Autore: Gianfranco Donadio

  • La bomba, il fantasma del pilota pentito e i silenzi di Serra San Bruno

    La bomba, il fantasma del pilota pentito e i silenzi di Serra San Bruno

    Da quando ho sentito per la prima volta la storia del pilota che, dopo aver sganciato la bomba atomica su Hiroshima, si sarebbe ritirato nella Certosa di Serra San Bruno, sono stato catturato da un fascino irresistibile. 

    Proprio pochi giorni fa col mio amico documentarista Antonio Martino avevamo pensato di ragionare su questo argomento.

    È una narrazione che intreccia guerra, colpa, redenzione e spiritualità, ambientata in un luogo mistico e isolato come la Certosa, un monastero certosino immerso nelle silenziose foreste calabresi del vibonese. Questo racconto, che oscilla tra realtà e leggenda, ha il potere di evocare immagini potenti: un uomo tormentato dal peso delle sue azioni, in cerca di pace tra le mura di un convento antico, lontano dal clamore del mondo. Ma quanto c’è di vero in questa storia? E perché continua ad affascinarmi così tanto?

    L’esplosione della bomba e le sue conseguenze

    Le origini di una leggenda

    La storia ha radici negli anni ’60, quando lo scrittore calabrese Sharo Gambino pubblicò un racconto che accese l’immaginazione di molti. Secondo la sua versione, un pilota americano, pentito per il ruolo avuto nel bombardamento atomico di Hiroshima del 6 agosto 1945, avrebbe scelto la vita monastica nella Certosa di Serra San Bruno per espiare le sue colpe. Il racconto, ripreso da un servizio RAI del 1962, si diffuse rapidamente, trasformandosi in una vera e propria leggenda urbana. La notizia attirò l’attenzione di giornalisti e curiosi, al punto che i monaci della Certosa, disturbati dalle continue visite di chi cercava il misterioso pilota, affissero un cartello con un messaggio chiaro: «Nella Certosa non c’è il pilota di Hiroshima. Non disturbate la quiete del convento».

    La certosa di Serra San Bruno, tra le cui mura avrebbe cercato espiazione il pilota americano

    Eppure, nonostante la smentita, la storia non ha mai smesso di esercitare il suo fascino su di me. C’è qualcosa di profondamente umano nel pensiero di un uomo che, dopo aver contribuito a uno degli eventi più devastanti della storia, cerca redenzione in un luogo di silenzio e contemplazione. La Certosa di Serra San Bruno, fondata nel 1090 da San Bruno, è un luogo che sembra fatto apposta per accogliere anime in cerca di pace: le sue mura austere, il rigore della vita monastica e il profumo dei boschi calabresi creano un’atmosfera che invita alla riflessione. È facile immaginare un uomo tormentato, avvolto dal silenzio di quel luogo, intento a confrontarsi con il proprio passato.

    La ricerca della verità

    Ma chi era questo pilota? La storia, per quanto affascinante, si scontra con i fatti storici. Il pilota dell’Enola Gay, il bombardiere B-29 che sganciò la bomba atomica “Little Boy” su Hiroshima, era il colonnello Paul Tibbets. Tibbets, un uomo pragmatico e convinto della necessità della sua missione, non mostrò mai rimorsi pubblici per il suo ruolo e visse una vita lontana da monasteri, morendo nel 2007 senza mai visitare la Calabria. La sua figura non si adatta al profilo del “pilota pentito” della leggenda.

    Paul Tibbets, il comandante dell’Enola gay

    Dietro la leggenda una storia vera

    Tuttavia, scavando più a fondo, emerge un altro personaggio che potrebbe aver ispirato il racconto: Tony Lehmann, un soldato americano che, pur non essendo un pilota, visitò Hiroshima poco dopo il bombardamento come parte del suo servizio militare. Lehmann, sconvolto dalla devastazione causata dalla bomba, decise di lasciare l’esercito, si laureò in filosofia e divenne sacerdote gesuita. Successivamente, trascorse periodi di ritiro nei monasteri certosini di Pisa e Serra San Bruno. È possibile che, durante il suo soggiorno in Calabria, abbia condiviso con i confratelli le sue riflessioni sulla tragedia di Hiroshima, alimentando così la leggenda. Lehmann non era il pilota dell’Enola Gay, ma la sua storia di trasformazione spirituale e il suo legame con la Certosa potrebbero aver dato origine al mito.

    L’altro protagonista

    Un altro nome che spesso emerge in questa vicenda è quello di Claude Eatherly un pilota meteorologo che partecipò alla missione di Hiroshima come membro dell’equipaggio del “Straight Flush”, un aereo di supporto. A differenza di Tibbets, Eatherly fu profondamente segnato dal suo ruolo, pur indiretto, nel bombardamento. Tormentato dai sensi di colpa, cadde in una spirale di disturbi psichici, commettendo piccoli crimini nel tentativo di espiare il suo passato. Il suo carteggio con il filosofo Günther Anders, pubblicato in Italia come “L’ultima vittima di Hiroshima”, dipinge il ritratto di un uomo in lotta con la propria coscienza. Tuttavia, non ci sono prove che Eatherly abbia mai visitato Serra San Bruno o che si sia ritirato in un monastero.

    Il fascino di una storia universale

    Perché questa storia continua ad affascinarmi tanto? Forse perché tocca corde profonde dell’animo umano: il senso di colpa, la ricerca di redenzione, il desiderio di lasciare alle spalle un passato doloroso. L’idea di un pilota che abbandona tutto per rifugiarsi in un monastero calabrese è quasi cinematografica, un’immagine che sembra uscita da un romanzo di Graham Greene. La Certosa di Serra San Bruno, con la sua storia millenaria e il suo isolamento, amplifica questo fascino. È un luogo che sembra sospeso nel tempo, dove il silenzio diventa un interlocutore e ogni passo tra le sue mura invita alla riflessione.

    L’errore giornalistico

    La leggenda, inoltre, si nutre di un errore giornalistico che ha contribuito a consolidarla. Nel 1962, un articolo di Gianfranco Poggi sulla rivista “Oggi” identificò erroneamente Tony Lehmann come “Lehman Leroy” e lo descrisse come il pilota di Hiroshima, alimentando il mito. Questo fraintendimento, unito al racconto di Sharo Gambino, ha trasformato una storia di trasformazione personale in una narrazione epica di espiazione.

    Un mistero che resiste

    Nonostante le smentite, la storia del pilota pentito continua a vivere nell’immaginario collettivo. Forse perché, al di là della sua veridicità, parla di qualcosa di universale: il bisogno di trovare pace dopo aver affrontato l’orrore. Ogni volta che penso alla Certosa di Serra San Bruno, immagino un uomo senza nome, un’ombra tra i monaci, che prega in silenzio per le anime perdute di Hiroshima. È un’immagine che non ha bisogno di essere vera per essere potente.

    Le mura della certosa che custodiscono la leggenda

    La certosa e il suo spettro immaginario

    La mia attrazione per questa storia non deriva solo dalla sua drammaticità, ma anche dal mistero che la avvolge. È una storia che si presta a mille interpretazioni, che invita a immaginare e a riflettere. Forse il vero pilota pentito non è mai esistito, ma la sua ombra continua a vagare tra le mura della Certosa, un simbolo della capacità umana di cercare luce anche nelle tenebre più profonde. E per questo, non smetterò mai di essere affascinato da questo racconto, che unisce la tragedia della guerra al silenzio di un monastero calabrese, in un connubio che parla direttamente al cuore.



  • Il mio Campanile di Marcellinara

    Il mio Campanile di Marcellinara

    Ho incrociato per la prima volta il pensiero di Ernesto De Martino negli anni 90.  Il suo  concetto di “crisi della presenza” ha influenzato profondamente il mio cammino di studente e studioso. Un concetto che incrocia memoria, cultura e riflessioni sul nostro bisogno di appartenenza. Una parola che rievoca “il Campanile di Marcellinara”. Ne parlavo qualche giorno fa col mio amico, sindaco proprio di Marcellinara, Vittorio Scerbo.

    Chi era Ernesto De Martino

    Ernesto De Martino è stato uno degli intellettuali più affascinanti del Novecento italiano: etnologo, storico delle religioni, filosofo e, soprattutto, un osservatore acuto della condizione umana. Nato a Napoli nel 1908, De Martino ha dedicato la sua vita a studiare le culture popolari, in particolare quelle del Sud Italia, con un approccio che univa rigore scientifico a una profonda empatia per le genti e le loro tradizioni. Non era un accademico chiuso nella sua torre d’avorio: De Martino viaggiava, osservava, ascoltava. Le sue spedizioni etnografiche in Lucania, Puglia e Calabria sono leggendarie, e libri come “Morte e pianto rituale”, “Sud e magia” e “La terra del rimorso” sono pietre miliari dell’antropologia culturale.

    Ma De Martino non era solo un ricercatore: era un pensatore che cercava di capire come gli esseri umani affrontano le grandi domande dell’esistenza. Come troviamo un senso in un mondo che spesso sembra caotico? Come ci ancoriamo alla realtà quando tutto sembra sfuggirci di mano? È qui che entrano in gioco i concetti del “Campanile di Marcellinara” e della “crisi della presenza”.

    Ernesto De Martino

    Gli anni ’90: il mio incontro con De Martino

    Era il 1995, ero uno studente universitario di materie antropologiche, e le aule erano piene di discussioni appassionate su cultura, identità e società. Ricordo ancora il giorno in cui il mio professore ci parlò di Ernesto De Martino. Ci invitò alla lettura di “La fine del mondo”, un’opera postuma, complessa, frammentaria, ma incredibilmente viva. Fu come aprire una finestra su un mondo che non conoscevo: il Sud Italia degli anni ’50, con i suoi rituali, le sue paure, i suoi simboli. Ma soprattutto, fui catturato da un episodio che De Martino raccontava: il “Campanile di Marcellinara”.

    Leggere quell’aneddoto fu come accendere una lampadina. Non era solo una storia, ma un modo per capire qualcosa di universale: il bisogno umano di avere un punto di riferimento, un luogo che ci dica chi siamo e dove apparteniamo. E poi c’era la “crisi della presenza”, un’espressione che mi colpì come un fulmine. Mi sembrava di aver trovato le parole per descrivere quella sensazione di smarrimento che, in un modo o nell’altro, tutti proviamo almeno una volta nella vita.

    “Il Campanile di Marcellinara”: una storia semplice, un simbolo universale

    Immaginatevi una strada polverosa in Calabria, negli anni ’50. Ernesto De Martino e i suoi collaboratori stanno viaggiando in macchina, incerti sul percorso. Incontrano un anziano pastore e gli chiedono di salire a bordo per indicare la strada, promettendo di riportarlo indietro. Il pastore accetta, ma mentre l’auto si allontana, succede qualcosa di straordinario. Il pastore inizia a mostrare segni di disagio, quasi di panico. Perché? Perché, a un certo punto, non riesce più a vedere il campanile di Marcellinara, il suo villaggio. Quel campanile, per lui, non è solo una torre: è il centro del suo mondo, il simbolo della sua “patria culturale”.

    Quando il campanile scompare all’orizzonte, il pastore vive una “crisi della presenza”. Si sente perso, come se il mondo stesso gli sfuggisse. È solo quando il campanile riappare, tornando visibile, che il pastore si calma, scende dall’auto e, senza nemmeno salutare, si allontana, quasi correndo verso casa.

    Questa storia, che De Martino racconta in “La fine del mondo”, mi colpì profondamente negli anni ’90. Non era solo un aneddoto curioso: era una chiave per capire come gli esseri umani costruiscono il loro senso di identità. Il campanile di Marcellinara non è solo un edificio: è un “axis mundi”, un punto di riferimento che dà ordine al caos, che ci radica in uno spazio e in una storia. Perdere quel punto di riferimento significa rischiare di perdersi, di cadere in quella che De Martino chiamava la “crisi della presenza”.

    La crisi della presenza: il rischio di perdersi

    La “crisi della presenza” è un concetto centrale nel pensiero di De Martino. È quella condizione in cui una persona, o un’intera comunità, perde il contatto con i propri riferimenti culturali e storici, finendo in uno stato di smarrimento esistenziale. È come se il mondo, improvvisamente, smettesse di avere senso. De Martino studiava questa crisi nelle società tradizionali, come i contadini del Sud Italia, ma la considerava una condizione universale.

    Pensateci: quante volte ci siamo sentiti smarriti, senza punti di riferimento? Negli anni ’90, mentre leggevo De Martino, mi chiedevo se anche io, in un mondo che cambiava rapidamente – con la globalizzazione, l’arrivo di internet, le trasformazioni sociali – stessi vivendo una mia piccola crisi della presenza. Il campanile di Marcellinara mi sembrava una metafora perfetta: tutti abbiamo bisogno di un “campanile”, un simbolo che ci ancori, che ci ricordi chi siamo.

    De Martino, però, non si limitava a descrivere questa crisi. Si chiedeva: come la superiamo? La risposta, per lui, stava nella cultura. Rituali, simboli, miti, tradizioni: sono questi gli strumenti che le società usano per aiutare gli individui a ritrovare la loro “presenza”, a ricostruire un senso di appartenenza. Nel caso del pastore, il campanile era il simbolo che lo riportava a casa. Ma anche in contesti moderni, abbiamo i nostri “campanili”: una canzone, un luogo, una storia di famiglia.

    De Martino e il Sud: un’antropologia vicina al cuore

    Negli anni ’90, studiare De Martino significava anche confrontarsi con il Sud Italia, un Sud che lui aveva descritto con rispetto e profondità. De Martino non guardava alle culture popolari come qualcosa di “arretrato”. Al contrario, vedeva nei rituali e nelle credenze del Sud una saggezza profonda, un modo per affrontare le grandi domande dell’esistenza. Nei suoi libri, come “Sud e magia” o “La terra del rimorso”, raccontava di tarantolati, di riti di guarigione, di pianti funebri. E io, leggendo, sentivo un legame con quelle storie, anche se venivo da un contesto diverso.

    Da studente, mi colpiva il modo in cui De Martino univa la teoria alla vita reale. Non era un ricercatore distaccato: era qualcuno che si immergeva nelle storie delle persone, che ascoltava le loro paure e i loro sogni. Questo mi ispirava. Mi faceva pensare che l’antropologia non fosse solo una disciplina accademica, ma un modo per capire meglio noi stessi e gli altri.

    Il Campanile oggi: una metafora per il nostro tempo

    Oggi, nel 2025, quel “Campanile di Marcellinara” è ancora una metafora potente. Viviamo in un mondo in cui i punti di riferimento tradizionali – comunità, tradizioni, luoghi fisici – sono spesso messi in discussione. La globalizzazione, le migrazioni, le crisi ambientali ci spingono a cercare nuovi “campanili”. Ma cosa succede quando li perdiamo? La “crisi della presenza” è forse più attuale che mai. Pensiamo agli astronauti, come li descriveva De Martino, che nello spazio perdono la Terra come punto di riferimento. O pensiamo a chi, in un mondo iperconnesso, si sente paradossalmente più solo.

    Tornando a quegli anni ’90, ricordo che studiare De Martino mi ha insegnato a cercare i miei “campanili”. Per me, forse, erano i libri, le discussioni con i compagni di università, le serate passate a parlare di idee che sembravano cambiare il mondo. E oggi, raccontando questa storia, mi rendo conto che il “Campanile di Marcellinara” è ancora lì, da qualche parte, a ricordarmi l’importanza di avere un luogo – fisico o simbolico – da chiamare casa.

    Ernesto De Martino ci ha lasciato un’eredità straordinaria: ci ha insegnato che la cultura è il nostro modo di resistere al caos, di ritrovare la “presenza” quando tutto sembra perduto. Il “Campanile di Marcellinara” e la “crisi della presenza” non sono solo concetti antropologici: sono strumenti per capire chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare.

  • Giannino Losardo: il coraggio, la resistenza e la lezione

    Giannino Losardo: il coraggio, la resistenza e la lezione

    È la sera del 21 giugno 1980, una tiepida notte d’estate sulla costa tirrenica calabrese. Giovanni Losardo, 53 anni, conosciuto da tutti come “Giannino”, guida la sua Fiat 126 azzurra lungo la statale 18, al chilometro 298,8, nei pressi di Cetraro, in provincia di Cosenza. Ha appena lasciato il municipio, dove ha partecipato a una seduta del consiglio comunale. Sono circa le dieci della sera, quando l’oscurità della strada viene squarciata da una raffica di proiettili. Due killer, forse a bordo di una moto di grossa cilindrata o di un’auto, affiancano la sua vettura. Gli spari risuonano nella notte, ferendo gravemente Losardo. In un disperato tentativo di salvarsi, esce dall’auto, ma un colpo di pistola lo colpisce mortalmente. Trasportato d’urgenza all’ospedale di Paola, muore il pomeriggio successivo. Prima di spirare, pronuncia parole che pesano come un macigno: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Queste parole, riferite a un maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, sono un’accusa diretta, un grido che implica una verità nota alla comunità, ma soffocata dall’omertà.

    Giannino Losardo

    Chi era Giovanni Losardo, e perché la sua morte rappresenta un capitolo così tragico e significativo nella storia della Calabria? Per rispondere, dobbiamo immergerci nel contesto storico, sociale e culturale della Calabria degli anni ’70 e ’80, un’epoca di profonde trasformazioni e conflitti, in cui la ‘ndrangheta stava consolidando il suo potere, mentre figure come Losardo rappresentavano una resistenza ostinata a un sistema di oppressione e corruzione.

    Giannino Losardo, un uomo contro il sistema

    Giovanni Losardo, nato e cresciuto a Cetraro, era un uomo semplice ma di straordinaria determinazione. Militante del Partito Comunista Italiano (PCI), in un periodo in cui l’appartenenza politica in Calabria non era solo una scelta ideologica, ma spesso un atto di coraggio, Losardo ricopriva due ruoli cruciali: era consigliere comunale a Cetraro e capo della segreteria della Procura di Paola. Non era un politico di facciata: Losardo agiva con coerenza, denunciando le collusioni tra criminalità organizzata e politica locale, opponendosi alle speculazioni edilizie che arricchivano i clan e monitorando, dalla sua posizione in Procura, le fragilità di un sistema giudiziario spesso vulnerabile alle pressioni mafiose.

    La sua figura era scomoda in un contesto dominato dalla paura e dall’omertà. In un’epoca in cui la ‘ndrangheta non si limitava a estorsioni o traffici illeciti, ma si stava trasformando in una potenza economica, Losardo rappresentava una minaccia diretta. La sua azione politica e professionale era un ostacolo per chi voleva mantenere il controllo su Cetraro e sul Tirreno cosentino, un’area strategicamente importante per il commercio ittico, la speculazione edilizia e i traffici di droga.

    La Cetraro del clan Muto

    Gli anni ’70 e ’80 segnano una svolta per la ‘ndrangheta, che da fenomeno rurale si trasforma in un’organizzazione criminale strutturata, capace di infiltrarsi nei tessuti economici e istituzionali. A Cetraro, per esempio, il clan Muto, guidato da Franco Muto, noto come “il re del pesce”, stava consolidando il suo dominio. Il mercato ittico, pilastro dell’economia locale, era sotto il controllo del clan. Parallelamente, la speculazione edilizia, alimentata dalla crescita turistica della costa tirrenica, offriva opportunità di profitto enormi, spesso in sinergia con amministratori locali compiacenti.

    Franco Muto negli anni ottanta

    Questo periodo è caratterizzato da una profonda tensione sociale. La Calabria, e in particolare il Tirreno cosentino, era una terra di contrasti: da un lato, la bellezza naturale e il potenziale economico della costa attiravano investimenti; dall’altro, la povertà endemica, l’arretratezza infrastrutturale e la disoccupazione spingevano molti a piegarsi al potere mafioso, percepito come un’alternativa al vuoto dello Stato. La ‘ndrangheta non si limitava a controllare il territorio con la violenza: costruiva consenso attraverso il clientelismo, offrendo lavoro e protezione in cambio di fedeltà. In questo contesto, l’omertà non era solo paura, ma un meccanismo di sopravvivenza sociale, radicato in una cultura di sfiducia verso le istituzioni.

    Quella sera del 21 Giugno

    La sera del 21 giugno 1980, Losardo diventa vittima di un’esecuzione premeditata. I dettagli dell’agguato restano avvolti nell’incertezza: i killer agiscono con precisione, ma non è chiaro se si muovano su una moto o in macchina. Gli spari, il tentativo di fuga, il colpo finale: tutto si consuma in pochi istanti. Le parole pronunciate da Losardo prima di morire – «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato» – sono un’accusa che va oltre i responsabili materiali. Implicano un sistema di complicità radicato nella comunità, dove i colpevoli non sono estranei, ma figure note, protette dall’omertà.

    Losardo chiede di parlare con l’amico avvocato Francesco Granata, ma, secondo alcune versioni, non riesce a dire nulla di significativo. Questo dettaglio, mai chiarito, alimenta sospetti: cosa voleva comunicare Losardo? E perché le sue parole non hanno trovato riscontro? La risposta potrebbe trovarsi nel clima di sfiducia che permeava le istituzioni locali, dove la ‘ndrangheta esercitava pressioni dirette e indirette.

    Peppino Valarioti, esponente del Pci che pochi giorni prima di Losardo venne ucciso dalla ‘ndrangheta a Rosarno per la sua militanza politica

    Pochi giorni prima veniva ucciso a Rosarno Peppino Valarioti, anche lui esponente del Pci

    L’omicidio di Losardo non è un caso isolato. Pochi giorni prima, l’11 giugno 1980, un altro esponente del PCI, Peppino Valarioti, era stato ucciso a Rosarno, in un altro comune calabrese. Entrambi i delitti, rimasti impuniti, segnano un periodo di estrema violenza, in cui la ‘ndrangheta colpiva chi rappresentava una minaccia al suo potere. Losardo e Valarioti erano simboli di una Calabria che sognava giustizia e trasparenza, e la loro eliminazione era un messaggio chiaro: nessuno poteva sfidare l’egemonia mafiosa.

    Il funerale di Losardo a Cetraro

    Le indagini: un percorso minato

    Le indagini sull’omicidio di Losardo iniziano immediatamente, ma si scontrano con ostacoli insormontabili. Il sospetto principale ricade sul clan Muto. Sono indagati presunti esecutori materiali – Francesco Roveto, Antonio Pignataro, Franco Ruggiero e Leopoldo Pagano – ma il processo, trasferito a Bari per “legittima suspicione”, si conclude nel 1986 con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove. Le indagini sono segnate da gravi lacune: nessuna perizia balistica viene effettuata sui bossoli e i proiettili ritrovati, un errore denunciato anni dopo dal figlio di Losardo, Raffaele. Nel 1991, un’ispezione del magistrato Francantonio Granero presso la Procura di Paola rivela un quadro inquietante: sfiducia nella magistratura locale, sospetti di collusioni, omissioni. La relazione di Granero, un documento di oltre 300 pagine, denuncia le fragilità di un sistema giudiziario permeabile alle pressioni mafiose, ma non porta a sviluppi concreti. Questo fallimento investigativo riflette il contesto sociologico dell’epoca.

    Franco Muto oggi. L’immagine è tratta dall’inchiesta-documentario della giornalista Giulia Zanfino

    L’eredità di Giannino Losardo e la lotta per la verità

    La morte di Giovanni Losardo ha segnato profondamente la comunità di Cetraro e la Calabria intera. La sua eliminazione non è stata solo un omicidio, ma un atto di intimidazione collettiva, volto a soffocare ogni voce di dissenso. Tuttavia, la sua eredità non è svanita. Nel 2024, il docufilm “Chi ha ucciso Giovanni Losardo?” di Giulia Zanfino ha riportato l’attenzione su questa storia, denunciando l’omertà e i presunti insabbiamenti che hanno impedito di fare luce sul caso. Il film non è solo un tributo alla memoria di Losardo, ma un invito a riflettere sul prezzo della resistenza in un contesto mafioso.

    Nel luglio 2025, una svolta dà nuova speranza. La Procura di Paola, guidata dal procuratore Domenico Fiordalisi, annuncia la riapertura delle indagini, spinta da una testimonianza del figlio di Losardo, Raffaele, rilasciata durante “Chi l’ha visto?” su Rai 3, e dalle pressioni della società civile. Un fascicolo contro ignoti viene aperto, con l’obiettivo di esplorare nuove piste.

    Il macigno dell’omertà come rappresentazione culturale

    Un’analisi socio-antropologica: il peso dell’omertà e la resistenza

    L’omicidio di Losardo è emblematico di una Calabria schiacciata dal potere mafioso, ma anche di una resistenza che, pur pagando un prezzo altissimo, ha lasciato un segno. Il caso riflette la complessità di una società in cui la ‘ndrangheta non era solo un’organizzazione criminale, ma un sistema culturale e sociale che permeava la vita quotidiana. L’omertà, spesso vista come semplice paura, era in realtà un meccanismo di controllo sociale, radicato in una sfiducia storica verso lo Stato e le sue istituzioni. In questo contesto, figure come Losardo rappresentavano un’eccezione: la loro azione era una sfida non solo alla ‘ndrangheta, ma a un intero sistema di valori basato sul compromesso e sulla rassegnazione. La riapertura delle indagini nel 2025 è un segnale di cambiamento. La società civile, sostenuta da media e documentari, sta rompendo il muro dell’omertà, chiedendo giustizia non solo per Losardo, ma per tutte le vittime della ‘ndrangheta. Tuttavia, la strada è ancora lunga. La Calabria di oggi, pur diversa da quella degli anni ’80, porta ancora le cicatrici di quel passato: la criminalità organizzata resta una presenza insidiosa, e la fiducia nelle istituzioni è fragile.

    Il murales che ricorda Giannino Losardo

    Giannino Losardo, una storia di coraggio e speranza

    La storia di Giovanni Losardo è quella di un uomo che ha scelto di non piegarsi, pagando con la vita il suo impegno per una Calabria libera dalla paura e dalla corruzione. Il suo omicidio, rimasto senza colpevoli, è un monito sulla fragilità della giustizia in contesti dominati dalla criminalità organizzata. Ma è anche una storia di resistenza, che continua a ispirare chi lotta per la verità. La riapertura delle indagini rappresenta una speranza, non solo per trovare i responsabili, ma per chiarire il contesto storico e politico di quel delitto: chi proteggeva chi? Quali connivenze hanno permesso che la verità restasse sepolta per oltre 40 anni? La memoria di Losardo è un invito a non arrendersi, a costruire una società in cui il coraggio non sia un’eccezione, ma la regola.

  • Ma quanto ci manca Emmevubì?

    Ma quanto ci manca Emmevubì?

    Tre anni fa, il 14 luglio 2022, ci lasciava Marcello Walter Bruno, figura poliedrica, docente, critico cinematografico e studioso di fotografia contemporanea all’Università della Calabria. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto profondo non solo nell’ateneo calabrese, ma in tutti coloro che hanno avuto la fortuna di incrociare il suo cammino. Io sono stato uno di questi.

    Una vita dedicata alla cultura

    Marcello Walter Bruno nasce a Carolei, in provincia di Cosenza, nel 1952. La sua formazione si snoda tra esperienze eterogenee che ne forgiano il profilo eclettico: ex impiegato di banca, ex regista RAI, ex pubblicitario, come lui stesso amava definirsi, fino a trovare la sua vocazione come docente universitario. Formatosi a Bologna sotto la guida di Umberto Eco, porta al DAMS dell’Università della Calabria una visione innovativa, plasmata dalla semiotica e dalla capacità di leggere il mondo attraverso le immagini.

    All’Unical, dove insegna critica cinematografica e fotografia contemporanea, diventa un punto di riferimento per generazioni di studenti, grazie alla sua abilità di rendere la cultura accessibile e viva.
    La sua carriera è costellata di saggi, articoli e volumi che esplorano il cinema e la fotografia come strumenti per comprendere la realtà. Tra i suoi contributi più significativi, ricordiamo il suo approccio alla comunicazione visiva, capace di svelare il “filo di mistero” nascosto nelle immagini, spingendo studenti e colleghi a interrogarsi sul “cosa abbiamo visto?” e a dubitare delle apparenze.[

    “Sublime intellettuale meridionale”

    Marcello, o “Emmevubi” come lo chiamavano affettuosamente studenti e colleghi giocando con le sue iniziali, era un intellettuale nel senso più autentico del termine. La sua curiosità insaziabile e il suo acume lo portavano a vedere oltre la superficie, a illuminare zone d’ombra che sfuggivano agli altri. Era un docente che non si limitava a insegnare, ma ispirava. La sua aula non era solo un luogo fisico, ma uno spazio di dialogo continuo, dove il sapere si costruiva insieme, senza barriere.

    Lasciava pile di libri, foto e opuscoli sul davanzale del “cubo” 17 dell’Unical, un’edicola simbolica aperta a chiunque volesse appropriarsi di cultura, senza imposizioni, solo con il desiderio di stimolare riflessioni.
    La sua personalità era un intreccio di rigore e ironia, di passione e libertà. Non era solo un docente, ma un narratore che trasformava ogni lezione in un’esperienza estetica, come testimoniato da chi lo ha conosciuto. La sua cadenza cosentina, il suo sorriso sornione e quella barba che incorniciava il volto erano tratti distintivi di un uomo che viveva il sapere come un atto di condivisione e provocazione intellettuale.

    Il nostro rapporto: un dialogo oltre l’aula

    Il mio incontro con Marcello è stato uno di quei momenti che segnano un percorso di vita. Ero uno studente di materie antropologiche, affascinato ma intimorito dalla sua erudizione, quando lo incontrai la prima volta mentre ero occupato al montaggio di un documentario. La sua capacità di trasformare un film o una fotografia in una porta verso la comprensione della realtà mi colpì profondamente. Emmevubi’ era un mentore che spronava a guardare oltre, a mettere in discussione ciò che sembrava scontato. Ricordo le sue domande, “Cosa abbiamo visto? Ne siete sicuri? Ne sei sicuro Dronadio?” (come amava chiamarmi) che non erano semplici esercizi retorici, ma inviti a scavare dentro di noi e nel mondo.
    Il nostro rapporto si è consolidato fuori dall’aula, nei corridoi, a mensa, nello studio sempre affollato dove Marcello accoglieva chiunque con disponibilità e attenzione. Con me, ha condiviso anche aneddoti personali, riflessioni sul Sud, sulla Calabria, sul senso di “osservare” in un territorio spesso marginalizzato. Mi ha insegnato che la cultura non è un privilegio, ma un diritto da diffondere, un’arma per comprendere e agire nella realtà. È stato un dialogo che non si è mai interrotto, che ancora oggi porto con me come un’eredità preziosa.

    Uno sguardo antropologico sui temi di Marcello

    Sebbene Marcello Walter Bruno non fosse un antropologo, i suoi studi sul cinema e sulla fotografia offrono spunti per riflessioni antropologiche molto profonde. La sua insistenza sull’andare oltre l’immagine, sul dubitare delle apparenze, richiama il concetto di “crisi della presenza” di memoria demartiniana, intesa come la necessità di rielaborare culturalmente la realtà per non esserne sopraffatti. Le immagini, per Marcello, non erano mai solo estetica: erano testi portatori di significati che richiedevano un’interpretazione attiva. Questo approccio si avvicina all’antropologia culturale, che vede nei simboli e nelle pratiche visive un modo per decifrare le dinamiche sociali e identitarie.
    La sua attenzione al Sud, alla Calabria, si rifletteva nella sua capacità di leggere il cinema e la fotografia come strumenti di narrazione di una terra complessa, spesso stereotipata. Come un antropologo sul campo, Marcello osservava e interpretava, costruendo ponti tra discipline e immaginari. La sua idea di cultura come dono gratuito, accessibile a tutti, richiama l’antropologia del dono di Marcel Mauss: la cultura, per Marcello, era un atto di reciprocità, un’offerta che generava comunità e dialogo.

    Un’eredità che vive

    Marcello Walter Bruno ci ha lasciato un’eredità che va oltre i suoi scritti e le sue lezioni. Ci ha insegnato che il sapere è un atto di libertà, che le immagini sono specchi della nostra umanità e che il Sud può essere un laboratorio di idee universali. La sua perdita è stata un duro colpo, ma il suo spirito vive nei suoi studenti, nei suoi colleghi, in chi continua a interrogarsi sul “cosa abbiamo visto”. In un’epoca in cui la cultura è spesso mercificata, Marcello ci ricorda che essa è, e deve restare, un bene comune.
    A tre anni dalla sua scomparsa, il suo invito a dubitare, a cercare, a immaginare relazioni inattese resta un faro per tutti noi. Grazie, Emmevubi, per averci mostrato che il sapere è un viaggio senza fine, e che ogni immagine, ogni storia, è un passo verso la comprensione del mondo.

     

  • Quando un Mig cadde sulla Sila

    Quando un Mig cadde sulla Sila

    Quei boschi non sono solo un posto per le vacanze. Oltre alle storie antiche, legate ai luoghi e alle genti che li abitano, c’è pure un fatto di cronaca rimasto in parte misterioso e annodato a una delle grandi tragedie di questo Paese: la strage di Ustica. È la vicenda del Mig libico precipitato in Sila, sulla Timpa delle Magare, che oggi raccontiamo in un podcast

  • Quel Mig avvolto nel mistero delle Magare

    Quel Mig avvolto nel mistero delle Magare

    Ero un bambino di undici anni nell’estate del 1980. Vivevo a Feruci, una frazione di Trenta, un piccolo paese incastonato tra le colline sopra Cosenza, dove il tempo scorreva lento, scandito dal sole cocente e dal chiacchiericcio dei compaesani.

    Era un pomeriggio come tanti, di quelli in cui il caldo ti spinge a cercare l’ombra. Giocavo con i miei amici – Francesco, Michele, Gianluca, Enzo – tra i vicoli stretti, con le nostre risate che rimbalzavano tra le case di pietra. Ogni tanto ci fermavamo a riprendere fiato, seduti sui gradini della chiesa vicino casa mia. Lì, sotto l’ombra del campanile, c’era Zu Franciscu, che tutti chiamavano, chissà perché, “Mappappu”. Seduto con le sue canne di vimini, le sue mani nodose intrecciavano panieri che sembravano opere d’arte.

    Ogni tanto alzava lo sguardo, borbottava qualcosa e tornava al suo lavoro, mentre noi lo osservavamo con una sorta di reverenza. Quel giorno, però, l’aria era diversa. Non era solo il caldo soffocante di giugno o il ronzio delle cicale. Le voci degli adulti erano più concitate, i toni più gravi. Sentivo frammenti di discorsi su un aereo caduto, un Mig libico, dicevano, precipitato a Castelsilano, non lontano da noi. La notizia arrivava dai telegiornali, quelli che i grandi guardavano la sera davanti ai vecchi televisori a tubo catodico. “Un aereo militare”, “i libici”, “la strage di Ustica”: parole che, per me, erano solo pezzi di un puzzle troppo complesso per un bambino di undici anni. Seduto sui gradini, con il rumore delle canne di Zu Franciscu in sottofondo, ascoltavo i grandi.

    Le autorità e i servizi controllano l’area dove è caduto l’aereo libico

    Quell’aereo caduto sulle montagne 

    Parlavano di quel MiG caduto sulle montagne, qualcuno lo collegava a un altro disastro, un aereo di linea scomparso nel mare vicino Ustica. Non capivo tutto, ma parole come “guerra”, “mistero”, “aereo abbattuto” accendevano la mia immaginazione. Nella mia mente di bambino, vedevo aerei sfrecciare nel cielo e scoppi improvvisi, ma tutto sembrava lontano, quasi irreale, anche se Castelsilano – appena oltre San Giovanni in Fiore, verso Crotone – non era poi così distante. Potevo quasi immaginarlo, quell’aereo, precipitare tra le colline del marchesato. Zu Franciscu, con il suo cappello di paglia sgualcito, scuoteva la testa. “Cose grosse, troppo grosse,” borbottava, senza smettere di intrecciare. Non so se capisse davvero, ma il suo tono tradiva inquietudine. I miei amici continuavano a giocare, ma ogni tanto si fermavano, incuriositi. “Ma che ci faceva un aereo libico qui?” chiese uno di loro. Nessuno seppe rispondere.

    Il pilota e l’ombra scura della guerra

    Io mi immaginavo un pilota straniero, con una divisa piena di medaglie, perso in un cielo che non era il suo. Quella sera, a casa, la televisione era accesa, e i miei genitori parlavano a bassa voce, come se non volessero farsi sentire. “Strage di Ustica“, “Il Mig di  Castelsilano”: parole che si mescolavano al profumo dei pomodori freschi, al suono delle posate, alla normalità di una serata estiva. Eppure, qualcosa era cambiato. Per la prima volta, il mondo dei grandi mi sembrava più complicato. Non era solo il gioco nei vicoli o i panieri di Zu Franciscu. C’era qualcosa di più grande, che non capivo ma che sentivo pesare. Oggi, a distanza di quarantacinque anni, quel ricordo è ancora vivido. Non so se il MiG di Castelsilano fosse davvero legato alla strage di Ustica, come dicevano i grandi. So solo che per un bambino di undici anni, seduto sui gradini di una chiesa, con il suono delle canne di vimini e le voci preoccupate dei compaesani, quel giorno d’estate del 1980 fu il primo in cui il mondo sembrò improvvisamente più grande, più misterioso, e forse più spaventoso.

    Un frammento identificativo di quel che restava dell’aereo da guerra

    Il mistero custodito dalla Timpa delle Magare

    Il mistero della Timpa delle Magare, dove il MiG-23 libico precipitò, resta vivo. A Castelsilano alcuni testimoni raccontarono di aver visto un aereo volare basso, seguito da pennacchi di fumo, prima del silenzio e del bagliore delle fiamme.

    Accanto ai rottami, il corpo del pilota, Ezzedin Fadah El Khalil, in avanzato stato di decomposizione, suggeriva una morte risalente forse al 27 giugno 1980, il giorno della strage di Ustica, quando un DC-9 Itavia si inabissò nel mar Tirreno con 81 persone a bordo.

    La Timpa delle Magare non è solo un luogo fisico. Nel dialetto calabrese, “magare” significa “streghe”, e il nome evoca leggende di donne sapienti, spiriti della montagna, custodi di segreti antichi. Un aereo militare straniero che precipita in un posto così non è solo un evento: è un’interruzione, uno strappo nel tessuto della comunità. Le autorità parlarono di un malore del pilota, ma le incongruenze – il corpo decomposto, le testimonianze discordanti, i fori sulla fusoliera – alimentano teorie di complotti e battaglie aeree. Secondo il giudice Rosario Priore, che condusse un’inchiesta monumentale, il DC-9 Itavia fu abbattuto durante un’azione militare, forse per intercettare un aereo libico che si pensava trasportasse Gheddafi.

    Il giudice Rosario Priore

    Alcuni testimoni parlarono di due caccia che inseguivano un terzo velivolo, lungo una rotta che da Ustica portava a Castelsilano. Il MiG potrebbe essere stato abbattuto o essersi schiantato durante quell’azione, finendo tra i boschi della Sila. Per gli abitanti di Castelsilano, la Timpa delle Magare è diventata un luogo della memoria, ma anche del silenzio. Come in molte comunità rurali, hanno imparato a convivere con i segreti, a non fare troppe domande.

    Tutta la verità ancora manca, ma forse a saperla sono le “magare”

    Ripensando a quel bambino di undici anni, oggi gli occhi di adulto e la consapevolezza di come le cose non siano come appaiono, mi restituiscono l’impressione che la Timpa delle Magare non è sia solo un spazio geografico, ma un luogo simbolico. È un crocevia di narrazioni, dove la memoria collettiva si intreccia con il trauma di un evento inspiegabile. È un luogo liminale, sospeso tra realtà e mito, dove la verità sbiadisce e si sottrae allo sguardo degli uomini rifugiandosi tra le ombre delle “magare”

     

    Un frammento scelto dal film Il Muro di gomma, di Marco Risi: le scene dell’indagine del giornalista sull’altopiano silano, dove il Mig era precipitato.

  • Il sole, il fuoco e la potenza della vita

    Il sole, il fuoco e la potenza della vita

    Il solstizio d’estate, che cade attorno al 21 giugno, rappresenta un momento cruciale nella cultura antropologica e in quella del simbolismo delle culture mediterranee, in particolare nel Sud Italia e in Calabria. Questo evento astronomico, in cui il sole raggiunge il suo apice di altezza nel cielo, è stato da sempre associato a riti di rigenerazione, purificazione e celebrazione della vita. Nel contesto calabrese e meridionale, il fuoco emerge come elemento centrale di questi rituali, incarnando significati complessi legati alla cosmologia, alla comunità e alla relazione tra l’umano e il divino. Attraverso un’analisi antropologica, esploreremo il simbolismo del fuoco nel solstizio d’estate, con riferimenti a testi storici e studiosi, prevalentemente meridionali, che hanno documentato queste pratiche.

    Il Solstizio d’estate nel Sud Italia: contesto culturale.

    Nel Sud Italia, il solstizio d’estate si intreccia con tradizioni pagane e cristiane, un sincretismo tipico delle culture mediterranee. La festa di San Giovanni Battista, celebrata il 24 giugno, si sovrappone ai riti solstiziali precristiani, assorbendo elementi di culti solari e agrari. In Calabria, come in altre regioni meridionali, il solstizio è un momento di passaggio, un limen che segna il culmine della luce e l’inizio del declino verso l’oscurità invernale. Questo dualismo luce-tenebre è al centro delle pratiche rituali, in cui il fuoco assume un ruolo di mediatore tra il mondo terreno e quello cosmico.

    Secondo Ernesto de Martino, in un noto saggio dal titolo “Sud e magia” (1959), le feste solstiziali nel Sud Italia sono espressioni di una “crisi cosmica” percepita dalle comunità contadine, in cui il ciclo della natura deve essere sostenuto attraverso il rito per garantire fertilità e prosperità. In Calabria, questa crisi si manifesta nei falò accesi nelle piazze, nei campi o sulle colline, che simboleggiano la forza del sole e la sua capacità di rigenerare la vita.

    Il simbolismo del fuoco

    Il simbolismo del fuoco

    Il fuoco, nel contesto del solstizio d’estate, è un simbolo polivalente. È purificatore, distruttore e rigeneratore al tempo stesso. In Calabria, i falò di San Giovanni, noti come “focare” o “fuochi di San Giovanni”, sono accesi con legna raccolta collettivamente, spesso accompagnati da danze, canti e pratiche divinatorie. Il salto sopra il fuoco, documentato in numerosi paesi calabresi come San Giovanni in Fiore o Tropea, è un rito di passaggio che garantisce protezione contro le malattie e il malocchio. Questo gesto richiama l’idea di purificazione attraverso il contatto con l’elemento sacro, un tema ricorrente nelle tradizioni indo-europee e mediterranee.

    Mircea Eliade, nel suo “Il sacro e il profano” (1957), interpreta il fuoco come un simbolo di trascendenza, un mezzo per connettere l’umano al divino. Nel contesto calabrese, il fuoco solstiziale non è solo un elemento naturale, ma un’entità sacra che media tra la comunità e le forze cosmiche. La sua luce richiama il sole, mentre il suo calore evoca la fertilità della terra. Inoltre, il fumo dei falò è spesso considerato un veicolo per le preghiere o un mezzo per allontanare gli spiriti maligni, come evidenziato negli studi di Giovanni Battista Bronzini (“La civiltà contadina in Calabria”, 1982).

    La rugiada e i falò

    Un altro aspetto significativo è il legame tra il fuoco e l’acqua, due elementi complementari nei riti di San Giovanni. In Calabria, è comune raccogliere la rugiada la notte del 24 giugno, considerata benedetta, mentre i falò ardono. Questa dualità riflette l’equilibrio cosmico tra maschile (fuoco, sole) e femminile (acqua, luna), un tema esplorato da studiosi come James Frazer nel suo “Il ramo d’oro” (1890), che collega i riti solstiziali a miti di fertilità universali.

    Il Ramo d’oro

    Testi storici e studi sul rito in Calabria

    Le prime testimonianze scritte sui riti solstiziali in Calabria risalgono a cronache medievali e a resoconti etnografici del XIX secolo. Ad esempio, il folklorista  Raffaele Lombardi Satriani, nel suo “Il folklore calabrese” (1974), descrive i falò di San Giovanni come momenti di aggregazione comunitaria, in cui le gerarchie sociali si dissolvono temporaneamente. Egli sottolinea come il fuoco non sia solo un simbolo, ma un “atto performativo” che rinsalda i legami sociali e riafferma l’identità collettiva.

    Il simbolismo del sole

     

    Un altro contributo importante viene da Vito Teti, che in “Il senso dei luoghi” (2004) analizza i falò come espressione di una memoria culturale radicata nel paesaggio. Teti evidenzia come i luoghi scelti per i fuochi – crocevia, colline, piazze – siano spazi liminali, carichi di significati simbolici. Questi siti fungono da punti di incontro tra il passato mitico e il presente, tra il sacro e il profano.

    Il rito dei “fuochi pagani”

    I “fuochi pagani” e la resistenza di pratiche precristiane

    Fonti storiche, come gli scritti di missionari gesuiti del XVII secolo, riportano descrizioni di “fuochi pagani” accesi in Calabria durante il solstizio, nonostante gli sforzi della Chiesa di cristianizzarli. Questi documenti, raccolti in parte negli archivi diocesani di Cosenza e Reggio Calabria, testimoniano la resistenza di pratiche precristiane, che si sono adattate al nuovo contesto religioso senza perdere la loro essenza.

     Intreccio di memoria, simbolismo e identità

    In Calabria e nel Sud, dunque, il solstizio d’estate e i suoi fuochi rappresentano un complesso intreccio di simbolismo, memoria e identità culturale. Il fuoco, con la sua capacità di purificare, rigenerare e connettere l’umano al divino, è il cuore di questi riti, che sopravvivono in forme adattate anche nell’epoca contemporanea. Attraverso le lenti di studiosi citati possiamo comprendere come queste pratiche non siano mere superstizioni, ma espressioni profonde di una visione del mondo che vede nella natura e nei suoi cicli una fonte di significato esistenziale. I falò di San Giovanni continuano a bruciare, non solo come gesto rituale, ma come testimonianza di una Calabria che custodisce il suo patrimonio antropologico con orgoglio e resistenza.

     

    Bibliografia di riferimento:

    – De Martino, E. (1959). “Sud e magia”, Milano, Feltrinelli.

    – Eliade, M. (1957). “Il sacro e il profano” Torino, Bollati Boringhieri.

    – Frazer, J. G. (1890). “Il ramo d’oro”, Torino, Einaudi (ed. italiana).

    – Lombardi Satriani, R. (1974). “Il folklore calabrese”, Cosenza, Brenner.

    – Teti, V. (2004). “Il senso dei luoghi”, Roma,Donzelli.

    – Bronzini, G. B. (1982). “La civiltà contadina in Calabria”, Roma, Edizioni dell’Orso.

     

  • L’intellettuale che spiegava la Calabria

    L’intellettuale che spiegava la Calabria

    Il 30 maggio 2022, la Calabria e il Sud perdevano una delle loro voci più interessanti, un intellettuale che ha saputo illuminare le ombre di una terra spesso incompresa: Luigi Maria Lombardi Satriani. Antropologo, narratore, guida civile, il suo nome risuona ancora come un canto che intreccia le radici profonde della cultura popolare con l’aspirazione a un Sud consapevole della propria dignità. Nato nel 1936 a San Costantino di Briatico, nel cuore pulsante di una Calabria viva e complessa, Lombardi Satriani non si è limitato a studiare la sua terra, ma l’ha abitata con il pensiero, l’ha raccontata con il cuore, l’ha difesa con la mente.

    La Calabria laboratorio di significati

    La sua Calabria non è mai stata solo un luogo, ma un laboratorio vivo di significati, un crocevia di resistenze culturali che ha saputo esplorare con uno sguardo acuto, empatico, lontano dai cliché di un Meridione ridotto a stereotipo. All’Università della Calabria, ad Arcavacata, ha lasciato un’impronta che ancora oggi vibra nei corridoi accademici e nelle comunità studiate, fondatore del Centro Interdipartimentale di Documentazione Demoetnoantropologica (Cidd), insieme a studiosi come Ottavio Cavalcanti, Vito Teti, John Trumper, Giovanni Sole, Fulvio Librandi ha trasformato il folklore in un atto di ribellione culturale, dando voce agli “ultimi” e dignità alle tradizioni popolari. Le sue opere, per esempio – da Il folklore come cultura di contestazione (1966) a Lo sguardo dell’angelo (1992) – sono mappe per decifrare un Sud che non si arrende, che si autorappresenta, che sfida i pregiudizi con la forza della propria storia.

    L’antropologo accanto ai Giganti Mata e Grifone, figure del folklore calabrese. Foto di Mario Greco

    Sacro e profano osservati col rigore dello studioso

    La religiosità popolare, il rapporto tra sacro e profano, figure come Natuzza Evolo – esplorata con rispetto in lavori come Natuzza Evolo. Il dolore e la parola (2006) – sono stati per lui non solo oggetti di studio, ma dialoghi vivi con l’anima di una terra. Lombardi Satriani non si è mai rinchiuso nella torre d’avorio dell’accademia. Senatore della Repubblica (1996-2001), membro della Commissione Cultura e della Bicamerale antimafia, ha portato la sua riflessione antropologica nelle aule della politica, dimostrando che comprendere il Sud significa anche affrontarne le ferite sociali. La fondazione del periodico Voci e la presidenza dell’AISEA sono stati ulteriori tasselli di un impegno che ha ispirato generazioni.

    Lombardi Satriani agli inizi della sua carriera accademica

    L’omaggio dell’Unical

    Nel 2016, l’Unical gli ha reso omaggio con una laurea honoris causa in Filologia Moderna, riconoscendo un intellettuale che ha fatto della Calabria e del Meridione in generale, non una periferia, ma un centro di significati universali. A tre anni dalla sua scomparsa, il suo “sguardo da vicino” continua a parlarci, a ricordarci che il Sud è un sentimento, una narrazione, una sfida. Luigi Maria Lombardi Satriani non è solo un ricordo, ma è una presenza che ci invita a guardare, ascoltare e raccontare la nostra terra con intelligenza e amore.

  • L’albero, gli uomini e il sacro: la Pita e il simbolo della rinascita

    L’albero, gli uomini e il sacro: la Pita e il simbolo della rinascita

    Nel cuore del Pollino, dove il vento trasporta echi di un passato remoto, sorge Alessandria del Carretto, un paese sospeso a mille metri d’altezza, al confine tra Calabria e Basilicata. Qui, ogni primavera, si rinnova un rito che trascende la celebrazione: la Festa della Pitë, un’antica tradizione arborea che intreccia la comunità al suo patrono, Sant’Alessandro, e alla natura circostante. Per oltre tre decenni, ho documentato questo evento come documentarista, con la macchina da presa come strumento di osservazione e dialogo. Il risultato è stato L’Albero, il Santo e i Dimenticati, un film realizzato insieme ad Agostino Conforti che rende omaggio a Vittorio De Seta e alla resistenza di un paese che, nonostante lo spopolamento, si riunisce attorno a un albero per riaffermare la propria identità. Questo scritto esplora il significato della Pitë, il suo contesto storico e sociale, e il processo creativo dietro il film, offrendo uno sguardo sulla memoria di una comunità al confine tra tradizione e oblio.

    Uno scorcio dei Alessandria del Carretto

    Un paese al confine dell’oblio

    La mia prima visita ad Alessandria del Carretto risale ai primi anni ‘90, quando, giovane studente di Storia tradizioni popolari, fui attratto dai riti arborei del Mediterraneo. Il nome del paese, isolato sulle pendici del Pollino, evocava un’eco di pratiche arcaiche. All’epoca, Alessandria era già segnata dall’emigrazione, con i vicoli deserti e le case abbandonate, un’immagine che richiamava I Dimenticati (1959) di Vittorio De Seta. Quel cortometraggio, scoperto in una sala polverosa, non era solo un documento etnografico, ma una denuncia poetica dell’isolamento del Sud rurale, dove la Festa dell’Abete rappresentava un raro momento di coesione. Ispirato da De Seta, scelsi Alessandria del Carretto come mio laboratorio etnografico, deciso a comprendere cosa spingesse una comunità demograficamente impoverita a perpetuare un rito tanto complesso. Negli anni, ho assistito a un paese in trasformazione. Se nel 1959 l’isolamento era fisico, privo di una strada, oggi è demografico e culturale. La popolazione si è ridotta a poche centinaia di anime, ma ogni ultima domenica di aprile si rianima. La Pitë, un abete bianco scelto nei boschi di Terranova del Pollino, diventa il fulcro di un rito che riunisce residenti, emigrati e, sempre più, visitatori esterni. Questo evento non è solo una festa, ma un atto di resistenza culturale contro l’omologazione e l’oblio.

    La Pitë: un rito di unione e rinascita

    La Festa della Pitë è un rito collettivo che si svolge tra l’ultima domenica di aprile e il 3 maggio, giorno di Sant’Alessandro. Il rito si articola in fasi distinte, ciascuna densa di significato simbolico. Il primo atto è la selezione dell’albero: un abete bianco, alto e diritto, offerto dalla comunità di Terranova del Pollino in un gesto di solidarietà montana. Il taglio, eseguito dai “mastri d’ascia” con gesti rituali, è accompagnato da zampogne e organetti, in un’atmosfera di sacralità. Segue il trasporto, un’impresa epica in cui il tronco, lungo circa venti metri, e la cima dell’abete sono trascinati a braccia attraverso sentieri impervi. Uomini di ogni età, guidati da un “comandante” che impartisce ordini dal tronco, si coordinano con una sincronia quasi coreografica.

    Dalla fatica alla festa: i canti, i balli, i banchetti

    Lungo il percorso, banchetti, canti e balli trasformano la fatica in festa, rafforzando cosi il senso di comunità. Il culmine arriva il 3 maggio in piazza San Vincenzo, dove il tronco e la  cima vengono ricongiunti in un “matrimonio” simbolico. La cima, adornata con prodotti locali, oscilla al ritmo della musica, mentre uno zampognaro suona tra i rami. Con funi di prugno selvatico e uno sforzo collettivo, la Pitë viene innalzata, qualcuno preferisce “eretta”, diventando un albero della cuccagna. I più audaci si arrampicano per conquistare i premi appesi, in un gesto che richiama antichi riti di passaggio. Ricordo tanti giovani degli anni Novanta, che scalavano l’albero tra gli applausi, incarnando l’unione tra uomo e natura.

    La Pitë non è solo un evento “folkloristico”, ma un rito di rinascita con radici in culti forse pagani, come quelli di Attis e Cibele, dove l’albero simboleggia morte e resurrezione. È anche un atto di coesione sociale: in un contesto di spopolamento, il rito riafferma l’appartenenza, richiamando gli emigrati e integrando i visitatori, oggi indispensabili per la sua realizzazione.

    Trent’anni di cambiamenti

    In tre decenni, Alessandria del Carretto si è trasformata. La popolazione è drasticamente diminuita, e il paese appare sempre più un guscio vuoto. Tuttavia, la Pitë si evolve, riflettendo nuove dinamiche sociali. Un tempo prerogativa maschile, il rito vede oggi la partecipazione attiva delle donne, che trasportano, cantano e, in alcuni casi, scalano l’albero. I visitatori, un tempo estranei, sono ora accolti come parte integrante, un segno di apertura dettato anche dalla necessità. Questi cambiamenti non indeboliscono il rito, ma ne testimoniano la vitalità, capace di adattarsi senza perdere la propria essenza.

    Come documentarista, ho cercato di decifrare il significato profondo della Pitë. Credo che il rito incarni un duplice scopo: celebrare il ciclo primaverile della natura e riaffermare l’identità di una comunità minacciata dall’oblio. In un mondo globalizzato, Alessandria del Carretto si aggrappa alla Pitë come a un ancoraggio culturale, un momento in cui il paese si riscopre vivo e unito.

    Il film: un dialogo con De Seta

    Dopo anni di osservazioni e riprese, ho sentito l’esigenza di sintetizzare questa esperienza in un lavoro cinematografico di osservazione che oggi voglio condividere con voi lettori de I calabresi. L’Albero, il Santo e i Dimenticati è un documentario che rende omaggio a Vittorio De Seta, ma con uno sguardo contemporaneo. Come De Seta, ho adottato un approccio di “cinema di osservazione”, privilegiando le immagini e i suoni del rito – il crepitio dell’abete, le zampogne, le grida della folla – senza commenti didascalici. Il film alterna sequenze del rito (taglio, trasporto, innalzamento) ai volti degli anziani, che narrano storie di emigrazione, e ai giovani, che tornano per scalare la Pitë.

    Se De Seta denunciava l’isolamento fisico di questo paese, io ho voluto esplorare un isolamento più sottile, demografico e culturale. Nonostante la strada abbia raggiunto Alessandria del Carretto, il paese rimane “dimenticato” in un Sud che fatica a trattenere i suoi abitanti. Eppure, la Pitë rimane un faro, un momento di riscatto collettivo. Nel film, ho cercato di preservare la memoria del rito, rendendo omaggio alla bellezza e alla durezza di Alessandria.

    Un futuro sospeso

    Oggi, Alessandria del Carretto è più vuota che mai, ma la Pitë continua a essere celebrata, un atto di ostinazione che sfida le previsioni. Mi chiedo quanto potrà durare questo miracolo. La comunità si assottiglia, ma il rito sembra dotato di una forza autonoma, capace di richiamare anche chi vive lontano. Come l’abete, abbattuto e poi “risorto” nella festa successiva, Alessandria potrebbe trovare il modo di rigenerarsi.

    Un documentario che è un testamento etnografico

    L’albero, il santo e i dimenticati, non è solo un film, ma un testamento etnografico. È il mio tentativo di preservare la memoria di un rito e di un paese che, come ammoniva De Seta, rischia di svanire. Spero che questo lavoro possa trasmettere il richiamo del Pollino, il profumo dell’abete e il calore di una comunità che, attorno a un albero, continua a resistere.

  • Francesco, il Papa

    Francesco, il Papa

    Nel corso del suo pontificato, Francesco il Papa, al secolo Jorge Mario Bergoglio, ha lasciato un’impronta profonda in molti luoghi del mondo, e la Calabria, terra di fede e di contrasti, non ha fatto eccezione. Il suo rapporto con questa regione del Sud si è manifestato attraverso gesti concreti, parole di speranza e un’attenzione particolare alle sue ferite sociali, come la povertà, la criminalità organizzata e l’emarginazione. Sebbene la sua visita nella nostra terra non sia stata un evento isolato, il suo impatto è stato duraturo, e il suo messaggio ha continuato a risuonare tra i calabresi.

    La folla in attesa di Bergoglio nello stadio della cittadina ionica nello stadio

    Il Papa a Cassano

    Il momento culminante del legame tra Bergoglio e la Calabria fu la sua visita pastorale del 21 giugno 2014, quando si recò a Cassano Ionio. Questo viaggio, uno dei primi del suo pontificato in una regione del Sud, non fu casuale. La Calabria, con le sue bellezze naturali e le sue difficoltà, rappresentava per Francesco un microcosmo delle sfide globali che ha sempre affrontato: l’ingiustizia sociale, la disoccupazione giovanile e l’oppressione della ‘Ndrangheta, una delle mafie più potenti al mondo.
    A Cassano, Francesco il Papa celebrò una messa all’aperto davanti a decine di migliaia di visitatori, giunti da ogni angolo della regione. Nel suo discorso, pronunciato con la semplicità e la schiettezza che lo hanno contraddistinto, esortò i calabresi a non cedere alla rassegnazione.

    L’arrivo dell’elicottero con a bordo il pontefice

    Il cuore senza speranza della Calabria

    “La Calabria ha un cuore grande, ma ha bisogno di speranza”, disse, sottolineando l’importanza di costruire una comunità basata sulla giustizia e sulla solidarietà. Rivolgendosi ai giovani, li incoraggiò a essere protagonisti del cambiamento, a non emigrare in cerca di un futuro migliore, ma a restare per trasformare la loro terra.
    Uno dei momenti più significativi della visita fu il suo incontro con i detenuti del carcere di Castrovillari. Bergoglio, che ha sempre posto l’attenzione sugli ultimi, parlò con loro come un padre, ascoltando le loro storie e offrendo parole di conforto. “Nessuno è escluso dalla misericordia di Dio”, dichiarò, invitandoli a non perdere la dignità nonostante gli errori commessi. Questo gesto toccò profondamente la comunità locale, mostrando un Papa vicino a chi vive ai margini.

    Un gruppo di Papa Boys

    La scomunica della ‘ndrangheta

    Ma il messaggio più forte di quella giornata fu la sua condanna senza mezzi termini della ‘Ndrangheta. Durante l’omelia, Francesco il Papa, non esitò a definire la mafia “un’adorazione del male” e scomunicò simbolicamente i suoi membri, un atto senza precedenti nella storia della Chiesa. “Chi segue la via del male, come fanno i mafiosi, non è in comunione con Dio”, tuonò, suscitando un’eco che si propagò ben oltre i confini calabresi. Questo discorso fu un richiamo alla responsabilità collettiva, un invito alla Chiesa e alla società civile a combattere la criminalità organizzata non solo con la repressione, ma con l’educazione, il lavoro e la fede.

    Il legame con la Calabria

    Oltre alla visita del 2014, Bergoglio mantenne un rapporto indiretto ma costante con la Calabria attraverso i suoi appelli e le sue nomine. Sostenne, ad esempio, l’opera di vescovi come Monsignor Francesco Savino, che portarono avanti la sua visione di una Chiesa “in uscita”, impegnata nelle periferie e contro le ingiustizie. Inoltre, in diverse occasioni, Francesco fece riferimento alla Calabria come esempio di resilienza, lodando la devozione popolare e il ruolo delle tradizioni religiose, come il culto della Madonna di Polsi, pur invitando a purificarle da ogni infiltrazione mafiosa.

    Il calore con cui i cittadini di Cassano allo Jonio accolsero il Papa

    La festa dei calabresi per la sua visita

    La Calabria, da parte sua, accolse Francesco con un calore straordinario. Le strade di Cassano furono addobbate a festa, e le famiglie si riunirono per accoglierlo, vedendo in lui non solo il Papa, ma un uomo capace di comprendere le loro difficoltà. Ancora oggi, nelle chiese e nelle piazze calabresi, si ricorda quel 21 giugno come un giorno di luce in una regione spesso segnata dall’ombra.
    In conclusione, il rapporto Francesco il Papa e la Calabria fu caratterizzato da un dialogo intenso, fatto di gesti simbolici e parole che hanno scosso le coscienze. La sua visita a Cassano Ionio non fu solo un evento, ma un seme piantato in una terra assetata di speranza. Anche se il tempo è passato, il suo invito a costruire una Calabria più giusta e solidale rimane un faro per chi crede nel riscatto di questa regione.