Autore: Gianfranco Donadio

  • Vattienti, Calabria di sangue e Fede

    Vattienti, Calabria di sangue e Fede

    Sono le prime ore del Sabato Santo, e l’aria di Nocera Terinese, in questo piccolo paese della Calabria affacciato sul Tirreno, è densa di un silenzio che sembra vibrare. Il tempo pare sospeso, come se i secoli si fossero annodati in un eterno presente. Torno ogni anno, da quando ero uno studente universitario con un quaderno pieno di appunti e curiosità, attratto da una tradizione che non si può spiegare solo con le parole: il rito dei “vattienti”. È un viaggio che mi porta ogni volta a confrontarmi con qualcosa di antico, viscerale, che parla di religiosità e appartenenza.

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    Uno dei vattienti a Nocera Terinese in Calabria (foto Alfonso Bombini 2024)

    Venerdì Santo: l’odore del rosmarino e del sangue

    Il sole è sorto da poco quando, di solito, arrivo nella piazza centrale. Le strade strette, che si arrampicano, sono già animate da un brusio sommesso. Alcune donne, vestite di nero, si muovono come ombre verso la Chiesa dell’Annunziata, dove la statua lignea della Madonna Addolorata – la Pietà, come la chiamano qui – attende di essere portata in processione. È una scultura del Seicento, il volto della Vergine scavato dal dolore, il Cristo morto abbandonato sulle sue ginocchia. Ogni anno, guardarla mi genera un certo effetto.
    Mentre mi incammino verso una delle case ai margini del paese, sento un odore pungente: rosmarino bollito in una grande pentola, la “quadara”. Entro in un piccolo scantinato, accolto da un uomo, col quale diventeremo amici, uno dei “vattienti” di questa giornata. Il suo sguardo è un misto di determinazione e raccoglimento. «Lo faccio per mia madre, che ha ricevuto una grazia», mi dice, mentre si prepara. Indossa una maglia nera e pantaloncini corti, lasciando le gambe scoperte. Sul capo, un panno nero, il “mannile”, fermato da una corona di spine fatte di “sparacogna”, l’asparago selvatico che punge la pelle. Accanto a lui, un ragazzino, il suo “acciomu” – l’Ecce Homo – avvolto in un panno rosso, con una croce di canne sulle spalle. Sono legati da una cordicella, simbolo di un cammino condiviso.

    Vattienti, un rito collettivo di Calabria

    Mi mostra i suoi strumenti: la “rosa”, un disco di sughero liscio, e il “cardo”, un altro disco con tredici frammenti di vetro incastonati, che rappresentano Cristo e i dodici apostoli. «Prima riscaldo la pelle con la rosa» – spiega, «poi colpisco con il cardo. Non è solo dolore, è un’offerta». Lo guardo immergere le mani nell’acqua bollente al rosmarino, massaggiarsi i polpacci per far affluire il sangue. C’è qualcosa di sacro in questo gesto, ma anche di profondamente umano, quasi primitivo.
    Fuori, la processione sta iniziando. La banda di Amantea suona la “Jona”, una marcia funebre che sembra scavare nell’anima. La Madonna Addolorata avanza lenta, portata a spalle da uomini in camice bianco, anche loro con corone di spine. Improvvisamente, il mio amico “vattiente” esce dal suo scantinato. Si batte le gambe con la rosa, poi con il cardo. Il sangue schizza, macchia il selciato, si mescola all’odore del vino che un amico gli versa sulle ferite per disinfettarle e tenerle aperte. Poi alza lo sguardo e incrocia quello dell’anziana madre che lo segue dalla finestra di casa. È un’immagine cruda, che potrebbe turbare, ma qui nessuno si volta dall’altra parte. È un rito collettivo, condiviso e controllato. Mi unisco alla folla, seguendo mio amico che si muove per le vie del paese correndo, fermandosi davanti alle case dei parenti, alle edicole sacre, al passaggio della Madonna. Ogni colpo è un atto di devozione, forse. Ogni goccia di sangue un dialogo con il divino, forse.

    La processione della Madonna a Nocera Terinese durante il Sabato Santo (foto Alfonso Bombini 2024)

    Vattienti Calabria: la processione infinita

    La processione della Madonna, lunga, solenne, si snoda fino al convento dei Cappuccini, in cima a una salita ripida che ti tira i polpacci e ti fa venire l’affanno. Oggi i “vattienti” sono più numerosi, forse ottanta, cento, come mi racconta un giovane studente, aspirante antropologo, che incontro lungo la strada. «Non è solo religione», mi dice, «è identità, (ma che cosa è l’identità? Penso io). Qui il sangue è vita, rinascita, un legame con la terra e con la comunità». Annuisco, pensando a quante volte ho cercato di decifrare questo mistero senza riuscirci del tutto.
    Seguo un altro “vattiente”, che si batte con una forza che sembra trascenderlo. Il suo “acciomu”, questa volta è un bambino di appena dodici anni, lo segue con occhi pieni di rispetto. Quando incrociano la statua della Madonna, il flagellante si inginocchia, colpisce le cosce con più vigore, il sangue scorre copioso. La folla tace, la banda si ferma. È un momento di sospensione, come se il “dolore” del “vattiente” e quello della Madre si fondessero.
    Le ore passano, e la processione sembra non finire mai. Le strade di Nocera sono segnate da strisce rosse, il sangue dei protagonisti di questa giornata, si mescola alla polvere. Eppure, non c’è caos, solo un ordine antico, regolato da una tradizione che resiste nonostante i divieti del passato, le critiche di chi lo considera barbaro, le ordinanze sanitarie recenti, quando il rito rischiò di essere sospeso per questioni igieniche, legato a una pandemia. La comunità si ribellò, raccolse firme, trovò un compromesso. «Non è solo un rito», mi disse allora un anziano del paese: «Questi siamo noi».

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    Vattienti a Nocera Terinese (foto Alfonso Bombini 2024)

    Vattienti Calabria, una tradizione che non si piega

    Quando la processione termina, nel tardo pomeriggio, la Madonna rientra molto lentamente nella Chiesa dell’Annunziata, gremita di gente. I “vattienti” si lavano le ferite con l’infuso di rosmarino, si rivestono, tornano alle loro vite. Io resto lì, seduto su un muretto, a guardare il tramonto che incendia il Tirreno. Ogni anno, da quando ero studente, mi chiedo cosa mi spinga a tornare. Non lo so. Forse è la forza di una tradizione che non si piega, che sfida il tempo e le convenzioni. O forse è il bisogno di toccare qualcosa di autentico, che non si nasconde dietro filtri o ipocrisie. Mi piace filmarlo, questo rito. Cerco sempre di scorgere sequenze nuove, inedite. Forse è per questo che ci ritorno ogni anno.

    I “vattienti” di Nocera Terinese non sono solo un rito pasquale. Sono un grido, un’offerta, una storia scritta col sangue. E io, ogni volta, mi sento un po’ più vicino per capirla, anche se so che non la afferrerò mai del tutto. Mentre lascio il paese, con il suono della “Jona” ancora nelle orecchie, so già che tornerò l’anno prossimo, per perdermi ancora in questo viaggio tra religiosità popolare e mistero.

  • Persefoni a Bova, il rito continua a dirci chi siamo

    Persefoni a Bova, il rito continua a dirci chi siamo

    Vent’anni fa, nei primi anni 2000, ho percorso i sentieri tortuosi dell’Aspromonte con una videocamera in spalla, in compagnia di Ottavio Cavalcanti e Rosario Chimirri. Eravamo lì per un documentario di osservazione, un progetto di ricerca che ci aveva portati a Bova, un paese della Calabria grecanica aggrappato alla roccia, per immergerci in un rito antico e misterioso: la processione delle “Persefoni” della Domenica delle Palme. Non cercavamo solo immagini, ma il significato profondo di una tradizione che intreccia mito, natura e cultura, in un luogo dove il tempo sembra scorrere più lento.

    Persefoni, Bova ci accolse col suo silenzio solenne

    Bova ci accolse con il suo silenzio solenne, rotto solo dal fruscio del vento e dal suono lontano delle campane. Le stradine lastricate, le case di pietra e l’odore di ulivo ci avvolsero mentre preparavamo le nostre attrezzature. La Domenica delle Palme era vicina, e il paese si animava di un’energia collettiva: uomini, donne, bambini, tutti al lavoro per costruire le “Persefoni”, figure antropomorfe fatte di canne selvatiche, foglie di ulivo, fiori di campo e frutti di stagione. Ricordo le mani abili di un’anziana che intrecciava le stiddh, raccontandoci come sua madre le avesse insegnato quel gesto quando era bambina. Ottavio Cavalcanti, con il suo sguardo da antropologo, annotava ogni dettaglio, mentre Rosario, osservava abitazioni, slarghi e stradine, mentre catturava il suono delle risate e dei canti che accompagnavano il lavoro.

    Simboli potenti e carichi di storia

    Ci si soffermava a parlare con i più giovani, curiosi di capire se sentivano ancora loro quel rito. Le “Persefoni” non erano semplici decorazioni. Erano simboli potenti, carichi di storia. Durante le riprese, abbiamo cercato di coglierne ogni sfumatura: le “madri”, più grandi e imponenti, e le “figlie”, delicate e ornate di nastri colorati, sembravano raccontare il ciclo della vita, la fertilità della terra, il passaggio delle stagioni. I bergamotti, le fave, i mandarini e le piccole forme di formaggio chiamate musulupe che le adornavano erano un’esplosione di colori e profumi. Mentre filmavamo la processione, dalla Chiesa dello Spirito Santo al sagrato di San Leo, sentivo che stavamo assistendo a qualcosa di più grande: un dialogo tra passato e presente, tra cristianesimo e culti precristiani, tra l’uomo e la natura.

    Bova, nel cuore della Calabria grecanica

    Una Calabria che già portava i segni dello spopolamento

    Le ipotesi di studiosi che collegavano le “Pupazze” al mito di Persefone e Demetra, prendevano vita davanti ai nostri occhi. Non tutto era idilliaco. La Calabria che stavamo documentando portava i segni dello spopolamento e dell’abbandono. A Bova, molti giovani erano già partiti in cerca di un futuro altrove, e gli anziani parlavano di un tempo in cui il paese era più vivo. Una donna, mentre smembrava una “Persefone” per distribuire le steddhe benedette, ci raccontò di come quelle foglie di ulivo fossero un talismano: le avrebbe messe sugli alberi del suo podere, sperando in un buon raccolto. In quel gesto c’era una fede profonda, non solo religiosa, ma legata alla terra e alla sopravvivenza. La mia macchina da presa si soffermava su questi momenti, cercando di catturare non solo la bellezza, ma anche la fragilità di una comunità che si aggrappava alle sue radici.

    Persefoni, la magia di Bova

    Girare quel documentario era un lavoro lento, quasi rituale. La luce non sempre collaborava, e le vecchie videocamere a volte ci tradivano. Eppure, c’era una magia in quel processo. La sera, riuniti in una piccola stanza del paese, rivedevamo il girato, discutendo di come montare le immagini per rispettare la complessità di ciò che stavamo vedendo. Oggi, ripensando a quei giorni, capisco quanto quel viaggio a Bova abbia segnato il mio modo di guardare il mondo. Le “Persefoni” non erano solo un soggetto da filmare, ma una porta verso un universo di significati: la Dea Madre, la rinascita primaverile, la forza di una comunità che, nonostante le difficoltà, continuava a celebrare la vita.

    Il rischio di trasformare tutto in folklore

    La Calabria grecanica di allora è cambiata – il turismo è cresciuto, i laboratori per insegnare l’arte delle “Pupazze” sono un segno di speranza – ma il rischio di trasformarle in folklore per visitatori è sempre presente. Eppure, so che a Bova, ogni Domenica delle Palme, quel rito continua a parlare di chi siamo stati e di chi potremmo essere. Il nostro documentario, forse mai completato come avremmo voluto, è un frammento di quella storia. Ma le immagini di quelle figure danzanti tra le vie del paese, sotto un cielo di primavera, restano vive nella mia memoria, come un invito a non dimenticare.

  • Casaula, il mio prof cinque birilli

    Casaula, il mio prof cinque birilli

    Sono passati tre anni dalla sua scomparsa, eppure il ricordo di Umberto Casaula è ancora vivo, come un’eco che non si spegne, un’immagine che si staglia nitida nella memoria di chi lo ha conosciuto. Per molti, Umberto Casaula è stato un nome scolpito nella storia del biliardo italiano, un calabrese fiero che ha portato la sua terra sotto i riflettori nazionali e internazionali. Per me, però, è stato molto di più: è stato il mio professore di matematica e scienze, una figura che ha attraversato la mia adolescenza con la grazia di un gentiluomo d’altri tempi e la profondità di un pensatore solitario.

    Casaula, il mio prof di matematica

    Lo rivedo ancora, elegante come sempre, con il suo portamento raffinato e quella disponibilità che lo rendeva unico. Erano gli anni ‘80, nell’edificio della scuola media di Trenta, una contrada dell’attuale Casali del Manco in provincia di Cosenza, entrava in aula con un sorriso appena accennato, il passo lento e misurato, e in pochi minuti trasformava la lavagna in un campo di battaglia di numeri e formule. Ma non era uno di quei professori che si perdeva in spiegazioni interminabili: dopo aver tracciato l’essenziale, si voltava verso di noi, sceglieva uno studente e gli affidava la lettura ad alta voce di un capitolo di scienze. Poi, quasi come un rituale, si allontanava dalla cattedra.

    Con una mano infilata in tasca e l’altra che reggeva una sigaretta accesa – una delle tante che lo accompagnavano come fedeli compagne – iniziava a passeggiare. Dall’aula al corridoio, avanti e indietro, il fumo gli sfuggiva dalle labbra in volute leggere, mentre i suoi occhi azzurri, profondi e magnetici, si perdevano nel vuoto. Sembrava disegnare traiettorie immaginarie nell’aria, come se la sua mente fosse altrove, forse già sul panno verde di un tavolo da biliardo.

    Umberto Casaula

    Casaula, il campione conosciuto in tutto il mondo

    Non era solo un insegnante, Umberto Casaula. Col tempo ho scoperto che dietro quel professore, dagli occhi celesti, di uno sguardo assorto si nascondeva una leggenda. Campione italiano di biliardo nel 1985 nella specialità dei 5 birilli, aveva calcato i palcoscenici più prestigiosi, come i campionati mondiali del 1987 a Milano. Negli anni ’90, il suo nome risuonava tra i 24 migliori giocatori al mondo, un riconoscimento che lo aveva portato nel circuito professionistico internazionale sotto gli occhi attenti dell’ormai spenta Tele+. La sua tecnica era impeccabile, la sua grinta contagiosa, la sua eleganza innata. Non era solo un giocatore: era un artista, un maestro che trasformava ogni colpo in una danza, ogni partita in un racconto. E quella passione, quel fuoco che lo animava, lo aveva trasmesso al figlio Aldo, che ne ha raccolto l’eredità diventando a sua volta un campione.

    Ripenso a lui e mi colpisce il contrasto tra l’uomo che conoscevo e l’icona che è stato. In aula, con noi, era silenzioso, quasi introspettivo, ma sul tavolo da biliardo si accendeva di una vitalità che pochi potevano eguagliare. Quei momenti in cui lo vedevo perso nei suoi pensieri, con la sigaretta tra le dita e lo sguardo lontano, oggi li immagino come attimi in cui riviveva le sue vittorie, o forse progettava nuove strategie per il prossimo incontro. Era un uomo di poche parole, ma ogni gesto, ogni sguardo, parlava per lui.

    Tre anni senza il prof Casaula

    Tre anni senza Umberto Casaula pesano come un’assenza che non si colma, soprattutto per i suoi avversari compagni di gioco . Non è stato solo un campione, non è stato solo un professore. È stato un simbolo di dedizione, un esempio di come la passione possa intrecciarsi alla vita quotidiana, trasformando anche i momenti più semplici – una lezione, una passeggiata in corridoio – in qualcosa di straordinario. Oggi, mentre il fumo delle sue sigarette si è dissolto e il suono della stecca sul panno verde si è spento, resta il ricordo di un uomo che ha vissuto con intensità, lasciando un segno indelebile in chi ha avuto la fortuna di incrociare il suo cammino. E nei miei occhi, quegli occhi azzurri continuano a brillare, persi in un orizzonte che solo lui poteva vedere.

  • La fiera che non c’è più e i mostaccioli di Soriano

    La fiera che non c’è più e i mostaccioli di Soriano

    La fiera di San Giuseppe si è conclusa da qualche giorno e ha lasciato un diffuso senso di delusione. In qualche maniera le aspettative tradite sono sempre legate ai nostri ricordi, alla memoria di una fiera che era molto più che un vasto mercato, era un luogo di incontro e scambio.  Da bambino, quando facevano capolino le prime belle giornate di primavera, quando la primavera esisteva, cominciavo a convincere i miei genitori di accompagnarmi alla fiera di San Giuseppe, a Cosenza. Mi entusiasmava concedermi alla folla, all’assiepamento talvolta asfissiante di gente proveniente da ogni paese della provincia, e non soltanto. Ogni anno nei giorni che precedono e seguono il 19 marzo si rinnovava l’appuntamento con l’antichissima fiera.

    Una parte della città diventa la Kasbah

    «Ara Fera», l’espressione del dialetto cosentino molto utilizzata nei giorni dell’evento; in italiano diventa «in/alla fiera». Un caleidoscopio di razze, suoni, colori che invade la città dei Bruzi che si trasforma a volte in una kasbah nordafricana. Mi è sempre piaciuta tanto la fiera che, da grande, ho voluto girare alcune sequenze per costruire due brevi documentari di osservazione. La fiera rappresenta una delle tradizioni più antiche e sentite. Un evento calendarizzato che intreccia riti, stagioni e dinamiche commerciali ed economiche popolari. Le sue origini arrivano dal passato medievale, quando la celebrazione del santo artigiano, simbolo di lavoro e famiglia, venne associata al mercato locale.

    La fiera e l’arrivo della primavera: l’auspicio della rinascita

    La fiera si colloca in un tempo cruciale del calendario: l’arrivo della primavera, solitamente carica di simbolismo, che segna il risveglio della natura dopo la quiete invernale, ma anche il senso di rinascita e speranza per le comunità rurali e urbane. In diverse culture, il passaggio stagionale è celebrato con feste, mercati e riti che affermano il ciclo della vita e della fertilità. La fiera non fa eccezione. I colori, i profumi delle primizie esposte e il fervore umano che anima le strade riecheggiano tutto quel “rinnovamento” che la primavera porta con sé. Nel contesto agricolo e pastorale del Sud, la primavera è stata tradizionalmente un momento per riorganizzare il lavoro nei campi e pianificare le semine. La fiera, in quest’ottica, diventava non solo un’occasione per celebrare, ma anche per scambiare beni e idee, stabilendo legami tra i produttori locali e il tessuto urbano.

    Oltre al potere simbolico c’era anche l’importanza degli scambi commerciali

    Oltre al suo significato simbolico e stagionale, la fiera era anche un evento commerciale di grande rilevanza. Rappresentava un’opportunità per contadini, artigiani e commercianti di vendere i propri prodotti e acquistare beni necessari per l’anno successivo. Gli scambi economici sono stati un riflesso delle tradizioni locali, con la presenza di prodotti come formaggi, vino, attrezzi agricoli e manufatti in legno. Oggi, la fiera si è evoluta, (o involuta, dipende dai punti di vista) mantenendo in qualche modo viva la sua anima storica ma adattandosi ad alcune dinamiche contemporanee. Bancarelle che un tempo esponevano esclusivamente prodotti locali ora offrono una varietà di merci, dalla moda agli accessori, attirando visitatori non solo da Cosenza, ma da tutta la regione e oltre.

    Scambi e incontri tra culture

    Tutto cambia e anche la fiera di San Giuseppe

    La fiera di San Giuseppe è un esempio emblematico di come una tradizione possa adattarsi ai tempi, mantenendo la sua trama identitaria. Il suo fascino risiede nella capacità di coniugare il profondo legame con il ciclo delle stagioni, il risveglio della natura e la convivialità umana con le esigenze moderne di commercio e socializzazione. È una celebrazione della comunità, della vita e dell’energia rinnovatrice che la primavera porta con sé.

    L’ultima edizione della fiera

    Mostaccioli antropomorfi di Soriano: uno sguardo etnografico sulla tradizione e la resistenza culturale

    Ma la fiera di San Giuseppe a Cosenza è, per me, la fiera dei mostaccioli di Soriano che rappresentano un solenne intreccio tra arte, cultura alimentare ed etnologia, incarnando un simbolismo che travalica i confini del piacere per il cibo, per immergersi nelle dinamiche di identità collettiva e memoria storica. Questi dolci dalle figure antropomorfe, unici nel loro genere, si stagliano come pilastri attraversando i secoli come testimoni viventi di una tradizione longeva. La produzione dei mostaccioli di Soriano si radica in antiche pratiche artigiane legate alla panificazione rituale.

    Foto di Francesco Catania, per gentile concessione di Maria Rosaria Giofrè
    Foto di Francesco Catania, per gentile concessione di Maria Rosaria Giofrè

    La loro forma antropomorfa non è casuale: richiama figure mitiche e sacre, eroi e personaggi del folklore, con una profonda valenza simbolica. Rappresentano, secondo un’ottica antropologica, un modo attraverso il quale la comunità celebra le sue radici e rinnova il legame di appartenenza e continuità.

    I dolci offerti come doni e offerte votive

    Mostacciolo devozionale

     

    I mostaccioli sono stati usati nei secoli come offerte votive o doni simbolici durante feste religiose e le cerimonia matrimoniali, fungendo da collante tra sacro e profano. Le mani che hanno plasmato queste figure, prima dei processi più moderni e industriali, imprimevano in questo elemento non solo abilità tecnica, ma anche narrazioni tramandate da generazione in generazione. Nel contesto della fiera i mostaccioli sopravvivono come testimonianza di longevità, sopravvivono all’omologazione dei gusti e del “mangiare veloce”, alle altre pressioni della globalizzazione. In questa resistenza possiamo lo spirito di comunità che, attraverso il cibo, si riflette nella capacità di adattarsi senza perdere autenticità. Ogni figura antropomorfa porta con sé non solo un pezzo di storia, ma anche una sfida: restare importanti e rilevanti in un mondo che cambia. I mostaccioli di Soriano, in fiera, ci raccontano molto di più rispetto al loro essere dolciaria. Ci raccontano che sono artefatti culturali in grado di raccontare storie, rafforzare legami e mantenere viva l’eredità e il patrimonio culturale collettivo.

     

  • San Leone a Saracena: un rito di identità e coesione sociale

    San Leone a Saracena: un rito di identità e coesione sociale

    Era il febbraio del 2018, quando con Giovanni Sole decidemmo di osservare e filmare, per l’ennesima volta la festa di San Leone a Saracena, un rito che dopo qualche settimana di montaggio delle immagini decidemmo di affidare ad un film corto dal titolo “Il santo e i maccheroni”, da sottoporre agli studenti di Antropologia religiosa e Storia delle tradizioni popolari all’università della Calabria. Le conclusioni furono affidate, invece, ad una voce off che recitava sulle immagini di un campo di papaveri, perché il risveglio della natura, nel ciclo delle stagioni, era ormai vicina. “Saracena è avvolta da un lento pallore e da un sonno profondo. Lontano i campi brulli, gli orti spogli e gli alberi scheletrici sono immobili, muti e desolati. Nel pomeriggio i fuochi rischiarano il buio e, scintillando, creano un’atmosfera calda e vivace. I paesani attraversano le vie suonando, cantando e invocando il nome del Protettore. Durante la notte si mangia e si fa festa: evviva san Leone con un piatto di maccheroni! Non è più tempo di privazioni e sacrifici: presto la terra si sveglierà e le spighe di grano cresceranno”.

    San Leone a Saracena: luce e prosperità

    La festa di San Leone a Saracena, celebrata ogni 19 febbraio a Saracena, è un evento ricco di significato antropologico e culturale. In questa occasione, la comunità si riunisce per onorare il proprio santo patrono, San Leone, arcivescovo di Catania nel periodo bizantino. Attraverso una serie di rituali e tradizioni, la festa riflette la profonda connessione tra i paesani e la loro storia religiosa e culturale. La festa è caratterizzata da una serie di elementi chiave come, ad esempio, la processione, che si snoda dalla chiesa principale e vede i partecipanti portare torce realizzate con una pianta locale intrisa di olio, chiamata “varvasca”. Questo rito, carico di simbolismo, rappresenta la luce che guida la comunità e la protegge dalle tenebre. In ogni rione del paese vengono accesi falò, che arderanno fino al mattino seguente. Il fuoco, elemento di purificazione e simbolo di rinascita, rappresenta la speranza e la forza della comunità. Intorno gruppi di giovani suonano organetti, tamburelli e “cupi cupi”, intonando canti in onore del santo.

     

    Cibo, vino e condivisione

    Il canto e i suoni generano un’atmosfera di festa e di condivisione. Le tavole imbandite con cibi locali, accompagnati dal vino e dal moscato, sono un elemento centrale della festa. La condivisione del cibo e bevande rafforza il senso della comunità e dell’appartenenza. C’è un significato antropologico profondo nella festa di San Leone a Saracena che rappresenta un momento di aggregazione sociale e di identità. Attraverso il rito, il popolo celebra la sua storia, la sua fede e il suo legame col taumaturgo. La festa è un esempio di come la religiosità possa fungere da catalizzatori di identità e coesione sociale, mantenendo vive le tradizioni e le credenze di una comunità. La festa di San Leone a Saracena è un evento ricco di significato, che unisce elementi religiosi cristiani a credenze popolari legate a elementi di natura. Attraverso la partecipazione collettiva al rito, la comunità rafforza i legami sociali e tramanda la propria identità alle nuove generazioni. La festa di San Leone rappresenta un patrimonio culturale immateriale prezioso, che merita di essere approfondito.

     

     

  • A due anni dalla strage di  Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    A due anni dalla strage di Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    Due anni sono trascorsi dalla tragica notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, quando un caicco carico di speranze e sogni naufragò nelle acque di Steccato di Cutro, portando con sé la vita di 94 migranti, tra cui 35 minori. Oggi, quella spiaggia calabrese è stata teatro di commemorazioni e riflessioni profonde, mentre il Mediterraneo continua a essere scenario di tragedie umane. Secondo i dati congiunti di OIM, UNICEF e UNHCR, negli ultimi due anni oltre 5.400 migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo, un numero che sottolinea l’urgenza di interventi concreti per prevenire ulteriori perdite.

    Cutro: la tragedia che poteva essere evitata

    In occasione di questo secondo anniversario, dieci organizzazioni non governative, tra cui Emergency, Medici Senza Frontiere e Open Arms, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta. Esse sottolineano come la tragedia di Cutro avrebbe potuto essere evitata e chiedono l’istituzione di un sistema europeo di salvataggio in mare, evidenziando la necessità di un approccio coordinato e umano alla crisi migratoria. Alle prime luci dell’alba, una veglia si è tenuta sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Candele accese e una corona deposta in mare hanno onorato la memoria delle vittime. Presenti familiari, superstiti e membri della comunità locale, uniti nel dolore e nella speranza di un futuro migliore.

     

    Tenere viva l’attenzione e impedire altre stragi

    La Rete 26 febbraio, l’associazione No profit che è sorta all’indomani della strage e che ha come scopo quello di sensibilizzare l’opzione pubblica verso le politiche migratorie,  ha organizzato una serie di eventi tra Cutro, Crotone, Cosenza e Botricello, con l’obiettivo di mantenere viva la memoria e promuovere un dialogo costruttivo sulle politiche migratorie. Queste iniziative mirano a trasformare il dolore in azione, affinché tragedie simili non si ripetano.
    La segretaria Dem Elly Schlein, ha espresso preoccupazione per le domande ancora senza risposta riguardo alla gestione dei soccorsi durante il naufragio di Cutro. La sua dichiarazione richiama l’attenzione sulla necessità di chiarezza e responsabilità da parte delle istituzioni.

    L’anniversario di Cutro non deve essere solo ricordo

    Questo anniversario non è solo un momento di ricordo, ma un appello urgente all’azione. Le vite perse a Cutro e nel Mediterraneo esigono un impegno collettivo per garantire rotte sicure e legali per chi cerca una vita migliore, affinché il mare smetta di essere un cimitero e torni a essere un ponte tra i popoli.