire se il garum fosse un intingolo schifoso o se, come sostenevano alcuni, particolarmente dannoso per la salute. Sappiamo, però, che la salsa di pesce era rara e costosa. Isidoro precisava che il liquamen, prodotto da piccoli pesci messi sotto sale, dal gusto simile a quello dell’acqua marina, era utilizzato dal popolino. Il garum, invece, che richiedeva pesci pregiati e una complessa lavorazione, era accessibile solo ai ricchi. Non a caso, Plinio scriveva che, a parte i profumi, era il liquido più costoso del mondo.

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    Quel che resta dell’antica Sibari

    Il prezioso gáron dei nobili sibariti probabilmente affermava la diversità nei confronti delle altre classi sociali. La loro egemonia e superiorità si manifestava anche attraverso mode culturali che apparivano bizzarre e insensate. Il gáron a molti appariva una salsa vomitevole e contraria al buon senso comune, ma per gli aristocratici era l’autorità indiscussa della loro classe a sancire che era gustosa e amabile. Seneca scriveva che il palato dei romani si svegliava soltanto davanti a cibi costosi e li faceva costare cari non un sapore straordinario o una qualche dolcezza del gusto, ma la rarità e la difficoltà di procurarli.

    Pitagora contro

    La dieta dei nobili sibariti, basata su dismisura e stravaganza, era duramente criticata dai pitagorici che predicavano il limite e la semplicità. Il filosofo di Crotone condannava qualsiasi eccesso e raccomandava di non «passare la misura» nel bere e nel mangiare. Porfirio racconta che il filosofo metteva in guardia dall’eccesso del piacere più di ogni altra cosa, perché nessuna passione portava alla rovina e induceva a peccare come la «smoderatezza dal ventre». Incoraggiava i genitori ad alimentare correttamente i figli e spiegare loro che ordine e misura erano nobili, mentre disordine e smoderatezza, turpi. Pitagora ricordava sempre ai discepoli che la terra offriva ogni ben di dio e li invitava a non contaminare il corpo «con pietanze empie». Giambico ci informa che rimproverava duramente quei ricchi proprietari insaziabili che spingevano i cuochi ad inventare «preparazioni culinarie» ricche di «combinazioni di salse» che rendevano l’animo debole e voluttuoso.

    Banchetto_greco

    I pitagorici rifiutavano nella loro mensa i cibi elaborati o grossolani. Legavano il buono da mangiare non solo al gusto ma anche alle proprietà degli alimenti per conservare il corpo sano. Ripudiavano soprattutto quelle pietanze che favorivano la fermentazione e compromettevano l’armonia del corpo, quei cibi che generavano flatulenza e provocavano disordine all’organismo. Predicavano che non bisognava eccedere nei desideri e soprattutto quelli per i cibi ricercati, vesti e panni lavorati, abitazioni eleganti e sontuose, arredi preziosi e schiere di servi e schiavi. L’uomo aveva due tipi di piacere: quello che si compiaceva del ventre e i sensi, paragonabile al canto omicida delle Sirene, e quello che si provava per ciò che era nobile, giusto e necessario, assimilabile all’armonia delle Muse.

    Garum, la rovina delle poleis

    Una vita sobria e sana e una cucina naturale e ordinata avrebbero sconfitto la tryphé (mollezza) che, insieme alla hybris (tracotanza), stavano portando le poleis alla rovina. I pitagorici attaccavano duramente la perversa cucina sibaritica, di cui il gáron era la massima espressione, per richiamarsi a modelli alimentari che avevano da sempre costituito l’identità greca. Plutarco raccontava che i giovani ateniesi condotti al santuario di Agraulo, nella formula di giuramento di fedeltà, alla domanda a quale patria appartenessero, rispondevano: «La terra in cui crescono il grano, la vite e l’olio».

  • Amori bestiali, eroi e magie: un fiume di leggende chiamato Crati

    Amori bestiali, eroi e magie: un fiume di leggende chiamato Crati

    Nell’antichità il Crati era uno dei corsi d’acqua più citati da poeti, filosofi e storici antichi. Aristotele, Ovidio, Strabone, Vitruvio, Agatostene, Licofrone, Teofrasto, Diodoro, Leonico, Isacio, Plinio, Esigono, Sotione, Timeo, Euripide e altri raccontavano delle sue acque prodigiose che davano ogni ben di dio agli uomini.

    I miracoli del Crati

    Metagene scriveva che il Crati trasportava a valle enormi focacce d’orzo che s’impastavano da sole e il Sibari trascinava carni e razze bollite che si rotolavano nelle acque. Nell’uno scorrevano rivoli di calamaretti arrostiti, pagri e aragoste, nell’altro salsicce e carni tritate. Nell’uno bianchetti con frittelle, nell’altro tranci di pesce che già cotti si lanciavano in bocca o finivano davanti ai piedi mentre focacce di farina nuotavano intorno.
    In un idillio di Teocrito, Comata, che pascolava le capre di Eumara sibarita, e Lacone, pastore di pecore, dopo un vivace battibecco fitto di accuse, provocazioni e ripicche, si sfidarono in una gara canora. Il primo immaginava che il Crati rosseggiasse di vino e i giunchi mettessero frutti. Il secondo che nel Sibari scorresse del buon miele per la gioia delle fanciulle.

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    Il Crati nella pianura di Sibari

    Da Troia alla Calabria

    Nelle Troiane, le prigioniere che formavano il coro alleviavano l’angoscia con la visione di lontani paesi felici e, fra gli altri, vagheggiavano la regione «vulcanica etnea» che stava di fronte a Cartagine e la terra vicina allo Jonio, irrigata dal Crati che imbiondiva le chiome e rendeva con le sue mirabili acque i campi rigogliosi.
    Ovidio scrive che, in seguito al dolore per la morte di Didone dopo la partenza di Enea da Cartagine, la sorella Anna fuggì dalla Libia. Al termine di un estenuante peregrinare, alla vista delle splendide terre del Crati, ordinò al nocchiere di approdare su quel lido. Già le vele erano ammainate quando una tempesta respinse la nave nell’ampio mare. Licofrone narra che, allorché i Greci sbarcarono alla foce del Crati per rifornirsi d’acqua, le prigioniere troiane, istigate da Setea, bruciarono le imbarcazioni per costringere i guerrieri a fermarsi in quel luogo meraviglioso dove poi sorse la potente Sibari.

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    La foce del Crati oggi

    Crati vs Sibari

    Alcuni scrittori sostenevano che le acque del Crati erano piene di frammenti d’oro e di pesci. Per questo motivo era chiamato auriferus et piscolentus. Per altri, come Aristotele, aveva la proprietà di imbiondire i capelli di chi si lavava nelle sue acque, mentre il Sibari atterriva i cavalli che vi si abbeveravano. Ovidio riferiva che anche le acque del Sibari, come quelle del Crati, mutavano i capelli simili all’elettro e all’oro. Euripide confermava che il prodigioso Crati accendeva le bionde chiome e nutriva beneficamente col suo corso divino la regione di gente forte.

    Plinio, citando Teofrasto, affermava che Crati e Sibari avessero contrarie virtù. Se il primo conferiva biancore a buoi e pecore che vi si abbeveravano, il secondo generava colore nero. Anche gli uomini risentivano della differenza di effetti provocati dalle acque. Quelli che si dissetavano al Sibari diventavano scuri di carnagione, duri nel carattere e con i capelli ricci. Quelli che si dissetavano al Crati erano chiari, deboli e con la chioma fluente. Strabone assicurava che l’acqua del Sibari rendeva ombrosi i cavalli e i pastori, per proteggerle, tenevano le pecore lontane dal fiume. Il Crati, invece, aveva acque capaci di curare diverse malattie e le persone che vi si bagnavano s’imbiondivano.

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    Ponte di legno a Sibari (Saint-Non, 1778)

    Per Licofrone gli animali feriti guarivano se si lavavano nelle acque del Crati, mentre bevendo quelle del Sibari erano scossi da starnuti, costringendo i pastori a tenere mandrie e greggi distanti dalle sponde. Riguardo al Sibari, Leonico scriveva che bastava spruzzare la sua acqua su una persona per farla diventare casta. Galeno sosteneva che diminuiva gli ardori della carne e rendeva i maschi puri e incapaci di generare.

    Vitruvio asseriva che i pastori portavano le pecore che si preparavano a partorire a bere ogni giorno le acque del Crati. Per questo motivo, sebbene fossero bianche, procreavano figli di colore grigio o nero corvino.

    Paese che vai, leggenda che trovi

    Il viaggiatore Bartels, che arrivò a Cosenza nel 1787, era propenso a pensare che tali leggende non avessero alcun fondamento. Probabilmente, quella del fiume d’oro aveva origine dalla tinta giallognola che le acque assumevano nei pressi della città. Il tempo e la fantasia dei poeti avevano fatto il resto. In realtà, molti racconti mitici sul Crati erano presi in prestito da altre narrazioni.

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    Veduta di Cosenza (Saint-Non, 1778)

    Plinio scriveva che in Estiotide scorrevano le fonti Cerona e Neleo: le pecore che si abbeveravano alla prima diventavano nere, quelle alla seconda bianche, quelle a entrambe chiazzate. In Macedonia, invece, i pastori che desideravano pecore chiare conducevano le mandrie all’Aliacmone e quelli che le volevano scure all’Assio. Sempre Plinio ci informa di fontane e ruscelli che davano memoria o oblio, sensi fini o ottusi, fecondità o sterilità, canto o mutismo, sanità mentale o follia, dolcezza o ferocia, ubriachezza o lucidità, salute o malattie. Fornendo queste notizie, precisava che non si trattava di assurdità ma di fatti veri, poiché il mondo della natura era pieno di cose che suscitavano meraviglia.

    Fantomatiche virtù

    Nel 1599, descrivendo le proprietà miracolose di Crati e Sibari, il medico Tufarello di Morano raccontava di avere constatato che il primo rendeva le trote color oro. Il secondo, invece, convertiva in pietre le foglie e i rami che cadevano nelle sue acque. Negli stessi anni, alcuni eruditi scrivevano corposi saggi in cui elencavano decine di fiumi le cui acque avevano virtù di cui non si poteva «render ragione alcuna».

    In un trattato su venticinque grandi fiumi, Plutarco assicurava che lungo i loro argini crescevano erbe il cui succo proteggeva dalle fiamme, neutralizzava i freddi intensi, faceva cadere in un sonno profondo, impediva alle tigri di uscire dalle grotte e proteggeva la verginità delle donne; piante che mosse dal vento creavano stupende melodie, tenevano lontani fantasmi e divinità malvage, curavano la follia, trasformavano il vino in acqua e sanguinavano se toccate dalle vergini.

    Il biografo greco scriveva inoltre che alcune pietre di notte brillavano come il fuoco, suonavano se si avvicinava un ladro, facevano vaneggiare gli uomini, liberavano le persone dalla sfortuna, lenivano le sofferenze di chi si sottoponeva all’evirazione, guarivano gli indemoniati, si muovevano al suono di tromba, divenivano nere o bianche a seconda se si diceva il vero o il falso, evitavano i dolori del parto, saltavano sui campi come locuste, proteggevano dalle bestie feroci e sanguinavano se intaccate dal ferro sacrificale del sacerdote.

    Amori proibiti

    Anche la storia che il Crati prenda il nome dal pastore omonimo, spinto nelle acque del fiume da un caprone geloso perché l’uomo amoreggiava con la capra più bella del gregge, non era originale. Molti fiumi del mondo antico, come scrive Plutarco, avevano il nome di persone che si erano gettate nelle acque per la vergogna di avere avuto rapporti contrari alla natura.

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    Un busto di Plutarco

    Nel citato saggio, narra di giovani che si erano suicidati nel fiume per avere consumato, senza saperlo, rapporti sessuali con la madre o con la sorella, di padri che avevano amoreggiato con le figlie e madri con i figli, di persone che violentarono fanciulle, di giovani che avevano voluto conservare la purezza, di gente impazzita per avere inveito contro qualche divinità che aveva violentato le loro donne. Altri corsi d’acqua avevano preso il nome da persone affrante dal dolore per la morte di qualche congiunto, per avere ucciso persone innocenti, per avere perso disonorevolmente in battaglia e per avere sacrificato parenti in cambio della vittoria in guerra.

    Il Crati che non c’è più

    Conosco bene il Crati e la pianura di Sibari. Da ragazzo andavo con mio padre e mio fratello a caccia di beccacce, beccaccini e anitre e a pesca di trote, cavedani e anguille. Ricordo che il fiume aveva rive coperte da una folta vegetazione. In inverno s’ingrossava paurosamente travolgendo ogni cosa e in estate diventava un fiumiciattolo che a fatica riusciva a sfociare nel mare. Quella zona coperta da pantani, canne grigie e alti giunchi di giorno era insopportabile per il caldo torrido e i nugoli di moscerini e al tramonto era avvolta da un inquietante silenzio interrotto solo dal rumore delle acque.
    Celebrato da tanti scrittori antichi come il fiume dell’oro e dalle acque irruenti, il Crathis è stato domato e il mondo fantastico che stava intorno a esso è scomparso.

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    Ponte sul Crati a Cosenza (Rilliet 1852), le donne lavano i panni lungo il fiume

    Nessuno immagina di intravedere satiri nascosti tra le canne che insidiano ninfe con capelli color argento o verde sparsi sugli omeri. Nessuno ha paura d’incrociare basilischi neri come la pece, con una corona in testa e fiato e sguardo letali. E nessuno sente più storie di santi che combattono con i diavoli.
    Non si vedono più lungo gli argini lupi, lontre, orsi, cervi, gatti selvaggi e grandi mandrie di capre, pecore e buoi portate dai pastori in inverno dalle montagne. Non s’incontrano lungo le rive donne battere i panni sulle pietre, passatori portare sulle spalle viandanti, contadini pescare col tasso, sanpaolari frugare con i bastoni il terreno per catturare vipere, gente scuotere alberi per raccogliere cantaridi e cacciatori inseguire a cavallo tori selvatici.

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    Cosenza e il Crati

    Gli uomini e la Natura

    Il Crati, fiume che i contadini chiamavano scorzone poiché strisciando lentamente a forma di esse al momento di aggredire era rapido e velenoso, sembra essere stato finalmente reso innocuo. I terreni coperti un tempo da putride acque infestate dalla malaria oggi sono diventati campi di grano e giardini di agrumi. Sotto Tarsia hanno costruito una diga per l’energia elettrica. Lungo le sponde sono sorti decine di cantieri per il calcestruzzo. Il corso d’acqua è sovrastato da numerosi punti, stade e stradelle costeggiano il fiume e nei pressi della foce c’è un attrezzato porto turistico. Grazie alla sua forza e perseveranza il Crati continua a scorrere zigzagando verso il mare, ora rapido ora tranquillo, ora limpido ora torbido. Ma gli uomini non hanno più il tempo di sentire la voce della sua corrente in piena o il dolce mormorio del suo scorrere.

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    La diga di Tarsia

    Il paesaggio descritto da tanti viaggiatori e studiosi non c’è più, ci sono però tratti e colori che ancora resistono e provocano una stretta al cuore. L’uomo si sente il padrone del mondo e come tale non deve difendersi dalla natura ostile ma è la Natura che deve difendersi dall’uomo ostile.
    L’antico paesaggio del Crati sembra essersi estinto per sempre, ma la natura che appare sopraffatta e mortificata si è solo nascosta. Aspetta pazientemente di ritornare e, a volte, mostra la sua rabbia.

  • Pasqua Citeriore: acqua nova, cuculi, cuzzupe e muccellati

    Pasqua Citeriore: acqua nova, cuculi, cuzzupe e muccellati

    Nel 1876, Vincenzo Dorsa, insegnante di latino e greco al liceo Telesio di Cosenza, scriveva sulla Pasqua nella Calabria Citeriore:

    «Ed eccoci alla Pasqua. La precede ed inaugura il sabato santo, col fantoccio di cenci, la vecchia dalle sette penne, che si lacera o brucia, coi pani ornati dell’uovo di rito, con l’acqua nuova che si attinge alle fontane. L’acqua e l’ovo adunque col sole di primavera trionfante dell’inverno, nella occasione della Pasqua, ricordando la origine del mondo che si rinnova mercè l’opera riparatrice di Cristo. Perciò in Calabria ogni famiglia si provvede allora dell’acqua nuova: la ripone in un orciolo nuovo, e questo adorna di nastri e di fiori, munisce di un briciolino di sale appesovi a un filo come rimedio contro le malie, e manda al prete per benedirla.

    Di poi ciascuno della famiglia, cominciando dai genitori, ne saggia un poco; e quando le campane della Chiesa suonano a festa per celebrare la resurrezione di Cristo, di quell’acqua spruzzano la casa, dicendo ad alta voce: esciti fora sùrici uorvi, esciti forza tentaziuni, esca u malu ed entri u bene, e picchiano imposte di porte e di finestre, casse e le altre masserizie, invocando così la buona fortuna e l’abbondanza».

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    Fontana di San Giuseppe a Castrovillari (foto Gianni De Marco)

    Pasqua, Cosenza e la sua provincia

    Il racconto di Dorsa sulla Pasqua a Cosenza e dintorni proseguiva così: «In tali momenti l’affetto da scabbia a Cetraro si getta a bagnarsi nel mare vicino, credendo acquistare con questa purificazione la sua guarigione; a san Pietro in Guarano scende a bagnarsi nel fiume, però di notte, prima dell’alba della domenica e senza proferire parola alcuna. Ed albeggiando la Pasqua le contadine di Aprigliano scendono al loro Crati col cucùlo adorno di uova, rivoltano le pietre che trovano alla riva, si siedono e innanzi a quelle acque mangiano di quel pane e di quelle uova. L’acqua nuova intanto si conserva come cosa sacra, e poiché si crede rimedio contro le malie se ne spruzza anche sul fuoco o sulla lucerna quando la legna o il lucignolo scoppiettano, per iscongiurare tali infauste manifestazioni del fuoco che parla, come dice il Calabrese».

    Oltre all’acqua, poi, c’era l’uovo. «I pani pasquali – prosegue Dorsa – sono rattorti a spire, di forma o lunghi o a corona, con un uovo o più, ma in numero dispari, e in qualche luogo colorate di rosso. Hanno diversi nomi: muccellati (lat. buccellatum), culluri o cudduri, cullacci o cucùli, cucùdi, cannilieri, lunghi circa due palmi, cuzzupe, ecc. Se ne fanno dono alle famiglie in lutto e ai bambini: a questi, se maschi si dà un cucùlo o un canniliere, se femmina uno di forma lunga raffigurante un corpicino, con l’uovo nel viso, che la bambina ravvolge in fasce, e gli copre di cuffietta e nastri il capo. A Castrovillari si chiama ciuciu, in Altomonte ciùcciulu, in Longobardi martiniellu, diminuitivi forse dei corrispondenti nomi propri, come in Roma si chiamavano càjoli, da Cajus, le ciambelle raffiguranti immagini di bambini.

    Il racconto di Dorsa sulle tradizioni locali si faceva più analitico: «Riassumendo le cose esposte; poiché Cristo nel linguaggio simbolico cristiano fu detto il sole della vita dell’anima, in contrapposizione al sole fisico, di cui i pagani celebravano il ritorno primaverile, e risorse in tempo appunto di primavera, è naturale che le genti di allora nel solennizzare la memoria di quel grande avvenimento cristiano gli avessero applicate le mitiche tradizioni immedesimate coi loro costumi, confondendo così in un simbolo la quaresima e la stagione invernale, la resurrezione di Cristo e quella del sole sepolto nel cielo nuvoloso dell’inverno.

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    I germogli di grano portati nei sepolcri a San Giovanni in Fiore

    Pasqua, Cosenza e i sepolcri

    È perciò che a Cosenza dura tuttavia l’uso di offrire ad ornamento dei sacri sepolcri de’ piattellini di grano di fresco seminato e spuntano per efimera germinazione: sono questi i così detti orti di Adone, che offrivano le donne fenicie e le greche, come simbolo della vita che rinasce, nella festa commemorativa della morte e resurrezione del dio Adone, mito solare. È perciò che la pasqua diventava persona mitica nel linguaggio popolare, dice alla quaresima: esci tu vecchia arraggiata, ca trasu iu pasca arricriata; come la quaresima aveva detto già congedando il carnevale: esci tu porcu ‘nzunzatu (lordo di sugna), ca trasu iu netta pulita».

    Alcune tradizioni legate alla Pasqua di Cosenza e della sua provincia si sono perse e altre sono rimaste. Nei paesi era presente una coscienza collettiva, un sostrato culturale tramandato oralmente di padre in figlio, una forza nascosta che dettava norme e regole sociali e faceva sentire gli individui parte di un gruppo. Le comunità erano rette da una serie di modelli indipendenti dalla psicologia dei singoli e che gli uomini accettavano anche se in contrasto con i propri interessi. Si trattava di un complesso inconscio e profondo, radicato nell’esperienza vissuta, stabile e resistente al punto da condizionare la stessa struttura sociale, fatto da istanze sovra-individuali che determinavano il comportamento dei membri della collettività e garantivano legami continuativi con i padri.

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    Processione dei Misteri a Rossano Calabro, oggi Corigliano-Rossano

    La vita sembrava essere governata da regole sociali immutate e immutabili che aiutavano gli individui a sentirsi parte della comunità. Ma gli uomini non sempre si uniformavano alla cultura collettiva fissata nel tempo. Recepivano e assimilavano continuamente novità di pensiero che provenivano dall’esterno. Le montagne e le scarse vie di comunicazione sembravano isolare i paesi dal resto del mondo, ma tutto questo non impediva le relazioni con le altre comunità e il processo di assimilazione di altre culture. Perfino nei borghi più sperduti conoscenze diverse penetravano e finivano per essere ritenute nonostante gli abitanti fossero restii ad accogliere e interiorizzare nuove idee. Le mentalità, all’apparenza immobili, seguivano un loro ritmo evolutivo senza interrompere la continuità che le legava al passato. Pratiche religiose, credenze e miti erano destinati a sotterranee trasformazioni; mutavano di significato di pari passo alla sensibilità comune e si adattavano progressivamente alle nuove realtà.

    Pasqua, Cosenza e la cultura contadina

    Non bisogna confinare le mentalità del mondo popolare nel campo di una storia immobile, in un quadro statico e angusto, considerarle un semplice terreno di coltura e di persistenze arcaiche. È ingenuo pensare che la cultura dei contadini fosse spontanea e si riproducesse di generazione in generazione senza un disegno, che si acquistasse senza sforzo sin dalla nascita, mentre quella dei colti fosse capace di produrre conoscenze perché prodotte dalla ragione e trasmessa da specialisti del sapere. Prese dallo sforzo quotidiano per la sopravvivenza, le classi subalterne sembravano riprodurre meccanicamente abitudini e consuetudini, ma in realtà erano produttrici di culture diffuse con mezzi semplici quali l’oralità.

    Nei villaggi esisteva una complessa dialettica tra gruppi sociali che, di volta in volta e a seconda delle convenienze, si sviluppava sul piano della conservazione o dell’abbandono di pratiche e credenze antiche. Il patrimonio culturale di un territorio nei suoi vari aspetti, rammemorazione compresa, è frutto di una continua lotta. Spesso si considera la memoria di una comunità come un organismo dotato di uno spirito unico, un crogiolo che contiene i ricordi di tutti. In realtà accade spesso che gruppi d’individui non trasmettono le loro esperienze alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano e di altri si perda ogni traccia.

    Gli uomini non sono in grado di ricordare tutto, ma neanche di dimenticare tutto. Memoria e oblio vanno insieme, l’una non può fare a meno dell’altro. Il tempo, lentamente e inesorabilmente, lavora per fondare certe memorie, per esaurirne il potenziale o, addirittura, per eliminarle. Ricordare e dimenticare è frutto dell’incessante lavoro d’invenzione e reinvenzione della memoria, risultato di continui scontri e patteggiamenti, tanto a livello individuale che collettivo, tra ciò che bisogna ricordare e ciò che bisogna dimenticare.
    Le mentalità si modificano: a volte possono sembrare salde e incontaminate, altre mutano bruscamente per rispondere a nuove sensibilità. In alcuni periodi credenze e valori prima dominanti cessano di esserlo, in altri si avvicendano tra sentimenti opposti, in altri ancora si sovrappongono o s’incastrano tra loro.

    La memoria subisce una continua metamorfosi e una reinvenzione. Gli individui e i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono diventati, ricordando il passato lo ricreano e gli attribuiscono un senso in relazione alla loro idea del presente. Le credenze si tramandano di generazione in generazione, ma nel processo interpretativo della tradizione subiscono una variazione; le narrazioni sono mutuate da storie che vengono rielaborate e adeguate a nuove realtà, a cui gli individui apportano il proprio personale contributo.

  • Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Per la povera gente delle città e delle campagne il baccalà era un alimento importante e, come i maccheroni, considerato simbolo di benessere e abbondanza. Aveva un gusto gradevole e, se ben cucinato, poteva solleticare il palato dei più raffinati buongustai e stare al pari di qualunque prelibato manicaretto. Preparato in bianco con olio e limone, sotto forma di pasticcio, in tortiera o in casseruola condito con pomodoro, pinoli e uva passa era squisito. Qualcuno scriveva che le stesse divinità dei tempi antichi «lo avrebbero preferito all’eterna ambrosia».

    Il cibo dei semidei

    In una cicalata si legge che era il cibo dei semidei, che solo a vederlo rallegrava il cuore ed era sano perché se i pesci puzzavano dalla testa, era decollatu, ed è giustu, si nnò corrumpiria anchi lu bustu. E in un’elegia dedicata al baccalà si legge che era incantevole a vedersi nel piatto, bianco come il latte, gustoso come nessun altro cibo e ogni giudice lo avrebbe dichiarato il migliore tra tutti. Se Adamo avesse mangiato merluzzo salato non sarebbe stato scacciato da Dio e Giuseppe l’ebreo non sarebbe sfuggito alle voglie della sua padrona se avesse inteso odore di baccalà.

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    Michelangelo: Il peccato originale e la Cacciata dall’Eden nella Cappella Sistina

    Gli esperti raccomandavano che i baccalà da acquistare dovevano essere di grandi dimensioni, avere un colorito bianco e leggermente «paglino» nella faccia interna, la polpa lungo la spina non doveva presentare colorito bruno o rossastro, la pelle doveva essere aderente al corpo e la carne tenera, ben compatta e di buon odore. Gli stoccafissi, a differenza dei merluzzi salati, resistendo ai calori estivi, potevano serbarsi anche per due anni ma accidentalmente bagnati o tenuti ammucchiati in luoghi umidi erano anch’essi soggetti a putrefazione rapida, alla tarlatura e all’impolveramento.

    Sulle ali del gusto

    Per distinguere «anche all’oscuro» un ottimo gadus morhua, bisognava osservare le ali. Sul mercato era possibile vedere tre specie di baccalà: una con le ali al taglio della testa, chiamate orecchie, voltate entrambe verso la coda; un’altra con le ali entrambe rivolte all’insù; la terza con un’ala rovesciata all’insù e l’altra voltata in direzione della coda. I primi erano squisiti e da consumare sempre, i secondi erano scadenti e quindi da non acquistare, i terzi erano mediocri e da mangiare solo in rare occasioni. Le ali voltate verso la coda denotavano che il pesce «non aveva fregato», era grosso e manteneva le sue caratteristiche; quelle voltate in due modi significavano che i pesci presi stavano «fregando» ossia seminando; quelle rovesciate ambedue all’insù erano «il geroglifico che il pesce nella di cui cattura fu trovato», aveva già seminato ed era stanco, magro «esinanito e per conseguenza il peggiore».baccala-shutterstock_428919922-1-1024x501

    Baccalà al posto della carne

    Il baccalà si sostituiva alla carne e, non caso, era chiamato il «manzo dei poveri». I grandi proprietari terrieri, nella stipula dei contratti con i braccianti, oltre al salario prevedevano peperoni all’aceto, formaggio e baccalà. Il merluzzo salato, meno caro del pesce fresco, era alla portata popolino ma non da poter essere consumato frequentemente e, infatti, si cucinava in genere nelle domeniche, nelle feste e a Natale. Un’inchiesta ministeriale confermava che tra le classi povere si consumavano solo aringhe e baccalà ma il loro prezzo, benché basso, non ne permetteva l’uso quotidiano ed era limitato alle ricorrenze.

    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie

    Il baccalà era venduto specialmente nelle cantine. E qualcuno faceva notare che, pur costando poco, per il volgo non era economico perché, essendo particolarmente salato, spingeva a bere tanto costoso vino. I baccalà offerti dagli osti ai clienti erano spesso piccoli merluzzi di qualità scadente mentre il pregiato baccalà verde, che aveva almeno due piedi di lunghezza, era riservato ai benestanti. Di questo baccalà spesso il volgo acquistava gli orecchiagnoli, alette e spuntature che i signori prenotavano per darle ai gatti. Il merluzzo salato di ottima qualità, era costoso per via dei dazi e i patrioti cosentini, in un manifesto affisso al portone della prefettura, accusavano Francesco II di «scorticare e far morire di fame la popolazione senza pietà» imponendo gabelle sul baccalà.

    Baccalà e religione

    Nell’Ottocento baccalà e stoccafissi erano ormai sulla tavola delle famiglie italiane e in ogni città c’erano decine di botteghe che li vendevano, dissalavano e cucinavano. Nelle feste religiose, soprattutto a Natale, i baccalajoli giravano nei quartieri e nei vicoli con una cesta sulla testa piena di stoccafissi e un secchio in mano con merluzzo ammollato. Quel pesce salato che proveniva da lontano era considerato una prelibatezza. E persino un brigante calabrese come Paolo Zumpano Olivella, gran mangiatore di carne, amava farsi portare alla macchia baccalà fritto dalle sue manutengole.

    Il successo di baccalà e stoccafisso nella dieta alimentare delle popolazioni era dovuto anche alla proibizione della Chiesa di mangiare carne nei giorni di digiuno, che superavano un terzo, e tra i chierici anche la metà dell’anno. I vescovi invitavano i fedeli a nutrirsi durante i digiuni di baccalà e stoccafisso perché sapevano che tanta gente per i loro pranzi utilizzava pesci prelibati che non avevano niente da invidiare alla carne. Il merluzzo salato era il cibo della penitenza e nelle campagne dopo i funerali i parenti cenavano su una tavola senza tovaglia, fiaschi e bicchieri ed era «formalità indispensabile che siasi sempre il baccalà».

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    Stoccafisso e baccalà erano pietanze in uso nella Nicotera studiata da Keys

    In occasione della Pasqua dei morti era uso «in tutto l’orbe rustico» nutrirsi con alimenti semplici e soprattutto merluzzi secchi e salati preparati in vari modi. In alcuni paesi le donne tendevano una corda da una finestra all’altra e facevano penzolare la Quaresima, una pupa di stoffa e di pezza con un fuso in mano e qua e là appesi saracche, sarde e pezzi di baccalà. La Quaresima, che seguiva ai giorni di grandi abbuffate, era rappresentata come una vecchia donna magra che accompagnava il Carnevale morto su un carretto tenendo in mano un baccalà o uno stoccafisso.

    Baccalà o stoccafisso?

    In passato di discuteva molto se era più buono il baccalà o lo stoccafisso. Ancora oggi il baccalà è apprezzato nella provincia di Cosenza e il pesce stocco nella provincia di Reggio Calabria. Nel cosentino in genere era infarinato e fritto o cotto con patate, olive nere, peperoni, pomodoro, alloro, prezzemolo, sale e pepe. Nel reggino il merluzzo secco si mangiava ad insalata con olio, aglio, prezzemolo e limone o cotto con patate, cipolla, peperoni, pomodori e olive in salamoia. Non sappiamo perché in certe province si prediligeva il baccalà e in altre lo stoccafisso. «De gustibus non disputandum est» ammoniva un detto latino e un proverbio popolare aggiungeva: «dei palati uguaglianza non può stare, perciò non s’ha dei gusti disputare».

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    Mammola (RC), una recente edizione della Sagra dello Stocco

    Mangiare stoccafisso invece del baccalà era probabilmente anche un mezzo di coesione, un modo per sancire l’appartenenza al gruppo, per rafforzare i valori comuni e rimarcare l’identità. Per avere un io c’è bisogno di un tu e per avere un noi c’è bisogno di un voi e questa differenziazione passava anche attraverso gli alimenti e la cucina.

    Ricchi e poveri

    La scelta del baccalà o dello stoccafisso era inoltre spesso legata al prezzo più che al gusto. Un medico dell’Ottocento osservava che i labardoni erano acquistati dai benestanti nelle città e il pesce-bastone dai contadini nelle campagne. Il merluzzo secco, detto anche merluccio o merluccia, si conservava meglio di quello salato ma era più difficile da digerire poiché le carni, seccandosi, diventavano coriacee, acquisivano una «durezza offensiva» e, non a caso, bisognava batterlo e macerarlo per lungo tempo nell’acqua prima di cuocerlo.

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    La “puteca” di un baccalajuolo a Napoli

    A volte la preferenza del merluzzo secco o salato dipendeva dai tipi di pesce che i brigantini inglesi, francesi, spagnoli, norvegesi, danesi, olandesi e di altre nazioni scaricavano negli scali italiani. Accadeva che in alcuni porti arrivassero solo aringhe, in altri baccalà e in altri ancora stoccafisso e gli importatori li mettevano all’asta ai negozianti che giungevano da ogni luogo. Il merluzzo conservato che arrivava a Napoli era commercializzato da imprese francesi che trattavano la vendita con i grandi produttori e stipulavano contratti con gli acquirenti partenopei che pagavano i proprietari dei bastimenti e i diritti della dogana. I compratori a loro volta vendevano il prodotto ad altri acquirenti che con bragozzi, brazzere, trabaccoli, peote, feluche, sciabecchi, polacchette e pieleghi lo portavano nei villaggi marini lungo il Tirreno e dell’Adriatico.

    Baccalà alla calabrese

    Imbianchite il Baccalà, spinatelo bene, e disfatelo in scaglie, passate con olio in una cazzarola sul fuoco dell’erbe fine, indi stemperateci due alici, metteteci un pizzico di farina, e bagnatele con un pochino di vino e culì; fate che la salsa stia bene di sale e stretta, poneteci dentro il Baccalà, e fatelo insaporire per mezz’ora fuori del fuoco, indi vuotatene una quarta parte sul piatto, che dovete servire, spolverizzate sopra con pane grattato, mescolato con mostacciolo pesto, e mandole bruscate, e peste finissime, poneteci sopra l’altra terza parte del baccalà, e spolverizzatelo nell’istessa guisa, e così farete del resto; aspergete sopra col resto della salsa, fategli prendere al forno un leggiero colore, e servite subito. Osservate che non bolla nel forno (Ricetta di Vincenzo Agnoletti, 1819)

  • Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

    Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

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    Negli anni passati, sindaci, assessori e operatori culturali di destra e di sinistra, per certificare un glorioso passato di Cosenza, hanno pensato di rievocare con cortei storici, convegni e statue le figure di condottieri, re e imperatori: Alarico e il suo mitico tesoro, Federico II di Svevia Stupor mundi e Carlo V sul cui impero non tramontava mai il sole. Hanno pensato che, soprattutto il nome di Alarico, avrebbe funzionato da attrattore per i turisti e portato lustro e benefici alla città e ai suoi abitanti. Il biondo guerriero sepolto nello spazio magico alla confluenza tra Crati e Busento, più di ogni altro ricordava la grandezza della gloriosa città.

    Alarico innamorato di Cosenza

    Alarico è stato sottoposto a un processo di revisione storica, presentato come un re che  voleva unire i popoli europei, che predicava la pace e la convivenza civile, che aveva amato profondamente Cosenza tanto da volerla capitale di un nuovo regno. La rielaborazione «positiva» del re barbaro è avvenuta in tutti i campi: letteratura, cinema, fumetti, teatro, arte e poesia. Le scuole cittadine di ogni ordine e grado, sono state coinvolte in progetti imperniati sulla vita di Alarico.

    Il funerale di Alarico

    Ricordo che in una pubblicazione alcune insegnanti scrivevano entusiaste che il capo dei Visigoti, considerato erroneamente un rozzo e spietato invasore, era in realtà un uomo colto, fautore di una società multietnica e amante della cooperazione tra i popoli. Un sindaco recentemente è arrivato addirittura a proporre la costruzione di un grande museo dedicato al re barbaro e ai Goti. Molti ancora si chiedono con quali reperti o documenti lo avrebbe riempito.

    E Von Platen sparisce dalle celebrazioni

    Un ritratto di August Von Platen

    Come sempre accade, nel processo d’invenzione della storia, molte cose finiscono nel dimenticatoio. È interessante notare, ad esempio, che durante le celebrazioni dedicate ad Alarico, il poeta August von Platen  è stato completamente ignorato. Eppure, se la leggenda del re visigoto è nota in  tutta Europa, lo si deve a una sua bellissima poesia. Von Platen non era un uomo molto amato. Widmann lo aveva rimproverato di aver composto quei versi senza mai essere stato a Cosenza, altrimenti avrebbe visto che il Busento non era un fiume dalle acque vorticose ma un misero fiumicello! Heine accusò il poeta di essere un «immondo omosessuale».

    Forse per questo motivo Von Platen lasciò la Germania, considerata più matrigna che madre, per vagare senza meta in Italia. La speranza che un giorno le sue opere sarebbero state apprezzate e il suo nome sarebbe divenuto immortale mitigava le umiliazioni che era costretto a subire. Mussolini, in un saggio giovanile sul poeta, ne ricordò il valore definendolo un tedesco mediterraneo che amava profondamente l’Italia e in un’ode aveva scritto che la «rozza schiatta tedesca» aveva un tempo annientato la civiltà italiana.

    L’invenzione della tradizione

    La rielaborazione storica di Alarico fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e tradizioni che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a narrare i fatti remoti, a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi, a far conoscere luoghi legati a eventi storici. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.

    Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord. Il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Gli operatori dell’industria dello spettacolo, convinti che gli spettatori non abbiano alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a dare spiegazioni inverosimili.

    La passione bruzia per gli invasori

    Non sappiamo spiegare l’entusiasmo dei politici cosentini per popoli stranieri che in diverse epoche storiche hanno impoverito e umiliato la loro terra. Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno comunque parte di una fabbrica del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione della cultura che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma. L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni.

    Horkheimer e Adorno

    Il tentativo di restituire a Cosenza il primato che aveva un tempo ricorrendo all’invenzione della storia si è rivelato un insuccesso. Le celebrazioni dedicate a grandi personaggi come Alarico sono prive di valore sentimentale, prevale l’aspetto ludico e di consumo. I cittadini partecipano agli eventi culturali come ad una grande fiera. Non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli operatori culturali, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».

    Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi. Per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione che consenta alla collettività di riconoscersi in una storia comune.

    Operazione Alarico a Cosenza, la replica di un fallimento

    La statua equestre dedicata ad Alarico, alle spalle quel che resta dell’ex Hotel Jolly

    Richiamandosi all’invasione del re visigoto che nel 410 a. C. saccheggiò Roma, i nazisti hanno usato come nome in codice Unternehmen Alarich il piano militare elaborato per occupare l’Italia in caso di una resa agli Alleati. La Unternehmen Alarich degli amministratori cosentini si è rivelata un clamoroso fallimento. Il re visigoto che in una strana statua sta ritto sulla testa di un cavallo alla confluenza del Crati e del Busento, sembra tentenni a tuffarsi per ritornare sotto le acque putride dei fiumi coperti da una fitta boscaglia e pieni fino all’inverosimile di spazzatura. Alle sue spalle le macerie di un palazzo abbattuto e una città vecchia abbandonata che sta cadendo a pezzi.